mercoledì 18 giugno 2025

Sarabanda / Ingmar Bergman; regia di Roberto Andò. Teatro Argentina, 28 maggio 2025

Ormai giunti quasi al termine della stagione teatrale, insieme al solito “gruppetto teatro”, andiamo a vedere l’ultima regia di Roberto Andò al Teatro Argentina, non senza qualche timore, considerati la location, la regia e soprattutto l’autore del testo, Ingmar Bergman.

Sarabanda – scopro solo più tardi – è una specie di testamento di Bergman (è stato realizzato nel 2003), un seguito ideale di Scene da un matrimonio, da cui riprende i personaggi a distanza di tempo. Questa opera era stata pensata da Bergman come un film per la televisione, informazione importante per comprendere la messa in scena teatrale scelta da Andò.

Al centro di Sarabanda, oltre alla musica – come è chiaro fin dal titolo -, c’è una famiglia: il capofamiglia Johan (interpretato da Renato Carpentieri), la sua ex moglie Marianne (Alvia Reale) che torna a trovarlo nella sua casa sul lago dopo molti anni di allontanamento, il figlio di Johan, Henrik (Elia Schilton), che da anni non ha rapporti con il padre, e infine Karin (Caterina Tieghi), la figlia diciannovenne di Henrik, violoncellista come il padre. L’altra protagonista di questo dramma familiare, sebbene assente,  è Anne, moglie di Henrik e madre di Karin, morta di cancro qualche anno prima, che per tutti è un po’ il termine di paragone di una relazione affettiva sana, ovviamente senza possibilità di appello o verifica.

Trattasi di un classico dramma da famiglia disfunzionale, in cui ciascuno dei protagonisti, soprattutto quelli uniti da legami di sangue, sono incastrati in dinamiche distruttive o autodistruttive: Johan è un finto mite, ma rivela di tanto in tanto la sua natura manipolatrice, Henrik è un possessivo, con un legame morboso, quasi incestuoso con la figlia, e fortemente conflittuale con il padre, Karin è ingenua e insicura, come è normale per la sua età, e fa fatica a districarsi all’interno di queste dinamiche. Marianne è un’osservatrice quasi neutrale, spesso interlocutrice e confidente dei protagonisti, in particolare Johan e Karin.

Molto d’impatto la scelta di allestimento: il palco è completamente immerso nel buio e luci molto puntuali producono un effetto fortemente fotografico e cinematografico; gli attori si muovono all’interno di una specie di scatola nera la cui faccia anteriore è formata di piani che si aprono, si chiudono e si spostano producendo vere e proprie inquadrature e un effetto di movimento da macchina da presa. Sicuramente bravissimo Gianni Carluccio a immaginare un sistema così semplice e sofisticato al contempo, che certamente è parecchio d’effetto e ben si sposa con l’approccio ormai consolidato delle regie teatrali di Roberto Andò, che tutte strizzano l’occhio al cinema.

Nonostante le interessanti soluzioni di allestimento e di regia e la bravura degli interpreti, personalmente sono comunque uscita dal teatro piuttosto delusa. Nel testo ho sentito fortissimo il sapore di un’opera senile che risente di tutti i limiti che secondo me le caratterizzano: la cupezza, la lentezza, il ripiegamento su sé stessa. Il modo di narrare di Bergman, che già non amo nelle opere più giovanili, qui mi pare che raggiunga vette di algidità e rigidità notevoli, che faccio fatica ad apprezzare, tanto più che ormai il tema della famiglia disfunzionale è onnipresente e non è facile raccontarlo in modi che non risultino già visti e sentiti.

Esco dunque dal teatro pensando che il prossimo anno la mia programmazione teatrale sarà ancora più restrittiva e meticolosa.

Voto: 3/5

lunedì 16 giugno 2025

Saul Leiter. Una finestra punteggiata di gocce di pioggia. Monza, Villa Reale, 20 maggio 2025

Approfittando di una tre giorni milanese - sempre con finalità fotografiche – decido di fare un salto a Monza (un quarto d’ora di treno da Milano) per vedere la mostra dedicata al fotografo americano Saul Leiter, Una finestra punteggiata di gocce di pioggia.

Si tratta di una importante retrospettiva che permette di scoprire o riscoprire un fotografo non così conosciuto nel contesto italiano e di cui– nei miei ormai vent’anni di interesse verso la fotografia – non ricordo mostre monografiche a lui dedicate.

Alla Villa Reale – dove la mostra è stata allestita - si arriva con un comodo autobus la cui fermata è praticamente davanti alla stazione, e devo dire che il viaggio vale la pena anche solo per scoprire questo posto di cui personalmente nemmeno sospettavo l’esistenza.

La mostra occupa in particolare il piano alto, il cosiddetto Belvedere e si articola in numerose sale e salette.

All’ingresso una prima saletta permette di vedere un video in cui la curatrice Anne Morin introduce il fotografo, la sua poetica e le scelte di allestimento che sono state fatte, sottolineando in particolare come nella vita di Saul Leiter (come in quella di altri fotografi) pittura e fotografia sono andate praticamente di pari passo, con rimandi e connessioni che la mostra si propone di portare all’evidenza, esponendo sia opere pittoriche che fotografiche.

Dopo il video introduttivo, il percorso inizia con una piccola installazione di quelle che ormai vanno molto di moda nelle mostre, in quanto producono tag e storie sui social. In questo caso si tratta di una specie di finestra sul cui vetro scorre continuamente dell’acqua, dove il visitatore viene invitato a fare delle foto alla maniera di Saul Leiter. Nel percorso della mostra ci sono altre 2-3 installazioni con la stessa finalità, ma devo dire meno riuscite di questa prima che ho trovato piuttosto affascinante.

Questi elementi accessori non servono però – come accade per altre mostre – a riempire un vuoto o ad arricchire una mostra povera, perché in questo caso il numero di lavori esposti è davvero molto elevato: si va dalle fotografie urbane e di strade in bianco e nero a quelle a colori, dai ritratti e nudi ai piccoli reportage, fino ad arrivare alle fotografie di moda e a quelle di interni. In molte sale le fotografie dialogano con gli acquerelli e i dipinti di Saul Leiter, che sono stati – come si diceva – una parte importante della sua produzione.

Aiuta a entrare nel punto di vista dell’artista la visione e l’ascolto della videointervista proposta in una delle salette, che consente di farsi un’idea della personalità di Saul Leiter, un uomo schivo, ironico, disallineato. Non si dimentichi che Saul era il figlio di un importante rabbino e, nonostante la volontà del padre di indirizzarlo verso un percorso teologico, decise di seguire la sua ispirazione artistica e andò a New York per seguirla, arrangiandosi e sopravvivendo come poteva. Proprio a New York Saul Leiter iniziò a fotografare le strade, la gente e la città in un modo che era totalmente originale e anomalo rispetto ad altri fotografi dell’epoca.

Le sue sono fotografie in sordina, frammenti di un quadro più ampio ma invisibile agli occhi, pezzetti di un discorso poetico più che di un racconto descrittivo, e sono il risultato di una ricerca molto personale che – come sempre accade ai fotografi – a lungo non è stata compresa. Ma del resto Leiter non cercava la ribalta o la fama (semmai si preoccupava di sopravvivere con il suo lavoro, cosa per niente scontata), e poi nel suo privato inseguiva un filo nascosto nel mondo attraverso piccoli oggetti, dettagli, gesti e, a un certo punto, anche attraverso il colore, fronte sul quale fu un vero pioniere.

Un fotografo da studiare e riscoprire.

Voto: 3,5/5

venerdì 13 giugno 2025

Intermezzo / Sally Rooney

Intermezzo / Sally Rooney; trad. di Norman Gobetti. Torino: Einaudi, 2024.

Dopo la sostanziale delusione della lettura di Parlarne tra amici e di Persone normali, avevo deciso di abbandonare Sally Rooney al suo destino di scrittrice generazionale e di non leggere altri suoi romanzi.

Poi – dopo il parere positivo di S. – ho deciso di dare alla Rooney un’altra possibilità con questo Intermezzo, e… ne sono stata letteralmente conquistata.

Protagonisti di questo romanzo sono Peter e Ivan, due fratelli rimasti da poco orfani del padre, morto a causa di un cancro. Il primo è un avvocato, in prima linea nella difesa dei diritti, ma la sua vita personale è un caos: frequenta Naomi, una ragazza molto più giovane di lui, senza un soldo e che lui di fatto mantiene anche economicamente, ma ha ancora un legame molto forte con Sylvia, la donna con cui è stato in coppia per molti anni fino a quando un incidente con conseguenze gravi su di lei non li ha separati. Ivan, il fratello minore, è invece un appassionato e un campione di scacchi, ma introverso, con l’apparecchio ai denti e scarsa fortuna con le donne, fino a quando non incontra e comincia una storia con Margaret, una donna parecchio più grande di lui, separata da un marito alcolista.

In questo intermezzo, che coincide di fatto con il periodo di elaborazione del lutto, i due fratelli, che una volta abbandonata l’infanzia hanno attraversato fasi alterne di amore e odio, avvicinamento e allontanamento nel loro rapporto, dovranno fare i conti con la morte, e insieme con le fatiche dei legami familiari e delle relazioni, ma dovranno anche fare delle scelte sulla propria vita, guardandosi dentro e affrontando situazioni emotivamente difficili.

Ebbene, tanto avevo trovato i due romanzi precedenti distanti e poco comprensibili per me dal punto di vista emotivo quanto invece ho sentito questo romanzo vero ed empatico nella narrazione e nei contenuti, al punto che ho terminato l’ultima ventina di pagine del libro tra le lacrime, cosa che mai avrei ritenuto possibile.

Evidentemente – mi sono detta – anche Sally Rooney è cresciuta, e così, pur appartenendo a un’altra generazione ed essendo cresciuta in una dimensione sociale, relazionale ed emotiva in parte differente dalla mia, è arrivata a quel momento della vita in cui tutti si trovano di fronte ai nodi cruciali dell’esistenza umana, che sono gli stessi da sempre e in qualunque luogo e che conferiscono alla grande letteratura la capacità di parlare alle persone al di là del tempo e dello spazio.

Oltre alla sensibilità e precisione con cui la Rooney riesce in questo romanzo a raccontare la forza e la difficoltà dei legami familiari, due cose di Intermezzo mi hanno colpita particolarmente. Da un lato il fatto che quell’universo di possibilità affettive, e non solo, che si sono dischiuse davanti alla sua generazione senza renderla né più felice né più risolta (o almeno questo emergeva nei precedenti romanzi) qui diventa un terreno da dissodare responsabilmente e con fatica, ma che può potenzialmente dare i suoi frutti, una strada da percorrere se si è disposti a rischiare e ad essere onesti con sé stessi e con gli altri. Dall’altro lo sguardo affettuoso verso la generazione successiva, i venti-venticinquenni di oggi (qui rappresentati da Naomi ed Ivan), altrettanto incasinati e imperfetti, ma meno cinici, meno frustrati, più aperti alle possibilità, forse i primi che stanno riuscendo a trasformare le maggiori libertà in vere scelte di vita, convenzionali o non convenzionali, ma rispettose del proprio sentire.

Chissà se è vero, o è solo l’auspicio di chi si sta lasciando alle spalle la giovinezza o per cui la giovinezza è un ricordo ormai lontano.

Il fatto importante è però che finalmente nella scrittura della Rooney – tra l’altro magistrale, ma questa non è una novità – sono riuscita a riconoscere sentimenti, sensazioni e situazioni che mi appartengono o che comprendo e sento emotivamente anche quando non fanno parte del mio vissuto o sono lontane dalle mie.

Voto: 4/5

mercoledì 11 giugno 2025

Any other (+ Tutto piange). Unplugged in Monti, Teatro Basilica, 19 maggio 2025

Da poco è uscito un EP di Any Other (nome d’arte di Adele Altro), musicista e cantautrice italiana che seguo ormai da parecchio tempo e che si è già costruita una solida collocazione all’interno del panorama musicale italiano, e non solo.

Personalmente con la sua musica ho sempre avuto un rapporto strano, fatto di apprezzamenti ma senza esserne emotivamente conquistata, e non so bene perché.

Ebbene, devo dire che il suo ultimo EP dal titolo Per te, che non ci sarai più – forse anche per i temi trattati e per quel multilinguismo che lo caratterizza (ci sono canzoni in inglese, in italiano e una persino in giapponese) – mi è sembrato un salto importante nella sua carriera e per me rappresenta il disco della definitiva affezione alla sua musica.

Per questo non mi lascio scappare la possibilità di ascoltarla dal vivo ancora una volta, a questo giro in solo, nell’ambito dei concerti organizzati da Unplugged in Monti al Teatro Basilica, posto tra l’altro molto suggestivo.

Visto il rapidissimo soldout del concerto delle 21, Any Other accetta di bissare con un concerto alle 19 e appena i biglietti vengono messi in vendita mi fiondo a comprarlo (del resto si sa che ho un amore particolare per i concerti presto!).

Arrivo al Teatro Basilica alle 18,30 e c’è già un po’ di fila per entrare, ma riesco comunque a garantirmi un posto in prima fila. Alle 19.10 inizia a suonare e cantare Tutto piange (aka Virginia Tepatti), che già avevo sentito come opening al concerto di Any Other al Circolo Angelo Mai.

Tutto piange ci propone un po’ di canzoni del suo repertorio, alcune delle quali ricordo con piacere dal primo concerto e che riascolto volentieri. Arriva poi sul palco Adele Altro che con la sua chitarra in mano ci delizia con il suo repertorio: canta tutte le canzoni del suo ultimo EP (Distratta, このままでいい, Lazy e la title track Per te, che non ci sarai più) inframmezzata da alcuni brani tratti dai suoi precedenti album che cominciano a essere un certo numero, offrendole dunque un repertorio piuttosto importante in cui andare a pescare e da proporre al suo pubblico.

Gli spettatori ascoltano in religioso silenzio questa ragazza semplice ma con eccellenti qualità sia di esecuzione musicale che canora, e che soprattutto dimostra con le canzoni da lei scritte di saper attingere a molti universi musicali, ma anche di aver costruito uno stile molto personale e riconoscibile.

Alle ultime due canzoni ci ricorda che lei non è una da bis e dunque inizia un siparietto per cui il pubblico chiama al bis proprio per queste due canzoni; con qualche sorriso e queste ultime due esecuzioni termina un concerto semplice ma molto bello ed emozionante, anche perché nel pubblico ci sono davvero persone di tutte le età, a dimostrazione che Adele sa essere intergenerazionale con la sua musica e i suoi testi.

Mentre esco compro il poster del concerto disegnato da Scismatica (aka Luca Morello), e vado a casa contenta.

Grazie, e alla prossima.

Voto: 4/5

lunedì 9 giugno 2025

Deep vacation / Yi Yang

Deep vacation / Yi Yang. Milano: Bao Publishing, 2022.

Dopo aver letto Easy breezy, il primo graphic novel della fumettista cinese trapiantata in Italia, Yi Yang, ho deciso di comprare anche il successivo Deep vacation che condivide con il primo alcuni personaggi, pur non essendo un vero e proprio sequel, ma un'avventura a sé stante.

Ritroviamo in particolare Yang Kuaikuai, il ragazzino occhialuto e secchione, e Li Yu, il teppistello scansafatiche. Il rapporto tra i due mantiene alcuni elementi di ambiguità che già emergevano nel primo lavoro, ma al contempo è cresciuto in complessità e profondità, anche perché i due ragazzini sono cresciuti e sono ormai alle soglie dell'adolescenza: Li Yu si prende ancora gioco di Yang Kuaikuai, ma anche quest'ultimo tratta l'altro con evidente atteggiamento di sufficienza, cosicché il loro rapporto oscilla continuamente tra l'indifferenza, il disprezzo, l'amicizia e la cura reciproca, mentre di mezzo cominciano a inserirsi delle figure femminili a cui i ragazzi sono sempre più sensibili, Li Yu in maniera esplicita, Yang Kuaikuai in maniera più sotterranea.

Questo secondo romanzo a fumetti si configura meno come un'avventura pura e adrenalinica (caratteristica propria di Easy breezy), e molto di più come una specie di romanzo di formazione che, attraverso una serie di situazioni, anche avventurose, conduce i due ragazzi sempre più vicini all'età adulta.

Nello specifico, la vicenda raccontata in Deep vacation è appunto una vacanza che i due protagonisti fanno insieme alla loro classe in un'isola non meglio identificata, dove tutti dovranno aiutare i pescatori locali nelle loro attività, ad eccezione di Yang Kuaikuai che deve studiare per prepararsi alle competizioni di matematica. La permanenza sull'isola si trasforma a poco a poco in un vero e proprio thriller, perché i due protagonisti entreranno in contatto con una figura misteriosa che sembra vivere nelle profondità del mare e che tutti riconducono a un fantasma dell'acqua, una creatura soprannaturale tipica della cultura cinese.

In realtà, la natura di questo essere si rivelerà molto più terrena e collegata a vicende reali, che affondano le radici nel passato, e con cui lo strano trio formato da Yang Kuaikuai, Li Yu e la ragazza che piace a quest'ultimo, dovranno fare i conti, affrontando le conseguenze delle loro scelte e decisioni.

Un racconto meno adrenalinico di Easy breezy, più attento ai sentimenti e alle emozioni dei protagonisti, che però mantiene quel tono scanzonato e leggero tipico dei lavori di Yi Yang, in questo fortemente sostenuti dal tipo di disegno, dalle scelte di colore e dalla messa in pagina, sempre interessante e originale.

Voto: 3,5/5

venerdì 6 giugno 2025

Karate. Monk, 8 maggio 2025

Dopo il lungo silenzio durato 17 anni, i Karate dal 2022 sono tornati a suonare insieme e anche a comporre musica come dimostra l’uscita alla fine del 2024 di un nuovo album dal titolo Make it fit, da me prontamente acquistato e anche discretamente ascoltato.

Da un po' di settimane il loro tour sta toccando diverse città italiane, e a Roma il Monk ha dovuto aggiungere nuove date perché ci sono stati diversi soldout.

Arrivo al concerto quando le porte sono già aperte e dunque mi posiziono al lato del palco, cosa che lì per lì mi infastidisce un po’ (sono abituata a stare in prima fila), ma poi si rivela un’ottima soluzione per seguire il concerto, fare le foto e osservare anche il pubblico.

Non starò qui a ripetere quanto già scritto per il concerto da me visto a Villa Ada nel 2022: i Karate sono una band di culto, e possono contare su un seguito di fan non solo appassionati della loro musica, ma profondi conoscitori della stessa. È vero che praticamente a tutti i concerti a cui vado ci sono persone capaci di cantare le canzoni insieme ai cantanti, cioè fan che conoscono tutto il repertorio dei loro musicisti preferiti, però devo dire che il trasporto e l’entusiasmo trasognato che vedo nel pubblico dei concerti dei Karate ha caratteristiche sue proprie.

I tre musicisti, il leader, nonché chitarrista e voce del gruppo, Geoff Farina, il bassista Jeff Goddard e il batterista Gavin McCarthy, salgono sul palco poco dopo le 22, e suonano di filato per oltre un’ora, senza troppe chiacchiere, bensì mettendo la musica al centro di tutto.

Trovate a questo link la setlist completa del concerto, su cui io vi so dire poco, considerata la mia conoscenza tutto sommato limitata della band.

Quello che invece posso sicuramente dire è che, trovandomi così vicina al palco in una posizione in cui potevo osservare molto bene tutti e tre i musicisti, ho potuto apprezzare al massimo grado le loro qualità di musicisti e la loro intesa, semplicemente perfetta, anche quando Geoff Farina chiama gli altri due con la sua chitarra alla ripetizione quasi ossessiva degli stessi accordi, introducendo piccole varianti e creando quasi un effetto di trance collettiva.

È chiaro che i Karate puntano tutto o quasi sugli arrangiamenti e sull’esecuzione dei pezzi cercando di far esprimere i loro strumenti al massimo livello possibile di perfezione musicale: sul piano vocale, Farina ha sempre preferito uno stile molto essenziale, quasi parlato, che tra l’altro dalla posizione in cui sono io non si sente nemmeno perfettamente.

Io sono catturata sia dai gesti assorti e concentrati di questi grandi musicisti – che attraverso il loro leader non smettono di ringraziare il pubblico del fatto di essere tornati a suonare dal vivo dopo tanti anni di assenza dalle scene – sia dal pubblico con le sue diverse anime, da chi si esalta soprattutto sui pezzi più ballabili a chi si fa invece conquistare dai pezzi più quieti e notturni.

Alla fine usciremo dalla sala concerti del Monk tutti soddisfatti, convinti di aver assistito a una eccellente performance musicale e di aver potuto vedere da vicino tre grandissimi musicisti.

Voto: 3,5/5

martedì 3 giugno 2025

Sul lato selvaggio / Tiffany McDaniel

Sul lato selvaggio / Tiffany McDaniel; trad. di Luca Briasco. Roma: Atlantide edizioni, 2020.

Sono al terzo libro di Tiffany McDaniel, e a questo punto è accertato che questa giovane scrittrice è in grado di conquistarmi con le sue storie e il suo stile narrativo.

Dopo L'estate che sciolse ogni cosa e Il caos da cui veniamo - due libri che ho amato moltissimo e divorato - ho letto praticamente tutto d'un fiato anche questo terzo romanzo, anche approfittando di un ritardo clamoroso (tre ore) del treno su cui viaggiavo.

In questo caso, il libro è ispirato a una vicenda di cronaca, la scomparsa e la morte di sei donne a Chillicothe, in Ohio, a opera di un probabile serial killer.

Ebbene, Tiffany McDaniel racconta questa vicenda per bocca di Arc (diminutivo di Arcade, il suo nome scelto dai genitori ispirandosi al loro videogiochi preferito), una delle donne sparite e assassinate, cosa che sappiamo fin dal principio visto che la narratrice è lo 'spirito' di Arc, o comunque quello che di lei è rimasto dopo la sua morte.

La narrazione procede dunque come un lunghissimo flashback, durante il quale ci si spinge a volte in avanti e poi si torna indietro nel tempo, per raccontare la vicenda di questa giovane e della sua famiglia, in particolare di sua sorella gemella Daffy, di sua madre Addy, di sua zia Jo e di sua nonna Keith.

Quella di Arc - come tutte le famiglie di cui la McDaniel parla nei suoi libri - è una famiglia sfasciata e senza speranza: i genitori e la zia di Arc e Daffy sono tossici, e suo padre è morto di overdose quando le due bambine erano molto piccole. Le due gemelle, legatissime, fin da subito hanno dovuto lottare per vivere e sopravvivere alla totale mancanza di cura da parte dei genitori, rifugiandosi, fino alla sua morte, nella casa della nonna Keith, donna saggia ma dolente, che niente può di fronte al naufragare della sua discendenza.

È proprio nonna Keith che insegna alle due bambine a comprendere che la vita, come la coperta afghana che hanno realizzato insieme, ha un lato bello e ordinato, e un lato selvaggio, quello nel quale si vedono tutti i fili di mille colori utilizzati per realizzarla. Se si nasce su questo lato della vita - come Arc e Daffy - l'unica strategia possibile è rimettere i fili dentro e trasformare anche il lato selvaggio in qualcosa di bello. È questo dunque che Arc fa per tutta la sua breve esistenza: trasformare gli eventi orribili che capitano a lei e alla sua famiglia in storie a lieto fine, grazie al potere salvifico e quasi magico del racconto. Del resto, nonna Keith aveva raccontato alle bambine che nel loro passato c'era un'antenata che era stata bruciata in quanto considerata una strega, ma che in realtà si trattava solo di una donna capace di sognare e dunque poi anticipare gli eventi futuri, potere che anche Arc ha ereditato.

Assistiamo così alla vicenda di Arc e Daffy dalla loro infanzia pericolosa e a tratti gloriosa fino alla loro giovinezza e alla parabola che le porterà a finire nel vortice della droga e a doversi procurare il denaro per comprarla prostituendosi e rubando.

Quello di Tiffany McDaniel - come già avevo avuto modo di osservare nei precedenti romanzi - è un universo sfasciato e tragico, attraversato da una violenza sorda e onnipresente che scuote il lettore; al contempo però nei personaggi della McDaniel c'è una luce e una bellezza da cui non si può non rimanere folgorati. La McDaniel ha un interesse e un'attenzione particolari per le figure femminili e spesso si tratta di donne con cui la vita non è stata certamente generosa, che sono per molti versi deprecabili e indifendibili, ma verso le quali la scrittrice è in grado di muovere - anche nel lettore - una profondissima compassione e di evitare un giudizio superficiale. Non si riesce a sentirsi veramente estranei ai personaggi di cui la McDaniel parla, è impossibile ergersi sul proprio piedistallo e giudicare, perché la scrittrice ce li rende così vicini da costringerci a comprendere e talvolta addirittura ad amarli.

In secondo luogo, nei romanzi della McDaniel opera potentissima la forza del racconto, che forse è lo strumento primario con cui la scrittrice produce l'empatia di cui sopra. Spesso si sconfina nel magico, qui frequentemente ci si muove nei territori accidentati e allucinati dell'onirico, e spesso si fa fatica a capire cosa è accaduto veramente e cosa invece sta solo nella mente di Arc.

Ma è proprio questa la forza di una scrittrice che sa portarci dovunque vuole e non ci molla un'istante durante un viaggio emotivo che è una montagna russa di emozioni.

Voto: 3,5/5

venerdì 30 maggio 2025

La nueva ola. Festival del cinema spagnolo e latinoamericano. Cinema Barberini, 7- 11 maggio 2025

La nueva ola, il festival del cinema spagnolo e latinoamericano, giunto quest’anno alla diciottesima edizione, è un appuntamento da non perdere nella proposta culturale romana, perché – come vado dicendo da diversi anni – il cinema spagnolo è cresciuto tantissimo nel corso del tempo e va ben al di là dei nomi dei registi più famosi, bensì presenta un panorama di registi e sceneggiatori molto interessante e che conosciamo ancora troppo poco a causa di una distribuzione che non garantisce una copertura ottimale di questa cinematografia.

Ultimamente, poi, quando vado a un festival mi diverto a trovare dei fili conduttori nei film che vedo e più in generale nelle selezioni dei film scelti dagli organizzatori; mi pare che questa ricerca del fil rouge riveli in qualche modo delle tendenze e delle sensibilità nella cinematografia internazionale e in quella di specifici paesi. Ad esempio, in questo caso, ho individuato nella “lotta” individuale e sociale uno dei temi ricorrenti all’interno di tutti i film che ho visto, seppure con accezioni diverse.

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Querido Trópico

Il primo film che ho visto – preceduto dall’interessante corto colombiano Akababuru: expresión de asombro della regista del popolo indigeno Yagarí Irati Dojura Landa – è stato Querido Trópico, il film della regista Ana Endara, ambientato a Panama City.

Protagoniste di questo film sono Ana María (Jenny Navarrete), una immigrata colombiana che lavora nel settore della cura delle persone anziane, e Mercedes (la straordinaria Paulina García già apprezzata in Gloria), una signora benestante, anche lei proveniente dalla Colombia, che però a Panama ha costruito il proprio successo economico e, ora che è avanti con gli anni, vive in una grande casa con la governante.

Ana Marìa viene contattata dalla figlia di Mercedes per occuparsi della madre che comincia a mostrare i primi segni dell’Alzheimer, e dunque si trasferisce a casa della donna, che inizialmente la rifiuta e la accusa di essere una ladra. A poco a poco però le due donne si incontrano nelle rispettive fragilità, e forse anche nel loro essere incomprensibili per il mondo intorno.

Ana Marìa per tutti è una donna incinta, ma in realtà la sua pancia è finta (ha un cuscino). Perché si finga incinta non viene mai spiegato completamente: forse perché questo rende gli altri più tolleranti e generosi con lei, o forse perché ha perso un figlio in passato e ora è ossessionata dalla maternità, o ancora perché l’essere incinta la rende parte di una comunità, quella delle future mamme, in cui si sente accettata. L’unica che scoprirà la verità sarà Mercedes, ma sarà anche colei che non la giudicherà.

Dall’altro lato, Mercedes perde progressivamente il controllo della propria vita, delle proprie emozioni e dei propri sentimenti: nei momenti di lucidità soffre per questo, così come soffre del fatto che sua figlia non capisce o non accetta. A poco a poco Mercedes si trasforma in una donna bisognosa di supporto e affetto, senza giudizio, e l’unica in grado di offrirle queste cose è Ana Marìa.

Ana Marìa e Mercedes diventano una coppia quasi inseparabile, un po’ come i due parrocchetti in gabbia che vivono in casa di Mercedes e che più volte vengono inquadrati.

Sembrerebbe un film di genere anche piuttosto convenzionale, a tratti quasi documentaristico, ma secondo me la regista e sceneggiatrice sceglie di non spiegare tutto, di seminare indizi, di lasciare buchi nella narrazione per offrire allo spettatore interpretazioni possibili e alternative. Io ho fatto tutta una serie di ipotesi su alcuni snodi narrativi di cui però non ho trovato traccia in alcuna recensione, il che forse vuol dire che ho sovrainterpretato, oppure no. Chi lo sa.

Ho comunque apprezzato molto questa pellicola e non sono d’accordo con chi dice che non suscita empatia, perché per me che ho vissuto la malattia di mia madre vedere questa storia sullo schermo mi ha fatto rivivere moltissime emozioni, negative e anche positive.

Voto: 3,5/5



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Soy Nevenka

Il nuovo film di Icíar Bollaín (regista già apprezzata per il bellissimo Maixabel visto a una precedente edizione del festival) attinge ancora una volta a una storia vera e soprattutto è ancora una volta un film militante dal punto di vista politico e sociale.

Soy Nevenka è la storia di Nevenka Fernández (qui interpretata da Mireia Oriol), che tra il 1999 e il 2000, quando aveva solo 25 anni – rientrata nel suo paese, Ponferrada, dopo gli studi di economia a Madrid – fu chiamata dall’allora candidato sindaco del partito popolare, nonché amico di famiglia, Ismael Álvarez (Urko Olazabal) a far parte della giunta. L’uomo, dopo averla corteggiata fin da subito, riuscì ad avviare una relazione con la giovane, che però dopo poco decise di troncare. Iniziò così una vera persecuzione, con forme di molestia pesante e anche un’azione reiterata finalizzata ad attaccare l’immagine pubblica della donna.

Dopo un periodo di depressione, Nevenka – anche grazie al supporto di poche persone di fiducia – decise di denunciare l’uomo e il processo, contro ogni previsione, le diede ragione. Fu il primo caso di questo tipo vinto da una donna contro un uomo politico molto apprezzato e inserito nel territorio, nonché lanciato verso posizioni più alte della carriera politica.

Se la condanna è stata importante nella storia spagnola e ha costituito un precedente significativo per i casi successivi, Nevenka Fernández ha inevitabilmente pagato un prezzo molto alto a livello personale, per il modo in cui i suoi concittadini, i suoi colleghi di partito, i suoi parenti, i media e in generale l’opinione pubblica l’hanno giudicata e hanno vivisezionato i suoi comportamenti all’interno di una cornice a forte matrice patriarcale, costringendola a lasciare il suo paese e a farsi una nuova vita altrove.

Film be scritto, ben fatto e ben recitato. Di grande impatto.

Voto: 4/5



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Casa en flames

Casa en flames è il nuovo film di Dani de la Orden che si inserisce appieno – come dicono gli organizzatori del festival – nel sottogenere dei film sulla “ricca borghesia catalana annoiata” 😉

Protagonista di questo film è una famiglia disfunzionale il cui perno centrale intorno a cui tutto ruota è la madre Montse (Emma Vilarasau), una donna divorziata dal marito e con due figli grandi, la quale convoca tutta la famiglia – compreso l’ex marito – nella villa a Cadaqués ereditata dalla zia per trascorrervi tutti insieme un fine settimana prima della vendita.

Che in questa famiglia e in questa donna ci sia qualcosa di irrisolto si capisce fin da subito, quando Montse, recuperata in macchina dal figlio e dalla nuova fidanzata, in una sosta a casa della madre fa una scelta a dir poco bizzarra, che in qualche modo comprenderemo solo nel corso del film.

Nella villa in Costa Brava troveremo dunque, oltre a Montse, il figlio David (Enric Auquer) con la nuova fidanzata, la figlia Júlia (Maria Rodríguez Soto) con il marito e le due bambine, l’ex marito di Montse, Carlos (Alberto San Juan) con la nuova compagna Blanca (Clara Segura). Ognuno di loro dimostra di avere nodi irrisolti, fragilità e insicurezze più o meno grandi, e così - tra una gita in yacht e un lancio col paracadute – a poco a poco tutti i nodi vengono al pettine e soprattutto emerge in tutta la sua tragicità la figura manipolatrice di Montse, una donna fondamentalmente sola e alla ricerca, con ogni mezzo, dell’affetto altrui.

Ne viene fuori un quadro familiare comico ma anche profondamente tragico, supportato da una sceneggiatura a orologeria condita da discrete quantità di vetriolo, e che chiede allo spettatore un ruolo più attivo di quanto non appaia a prima vista nello sforzo di non puntare il dito sui vizi e i difetti dei singoli, bensì sulle storture proprie delle dinamiche familiari, che non risparmiano nessuno, comprese le famiglie benestanti.

Voto: 3,5/5



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El 47

El 47, il film di Marcel Barrena che ha fatto incetta di Goya all’ultima edizione dei premi, è ispirato alla storia vera di Manolo Vital (qui interpretato da Eduard Fernández), autista di autobus a Barcellona, arrivato in Catalogna alla fine degli anni Cinquanta dopo essere andato via dall’Extremadura, insieme alla figlia Joana (Zoe Bonafonte). Manolo fu tra coloro che contribuì a costruire il primo nucleo del quartiere vicino a Torre Barò, sulla montagna alla periferia di Barcelona, dove molte altre famiglie provenienti da altre parti della Spagna si installarono dopo la guerra, trasformando la baraccopoli iniziale in un quartiere vero e proprio.

Questi immigrati interni lavoravano tutti in città, facendo i lavori più disparati, ma tornando ogni sera in un posto dove anche i servizi minimi, come l’elettricità e l’acqua, non erano garantiti ed erano oggetto di quotidiane battaglie.

Dopo aver fatto richiesta dell’attivazione di servizi di trasporto pubblico attraverso i normali canali della burocrazia e non aver ottenuto nulla, Manolo si risolse a “sequestrare” l’autobus che guidava da vent’anni, il 47 appunto, e ad arrivare a Torre Barò. Per questo finì sotto processo e solo molto più avanti fu reintegrato.

Ancora una volta una lotta per i diritti, e di fatto una lotta di un qualche Davide contro Golia, in cui, nonostante il successo, il Davide di turno ha dovuto rimetterci personalmente.

Anche in questo caso il film è ben fatto e ben recitato, e sicuramente ha una valenza che va ben oltre quella cinematografica e fa riflettere su tanti temi anche della contemporaneità. A me – come spesso accade ultimamente – suscita anche una forma di frustrazione per diversi motivi. Mi chiedo perché la politica è così lenta rispetto alle esigenze del territorio, perché non si può fare a meno del sacrificio dei singoli per farsi ascoltare, perché in alcuni casi bisogna scegliere persino la strada dell’illegalità per innescare un cambiamento, e mi chiedo infine chi farà le lotte per i diritti e per l’equità sociale in un mondo in cui la frammentazione ha preso il sopravvento e i corpi intermedi sono in profonda crisi.

Insomma El 47 mi ha dato tanto da pensare.

Voto: 3,5/5