venerdì 3 maggio 2024

Tatami = Una donna in lotta per la libertà

Quando improvvisamente ho realizzato che la regista (insieme a Guy Nattiv) nonché co-protagonista (insieme ad Arienne Mandi) di Tatami è Zahra Amir Ebrahimi (detta Zar Amir) che avevo molto amato in Holy spider, la mia intenzione di andare a vedere il film è diventata certezza. E ovviamente ho scelto la lingua originale che, soprattutto in film come questi, rappresenta per me ormai un valore aggiunto insostituibile.

Tatami è ispirato a una storia vera e racconta di una judoka iraniana, Leila (Arienne Mandi), che - insieme alle sue compagne di squadra e guidata dalla sua allenatrice Maryam (Zar Amir) - partecipa al campionato del mondo in Georgia. Al medesimo campionato partecipa anche un'atleta israeliana, che Leila conosce da tempo e con cui c'è cordialità e rispetto. Quando però sia quest'ultima che Leila cominciano a superare le loro avversarie e a scalare il cartellone, cosicché la probabilità di un incontro tra le due atlete diventa sempre più probabile, prima la Federazione di judo iraniana, poi figure sempre più vicine al governo iraniano fanno pressioni su Maryam perché convinca Leila a ritirarsi dalla competizione fingendo un infortunio. Di fronte alle resistenze prima di Maryam, poi della sola Leila, le pressioni diventano minacce e poi azioni concrete nei confronti delle famiglie delle due donne, in una spirale di tensione in cui procedono parallelamente gli incontri di Leila e la sua condizione di isolamento e terrore.

Il film di Amir e Nattiv è girato in uno splendido bianco e nero che richiama i colori primari della tenuta judoka e che in qualche modo uniforma visivamente le differenze tra le atlete, all'interno di un formato 4:3 che contribuisce a creare quel senso di costrizione e di soffocamento crescente che caratterizzerà sempre di più sia gli incontri sul tatami sia la vicenda narrativa che si svolge al di fuori di esso. Le due attrici principali sono entrambe molto brave e credibili nei loro ruoli, nonché capaci di attivare un forte senso di empatia in chi guarda.

La conclusione della vicenda e il racconto di quello che accade dopo l'ultimo incontro di Leila rendono forse fin troppo palese l'intento del film, che è quello di mostrare al mondo la totale assenza di libertà dei cittadini e soprattutto delle cittadine iraniane e la condizione di sudditanza e di violenza psicologica e materiale a cui sono sottoposti in ogni aspetto della loro vita. Forse non ce ne sarebbe stato bisogno, ma comprendo perfettamente l'urgenza di una persona che ha vissuto in prima persona la persecuzione ed è dovuta scappare via dall'Iran come Zar Amir di non lasciare zone d'ombra nel "messaggio" di questo film e utilizzare il cinema per non far mai spegnere i riflettori sull'insostenibilità della situazione iraniana.

Quindi, sono ampiamente disposta a scusare qualche difetto cinematografico se ci sono - come in questo caso - coraggio e passione politica. Continuerò senza dubbio a seguire con attenzione Zar Amir nel prosieguo della sua carriera come attrice e regista.

Voto: 3,5/5


mercoledì 1 maggio 2024

Erlend Øye e la Comitiva. Monk, 20 aprile 2024

Come molti già sapranno, Erlend Øye è uno dei due componenti dei Kings of Convenience (l'altro è Eirik Glambæk Bøe). Personalmente, i KoC mi sono sempre piaciuti e li seguo da tempo (anche dal vivo), ma man mano che la loro conoscenza si è approfondita ho cominciato a seguire anche la carriera solista di Erlend Øye, che sia sul piano personale che musicale mi pare un personaggio eclettico ed interessante.

Tra l'altro Erlend Øye è ormai mezzo italiano, visto che oltre dieci anni fa si è trasferito a vivere a Siracusa, nel cui ambiente - musicale e non solo - è perfettamente integrato. Due anni fa, proprio grazie a lui e al concerto che i KoC hanno fatto a Villa Ada ho conosciuto Marco Castello, il polistrumentista e cantautore siciliano che in quella circostanza li accompagnava e che di lì in poi ho cominciato a seguire anch'io.

Nel frattempo Marco Castello ne ha fatta di strada e ha una carriera autonoma importante, tanto che all'ultimo concerto organizzato a Roma, non essendomi mossa abbastanza per tempo, non ho trovato più posto.

Ora, Erlend Øye e Marco Castello hanno finalmente dato alla luce un lavoro che li vede insieme protagonisti, sotto il nome di La Comitiva, nella quale oltre a loro due ci sono anche Stefano Ortisi e Luigi Orofino. A questo quartetto di tanto in tanto nei vari concerti si uniscono altri musicisti, e per esempio a Roma abbiamo avuto il piacere di sentir suonare con la Comitiva anche Romain Bly ai fiati e alle percussioni.

Insomma, la Comitiva è un vero e proprio progetto musicale aperto e multiforme, iniziato ormai diversi anni fa e forse destinato a trasformarsi sull'onda della creatività di Erlend e dei suoi sodali.

Al Monk la Comitiva porta una setlist in cui il gruppo ha scelto di dare visibilità sia alle creazioni collettive, sia alle canzoni invece legate alle storie individuali, sia a cose contenute nell'album sia ad altre che invece lì non ci sono. Si comincia con Fence me in e Peng Pong per poi andare ad Upside down e ad Altiplano
Già in queste prime canzoni si capisce che il concerto sarà notevole sia sul piano musicale che su quello dell'intrattenimento: so già che Erlend Øye è un mattatore, quindi non solo suona (in questo caso l'ukulele) e canta, ma parla con il pubblico, scherza e balla nel suo modo buffo. Gli altri musicisti che lo circondano gli reggono il gioco e contribuiscono a trasformare l'atmosfera complessiva in una serata tra amici, che poi tanto sera non è visto che il concerto inizia alle 19,30.

Comunque, rotto il ghiaccio iniziale, il concerto fila via spedito, mentre canzoni in inglese si alternano ad altre in italiano, da un lato Price, For the time being, Lockdown blues, You and only you, dall'altro Il matrimonio di Ruggiero, Paradiso, Bologna. Non mancano le esecuzioni di canzoni scritte dai singoli e da loro cantate, come Beddu di Marco Castello, e Amsterdam di Luigi Orofino. 

Il concerto si chiude con Spider e, in un progressivo crescendo di partecipazione ed entusiasmo, con La prima estate. Al ritorno sul palco dopo il richiestissimo bis La Comitiva ci propone una canzone più soft e una di maggiore ritmo (Mornings and afternoons e Poor Leno), e il concerto finisce con Erlend che trascina tutti i musicisti al centro della sala per continuare a suonare e cantare senza amplificazione. Un'esperienza musicale e umana di grandissima soddisfazione che ci fa uscire dalla sala del Monk tutti con il sorriso sulle labbra e pienamente soddisfatti.

Voto: 4/5

lunedì 29 aprile 2024

I maneggi per maritare una figlia / con Tullio Solenghi ed Elisabetta Pozzi. Teatro Quirino, 10 aprile 2024

Nel programma teatrale di quest’anno non so se non mi ero accorta della programmazione di questo spettacolo, oppure lo avevo considerato un po’ estraneo ai miei interessi nonostante la presenza di Elisabetta Pozzi. Poi, su sollecitazione di F., mi sono convinta ad andare e devo dire che non me ne sono pentita.

I maneggi per maritare una figlia è un’opera in dialetto genovese scritta a cavallo tra Ottocento e Novecento da un drammaturgo genovese di nome Niccolò Bacigalupo. L’opera è stata resa famosa dalla messa in scena - registrata anche per la televisione nel 1959 – interpretata dal genovese doc Gilberto Govi e da sua moglie Rina Gaioni.

A riportare in scena questo classico del teatro genovese è un altro genovese doc, Tullio Solenghi, che cura l’adattamento insieme a Margherita Rubino, la regia e l’interpretazione del personaggio principale, Steva, ossia il ruolo che fu di Govi. Nel ruolo invece di sua moglie Giggia la mia adorata Elisabetta Pozzi, anche lei genovese, e del resto non poteva che essere così per un testo in cui la genovesità è un tratto fortemente caratterizzante.

I maneggi per maritare una figlia è una commedia in due atti: il primo è ambientato a Genova nella casa di città dove Steva e Giggia vivono con la figlia Matilde in età da matrimonio, di cui è innamorato il cugino Cesare, ma che aspira invece al signor Riccardo, figlio di un senatore, il secondo è ambientato nella villa di campagna dove Steva, Giggia e Matilde hanno invitato anche la cugina Carlotta e suo fratello Cesare, nonché il signor Riccardo e il suo amico Pippo, e dove arriva a un certo punto anche il signor Venanzio.

È nel secondo atto che a poco a poco si va dispiegando il tipico intreccio narrativo da commedia degli equivoci sulla base del quale le cose prendono direzioni diverse da quelle che in particolare Giggia e Matilde si aspettano, ma che alla fine riusciranno a convergere verso un finale tutto sommato felice e ben accetto per tutti.

Tullio Solenghi sceglie una messa in scena molto rispettosa del testo e certamente coglie l’occasione per confezionare un vero e proprio omaggio a Gilberto Govi, di cui tra l’altro proprio in conclusione sentiamo la voce registrata come se provenisse dalla radio che Steva ha ricevuto in dono e che è giunta con un pacco da Buenos Aires.

In un certo senso proprio la fedeltà al testo e l’esplicita ispirazione alla messa in scena degli anni Cinquanta sono al contempo il punto di forza e il punto di debolezza dello spettacolo. Da un lato infatti lo spettatore fa un vero e proprio viaggio nel tempo, catapultato in un teatro che praticamente non esiste più, e ne riscopre le virtù semplici ma anche immortali, dall'altro il salto indietro nel tempo non può passare inosservato a livello di ritmi, di intreccio e di drammaturgia.

Non a caso, e a seconda delle inclinazioni individuali, nel pubblico c’è chi si fa trascinare dal fascino e dalla comicità un po’ vintage di questo testo, e si diverte molto, e chi – com'è il mio caso – non riesce completamente a superare la percezione di una distanza temporale che diventa a tratti emotiva, nonostante la bravura di tutti gli attori e i temi universali che sono sottesi a questo intreccio.

Ciò detto, si tratta di un’esperienza teatrale che sono contenta di aver fatto, e che aggiunge un ulteriore tassello al quadro complessivo del mio rapporto con il teatro.

Voto: 3/5

mercoledì 24 aprile 2024

Come dividere una pesca / Noor Naga

Come dividere una pesca / Noor Naga; trad. di Francesca Pe'. Milano: Feltrinelli, 2023.

Protagonisti di questo romanzo di Noor Naga sono una ragazza e un ragazzo senza nome. Lei è di origine egiziana ma è cresciuta in America dopo che i genitori si sono trasferiti lì, lui viene da un piccolo e poverissimo villaggio che ha abbandonato per spostarsi al Cairo dove ha partecipato alle manifestazioni che hanno portato alla caduta di Mubarak.

Lei decide di trascorrere un periodo al Cairo perché vuole entrare in contatto con il suo paese d'origine, nonostante il parere contrario della madre, e ci arriva da privilegiata, con un lavoro, una bella casa a disposizione e ampie possibilità economiche. Nel frequentare il Riche Cafe conosce il ragazzo di Shubra Khit, e da qui inizia una relazione tra i due. Si tratterà di un incontro tra due mondi apparentemente vicini, ma in realtà lontanissimi e inevitabilmente destinati a entrare in collisione.

Il libro di Noor Naga è articolato in tre parti. Nella prima ogni capitolo inizia con una domanda più o meno bizzarra, cui segue il relativo punto di vista dei due protagonisti, che si alternano capitolo dopo capitolo. Nella seconda parte la storia continua senza domande, ma sempre attraverso l'alternarsi del racconto di lei e di lui, dopo che le loro strade si sono separate. L'ultima parte racconta un laboratorio di scrittura in cui un insegnante e un gruppo di persone stanno commentando il romanzo di Noor, in particolare discutono della sua terza parte, e dunque di quanto accaduto dopo gli ultimi eventi descritti nella seconda parte, e si conclude con la notizia che il romanzo verrà pubblicato.

Sul piano della struttura narrativa, come si vede, si tratta di un romanzo molto originale che spariglia un po' le carte della narrazione e, in particolare nell'ultima sezione, svela la finzione, facendosi meta-narrativo, e portando direttamente nel romanzo alcune possibili obiezioni del lettore. E già questo lo rende piuttosto interessante.

A me personalmente ha però intrigato particolarmente lo sguardo all'interno della cultura e della società egiziane, soprattutto in relazione al rapporto con il mondo femminile. Il fatto che la protagonista sia una egiziana (e non una straniera), ma una egiziana di cultura occidentale, rende questo sguardo estremamente sfaccettato e complesso, pieno di contraddizioni, e costringe il lettore a riflettere sul tema delle distanze culturali, sulle moltissime forme ancora esistenti di colonialismo, sulle disparità interne alla stessa società egiziana, sulla profonda delusione di un popolo rispetto al sogno di riscattarsi, e su molto altro che il nostro punto di vista occidentale non solo ci rende difficile comprendere ma talvolta persino riconoscere.

Una lettura non facile e a tratti persino respingente, per la violenza psicologica strisciante che la attraversa, ma estremamente stimolante.

Voto: 3,5/5

lunedì 22 aprile 2024

Rendez-vous festival del nuovo cinema francese, 3-7 aprile 2024

E anche quest'anno come da tradizione non poteva mancare una piccola maratona di cinema francese grazie al Festival Rendez-vous, che ancora una volta è ospitato al Nuovo Sacher dove c'è sempre Nanni Moretti a fare gli onori di casa. In tutto riesco a vedere tre film, piuttosto diversi l'uno dall'altro, scelti un po' sulla base dell'interesse, un po' sulla base delle mie disponibilità di tempo. Ovviamente non mi permetto di dare un giudizio sul festival a partire da questi soli tre film, ma il mio bilancio finale, pur essendo positivo, non è entusiasta come in altre circostanze, nel senso che ho trovato i film godibili, ma non imperdibili. Comunque il valore aggiunto di poterli vedere in anteprima, in lingua originale e poter assistere al Q&A con il regista o gli interpreti rende l'esperienza assolutamente valida.

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Le procès Goldman = Il caso Goldman


In questo caso la scelta del film scaturisce sia dall'apprezzamento verso il regista Cédric Kahn sia dall'interesse verso i film giudiziari, che - se ben fatti - trovo molto appassionanti.

In questo caso Kahn ci propone un film strettamente giudiziario, visto che l'azione si svolge quasi interamente all'interno dell'aula del tribunale, il che - anche per effetto dell'uso di un formato 4/3 - produce un effetto decisamente claustrofobico.

Al centro la figura di Pierre Goldman, un estremista di sinistra di origine ebreo-polacca che negli anni Settanta compì numerose rapine, una delle quali finì con l'uccisione di due donne. L'uomo fu condannato in primo grado all'ergastolo in quanto riconosciuto colpevole anche del duplice omicidio. Il film di Kahn ci racconta il secondo grado del processo che arrivò anche grazie alla determinazione del padre di Pierre, figura di spicco della Resistenza francese, e sulla scia del grande successo del libro che lo stesso Goldman aveva scritto e che gli aveva procurato un ampio sostegno.

Come ci dice il regista, il film è stato interamente scritto sulla base dello studio dei giornali dell'epoca, mentre non è stato possibile accedere agli atti originali del processo. Ne viene fuori la figura istrionica di Goldman, che spesso interveniva persino contraddicendo i suoi avvocati, che pure ebbero un ruolo decisivo nell'assoluzione dell'uomo dall'accusa di omicidio.

È evidente che il film nasce da una vera e propria fascinazione per questo personaggio, che io personalmente non conoscevo, ma che certamente in Francia ha segnato un'epoca e il cui processo è stato rappresentativo di una temperie politico-sociale, che - pur non riguardando solo la Francia - certamente in questo paese ha avuto caratteristiche specifiche, che in parte ci sfuggono.

Sarà anche per questo che il film risulta piuttosto impegnativo da seguire; in generale la sceneggiatura appare un po' legnosa e a tratti meccanica, forse a causa di una ricostruzione che nasce da fonti molto frammentarie.

L'aspetto certamente più affascinante - che viene sottolineato anche dal regista nel dibattito finale - riguarda il meccanismo di funzionamento della giustizia, che - in assenza di prove schiaccianti - inevitabilmente risente di valutazioni di contesto, pur cercando di tenersi aggrappata alle procedure giudiziarie. Dunque, se Goldman sia stato o meno responsabile degli omicidi, per i quali si professava innocente a differenza che per le rapine, non lo sapremo mai, ma il rischio di un nuovo Affaire Dreyfus e tutta una serie di altri elementi hanno certamente contribuito a spingere verso l'assoluzione.

Voto: 3/5



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Le successeur = Il successore 

Con il film di Xavier Legrand ci si sposta decisamente verso un’altra dimensione cinematografica, che sta dalle parti del thriller psicologico. Protagonista è Ellias Barnès (Marc-André Grondin), un giovane stilista di origine canadese (è di Montreal) che si sta definitivamente affermando nell'ambiente dell’alta moda a Parigi, città dove vive da molto tempo. Il film inizia con una sfilata che si svolge in una scenografia a spirale, inquadrata a più riprese dall'alto e accompagnata da una musica che trasmette fin dall'inizio un senso di angoscia e di tragedia imminente.

Ellias sta per prendere l'eredità di una casa di alta moda quando arriva la notizia che suo padre – con il quale si era messo in contatto qualche giorno prima dopo moltissimi anni di lontananza – è morto, cosicché Ellias deve partire per Montreal per gestire il funerale e la dismissione dei beni del padre, compresa la casa nella quale viveva. Qui farà una scoperta agghiacciante che manderà in tilt i suoi programmi e la sua capacità razionale, innescando una reazione a catena che lo condurrà in un abisso sempre più profondo, a fare i conti con l’eredità di suo padre e le colpe dei genitori che ricadono sui figli.

Il regista al termine della proiezione ci dice che con questo film ha voluto indagare un altro aspetto del patriarcato, quello che ha meno a che fare con il rapporto tra uomini e donne, ma che in qualche modo inquina anche l’universo maschile. Sinceramente non so se ho colto quest’aspetto della narrazione; certamente però ho sentito molto intensamente lo stato d'animo del protagonista e, pur riconoscendone dall'esterno gli errori strategici, ho vissuto insieme a lui l'angoscia, la disperazione, il dolore, il senso di sconfitta, l'eterno ritorno di quello che pensavamo di esserci definitivamente lasciati alle spalle. Del resto il film si apre con una spirale, e la spirale ritorna anche nella scala della casa funeraria a cui Ellias si rivolge a Montreal, e in quella spirale il protagonista in qualche modo è destinato a rimanere intrappolato.

Voto: 3,5/5



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Bernadette = La moglie del presidente


Con l'opera prima di Lèa Domenech si chiude l’edizione 2024 del Rendez-vous film festival, e quest’ultima proiezione vede la partecipazione, oltre alla regista, della protagonista del film, Catherine Deneuve, che si porta ancora piuttosto bene i suoi 81 anni. Per la Domenech è la prima volta nel lungometraggio di finzione e, prima dell’inizio del film, la giovane regista ci spiega in un buon italiano la genesi di questo progetto. Dice che la figura di Bernadette Chirac è stata centrale nella società francese negli anni in cui era ragazzina, e che nel suo caso specifico il contatto con questa figura era ancora più forte in quanto suo padre era un giornalista politico. Nonostante l’appartenenza a una parte politica opposta e la cattiva nomea che Bernadette si portava addosso, la regista dice di averne rivalutato la figura dopo aver visto un documentario su di lei, e proprio a partire da quella suggestione ha deciso di realizzare una commedia incentrata su di lei e in particolare sulla sua rivincita come politica e come donna nei confronti di suo marito Jacques Chirac.

Il film è giocato su un registro molto divertente e divertito, come si capisce fin dalle prime scene quando compare un coro che con le sue esecuzioni a cappella spiega e commenta quanto accade nel film; ovviamente, la realtà storica, pur presente, è ampiamente mescolata con la finzione e l’invenzione cinematografica, che trasformano la coppia presidenziale e il suo entourage in un gruppo di personaggi da commedia dell’arte, con venature esilaranti e grottesche. Si tratta però di una leggerezza della narrazione che non scade mai nella volgarità e che non usa mai mezzucci, anzi si mette al servizio di una storia di riscatto femminile, e guarda a Bernadette con lo sguardo benevolo di chi – pur riconoscendone i limiti e i difetti – intende però anche mostrarne le qualità e le intuizioni.

Accanto alla bravissima Deneuve, straordinaria nel non prendersi sul serio, troviamo un grande Denis Podalydès (nel ruolo del consigliere della first lady) e un più macchiettistico Michel Vuillermoz nel ruolo del presidente. Un film godibile che ancora una volta dimostra la capacità dei francesi di parlare di politica e società con tanti registri diversi, ma in maniera non banale.

Voto: 3/5


venerdì 19 aprile 2024

No sleep till Shengal / Zerocalcare

No sleep till Shengal / Zerocalcare; con i toni di grigio di Alberto Madrigal. Milano: Bao Publishing, 2022.

A distanza di sei anni da Kobane calling, e con ormai all'attivo un numero imprecisato di albi e ormai ben due serie tv per Netflix, Zerocalcare torna a parlarci di quell'area del mondo collocata tra Siria, Turchia, Iran e Iraq che è il Kurdistan, ma che come tale non viene riconosciuto da nessuno dei paesi citati e nemmeno da buona parte della comunità internazionale.

A fronte di un mio incontro iniziale piuttosto tiepido con il mondo di Zerocalcare, Kobane calling ha rappresentato per me il momento della svolta, quello che mi ha definitivamente conquistata. La versione graphic journalist di Zerocalcare - ovviamente una versione originale e perfettamente in linea con lo stile di Zero (che a me ricorda un po' Guy Delisle) - è forse quella che mi convince di più o quanto meno quella con cui mi è più facile entrare in sintonia.

E la magia si ripete anche con No sleep till Shengal, che racconta il viaggio compiuto da Zerocalcare tra la primavera e l'estate 2021 nell'area dell'Iraq dove la comunità degli Ezidi rivendica l'autonomia dopo aver messo in piedi una confederazione democratica, ma è oggetto di una persecuzione su vasta scala.

Ancora una volta, dietro il viaggio di Zero c'è la comunità curda di Roma e la necessità di accendere i riflettori su un conflitto volutamente dimenticato. Zerocalcare ce ne parla a modo suo, raccontandoci il viaggio, le traversie, i checkpoint, gli incontri, le paure e i dubbi. E in tutto questo il fumettista romano è sempre lui, con le sue idiosincrasie e le sue pippe mentali, ma anche con sei anni di più, e quindi ancora più idiosincrasie e pippe :-D

In ogni caso, il graphic novel è un buon punto di partenza per incuriosirsi alla vicenda degli Ezidi, popolazione che è stata oggetto di numerosi massacri e tentativi di genocidio durante la sua storia, e che combatte per esistere e sopravvivere. Ovviamente questa è una sintesi semplificata, e - come direbbe Zero - le cose sono molto più complesse di così, e lui è un vero maestro nel mettere in scena - prima di tutto per sé stesso - l'obiezione.

Io me lo sono divorato una sera prima di andare a dormire, e non ho spento la luce finché non ho letto l'ultima pagina, la nota scritta che Zerocalcare pospone all'albo per dire che da quando il viaggio è stato compiuto alla pubblicazione dell'albo è passato circa un anno, e ovviamente le cose sono cambiate e alcune delle persone raccontate non ci sono più, perché questa area del mondo ha un livello di instabilità altissimo e raccontarne le vicende è difficile perché le cose cambiano molto rapidamente. Resta però sempre vero che il Kurdistan e più in generale questa area del mondo non trova pace né equilibrio, non solo per gli interessi vari e contrapposti dei paesi che vi gravitano (primo fra tutti la Turchia), ma anche e soprattutto per l'indifferenza - in buona parte interessata - del mondo occidentale.

Zerocalcare ci aiuta a non dimenticarcelo.

Voto: 3,5/5

mercoledì 17 aprile 2024

Kripton

Avevo puntato questo film fin dalla sua programmazione nell'ambito della Festa del cinema di Roma, ma non ero riuscita a vederlo. Già in quella circostanza ne avevo sentito parlare molto bene da diversi amici, poi il film esce in sala e la mia amica A. ne fa un post entusiastico su Facebook, cosicché la mia curiosità cresce ulteriormente.

Per fortuna, dopo averlo lisciato ancora, grazie al cinema Troisi che organizza una serata ad hoc co-organizzata con la Facoltà di psichiatria e psicologia della Sapienza Università di Roma, riesco finalmente a recuperarlo insieme a mio padre, mio ospite a Roma proprio in quei giorni.

Il film di Francesco Munzi, presente in sala e protagonista del dibattito finale insieme a Mauro Pallagrosi, dirigente medico psichiatra ASL Roma 1, è un documentario che nasce da un'esperienza molto particolare: la piccola troupe di Munzi, in particolare Valerio Azzali, trascorrono 100 giorni con il personale e i pazienti psichiatrici della ASL Roma 1, nonché le loro famiglie, e, in questo tempo, la telecamera riesce miracolosamente a scomparire, restituendoci la quotidianità di questo luogo e delle persone che lo popolano.

Ovviamente, non tutte le unità di personale né tutti i pazienti si sono resi disponibili a comparire nel film, ma le storie che Munzi e Azzali ci propongono costituiscono uno spaccato umano di grandissima intensità e valore.

Di fronte a noi le storie di Dimitri, ragazzo ucraino adottato quando aveva tre anni che sembra vivere in uno stato di apatia e sfiducia verso il futuro e ha un rapporto difficile con i genitori separati, Georgiana che ha avuto una figlia che le è stata tolta ma con cui vorrebbe ricongiungersi, Silvia che ha disturbi alimentari e non vuole separarsi dal padre, un ragazzo di 43 anni che vive in un delirio di persecuzione e di dissociazione dalla realtà, una ragazza di colore che si muove con circospezione e sembra rifuggire tutti.

Si tratta di storie difficili con percorsi terapeutici lunghi e non scontati, carichi di sofferenza e con prospettive incerte, eppure Munzi riesce nel non facile risultato di restituirci intera l'umanità di tutte le persone coinvolte, i pazienti, le famiglie, gli operatori sanitari. L'empatia è totale, anche con chi evidentemente ha una sofferenza psichica importante, e passa attraverso la possibilità - se non di una vera e propria comprensione - quanto meno di una compassione, intesa in senso letterale, ossia di sentire insieme a queste persone.

Assistiamo così ai colloqui tra pazienti e operatori, tra familiari e operatori, o anche a incontri allargati in cui partecipano insieme pazienti e familiari, oppure anche tutti i pazienti della struttura. Assistiamo anche a momenti difficili, momenti di crisi, di ribellione, di sofferenza, ma il film prende il volo soprattutto nel trasmetterci anche occasioni di incontro emotivo, di serenità, di chiarimento e addirittura momenti che definirei di pura poesia. C'è tanto pudore e tanto amore nella telecamera di Munzi che ci trasmette un voler bene, che finisce per essere anche il nostro, e che ci dimostra ancora una volta che solo la conoscenza aiuta a superare il pregiudizio ovvero i giudizi semplificati.

Il regista ci spiega durante il dibattito anche la scelta di introdurre nel film - quasi a creare dei veri e propri momenti onirici o di pausa - degli spezzoni tratti da filmini familiari (non direttamente relativi ai protagonisti) o ricavati da film sperimentali del passato. Si tratta - come ci dice Munzi - di suggestioni di tipo molto personale e forse arbitrario, che però ogni spettatore può cogliere e interpretare come vuole.

Si tratta in ogni caso di un asse "narrativo" parallelo che certamente aiuta a ritmare il racconto e in un certo senso ad amplificarlo, e che si affianca a un montaggio del girato molto efficace nello spostarsi da un personaggio all'altro e da una situazione all'altra in maniera intelligente e attrattiva per lo spettatore.

In definitiva il film di Munzi è un regalo prezioso che per una volta - ce ne vorrebbero molte di più di occasioni così - ci aiuta ad assumere, con intelligenza e sensibilità, un punto di vista davvero altro, e a renderci più consapevoli di una umanità ferita (che come ci dicono i titoli di coda è sempre più ampia, soprattutto dopo la pandemia) e che meriterebbe più attenzioni da parte delle istituzioni.

Al contrario, quello a cui assistiamo sono tagli alle strutture e al personale e rimozione collettiva, ossia la negazione di quello che una società davvero civile dovrebbe auspicare.

Voto: 4/5


lunedì 15 aprile 2024

L'origine del mondo. Ritratto di un interno / di Lucia Calamaro. Teatro Argentina, 26 marzo 2024

Sono ormai diversi anni che seguo il lavoro di Lucia Calamaro, di cui ho già visto diversi spettacoli a teatro. La considero una delle drammaturghe italiane più interessanti e che ha davvero qualcosa da dire e da raccontare.

Con L'origine del mondo torniamo indietro nel tempo, a un suo lavoro che risale a circa 15 anni fa, a un periodo alquanto difficile della sua vita, segnato dalla depressione, tema centrale di questo testo.

Quel periodo e quella condizione fortemente individuale hanno acquisito negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia, una rilevanza sociale, tanto che da più parti si lancia l'allarme sul dilagare delle situazioni depressive, anche nei giovani.

Il testo torna dunque di stringente attualità, e così Lucia Calamaro decide di riportarlo in scena offrendo il ruolo principale a Concita De Gregorio, che - nonostante le perplessità iniziali - decide di accettare perché, anche in conseguenza delle sue vicende individuali, sente il testo molto vicino e personale.

Per quanto mi riguarda, mentre vedo lo spettacolo - e non avendo ancora letto che risale a 15 anni fa -, penso a più riprese che sia stato scritto per Concita, quasi cucito addosso a lei, tanto percepisco un forte senso di riconoscimento con quanto sta recitando.

L'origine del mondo parla di una donna di mezza età che cade in una condizione depressiva: non ci viene spiegato perché e se c'è un motivo specifico, ma la donna si è praticamente autoreclusa in casa, fatte salve le sedute presso la sua psicanalista.

La vicenda viene raccontata in tre parti. Nel primo atto, Concita durante la notte, a causa dell'insonnia si ritrova davanti al frigorifero a decidere se e cosa ha voglia di mangiare e a fare considerazioni su sé stessa e la propria vita; a un certo punto compare sua figlia, che a sua volta si è svegliata e con cui inizia un dialogo nel quale si confrontano la necessità della ragazza di poter contare sulla madre e l'impossibilità della madre di occuparsi di altro che non sia la sua condizione di malessere perenne. Il dialogo con la figlia si alterna a quello con la psicanalista, da cui emerge il senso di frustrazione di chi vorrebbe una soluzione al proprio stato e non la trova. Nel secondo atto, madre e figlia sono intorno alla lavatrice, quando arriva la madre di Concita, una donna di un'altra generazione che non riesce a farsi una ragione dello stato di catatonia della figlia e cerca di scuoterla con il suo approccio dirompente e un po' invadente, e con un buon senso forse un po' terra terra ma a tratti comprensibile. Nel terzo atto, Concita è di nuovo a confronto con la sua psicanalista con cui l'incomunicabilità sembra totale, ma in realtà nelle pieghe di questa non comunicazione si intrufola la possibilità per Concita di uscire finalmente dal suo guscio e di provare a riprendere in mano la propria vita.

Il racconto dei passaggi narrativi fa forse pensare a uno spettacolo drammatico, ma in realtà - com'è tipico degli spettacoli della Calamaro - il testo, pur trattando temi importanti, è fortemente ironico: si ride dei personaggi sul palco e anche di sé stessi, perché non si può fare a meno di riconoscersi in alcuni passaggi del testo, che è poi probabilmente il vero punto di forza del lavoro della Calamaro, cioè la profonda umanità che - pur concedendosi divagazioni intellettualistiche e colte, comunque in questo caso in modo ironico - riesce a parlare credo davvero a tutti.

Sarà per questo che due ore e mezza di spettacolo non mi sono pesate affatto. Le attrici tutte molto brave: Concita De Gregorio in questa inedita veste di attrice davvero sorprendente, notevoli anche Alice Redini (nel doppio ruolo della figlia e della psicanalista) e Lucia Mascino (nel ruolo della madre), che a teatro trovo ad ogni spettacolo sempre più brava e convincente.

Mi accorgo - guardando le mie recensioni degli altri spettacoli della Calamaro che ho visto in passato - che ho sempre messo lo stesso voto (3,5/5), il che significa che trovo che il suo teatro di alto livello e totalmente godibile, oltre che dai contenuti interessanti, ma - per il mio personale punto di vista - manca quel quid - che non saprei nemmeno identificare - per rendermeli totalmente indimenticabili.

Voto: 3,5/5