Con Clint Eastwood il mio rapporto è da sempre altalenante: a film che mi colpiscono e mi piacciono molto seguono film che mi lasciano completamente indifferente (e che per questo finiscono nel dimenticatoio), ovvero film che non riesco proprio ad apprezzare. Proprio per questo, però, di fronte all’uscita di un suo nuovo lavoro non riesco quasi mai a sottrarmi alla visione, perché so di potermi aspettare qualunque cosa.
La cosa più sorprendente è che Eastwood ha ancora punti di vista interessanti sul mondo e sulla contemporaneità e riesce ancora a tradurli in prodotti cinematografici di grande lucidità e qualità nonostante la veneranda età di 94 anni.
Con Giurato numero 2 mi pare che Eastwood realizzi – anche grazie alla solida sceneggiatura di Jonathan Abrams - uno dei suoi migliori film degli ultimi 10-15 anni, sebbene non possa fare un confronto puntuale in quanto non ho visto tutti quelli usciti.
Protagonista del film è Justin Kemp (Nicholas Hoult), un giovane uomo che è stato chiamato a far parte della giuria popolare in un caso di omicidio. Si tratta della morte di una donna, Kendall, trovata nel dirupo sotto un ponte dopo essere stata vista litigare con il suo fidanzato James dentro e fuori da un bar. L’avvocata dell’accusa, Faith Killebrew (Toni Collette), è convinta che James sia colpevole e che si tratti dell’ennesimo caso in cui un uomo non accetta di essere lasciato dalla sua donna e reagisce con violenza; si batte dunque come una leonessa durante il processo per dimostrare la colpevolezza, tanto più che dall’esito di questo processo potrebbe dipendere la sua nomina a procuratore distrettuale. Ben presto però Justin, ascoltando la ricostruzione del caso, si rende conto di essere coinvolto in esso, dal momento che la sera del litigio si trovava nello stesso bar di James e Kendall, e sulla via del ritorno a casa, a causa della pioggia e del fatto di essere sconvolto per una vicenda personale, aveva colpito qualcosa sulla strada, senza capire cosa e convincendosi che si fosse trattato di un cervo. Ben presto Justin realizza di essere lui, pur senza esserne consapevole, l’assassino di Kendall.
A questo punto Justin si trova di fronte a un’impasse: se confessa, visto il suo passato di alcolista, rischia moltissimo e non se lo può permettere perché sta diventando padre e sua moglie ha bisogno di lui, ma se non fa qualcosa per convincere gli altri giurati James è destinato a essere condannato ingiustamente.
Quello di Eastwood è un classico film processuale, ma il cuore della narrazione in questo caso non sta nell’interrogare lo spettatore su chi sia il colpevole, dal momento che la verità la conosciamo molto presto, ma nell’indagare sui meccanismi della giustizia e sulla loro imperfezione. Anzi, a dire la verità, a me pare che il film di Eastwood si voglia interrogare sui modi in cui ognuno di noi costruisce opinioni e giudizi sui fatti di cui non abbia esperienza diretta. In Giurato numero 2 non c’è alcuna rappresentazione manichea della società e nessuno dei protagonisti è un mostro: Justin ha un passato da alcolista ma è pulito da parecchio tempo e sta investendo tutte le sue energie nel costruire una famiglia e James ha sicuramente un passato di marginalità e violenza, ma se l’è lasciato alle spalle e lo rivendica fermamente. Tutti gli altri – gli avvocati, i testimoni e i membri della giuria - agiscono sostanzialmente in buona fede, al massimo gli si possono addebitare superficialità e/o pregiudizi, condizionati come sono dal vissuto personale, dai problemi individuali, dalle esperienze pregresse, dai convincimenti ideologici.
Se in Anatomia di una caduta Justine Triet pone gli spettatori di fronte all’impossibilità di conoscere la verità e li costringe a interrogarsi sui meccanismi personali che portano ciascuno a prendere posizioni o a costruirsi il proprio giudizio, in Giurato numero 2 Eastwood rappresenta tutto (o quasi) il ventaglio dei possibili approcci che le persone chiamate a prendere una posizione di fronte a una vicenda adottano e costringe gli spettatori a empatizzare con il protagonista senza la possibilità di collocarsi super partes.
Ne viene fuori il quadro di una società fortemente atomizzata, in cui gli individui fanno sempre più fatica o hanno sempre meno voglia di conciliare la necessità di preservare il proprio benessere con un superiore bene collettivo, una forma di egoismo e superficialità di massa, di cui siamo tutti vittime più che fautori. E tutto questo Eastwood ce lo racconta non in maniera giudicante e moraleggiante, ma come una sconfitta collettiva, senza però abbandonare del tutto la speranza.
Da vedere.
Voto: 4/5
lunedì 2 dicembre 2024
venerdì 29 novembre 2024
Denti bianchi / Zadie Smith
Denti bianchi / Zadie Smith; trad. di Laura Grimaldi. Milano: Mondadori, 2017.
Nelle mie esplorazioni letterarie degli ultimi tempi mi sono resa conto che mancava completamente all'appello nelle mie letture Zadie Smith, scrittrice di padre inglese e madre giamaicana diventata di culto giovanissima, proprio dopo la pubblicazione di Denti bianchi, il suo primo romanzo.
In Denti bianchi protagonisti della storia sono le famiglie di Samad e di Archie, due amici inseparabili da quando si sono ritrovati a condividere l'angusto spazio dentro un carrarmato durante la guerra. Anni dopo entrambi vivono a Londra: Samad Iqbal, bengalese, è sposato con Alsana, lavora in un ristorante indiano, e ha due figli gemelli, Magid e Millat, mentre Archie Jones, inglese, è sposato con Clara, giamaicana, e ha una figlia, Irie.
Nei suoi quattro capitoli, Denti bianchi attraversa le vite e le storie di tutti questi personaggi, a volte risalendo indietro nel tempo e raccontandoci anche le storie degli avi, come quella del bisnonno di Samad, Mangal Pande e quella di Hortense (nonna di Irie) e di sua madre prima di lei, ma muovendosi anche in avanti fino al momento in cui i figli delle due coppie sono adolescenti e infine giovani adulti.
La storia degli Iqbal e dei Jones si intreccia a un certo punto con quella dei Chalfen, ebrei inglesi, famiglia composta da Marcus, il padre scienziato che fa esperimenti genetici coi topi, e Joyce, la madre che scrive libri sulle piante, e da quattro figli, più o meno geniali, tra cui Joshua, coetano di Irie, di Millat e di Magid.
Denti bianchi è un libro sul colonialismo, sul razzismo, sulle difficoltà ma anche le diverse visioni dell'integrazione, sul radicalismo religioso, ma anche sul radicalismo intellettuale, però soprattutto è un libro frizzante e a tratti scanzonato, pieno di umanità, che ci mette di fronte alla complessità delle società multietniche e delle famiglie miste, ovvero delle famiglie di diversa provenienza, che vivono al loro interno tutte le inevitabili contraddizioni del rapporto tra le loro radici e il mondo nel quale vivono, reagendo ciascuno a proprio modo. Queste contraddizioni si amplificano e diventano dirompenti quando si passa alle seconde generazioni, bambini e poi ragazzi nati e cresciuti nel paese ospite, che dunque da un lato sono totalmente interni alla cultura nella quale sono cresciuti, ma dall'altro vivono sulla propria pelle un senso di alterità, a cui ciascuno risponde secondo il proprio modo di essere.
Devo dire che nei primi capitoli, quando la storia si concentra su Samad e Archie ho fatto un po' fatica a ingranare e a entrare in sintonia con la scrittura della Smith; man mano però che la storia si spostava verso i loro figli, Irie, Millat e Magid, e soprattutto dopo l'incontro con la famiglia Chalfen, il godimento è cresciuto significativamente, e l'ultimo terzo del volume l'ho letto tutto d'un fiato in una domenica pomeriggio di pioggia.
Non posso dire che lo stile di Zadie Smith sia pienamente affine alle mie preferenze. Questa scrittura leggera, senza essere superficiale, questa ironia un po' inglese e un po' no, sono caratteristiche che riconosco e apprezzo, ma non sono esattamente quello che mi colpisce di più. Cosicché pur essendo molto contenta di aver letto questo libro, non sono sicura che andrò avanti nella scoperta di questa autrice, come recentemente ho fatto ad esempio per Chimamanda Ngozi Adichie.
Ma - ripeto - non è un giudizio verso un libro riconosciuto unanimemente come un esordio folgorante, bensì solo un fatto di affinità soggettiva.
Voto: 3/5
Nelle mie esplorazioni letterarie degli ultimi tempi mi sono resa conto che mancava completamente all'appello nelle mie letture Zadie Smith, scrittrice di padre inglese e madre giamaicana diventata di culto giovanissima, proprio dopo la pubblicazione di Denti bianchi, il suo primo romanzo.
In Denti bianchi protagonisti della storia sono le famiglie di Samad e di Archie, due amici inseparabili da quando si sono ritrovati a condividere l'angusto spazio dentro un carrarmato durante la guerra. Anni dopo entrambi vivono a Londra: Samad Iqbal, bengalese, è sposato con Alsana, lavora in un ristorante indiano, e ha due figli gemelli, Magid e Millat, mentre Archie Jones, inglese, è sposato con Clara, giamaicana, e ha una figlia, Irie.
Nei suoi quattro capitoli, Denti bianchi attraversa le vite e le storie di tutti questi personaggi, a volte risalendo indietro nel tempo e raccontandoci anche le storie degli avi, come quella del bisnonno di Samad, Mangal Pande e quella di Hortense (nonna di Irie) e di sua madre prima di lei, ma muovendosi anche in avanti fino al momento in cui i figli delle due coppie sono adolescenti e infine giovani adulti.
La storia degli Iqbal e dei Jones si intreccia a un certo punto con quella dei Chalfen, ebrei inglesi, famiglia composta da Marcus, il padre scienziato che fa esperimenti genetici coi topi, e Joyce, la madre che scrive libri sulle piante, e da quattro figli, più o meno geniali, tra cui Joshua, coetano di Irie, di Millat e di Magid.
Denti bianchi è un libro sul colonialismo, sul razzismo, sulle difficoltà ma anche le diverse visioni dell'integrazione, sul radicalismo religioso, ma anche sul radicalismo intellettuale, però soprattutto è un libro frizzante e a tratti scanzonato, pieno di umanità, che ci mette di fronte alla complessità delle società multietniche e delle famiglie miste, ovvero delle famiglie di diversa provenienza, che vivono al loro interno tutte le inevitabili contraddizioni del rapporto tra le loro radici e il mondo nel quale vivono, reagendo ciascuno a proprio modo. Queste contraddizioni si amplificano e diventano dirompenti quando si passa alle seconde generazioni, bambini e poi ragazzi nati e cresciuti nel paese ospite, che dunque da un lato sono totalmente interni alla cultura nella quale sono cresciuti, ma dall'altro vivono sulla propria pelle un senso di alterità, a cui ciascuno risponde secondo il proprio modo di essere.
Devo dire che nei primi capitoli, quando la storia si concentra su Samad e Archie ho fatto un po' fatica a ingranare e a entrare in sintonia con la scrittura della Smith; man mano però che la storia si spostava verso i loro figli, Irie, Millat e Magid, e soprattutto dopo l'incontro con la famiglia Chalfen, il godimento è cresciuto significativamente, e l'ultimo terzo del volume l'ho letto tutto d'un fiato in una domenica pomeriggio di pioggia.
Non posso dire che lo stile di Zadie Smith sia pienamente affine alle mie preferenze. Questa scrittura leggera, senza essere superficiale, questa ironia un po' inglese e un po' no, sono caratteristiche che riconosco e apprezzo, ma non sono esattamente quello che mi colpisce di più. Cosicché pur essendo molto contenta di aver letto questo libro, non sono sicura che andrò avanti nella scoperta di questa autrice, come recentemente ho fatto ad esempio per Chimamanda Ngozi Adichie.
Ma - ripeto - non è un giudizio verso un libro riconosciuto unanimemente come un esordio folgorante, bensì solo un fatto di affinità soggettiva.
Voto: 3/5
mercoledì 27 novembre 2024
Parthenope
Ormai vado a vedere i film di Sorrentino a prescindere, come un collezionista fa con tutti i possibili pezzi della sua collezione. Non potevo dunque perdere il suo ultimo lavoro presentato a Cannes, che in qualche modo prosegue il mood nostalgico-napoletano di È stata la mano di Dio.
Al centro di questo racconto Parthenope (Celeste Dalla Porta), che nasce nel mare della spiaggia privata sotto gli occhi di tutta la famiglia e in particolare di suo fratello Raimondo, con cui è destinata ad avere un rapporto speciale. Dal momento della sua nascita, seguiremo poi Parthenope dalla sua giovinezza (quando ha circa 18 anni) fino all'età matura e poi alla vecchiaia, assistendo non solo e non tanto alla sua vita, quanto ai suoi incontri e alle sue molteplici incarnazioni che la porteranno in tutti gli ambienti della città, dai vicoli del centro al fianco del boss di turno, alle aule universitarie prima come studentessa poi come docente, alle ville di Posillipo durante feste di lusso nonché nelle dimore decadenti, al duomo della città per scoprire il mistero del sangue di San Gennaro insieme al cardinale che se ne occupa, nella casa di una diva del cinema dal volto nascosto e poi all'incontro con un'altra diva che ha lasciato da tempo la città. Parthenope si allontanerà da Napoli per poi ritornarci proprio nel momento dei festeggiamenti per lo scudetto della squadra cittadina.
Ho sentito pareri opposti e contrastanti su questo film. Dal mio piccolo e statisticamente non significativo angolo di visuale mi pare che il film sia piaciuto molto ai napoletani, soprattutto uomini, meglio se di mezza età, meglio ancora se emigrati. Del resto, è indubbio che il sentimento che promana dal film di Sorrentino è quello di una nostalgia profonda (in cui si mescolano emozioni anche contraddittorie) verso Napoli, che - siamo direi tutti d'accordo - non è una città qualsiasi, bensì un luogo dotato di un'identità fortissima che si incarna in tutte le molteplici e multiformi sfaccettature della napoletanità.
Sarà che conosco ben poco Napoli e non ho una storia emotiva che mi lega a questa città, ma personalmente non sono riuscita a "sentire" il film e dunque non sono stata in grado di gettare il cuore al di là del manierismo, del gusto estetizzante, dell'iperbole, del grottesco, dell'assiomatico di cui il cinema sorrentiniano è sempre più denso. Non che da questo punto di vista La grande bellezza fosse tanto diverso, ma - sarà per il rapporto più articolato e stratificato che ho con la città di Roma - in quel caso la cifra sorrentiniana mi aveva risuonato di più.
Qui mi è rimasto tutto piuttosto estraneo e un po' sconclusionato, a tratti fastidioso (soprattutto nel modo in cui si sofferma e insiste sul corpo di Parthenope), a tratti noioso.
Eppure, Sorrentino non è tanto più vecchio di me (ci separano solo tre anni), e condivido con lui la scelta di essere andata lontana dal mio luogo di origine, così come l'aver attraversato fasi di repulsione e fasi di recupero nostalgico e non solo con la mia terra. Eppure, il modo in cui Sorrentino traduce tutto questo in racconto per immagini e per parole non mi ha raggiunto.
Voto: 3/5
Al centro di questo racconto Parthenope (Celeste Dalla Porta), che nasce nel mare della spiaggia privata sotto gli occhi di tutta la famiglia e in particolare di suo fratello Raimondo, con cui è destinata ad avere un rapporto speciale. Dal momento della sua nascita, seguiremo poi Parthenope dalla sua giovinezza (quando ha circa 18 anni) fino all'età matura e poi alla vecchiaia, assistendo non solo e non tanto alla sua vita, quanto ai suoi incontri e alle sue molteplici incarnazioni che la porteranno in tutti gli ambienti della città, dai vicoli del centro al fianco del boss di turno, alle aule universitarie prima come studentessa poi come docente, alle ville di Posillipo durante feste di lusso nonché nelle dimore decadenti, al duomo della città per scoprire il mistero del sangue di San Gennaro insieme al cardinale che se ne occupa, nella casa di una diva del cinema dal volto nascosto e poi all'incontro con un'altra diva che ha lasciato da tempo la città. Parthenope si allontanerà da Napoli per poi ritornarci proprio nel momento dei festeggiamenti per lo scudetto della squadra cittadina.
Ho sentito pareri opposti e contrastanti su questo film. Dal mio piccolo e statisticamente non significativo angolo di visuale mi pare che il film sia piaciuto molto ai napoletani, soprattutto uomini, meglio se di mezza età, meglio ancora se emigrati. Del resto, è indubbio che il sentimento che promana dal film di Sorrentino è quello di una nostalgia profonda (in cui si mescolano emozioni anche contraddittorie) verso Napoli, che - siamo direi tutti d'accordo - non è una città qualsiasi, bensì un luogo dotato di un'identità fortissima che si incarna in tutte le molteplici e multiformi sfaccettature della napoletanità.
Sarà che conosco ben poco Napoli e non ho una storia emotiva che mi lega a questa città, ma personalmente non sono riuscita a "sentire" il film e dunque non sono stata in grado di gettare il cuore al di là del manierismo, del gusto estetizzante, dell'iperbole, del grottesco, dell'assiomatico di cui il cinema sorrentiniano è sempre più denso. Non che da questo punto di vista La grande bellezza fosse tanto diverso, ma - sarà per il rapporto più articolato e stratificato che ho con la città di Roma - in quel caso la cifra sorrentiniana mi aveva risuonato di più.
Qui mi è rimasto tutto piuttosto estraneo e un po' sconclusionato, a tratti fastidioso (soprattutto nel modo in cui si sofferma e insiste sul corpo di Parthenope), a tratti noioso.
Eppure, Sorrentino non è tanto più vecchio di me (ci separano solo tre anni), e condivido con lui la scelta di essere andata lontana dal mio luogo di origine, così come l'aver attraversato fasi di repulsione e fasi di recupero nostalgico e non solo con la mia terra. Eppure, il modo in cui Sorrentino traduce tutto questo in racconto per immagini e per parole non mi ha raggiunto.
Voto: 3/5
lunedì 25 novembre 2024
No other land
Il MedFilm Festival è un festival cinematografico che ormai da trent'anni porta all'attenzione degli spettatori romani storie che riguardano i paesi che si affacciano intorno al Mediterraneo, questo nostro mare comune, che però è anche luogo di divisioni geopolitiche e culturali.
Il programma di quest'anno è molto interessante, ma io riesco a vedere un solo film che è forse quello che non andava perso.
No other land è il lungometraggio documentario realizzato da un collettivo israelo-palestinese, formato dall'avvocato e giornalista palestinese Basel Adra e dal giornalista israeliano Yuval Abraham, che sono anche presenti in video e protagonisti della storia, e da Hamdan Ballal e Rachel Szor. Il documentario è stato premiato al Festival di Berlino, sebbene la vittoria e soprattutto il discorso che Adra e Abraham hanno fatto sul palco ritirando il premio abbia suscitato molte polemiche (qui un'intervista ai due), non tanto per quanto hanno detto (secondo me piuttosto ragionevole) bensì perché è diventato ormai impossibile un dibattito sul tema del conflitto israelo-palestinese, anche quando a parlare sono gli stessi protagonisti.
Il film è stato girato nell'arco di circa quattro anni, dal 2019 al 2023, nell'insediamento di Masafer Yatta, un insieme di 19 villaggi rurali abitati da palestinesi in Cisgiordania. Al centro del racconto Basel, che dopo aver studiato Legge, è tornato a casa in questo piccolo villaggio per raccogliere il testimone dell'attivismo non violento che da anni suo padre sta portando avanti. Il modo in cui Basel conduce questa battaglia consiste nel documentare con il suo smartphone e la sua videocamera la vita nel villaggio e soprattutto le numerose occasioni in cui l'esercito israeliano interviene con le ruspe a distruggere case, scuole, stalle, sulla base del fatto che quel territorio è stato dichiarato zona di addestramento militare. Intanto, ai confini della medesima area, negli anni crescono le dimensioni degli insediamenti dei coloni israeliani, coloni che talvolta partecipano agli sgomberi insieme ai militari.
No other land è però anche la storia di un'amicizia, quella tra Basel e Yuval, un giovane giornalista israeliano che a sua volta sta provando a raccontare quello che succede in questi territori attraverso la conoscenza diretta e la documentazione. I due sono coetanei e tutto sommato condividono anche la lettura della realtà, pur appartenendo a campi teoricamente opposti, però la loro collaborazione e amicizia mette anche in evidenza le diseguaglianze di trattamento e le discriminazioni, dal momento che mentre Yuval può muoversi liberamente con la sua macchina, Basel e i palestinesi sono praticamente reclusi nei territori occupati, e controllati, se non minacciati, dalle forze israeliane.
A poco a poco, attraverso questo racconto in presa diretta, emergono così la frustrazione, la rabbia, il dolore, la depressione che gli abitanti di queste terre vivono sulla loro pelle di fronte all'ingiustizia e all'impossibilità di una vita normale.
Anche Basel, pur con la solidità del suo attivismo, ha forti momenti di scoramento, quando si rende conto che, per quanto si porti all'attenzione del mondo quanto accade, nulla cambia, se non in peggio, e la causa palestinese è solo occasione di esercizio di potere - come nel caso della visita di Tony Blair - ovvero di esposizione mediatica del dolore - come nel caso delle numerose troupe che arrivano a documentare e intervistare, senza avere di fatto alcun impatto sulla realtà.
In questa guerra tra le due parti - lì dove non diventa violenta e armata, cosa che non accade di rado, con conseguenze a volte tragiche - è combattuta a colpi di smartphone che riprendono le situazioni da punti di vista opposti, una specie di guerra di propaganda che conferma - se ancora ce ne fosse stato bisogno - la non oggettività delle immagini, anche quelle in movimento, che nel nostro mondo iperesposto vengono utilizzate a sostegno di tutto e del contrario di tutto.
Lo stesso Basel a un certo punto del film esprime chiaramente la sua frustrazione in proposito, sapendo ormai per esperienza che, anche qualora queste immagini dovessero raggiungere un numero elevato di persone, in concreto nulla cambierebbe, come niente è cambiato fin qui.
Si esce dal cinema con lo stesso senso di frustrazione e di impotenza, da spettatori di una storia che si compie sotto i nostri occhi e di cui portiamo e porteremo il peso nel giudizio dei posteri.
Voto: 3,5/5
Il programma di quest'anno è molto interessante, ma io riesco a vedere un solo film che è forse quello che non andava perso.
No other land è il lungometraggio documentario realizzato da un collettivo israelo-palestinese, formato dall'avvocato e giornalista palestinese Basel Adra e dal giornalista israeliano Yuval Abraham, che sono anche presenti in video e protagonisti della storia, e da Hamdan Ballal e Rachel Szor. Il documentario è stato premiato al Festival di Berlino, sebbene la vittoria e soprattutto il discorso che Adra e Abraham hanno fatto sul palco ritirando il premio abbia suscitato molte polemiche (qui un'intervista ai due), non tanto per quanto hanno detto (secondo me piuttosto ragionevole) bensì perché è diventato ormai impossibile un dibattito sul tema del conflitto israelo-palestinese, anche quando a parlare sono gli stessi protagonisti.
Il film è stato girato nell'arco di circa quattro anni, dal 2019 al 2023, nell'insediamento di Masafer Yatta, un insieme di 19 villaggi rurali abitati da palestinesi in Cisgiordania. Al centro del racconto Basel, che dopo aver studiato Legge, è tornato a casa in questo piccolo villaggio per raccogliere il testimone dell'attivismo non violento che da anni suo padre sta portando avanti. Il modo in cui Basel conduce questa battaglia consiste nel documentare con il suo smartphone e la sua videocamera la vita nel villaggio e soprattutto le numerose occasioni in cui l'esercito israeliano interviene con le ruspe a distruggere case, scuole, stalle, sulla base del fatto che quel territorio è stato dichiarato zona di addestramento militare. Intanto, ai confini della medesima area, negli anni crescono le dimensioni degli insediamenti dei coloni israeliani, coloni che talvolta partecipano agli sgomberi insieme ai militari.
No other land è però anche la storia di un'amicizia, quella tra Basel e Yuval, un giovane giornalista israeliano che a sua volta sta provando a raccontare quello che succede in questi territori attraverso la conoscenza diretta e la documentazione. I due sono coetanei e tutto sommato condividono anche la lettura della realtà, pur appartenendo a campi teoricamente opposti, però la loro collaborazione e amicizia mette anche in evidenza le diseguaglianze di trattamento e le discriminazioni, dal momento che mentre Yuval può muoversi liberamente con la sua macchina, Basel e i palestinesi sono praticamente reclusi nei territori occupati, e controllati, se non minacciati, dalle forze israeliane.
A poco a poco, attraverso questo racconto in presa diretta, emergono così la frustrazione, la rabbia, il dolore, la depressione che gli abitanti di queste terre vivono sulla loro pelle di fronte all'ingiustizia e all'impossibilità di una vita normale.
Anche Basel, pur con la solidità del suo attivismo, ha forti momenti di scoramento, quando si rende conto che, per quanto si porti all'attenzione del mondo quanto accade, nulla cambia, se non in peggio, e la causa palestinese è solo occasione di esercizio di potere - come nel caso della visita di Tony Blair - ovvero di esposizione mediatica del dolore - come nel caso delle numerose troupe che arrivano a documentare e intervistare, senza avere di fatto alcun impatto sulla realtà.
In questa guerra tra le due parti - lì dove non diventa violenta e armata, cosa che non accade di rado, con conseguenze a volte tragiche - è combattuta a colpi di smartphone che riprendono le situazioni da punti di vista opposti, una specie di guerra di propaganda che conferma - se ancora ce ne fosse stato bisogno - la non oggettività delle immagini, anche quelle in movimento, che nel nostro mondo iperesposto vengono utilizzate a sostegno di tutto e del contrario di tutto.
Lo stesso Basel a un certo punto del film esprime chiaramente la sua frustrazione in proposito, sapendo ormai per esperienza che, anche qualora queste immagini dovessero raggiungere un numero elevato di persone, in concreto nulla cambierebbe, come niente è cambiato fin qui.
Si esce dal cinema con lo stesso senso di frustrazione e di impotenza, da spettatori di una storia che si compie sotto i nostri occhi e di cui portiamo e porteremo il peso nel giudizio dei posteri.
Voto: 3,5/5
venerdì 22 novembre 2024
Aspettando Re Lear / di e con Alessandro Preziosi. Teatro Quirino, 9 novembre 2024
Quest’anno non solo la mia selezione teatrale è molto più contenuta degli ultimi anni (un po’ per stanchezza, un po’ per delusione, un po’ per livello dell’offerta), ma arrivo spessissimo a teatro senza aver letto praticamente niente dello spettacolo. Che poi è vero che il massimo sarebbe poter partecipare a una lezione che ci spieghi le cose prima di vederle per potercele gustare al meglio, ma è anche vero che uno spettacolo bello deve essere in grado di conquistarci anche senza saperne assolutamente nulla.
In questo caso, sono arrivata allo spettacolo di Preziosi completamente a digiuno di informazioni. Conoscevo le qualità di Alessandro Preziosi a teatro (terreno sul quale l’attore si è spostato quasi completamente), e potevo ipotizzare dal titolo dello spettacolo che ci fosse un’ascendenza shakespeariana, ma oltre questo non andavo.
Scopro dunque solo a teatro che lo spettacolo è sì ispirato alla tragedia di Shakespeare, ma – come forse il titolo poteva far ipotizzare – questa primaria ispirazione si è combinata con l’Aspettando Godot di Samuel Beckett, che però io non ho mai letto né visto rappresentato.
Sempre a teatro scopro che la scenografia, che fin dall’inizio mi appare in qualche modo familiare e che comprendo essere protagonista della messa in scena al pari degli attori, è costituita da una serie di opere di Michelangelo Pistoletto che Alessandro Preziosi ha incontrato e conosciuto quasi per caso e con cui ha avviato questa collaborazione. Anche gli abiti di scena sono stati scelti coerentemente: si tratta di abiti ideati dalla Fondazione Cittadellarte di Biella insieme al collettivo Fashion B.E.S.T., pezzi unici in materiali tracciabili e riciclati, concepiti a strati, che a poco a poco si scompongono lasciando i personaggi in una tuta nera, una specie di nudità che si confonde con le ombre.
Sulla scena, oltre ad Alessandro Preziosi nei panni di Re Lear (ma anche regista dello spettacolo), ci sono il bravissimo Nando Paone nei panni di Gloucester, Arianna Primavera nel ruolo di Cordelia e anche del Matto, Roberto Manzi che fa Kent e Valerio Ameli che interpreta Edgar.
Il Re Lear di Preziosi è un uomo ormai vecchio e che sta perdendo il senno, il quale vuole lasciare le sue terre e il suo potere alla figlia che lo ama di più, ma che - fidandosi delle apparenze e delle parole vacue - lascia la sua eredità alle due maggiori, cacciando dal suo regno Cordelia, la figlia più amata che si è rifiutata di adularlo. Contemporaneamente Gloucester a sua volta è oggetto di un inganno: il figliastro Edmund gli fa credere che Edgar stia progettando il suo assassinio, e dunque disconosce e allontana il figlio.
In questo turbinio di eventi il momento clou è quello della tempesta che travolge i protagonisti, ma li riconduce alla verità e alla riconciliazione.
La rilettura di Re Lear da parte di Alessandro Preziosi si concentra significativamente sul rapporto tra padri e figli, sull’eredità tra generazioni, e dunque parla anche di noi e del nostro futuro.
Gli attori sulla scena sono tutti molto bravi (Preziosi mi pare voglia proporsi il nuovo Gassman), la scenografia è suggestiva ed efficace, la drammaturgia interessante (anche se a volte può disorientare), le musiche invece mi hanno un po’ lasciato perplessa. Uno spettacolo che nel complesso ho trovato bello, senza uscirne entusiasta nemmeno questa volta.
Voto: 3/5
In questo caso, sono arrivata allo spettacolo di Preziosi completamente a digiuno di informazioni. Conoscevo le qualità di Alessandro Preziosi a teatro (terreno sul quale l’attore si è spostato quasi completamente), e potevo ipotizzare dal titolo dello spettacolo che ci fosse un’ascendenza shakespeariana, ma oltre questo non andavo.
Scopro dunque solo a teatro che lo spettacolo è sì ispirato alla tragedia di Shakespeare, ma – come forse il titolo poteva far ipotizzare – questa primaria ispirazione si è combinata con l’Aspettando Godot di Samuel Beckett, che però io non ho mai letto né visto rappresentato.
Sempre a teatro scopro che la scenografia, che fin dall’inizio mi appare in qualche modo familiare e che comprendo essere protagonista della messa in scena al pari degli attori, è costituita da una serie di opere di Michelangelo Pistoletto che Alessandro Preziosi ha incontrato e conosciuto quasi per caso e con cui ha avviato questa collaborazione. Anche gli abiti di scena sono stati scelti coerentemente: si tratta di abiti ideati dalla Fondazione Cittadellarte di Biella insieme al collettivo Fashion B.E.S.T., pezzi unici in materiali tracciabili e riciclati, concepiti a strati, che a poco a poco si scompongono lasciando i personaggi in una tuta nera, una specie di nudità che si confonde con le ombre.
Sulla scena, oltre ad Alessandro Preziosi nei panni di Re Lear (ma anche regista dello spettacolo), ci sono il bravissimo Nando Paone nei panni di Gloucester, Arianna Primavera nel ruolo di Cordelia e anche del Matto, Roberto Manzi che fa Kent e Valerio Ameli che interpreta Edgar.
Il Re Lear di Preziosi è un uomo ormai vecchio e che sta perdendo il senno, il quale vuole lasciare le sue terre e il suo potere alla figlia che lo ama di più, ma che - fidandosi delle apparenze e delle parole vacue - lascia la sua eredità alle due maggiori, cacciando dal suo regno Cordelia, la figlia più amata che si è rifiutata di adularlo. Contemporaneamente Gloucester a sua volta è oggetto di un inganno: il figliastro Edmund gli fa credere che Edgar stia progettando il suo assassinio, e dunque disconosce e allontana il figlio.
In questo turbinio di eventi il momento clou è quello della tempesta che travolge i protagonisti, ma li riconduce alla verità e alla riconciliazione.
La rilettura di Re Lear da parte di Alessandro Preziosi si concentra significativamente sul rapporto tra padri e figli, sull’eredità tra generazioni, e dunque parla anche di noi e del nostro futuro.
Gli attori sulla scena sono tutti molto bravi (Preziosi mi pare voglia proporsi il nuovo Gassman), la scenografia è suggestiva ed efficace, la drammaturgia interessante (anche se a volte può disorientare), le musiche invece mi hanno un po’ lasciato perplessa. Uno spettacolo che nel complesso ho trovato bello, senza uscirne entusiasta nemmeno questa volta.
Voto: 3/5
mercoledì 20 novembre 2024
Berlinguer - La grande ambizione
Andrea Segre è un regista che seguo con una certa continuità, sebbene non del tutto assiduamente. Dei suoi film apprezzo sempre il tocco delicato, l’impegno politico, l’approccio documentaristico.
Di fronte al suo ultimo film dedicato alla figura di Enrico Berlinguer, interpretato da Elio Germano, non posso certo sottrarmi alla visione.
La grande ambizione racconta uno specifico periodo della vicenda politica e umana di Berlinguer, ossia quello compreso tra la visita a Sofia e l’attentato (di cui io non avevo alcuna memoria) del 1973 e la morte di Moro del maggio 1978, in pratica gli anni del tentativo del politico comunista di perseguire il progetto del cosiddetto “compromesso storico”.
Ci sono molte cose apprezzabili nel film di Andrea Segre: innanzitutto l’ottimo mix tra i video e le immagini di archivio e il girato contemporaneo, che riescono a dialogare molto bene sia sul piano estetico che sul piano narrativo; in secondo luogo l’attitudine (tipicamente documentaristica) di mettere in fila gli eventi sfuggendo alla tendenza – soprattutto contemporanea – alla frammentazione e anche al setaccio inevitabile operato dalla storia e dalla memoria individuale; in terzo luogo la scelta di non trasformare il personaggio di Berlinguer né in un santino né nella caricatura di sé stesso, raccontandolo con sincerità ed equilibrio; infine, l’interpretazione di Elio Germano che (dopo la parziale delusione di Iddu) qui ho ritrovato pienamente nella sua capacità di mettersi al servizio del personaggio e non viceversa. Bravi anche gli altri interpreti che riportano davanti ai nostri occhi tutto un mondo politico che sembra davvero appartenere a un passato lontanissimo, abituati come siamo da qualche tempo a vedere sorgere e tramontare stelle politiche (e non solo) in tempi rapidissimi.
Tralascio le polemiche e i giudizi sulla linea perseguita da Berlinguer con il compromesso storico – non ho né le competenze né le conoscenze per esprimermi in proposito -, però posso dire che il film di Segre è l’occasione per immergersi in quegli anni e in quel mondo politico, misurando la distanza con la contemporaneità e suscitando inevitabilmente domande e riflessioni, cui ognuno potrà dare seguito secondo il proprio particolare punto di vista e la propria sensibilità interpretativa.
Un buon film che - pur non apportando particolari elementi di novità o dirompenti - conferma le qualità di Andrea Segre e ribadisce che ogni tanto tocca buttare un occhio al passato e mettere in ordine alcuni eventi anche per guardare con sguardo nuovo il presente.
Voto: 3,5/5
Di fronte al suo ultimo film dedicato alla figura di Enrico Berlinguer, interpretato da Elio Germano, non posso certo sottrarmi alla visione.
La grande ambizione racconta uno specifico periodo della vicenda politica e umana di Berlinguer, ossia quello compreso tra la visita a Sofia e l’attentato (di cui io non avevo alcuna memoria) del 1973 e la morte di Moro del maggio 1978, in pratica gli anni del tentativo del politico comunista di perseguire il progetto del cosiddetto “compromesso storico”.
Ci sono molte cose apprezzabili nel film di Andrea Segre: innanzitutto l’ottimo mix tra i video e le immagini di archivio e il girato contemporaneo, che riescono a dialogare molto bene sia sul piano estetico che sul piano narrativo; in secondo luogo l’attitudine (tipicamente documentaristica) di mettere in fila gli eventi sfuggendo alla tendenza – soprattutto contemporanea – alla frammentazione e anche al setaccio inevitabile operato dalla storia e dalla memoria individuale; in terzo luogo la scelta di non trasformare il personaggio di Berlinguer né in un santino né nella caricatura di sé stesso, raccontandolo con sincerità ed equilibrio; infine, l’interpretazione di Elio Germano che (dopo la parziale delusione di Iddu) qui ho ritrovato pienamente nella sua capacità di mettersi al servizio del personaggio e non viceversa. Bravi anche gli altri interpreti che riportano davanti ai nostri occhi tutto un mondo politico che sembra davvero appartenere a un passato lontanissimo, abituati come siamo da qualche tempo a vedere sorgere e tramontare stelle politiche (e non solo) in tempi rapidissimi.
Tralascio le polemiche e i giudizi sulla linea perseguita da Berlinguer con il compromesso storico – non ho né le competenze né le conoscenze per esprimermi in proposito -, però posso dire che il film di Segre è l’occasione per immergersi in quegli anni e in quel mondo politico, misurando la distanza con la contemporaneità e suscitando inevitabilmente domande e riflessioni, cui ognuno potrà dare seguito secondo il proprio particolare punto di vista e la propria sensibilità interpretativa.
Un buon film che - pur non apportando particolari elementi di novità o dirompenti - conferma le qualità di Andrea Segre e ribadisce che ogni tanto tocca buttare un occhio al passato e mettere in ordine alcuni eventi anche per guardare con sguardo nuovo il presente.
Voto: 3,5/5
lunedì 18 novembre 2024
Il sen(n)o / con Lucia Mascino. Romaeuropa Festival, Teatro Vascello, 4 novembre 2024
Nell'ambito del Romaeuropa Festival non perdo l'occasione di andare a vedere dal vivo questo spettacolo che ha come protagonista e mattatrice la bravissima Lucia Mascino, che nel corso degli anni ho imparato ad apprezzare sempre di più.
Il testo è di Monica Dolan (titolo originale The B*easts), ed è stato tradotto e adattato per i palchi italiani da Serena Sinigaglia. Protagonista è una psicoterapeuta che si è trovata a gestire il caso di una madre e di sua figlia che a otto anni ha voluto e ottenuto dalla madre di potersi sottoporre a un intervento di chirurgia estetica per aumentare il volume del seno.
Di fronte a questa vicenda, la protagonista - divisa tra una sua dimensione privata di cui sappiamo poco e un ruolo pubblico molto delicato - si rivolge direttamente agli spettatori per raccontare questa storia, ma anche per condividere con loro le sue riflessioni, i suoi pensieri e i suoi dubbi.
Il racconto diventa l'occasione per sfuggire al facile giudizio volto a colpevolizzare una madre e sua figlia, bensì per riflettere sulla società tutta, sui suoi processi e percorsi che in qualche modo hanno condotto a tale situazione, certo estrema, ma sempre meno isolata. Ed è anche l'occasione per la psicoterapeuta per riflettere sul proprio ruolo e sulla propria responsabilità, essendo essa stessa chiamata a stilare un rapporto medico nell'ambito di un processo penale.
Non ci sono risposte nel testo di Monica Dolan, ma solo riflessioni e domande, che chiamano ciascuno di noi a interrogarsi, non tanto per prendere posizione, ma piuttosto per provare a capire e a interpretare una realtà che si fa sempre più sfuggente e difficile.
Sul palco un grande albero spoglio riverso, illuminato, con il quale la protagonista interagisce, curandolo, o utilizzandolo come seduta o come luogo di parziale nascondimento.
Lucia Mascino è brava nel recitare con tutto il corpo - come dice la mia amica I. - offrendo a questo personaggio una fragilità e un'empatia palpabili, capaci di produrre un vero processo identificativo rispetto al senso di inadeguatezza che la protagonista rivela di fronte alla complessità del reale e che risulta infine pienamente comprensibile. Il lungo applauso conferma il gradimento del pubblico.
Voto: 3,5/5
Il testo è di Monica Dolan (titolo originale The B*easts), ed è stato tradotto e adattato per i palchi italiani da Serena Sinigaglia. Protagonista è una psicoterapeuta che si è trovata a gestire il caso di una madre e di sua figlia che a otto anni ha voluto e ottenuto dalla madre di potersi sottoporre a un intervento di chirurgia estetica per aumentare il volume del seno.
Di fronte a questa vicenda, la protagonista - divisa tra una sua dimensione privata di cui sappiamo poco e un ruolo pubblico molto delicato - si rivolge direttamente agli spettatori per raccontare questa storia, ma anche per condividere con loro le sue riflessioni, i suoi pensieri e i suoi dubbi.
Il racconto diventa l'occasione per sfuggire al facile giudizio volto a colpevolizzare una madre e sua figlia, bensì per riflettere sulla società tutta, sui suoi processi e percorsi che in qualche modo hanno condotto a tale situazione, certo estrema, ma sempre meno isolata. Ed è anche l'occasione per la psicoterapeuta per riflettere sul proprio ruolo e sulla propria responsabilità, essendo essa stessa chiamata a stilare un rapporto medico nell'ambito di un processo penale.
Non ci sono risposte nel testo di Monica Dolan, ma solo riflessioni e domande, che chiamano ciascuno di noi a interrogarsi, non tanto per prendere posizione, ma piuttosto per provare a capire e a interpretare una realtà che si fa sempre più sfuggente e difficile.
Sul palco un grande albero spoglio riverso, illuminato, con il quale la protagonista interagisce, curandolo, o utilizzandolo come seduta o come luogo di parziale nascondimento.
Lucia Mascino è brava nel recitare con tutto il corpo - come dice la mia amica I. - offrendo a questo personaggio una fragilità e un'empatia palpabili, capaci di produrre un vero processo identificativo rispetto al senso di inadeguatezza che la protagonista rivela di fronte alla complessità del reale e che risulta infine pienamente comprensibile. Il lungo applauso conferma il gradimento del pubblico.
Voto: 3,5/5
giovedì 14 novembre 2024
Micah P. Hinson (+ Krano). Festival Sabir, Città dell'altra economia, 13 ottobre 2024
Ormai sono una habitué dei concerti di Micah P. Hinson al punto tale che conosco i volti delle persone che, come me, non si perdono nemmeno uno degli appuntamenti con il musicista texano.
Questa volta l'occasione di ascoltarlo dal vivo è offerta dal Festival Sabir, il festival diffuso delle culture mediterranee si è svolto dal 10 al 13 ottobre alla città dell'altra economia di Roma.
L'ingresso è gratuito e il festival è all'aperto. Io arrivo come sempre molto presto per potermi sistemare molto davanti, sotto il palco. Quando arrivo vedo che Micah P. Hinson è già in giro e chiacchiera con alcune persone non lontano dal palco. Intorno alle 21,15 inizia l'opening che è affidato a Krano, un ragazzone che con la sua chitarra - con l'aggiunta talvolta dell'armonica da bocca - comincia a intonare canzoni intimiste in un dialetto che faccio fatica a comprendere. Guardando su Internet, scopro che Krano è il progetto musicale di Marco Spigariol, che dal 2012 - dopo alcune esperienze musicali, anche internazionali - si è ritirato nel suo paese di origine, a Valdobbiadene, e ha cominciato a comporre canzoni nel dialetto locale.
Devo dire che il suo mini-concerto non mi conquista pienamente, ma apprezzo alcune canzoni e soprattutto l'atteggiamento umile e tenero che Krano ha sul palco e con il pubblico.
Dopo un rapido cambio, sale sul palco Alessandro "Asso" Stefana, il musicista italiano che da qualche tempo accompagna Micah nei suoi tour, e comincia a provare e ad accordare tutti gli strumenti. Tutto è pronto.
Intorno alle 22, sale sul palco Micah accompagnato da Stefana e da Paolo Mongardi, il batterista, ricostruendo la formazione che ho già avuto modo di ascoltare al Monk nel marzo del 2023 e che mi aveva regalato un bellissimo concerto.
Come allora Stefana cura gli arrangiamenti e funge da polistrumentista, suonando il basso, la chitarra, la tastiera, l'armonica da bocca e la steel guitar, mentre Micah alterna chitarra elettrica e acustica. Mongardi mette la ciliegina sulla torta con il suo modo mirabile di suonare la batteria, producendo sonorità, ritmi e arrangiamenti molto diversi.
Micah ci saluta in spagnolo e ci dice che da qualche tempo vive a Madrid, anche se ci ricorda - come sempre - di venire dal Texas. Ormai il suo look con capigliatura da nativo americano, abbigliamento da cowboy e cappellone con la piuma si è quasi standardizzato, almeno per chi - come me - lo conosce da tempo.
Anche il suo modo di stare sul palco è per me ormai talmente riconoscibile, nell'alternanza di canzoni suonate rabbiosamente, altre invece dolorosamente, mentre tra una canzone e l'altra Micah ci racconta delle cose (di carattere personale, ma anche tante di tipo politico) e non nasconde in alcun modo la sua personalità decisamente originale e a suo modo eccentrica.
Chi conosce la sua storia personale sa che Micah è quasi un sopravvissuto: mentre parla di quello che gli è accaduto, dice anche di quando era sposato, e io ricordo il concerto al Monk in cui c'era la moglie con il figlio. Insomma, ogni volta con Micah è come ritrovare un vecchio amico la cui vita ha sempre avuto dei percorsi strani e imprevedibili, ma a cui non puoi che volere bene per la naiveté e la sincerità che lo caratterizzano.
E poi ascoltarlo suonare e cantare è sempre uno straordinario viaggio emotivo che non può lasciare indifferenti, e che - devo dire - gli arrangiamenti di Stefana hanno ulteriormente impreziosito e accentuato.
Non ho tenuto traccia puntuale della scaletta, ma direi che a naso ha strutturato il concerto come fa di solito negli ultimi tempi: canzoni dell'ultimo album (tra cui alcune delle mie preferite, Carelessly, What does it matter now, Me & you che si alternano a suoi grandi classici (stasera Beneath the rose è la seconda canzone in scaletta) e a cover più o meno famose (tra cui Please daddy, don't get drunk this Christmas), alcune delle quali sono anche entrate nei suoi album.
In questo caso ci delizia anche - nel bis inevitabile - con una vera e propria canzone country che non gli avevo mai sentito suonare e di cui purtroppo non ho colto né il titolo né l'autore, ma solo il commento di Micah che ci dice che il country è il male, perché lì in qualche modo si annida il peggio del genere umano, ma che qualcosa della tradizione del country si può ancora recuperare.
Un concerto che nei contenuti non è stato molto diverso da quello dello scorso anno, e forse per questo sono rimasta meno colpita, o forse perché il tipo di concerto era più adatto a una location intima come quella del Monk, ma Micah P. Hinson accompagnato dai due musicisti italiani resta uno spettacolo da non perdere.
Voto: 3,5/5
Questa volta l'occasione di ascoltarlo dal vivo è offerta dal Festival Sabir, il festival diffuso delle culture mediterranee si è svolto dal 10 al 13 ottobre alla città dell'altra economia di Roma.
L'ingresso è gratuito e il festival è all'aperto. Io arrivo come sempre molto presto per potermi sistemare molto davanti, sotto il palco. Quando arrivo vedo che Micah P. Hinson è già in giro e chiacchiera con alcune persone non lontano dal palco. Intorno alle 21,15 inizia l'opening che è affidato a Krano, un ragazzone che con la sua chitarra - con l'aggiunta talvolta dell'armonica da bocca - comincia a intonare canzoni intimiste in un dialetto che faccio fatica a comprendere. Guardando su Internet, scopro che Krano è il progetto musicale di Marco Spigariol, che dal 2012 - dopo alcune esperienze musicali, anche internazionali - si è ritirato nel suo paese di origine, a Valdobbiadene, e ha cominciato a comporre canzoni nel dialetto locale.
Devo dire che il suo mini-concerto non mi conquista pienamente, ma apprezzo alcune canzoni e soprattutto l'atteggiamento umile e tenero che Krano ha sul palco e con il pubblico.
Dopo un rapido cambio, sale sul palco Alessandro "Asso" Stefana, il musicista italiano che da qualche tempo accompagna Micah nei suoi tour, e comincia a provare e ad accordare tutti gli strumenti. Tutto è pronto.
Intorno alle 22, sale sul palco Micah accompagnato da Stefana e da Paolo Mongardi, il batterista, ricostruendo la formazione che ho già avuto modo di ascoltare al Monk nel marzo del 2023 e che mi aveva regalato un bellissimo concerto.
Come allora Stefana cura gli arrangiamenti e funge da polistrumentista, suonando il basso, la chitarra, la tastiera, l'armonica da bocca e la steel guitar, mentre Micah alterna chitarra elettrica e acustica. Mongardi mette la ciliegina sulla torta con il suo modo mirabile di suonare la batteria, producendo sonorità, ritmi e arrangiamenti molto diversi.
Micah ci saluta in spagnolo e ci dice che da qualche tempo vive a Madrid, anche se ci ricorda - come sempre - di venire dal Texas. Ormai il suo look con capigliatura da nativo americano, abbigliamento da cowboy e cappellone con la piuma si è quasi standardizzato, almeno per chi - come me - lo conosce da tempo.
Anche il suo modo di stare sul palco è per me ormai talmente riconoscibile, nell'alternanza di canzoni suonate rabbiosamente, altre invece dolorosamente, mentre tra una canzone e l'altra Micah ci racconta delle cose (di carattere personale, ma anche tante di tipo politico) e non nasconde in alcun modo la sua personalità decisamente originale e a suo modo eccentrica.
Chi conosce la sua storia personale sa che Micah è quasi un sopravvissuto: mentre parla di quello che gli è accaduto, dice anche di quando era sposato, e io ricordo il concerto al Monk in cui c'era la moglie con il figlio. Insomma, ogni volta con Micah è come ritrovare un vecchio amico la cui vita ha sempre avuto dei percorsi strani e imprevedibili, ma a cui non puoi che volere bene per la naiveté e la sincerità che lo caratterizzano.
E poi ascoltarlo suonare e cantare è sempre uno straordinario viaggio emotivo che non può lasciare indifferenti, e che - devo dire - gli arrangiamenti di Stefana hanno ulteriormente impreziosito e accentuato.
Non ho tenuto traccia puntuale della scaletta, ma direi che a naso ha strutturato il concerto come fa di solito negli ultimi tempi: canzoni dell'ultimo album (tra cui alcune delle mie preferite, Carelessly, What does it matter now, Me & you che si alternano a suoi grandi classici (stasera Beneath the rose è la seconda canzone in scaletta) e a cover più o meno famose (tra cui Please daddy, don't get drunk this Christmas), alcune delle quali sono anche entrate nei suoi album.
In questo caso ci delizia anche - nel bis inevitabile - con una vera e propria canzone country che non gli avevo mai sentito suonare e di cui purtroppo non ho colto né il titolo né l'autore, ma solo il commento di Micah che ci dice che il country è il male, perché lì in qualche modo si annida il peggio del genere umano, ma che qualcosa della tradizione del country si può ancora recuperare.
Un concerto che nei contenuti non è stato molto diverso da quello dello scorso anno, e forse per questo sono rimasta meno colpita, o forse perché il tipo di concerto era più adatto a una location intima come quella del Monk, ma Micah P. Hinson accompagnato dai due musicisti italiani resta uno spettacolo da non perdere.
Voto: 3,5/5
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