venerdì 26 dicembre 2025

L’anno nuovo che non arriva

Il film del regista Bogdan Muresanu che ha vinto il Premio Orizzonti al Festival di Venezia del 2024, arriva in sala un po’ in sordina, ma spero possa conquistare una fetta di pubblico significativa.

L’anno nuovo che non arriva è ambientato a Bucarest nelle settimane prima del Natale 1989, mentre nel paese circolano le notizie della repressione sanguinosa da parte del regime di Ceausescu delle proteste e manifestazioni a Timisoara. Attraverso le vicende del regista Stefan che deve sostituire l’attrice dello spettacolo di Capodanno che è fuggita dal paese, dell’attrice Florina chiamata per la sostituzione ma che detesta il dittatore, del figlio del regista che insieme a un amico tenta la fuga a nuoto attraverso il Danubio, dell’agente segreto Ionut che non riesce a convincere la madre ad abbandonare la sua casa che sta per essere demolita, dell’operaio Gelu il cui figlio ha scritto e imbucato una lettera a Babbo Natale in cui chiede per il padre la morte di zio Nicolae, il regista tratteggia, con uguale dose di ironia e dramma, lo stato d’animo di un popolo ormai sfinito e insofferente di fronte alle angherie della dittatura.

Ingabbiati nella rete della paranoia, del controllo, della propaganda, ed esasperati da una situazione economica e sociale ormai del tutto insostenibile, i personaggi di Muresanu ci raccontano un mondo a noi vicino temporalmente e geograficamente, ma che ci appare in realtà lontanissimo (un po’ l’effetto che mi aveva fatto l’Albania raccontata da Lea Ypi), e ci comunicano soprattutto il clima che si respirava in Romania nei giorni immediatamente precedenti alla caduta del regime, avvenuta il 25 dicembre 1989. E lo fa in modo leggero e denso nello stesso tempo, e che per questo, mentre ci fa sorridere, riesce anche a farci riflettere sul modo in cui i rumeni sono vissuti fino a poco meno di quarant’anni fa.

Ho apprezzato anche il modo di fare cinema di Muresanu, modo che, pur essendo per noi riconoscibile e comunicativo, non strizza l’occhio a tutti i costi alla cinematografia occidentale, e resta invece fedele a modelli e atmosfere che appartengono al mondo dal quale proviene e che ci costringe a entrare in un sistema narrativo differente e per questo anche diversamente stimolante.

Voto: 4/5


lunedì 22 dicembre 2025

Stare meglio / di Giacomo Ciarrapico; con Carlo De Ruggieri. Flautissimo, Teatro Torlonia, 4 dicembre 2025

Nell’ambito della rassegna Flautissimo che ogni anno fa proposte molto interessanti, non mi lascio sfuggire il monologo di Carlo De Ruggieri – già molto apprezzato in diverse altre circostanze – il cui testo è di Giacomo Ciarrapico, il quale insieme a Luca Vendruscolo e al compianto Mattia Torre ha scritto alcune delle cose più belle degli ultimi decenni.

Stare meglio è la storia di Carlo, ma raccontata come fosse la storia di un paese, nel quale esiste una costituzione, delle leggi, dei governi che si alternano nel tempo, dei ministri, un parlamento, una maggioranza e un’opposizione.

Si parla dunque di Carlo, del suo modo di essere, delle sue relazioni, delle sue delusioni amorose, ma parlare di lui è un modo di raccontare il funzionamento della politica e in qualche modo di metterne in evidenza le idiosincrasie e le follie più o meno sotterranee, così come i suoi meccanismi più entusiasmanti.

Si ride a più riprese, soprattutto perché in certi passaggi si riconoscono riferimenti a eventi e situazioni che appartengono alla nostra esperienza di cittadini che con la politica hanno a che fare da tempo e continuano a doverci fare i conti.

Carlo De Ruggieri, con il suo stile pacato, riesce a essere empatico in ogni passaggio e a farsi interprete sottile di una comicità che è sempre intelligente, com’è tipico dei testi di Ciarrapico.

Certo, non posso non esprimere un pensiero nostalgico per Mattia Torre che di questo tipo di scrittura era maestro, e che insieme ai fidati compari ne ha fatto davvero un genere letterario.

Se posso fare in questo caso un’annotazione, mi permetto di segnalare che dopo un racconto con un testo e uno sviluppo di alto livello, mi pare che la conclusione (il viaggio a Parigi, l’incontro con Clementine e la riflessione finale sulla felicità) risulti un po’ affrettata e fin troppo banale, togliendo forza a quanto costruito fino a quel momento.

Comunque il giudizio alla fine resta per me molto positivo, perché avere a che fare con chi scrive cose intelligenti è sempre più raro e tanto più va valorizzato. Poi il Teatro Torlonia è un piccolo gioiello che non avevo ancora mai visto all’interno, e direi che è la ciliegina sulla torta di una esperienza gratificante (semmai bisogna che nelle giornate di pioggia si trovi un modo per evitare le grandi pozzanghere sul viale che porta al teatro e che tocca guadare per arrivare all’ingresso!).

Voto: 3,5/5

mercoledì 17 dicembre 2025

Rome International Documentary Festival: One more show; When I came to your door; La dernière rive

Ed eccomi anche alla mia prima volta al Rome International Documentary Festival (RIDF), il festival del documentario che quest’anno si è svolto dall’1 al 5 dicembre al Cinema Tibur, lo storico cinema del quartiere San Lorenzo.

L’atmosfera è piena di energia e di caos creativo; io riesco a vedere solo un paio di film, però l’esperienza è decisamente positiva.

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One more show


A questo film tenevo in modo particolare e lo avevo puntato fin da quando avevo avuto modo di guardare il programma del festival: racconta del Free Gaza Circus, un gruppo di circensi che girano per le strada di Gaza portando i loro spettacoli a beneficio di bambini e adulti. La regista egiziana Mai Saad, presente in sala, dopo l’inizio della guerra a Gaza voleva raccontare della vita nella striscia; dopo essere entrata in contatto con il Free Gaza Circus aveva deciso di fare un film su di loro. Questo progetto si è realizzato grazie al co-regista palestinese Ahmed Al-Danaf, che è stato colui che nel luglio del 2024 ha seguito per diverse settimane i componenti del circo nelle loro giornate, nei momenti di relax, in quelli di preparazione, durante gli spettacoli, negli spostamenti e ne ha registrato la vita e le conversazioni.

Da questo preziosissimo girato, realizzato in condizioni difficili, ma decisamente migliori di quelle di là da venire nei mesi successivi, è venuto fuori un film che non è soltanto una delle tante testimonianze sulla vita a Gaza, bensì è anche e soprattutto il racconto dello spirito di una popolazione intera, che è fatto di una resilienza e di una vitalità straordinarie.

La forza del film di Saad e Al-Danaf sta proprio nel non concentrarsi sulla guerra, che inevitabilmente è onnipresente – nei discorsi dei protagonisti come nelle immagini delle distese di macerie – ma sulla vita quotidiana, sulla ricerca di una normalità difficile se non impossibile, sul bisogno ineludibile di futuro.

Sulle pagine social del Free Gaza Circus non ci sono notizie recenti delle loro attività: a distanza di un anno e mezzo dal film non so quale sia la loro situazione. Mi piace sperare e pensare che questi ragazzi siano ancora in mezzo alle strade a provare a regalare ai bambini un momento di felicità.

Voto: 4/5

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When I came to your door


Il cortometraggio del regista, nonché architetto, italiano Antonio Paoletti nasce dalla sua esperienza professionale ad Addis Ababa, e vuole essere una riflessione sul profondo stravolgimento del paesaggio e del contesto sociale prodotto dall’abbattimento dei villaggi e dall’espansione quasi incontrollata dei grandi quartieri abitativi, fatti di palazzi e condomini. Per raccontare questo processo Paoletti prende spunto da una lettera trovata in mezzo alle macerie di un villaggio nel quale una giovane donna scrive al proprio fidanzato, con cui sembra avere un appuntamento ma che non riesce a trovare, in quanto non riconosce più le strade della città, ormai completamente trasformate dagli interventi urbanistici. Mentre il testo della lettera viene letto, sullo sfondo scorrono le immagini dei resti del villaggio e degli oggetti qui abbandonati che infine si aprono su cantieri mostruosamente grandi e impersonali.

Interessante, nonostante una colonna sonora forse un po’ troppo enfatica e invasiva.

Voto: 3/5



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La dernière rive


Nella stessa serata, subito dopo il cortometraggio When I came to your door, viene proiettato il documentario del regista belga Jean-François Ravagnan, La dernière rive, che prende spunto da un piccolo video del 2017, ambientato a Venezia, in cui si vede un ragazzo nero in un canale, mentre accanto gli passa un vaporetto e dalla riva alcune persone commentano la scena. Qualcuno ride, qualcuno gli lancia dei salvagenti, mentre rapidamente il ragazzo viene inghiottito dall’acqua e muore.

Ravagnan decide di fare un viaggio nel tempo e nello spazio, andando alla ricerca della famiglia di Pateh Sabally, in Gambia, il paese dal quale era emigrato alcuni anni prima. Attraverso le immagini dei luoghi di origine e le parole di suo padre, di sua madre e di suo fratello, conosciamo il mondo di Pateh e il suo percorso fino a quella tragica giornata.

Non tutte le domande trovano risposta: molte probabilmente sono state inghiottite come lui dalle acque di Venezia. Quel che è sicuro è che qualcosa si è spezzato nella vita di questo ragazzo, che come molti altri ha provato a inseguire una vita migliore in Europa, ma ha dovuto prima affrontare l’incubo del viaggio e poi l’incubo ancora peggiore di una realtà umana e lavorativa molto diversa da quella che si aspettava.

Il film di Ravagnan si concentra però – a differenza di molti altri che affrontano questo tipo di storie – non tanto sulle vicende di Pateh dopo la sua partenza dal Gambia, bensì sul mondo dal quale proveniva, che è il vero oggetto di osservazione del regista, un mondo sicuramente povero e arcaico, ma ricco di una dignità e di una spiritualità profonde. A noi dunque tutte le riflessioni che ne possono conseguire, senza alcuna risposta preconfezionata.

Voto: 3/5

lunedì 15 dicembre 2025

100 litri di birra

Dopo aver visto quasi per caso alla festa del cinema del 2023 il film di Teemu Nikki Death is a problem only for the living, avevo puntato in sala questo suo film del 2024, 100 litri di birra, che ha avuto certamente una maggiore distribuzione. Ma a suo tempo l’avevo perso.

E così approfittando del Festival del cinema nordico che si tiene quest’anno all’Azzurro Scipioni colgo l’occasione sia per prendere contatto con un cinema di cui ho sempre sentito parlare ma dove ancora non sono mai stata, sia per recuperare questo film, e per di più gratis e in lingua originale.

Peccato che quando la pellicola parte si capisce che il film non è in lingua originale, ma doppiato; la delusione è grande, e c’è addirittura qualcuno in sala che si alza e se ne va. Io, nonostante l’immane delusione e il fastidio di sentire parlare gli attori con queste voci italiane fin troppo standard, decido di rimanere e di provare comunque a godermi il film.

La storia è quella di due sorelle, Taina (Pirjo Lonka) e Pirkko (Elina Knihtilä), che vivono in un paesino della Finlandia, in una casa piuttosto isolata, dove producono il sathi (una specie di birra finlandese, non frizzante e aromatizzata al ginepro), la cui ricetta e attrezzatura gli sono state tramandate dal padre, per anni premiato per il miglior sathi.

Il fatto è che Taina e Pirkko sono anche due alcoliste, e il sathi che producono oltre a venderlo lo bevono anche in copiose quantità. Quando la terza sorella, che ha perso una gamba in un incidente, torna da Helsinki con il suo nuovo fidanzato con cui sta per sposarsi e chiede a Taina e Pirkko di mettere a disposizione 100 litri di sathi per la festa di matrimonio, quella che poteva essere una tranquilla occasione di festa familiare e cittadina si trasforma in un dramma grottesco e sopra le righe.

Lo stile di Teemu Nikki è riconoscibilissimo, così come i suoi temi e la sua poetica: come nel film precedente, anche in questo caso le protagoniste sono due perdenti cui il regista guarda con compassione, perché dietro le loro vite “fallimentari” c’è la solitudine, il senso di colpa, la mancanza di affetto, e perché dietro un’apparenza così ruvida ci sono sempre nodi irrisolti.

Si ride e ancora una volta si pensa a questi buffi finlandesi, che a me ogni volta davvero sembrano catapultati sulla terra da un altro pianeta. E forse è davvero così.

Voto: 3/5


venerdì 12 dicembre 2025

Baby reindeer = Piccola renna / di Richard Gadd; con Filippo Mandelli. Argot Studio, 28 novembre 2025

Qualche tempo fa i social erano invasi di recensioni e notizie che riguardavano la serie Baby reindeer, tratta dal testo di Richard Gadd, a sua volta ispirato alla sua vicenda personale.

Si tratta di una vicenda risalente a diversi anni prima, quando Gadd, aspirante stand-up comedian, era ancora in una fase iniziale e poco remunerativa della sua carriera artistica, e lavorava in un bar per sbarcare il lunario.

Durante un turno di lavoro al bar, Richard conosce Martha, una donna parecchio più grande di lui, e i due iniziano a flirtare. Richard non può immaginare che da quell'incontro inizierà una delle fasi più assurde della sua vita: anni e anni in cui è oggetto di uno stalking che si fa nel tempo sempre più pesante e invasivo. Migliaia di email, messaggi vocali, non solo a lui ma anche ai suoi familiari e ad altre persone care, presenza inattesa e molesta di Martha ai suoi spettacoli e persino sotto casa sua, anche dopo aver cambiato abitazione.

La vita di Richard diventa progressivamente un inferno, e tutti i nodi irrisolti della sua esistenza vengono al pettine, riportando a galla tutte le sue insicurezze e mandando in frantumi quel poco che ha costruito.

Nello stalking, come in tutte le altre relazioni tossiche, è sempre l’incontro tra due personalità complementari a consentire la patologizzazione della relazione, e anche Martha e Richard non sfuggono a questa regola.

Eppure, mentre ascoltiamo il monologo, interpretato con grande partecipazione e la giusta dose di scanzonatezza e vittimismo da Francesco Mandelli, non possiamo non provare empatia per il protagonista e angoscia per il buco nero nel quale si va ad infilare e dal quale riuscirà a tirarsi fuori solo molti anni più avanti e dopo una vera e propria discesa agli inferi.

Lo stalking è una delle forme di violenza più subdole nell’ambito di una relazione, ed è anche la meno riconosciuta e soprattutto più sottovalutata. In questo caso poi, in una situazione di ribaltamento di genere, in cui è l’uomo l’oggetto dello stalking, la sottovalutazione e il pregiudizio sono ancora maggiori. E dunque diventa ancora più difficile ottenere una tutela pubblica.

Lo spettacolo all’Argot è un monologo messo in scena in modo molto essenziale, in cui il protagonista si muove sostanzialmente tra due ambienti, il bar e la stazione di polizia, identificati semplicemente da due scritte luminose, monologo interrotto solo dalla voce di Martha (Barbara Ronchi) nei suoi deliranti messaggi vocali, e dai testi delle email proiettati sullo schermo di fondo, schermo sul quale sono proiettate anche brevi testimonianze di amici e parenti del protagonista.

Però, nella sua semplicità - anche grazie a un testo denso e in cui ognuno può ritrovare piccole parti di esperienze proprie o altrui – riesce ad essere estremamente efficace, ed emotivamente molto coinvolgente.

Non ho visto, e non credo che vedrò la serie – mi è bastato lo spettacolo -, ma posso capire le polemiche che può aver suscitato, dal momento che inevitabilmente mette in scena solo un punto di vista. Ma, per quanto si tratti di una storia che arriva direttamente dalla biografia del drammaturgo, bisogna sempre ricordarsi che arte e vita viaggiano su due binari non coincidenti, e che nel momento in cui una storia viene raccontata diventa un punto di vista e una narrazione.

Quindi, quello che ci interessa nel caso dell’arte è quanto quella storia è raccontata bene. E questa lo è sicuramente.

Voto: 3,5/5

mercoledì 10 dicembre 2025

Put your soul on your hand and walk

Avevo perso questo film all’ultima festa del cinema di Roma (non ero riuscita a incastrarlo in un programma già fittissimo), e dunque non appena è uscito in sala sono andata a vederlo.

Si tratta del documentario realizzato dalla regista iraniana Sepideh Farsi per raccontare Gaza attraverso gli occhi e le parole di Fatma Hassouna. La regista, fuggita da Teheran molti anni fa e con base a Parigi, nella primavera del 2024 vola al Cairo per raggiungere il valico di Rafah ed entrare a Gaza, dove ha numerosi amici.

La striscia di Gaza è però già blindata e per Sepideh è impossibile entrare; grazie ad alcuni amici palestinesi, la regista si mette in contatto con Fatma che vive a Gaza con la sua numerosa famiglia (dieci persone), ha 24 anni, e racconta la città grazie alle sue fotografie. Dopo la prima videochiamata, i contatti diventano periodici e la relazione tra Sepideh e Fatma si approfondisce e si consolida sempre di più, in una condivisione di sentimenti e uno scambio di punti di vista.

Fatma diventa l’occhio di Sepideh, e quello di tutti noi spettatori, su Gaza, grazie a fotografie piene di umanità e bellezza, ma anche di distruzione e di morte, di speranza e sorrisi, ma anche di tristezza e disperazione. Tutti sentimenti che nella loro contraddittorietà vediamo nel volto di questa giovanissima donna, e riconosciamo nelle sue parole, che restano poetiche e alte anche quando il suo inglese non l’aiuta a esprimersi con il massimo della complessità che vorrebbe.

Di Fatma non solo vediamo le foto che scatta, le immagini in diretta della città intorno a lei, delle esplosioni e delle distruzioni, ma ascoltiamo anche le sue poesie e le sue canzoni, guardiamo il suo sorriso instancabile, quello che a volte Sepideh ammette di non capire, di trovare stridente rispetto alla realtà, e che anche noi spettatori quasi non riusciamo ad accogliere.

Eppure Fatma sembra voler trovare la forza di sorridere, anche quando tutto intorno suggerirebbe il contrario: la morte dei parenti e degli amici più cari, la distruzione della città, l’impossibilità di una vita normale, l’assenza di cibo e la fame. Ma Fatma non si vuole far sottrarre anche i sogni e i desideri, pur nelle inevitabili contraddizioni che una situazione come quella che vive porta con sé. Gaza è il posto a cui appartiene, quello che i palestinesi sono intenzionati a ricostruire per quante volte verrà distrutto, quello da difendere e in cui resistere a costo della vita; ma è anche una prigione in cui ci si sente a volte senza scampo e senza speranza.

Mentre tra una videochiamata e l’altra passano spezzoni di telegiornali che raccontano la guerra e le azioni sempre più brutali di Israele nella striscia di Gaza, le conversazioni tra Sepideh e Fatma vanno avanti, nonostante la connessione sempre meno affidabile e più instabile. Sullo schermo a poco a poco compaiono diversi membri della famiglia di Fatma – i fratelli, il padre – e momenti di leggerezza e di quasi normalità si alternano a momenti in cui la paura e la stanchezza sono troppo forti. La cosa più incredibile è che a più riprese è Fatma la persona che dà speranza e che crede nella possibilità di un cambiamento, di fronte a una Sepideh decisamente più pessimista.

E proprio quando il documentario di Sepideh viene selezionato per Cannes e la regista coltiva il sogno di portare Fatma in Francia per la presentazione del film, arriva la bomba che durante la notte uccide la giovane donna e altri sei membri della sua famiglia.

Del resto, la frase che dà il titolo al film Put your soul in your hand and walk è – come dice Fatma – la condizione in cui i palestinesi vivono tutti i giorni, sperando che non sia il loro ultimo.

Un lavoro cinematografico semplice e forse imperfetto, ma di una potenza comunicativa notevole.

Nessuno potrà più dire di non sapere e di non aver visto.

Voto: 3,5/5


domenica 7 dicembre 2025

Robe dell'altro mondo (cronache di un'invasione aliena) / Carrozzeria Orfeo. Spazio Diamante, 27 novembre 2025.

Seguo Carrozzeria Orfeo da non moltissimo tempo e ho visto solo un loro spettacolo, Salveremo il mondo prima dell'alba, ma già da questi pochi contatti posso dire che si tratta di uno dei collettivi teatrali più interessanti tra quelli in circolazione.

Quindi, ormai quando vedo uno dei loro spettacoli in qualche cartellone mi ci fiondo a pesce.

A questo giro, non perdo l'occasione di recuperare un loro lavoro del 2012, Robe dell'altro mondo, che Gabriele Di Luca riadatta completamente dal punto di vista drammaturgico, pur mantenendo intanto il senso della narrazione.

Nella messa in scena attuale Robe dell'altro mondo è uno spettacolo teatrale e insieme una performance, la cui realizzazione è il frutto della collaborazione tra Carrozzeria Orfeo e Le canaglie, un gruppo di illustratori.

Lo spettacolo vede protagonisti sul palco l'attore Massimiliano Setti, che interpreta i personaggi della storia insieme a Sebastiano Bronzato, accompagnati da Federico Bassi e Giacomo Trivellini che sul palco disegnano ambientazioni, fondali, illustrazioni di commento delle storie.

La narrazione si costruisce letteralmente davanti ai nostri occhi attraverso l'assemblamento musicale dal vivo, i disegni realizzati al momento e proiettati sullo schermo, che a più riprese coinvolgono attori in carne e ossa e interagiscono con gli attori sulla scena, nonché vere e proprie sottotrame completamente realizzate in forma grafica e proiettate e sfogliate per il pubblico. I due attori in scena riescono a rappresentare molti personaggi diversi attraverso l'uso di maschere di gomma che gli coprono completamente la testa e che mi hanno un po' ricordato i Familie Flöz visti qualche anno fa alla Sala Umberto. Si tratta di una scelta che certamente rafforza l'approccio cartoonistico dello spettacolo, e contestualmente valorizza la gestualità degli attori, che non possono fare affidamento sulla mimica facciale.

In questo mix di arti performative molto ben orchestrate e di grande impatto secondo me dal punto di vista della fruizione, il tema di fondo è quello dello spettacolo di oltre dieci anni fa, ossia le paure metropolitane rappresentate attraverso varie situazioni: l'alterco tra due anziani all'uscita del supermercato in cui compare anche un extracomunitario, il dialogo tra un ministro in attesa di entrare in un "centro massaggi" e il suo portaborse, l'interazione tra un ragazzino e una ragazzina nipoti dei due vecchi del primo quadro, e infine la surreale conversazione tra lo stesso ragazzino e il papa che è stato rapito dagli alieni e che ha potuto sfuggire finalmente al suo ruolo. Sì, perché gli alieni sono i supereroi di questo racconto, esseri che non vedremo mai, ma che forse rappresentano l'ultima speranza dell'umanità di salvarsi, almeno fino a quando non si decide di trasformare anche loro in nemici.

Bravi tutti. A questo punto aspettiamo il nuovo spettacolo Misurare il salto delle rane al Vascello tra gennaio e febbraio.

Voto: 3,5/5

mercoledì 3 dicembre 2025

Crossing Istanbul

Siamo a Batumi, in Georgia. Lia (Mzia Arabuli), una ex insegnante di storia, dopo la morte di sua sorella, decide di partire per Istanbul alla ricerca di sua nipote Tekla, una ragazza trans, che a suo tempo è stata rifiutata dalla famiglia. A lei si unisce Achi (Lucas Kankava), un giovane che vive con il suo fratellastro e la moglie di lui e cerca un’occasione per andare via.

Una volta a Istanbul, nelle loro peregrinazioni nei quartieri abitati dalle donne trans, la loro strada incrocerà quella di Evrim (Deniz Dumanli), che sta finalmente per ottenere i suoi nuovi documenti come donna, e nel frattempo lavora per un’associazione che aiuta le donne trans e cerca l’amore.

Il film di Levan Akin, che nella versione originale si intitola semplicemente e significativamente Crossing, è un racconto on the road, fatto di tanti incontri, ma anche di assenze.

Tutti i protagonisti e i comprimari di questo racconto sono alla ricerca di qualcosa o di qualcuno, dopo che la vita li ha spinti ai suoi margini e li ha privati della possibilità di amare e di essere amati.

Nell’incrocio dei loro destini in una città che è di per sé stessa un crocevia di popoli e culture, nessuno di loro troverà quello che sta cercando o che pensa di volere, ma sarà quello di cui hanno bisogno a trovare ciascuno di loro. Achi troverà quella figura materna che non ha mai avuto, Lia dei figli da amare nonostante tutto, Evrim forse finalmente riconoscerà di meritare di più.

Di fronte a famiglie lacerate o inesistenti, è solo attraversando i confini di sé e superando le difese che ognuno si è costruito per difendersi dal mondo che diventa possibile costruire relazioni e darsi nuove possibilità.

Bellissima questa Istanbul filmata in modo così poco stereotipato, ma al contempo così riconoscibile; apprezzabilissima la scelta di non cedere al lieto fine, ma di aprire comunque la porta alla speranza dei sentimenti.

Bel film. Da vedere.

Voto: 3,5/5