giovedì 20 novembre 2025
Re Chicchinella / da Giambattista Basile; regia di Emma Dante. Teatro Argentina, 7 novembre 2025
Per il re si tratta di una condizione fortemente invalidante, che però ha l’effetto collaterale, ben gradito dalla sua corte, compresa la moglie e la figlia, di produrre delle uova di oro.
Nel raccontare questa storia, di cui la Dante rielabora il finale con un processo trasformativo che non affida alla morte la chiusa narrativa, la regista siciliana mantiene coerente lo stile di messa in scena e di regia a cui ci ha ormai abituato nei suoi ultimi lavori.
Un palco completamente immerso nel buio, pochissimi oggetti di scena, costumi molto fantasiosi, e un grandissimo lavoro sul linguaggio, sui corpi, sulle coreografie e sulle luci.
Recitato nel napoletano seicentesco di Basile, Re Chicchinella ci offre lo spaccato ironico e a tratti comico di una corte la cui vacuità è direttamente proporzionale all’avidità.
Il cianciare confuso e ripetitivo delle cortigiane con i loro costumi che ne esagerano le forme abbondanti è il simbolo di un mondo di egoismi e di servilismi, mentre il re (magnificamente interpretato dal sempre bravissimo Carmine Maringola, capace di far recitare ogni parte del suo corpo) è a sua volta un personaggio dolente, ma anche insulso.
Sebbene ogni spettatore possa leggere in questo racconto il senso o la morale che vuole, mi pare che a questo giro Emma Dante viri maggiormente sul divertissement, trasformando quella che avrebbe potuto essere una storia tetra in una narrazione giocosa, seppure non priva di significato.
Voto: 3,5/5
domenica 16 novembre 2025
Dj Ahmet
Da quando la madre è morta, la vita di questa famiglia è molto cambiata: Ahmet deve rinunciare alla scuola per occuparsi del gregge di pecore del padre e della vendita del tabacco, Naim non parla più, quasi fosse sotto un maleficio, e il padre si è ulteriormente indurito nella gestione della casa e dei figli.
L’andamento della narrazione prende però una direzione inaspettata quando nel villaggio arriva Aya (Dora Akan Zlatanova), una ragazza della stessa età di Ahmet, che ha vissuto in Germania ma che ora la famiglia vuole che sposi un ragazzo del luogo.
Accomunati dalla passione per la musica, tra Ahmet e Aya nasce un sentimento che spingerà il primo a giocarsi il tutto per tutto pur di salvare la ragazza amata da un futuro che non vuole.
Nel film di Georgi M. Unkovski non c’è niente di veramente sorprendente: lo scontro generazionale, così come quello tra tradizione e modernità viaggiano su binari abbastanza prevedibili - la tecnologia, la musica, gli abiti, lo stile di vita - ma in questo specifico coming of age acquistano un sapore e una freschezza particolari grazie al contesto e ad alcune trovate registiche (il coro delle donne del villaggio che si incontrano sotto l’albero, la foresta come luogo del proibito e della trasgressione, la pecora fucsia, gli altoparlanti della moschea da cui esce il suono di accensione di Windows), nonché grazie a dei protagonisti con facce poco standardizzate e ricche di sfumature.
E poi l’elemento musicale che si insinua a più riprese e che in un certo senso è il deus ex machina del racconto fa il resto.
Si esce con il cuore malinconico e contento, pensando a quanta parte di mondo – anche vicino a noi – ha ancora bisogno di affrancarsi dai lacci e laccioli della religione e delle tradizioni.
Voto: 3,5/5
venerdì 14 novembre 2025
Chimere / J. Bernlef
Chi, come me, ha vissuto piuttosto da vicino l’Alzheimer a causa della malattia di un familiare sa che, di fronte a un malato di questa terribile malattia, non si può fare a meno di chiedersi cosa succede nella sua mente, che tipo di percorsi mentali determinino certi comportamenti e azioni.
Purtroppo, questa domanda dal punto di vista scientifico, per il momento, è senza risposta e l’unica risposta possibile nasce dall’interpretazione dei comportamenti basata sull’osservazione e sulla frequentazione del malato.
L’arte – la letteratura e il cinema in particolare – hanno provato da questo punto di vista a colmare il gap attraverso l’immaginazione, e secondo me le parole sono quelle che meglio di tutte riescono nell’impresa.
È quanto fa J. Bernlef in questo romanzo pubblicato per la prima volta nel 1984 e solo adesso – quarant’anni dopo – proposto in traduzione italiana dall’editore Fazi.
Protagonista di questo romanzo è Maarten, che ha una settantina d’anni e vive con la moglie Vera in un paese vicino Boston, dove i due coniugi si sono trasferiti da molti anni provenendo dai Paesi Bassi. I due vivono da soli, perché i loro due figli ormai adulti vivono altrove.
La narrazione è fatta in prima persona da Maarten e inizia quando una mattina l’uomo, guardando dalla finestra di casa sua, non vede i ragazzi che vanno a scuola e non capisce perché: si tratta del primo episodio di disorientamento temporale e dunque un primo segnale dei disturbi cognitivi che da qui in poi renderanno la percezione di Maarten sempre più sganciata dalla realtà e i suoi pensieri sempre più confusi.
Poiché si è in balia delle parole e dei pensieri del protagonista senza avere elementi di riscontro dalla realtà, se non a singhiozzo attraverso la sua interazione con la moglie, anche il lettore tende a perdere completamente le coordinate e a sperimentare una sorta di stato confusionale.
Per questo motivo, soprattutto nella prima parte, il libro si fa quasi racconto dell’orrore: il senso di angoscia e di spaesamento si impadronisce del lettore in virtù di un’inevitabile partecipazione all’alternarsi di momenti di consapevolezza e altri di obnubilamento che Maarten vive.
Man mano poi che Maarten precipita nel buco nero della malattia e la sua vita e i suoi pensieri si trasferiscono in una realtà parallela i cui contatti con quella effettiva sono sempre più labili, il senso di terrore e angoscia della prima parte del romanzo si trasforma sempre di più in uno stato di compassione nei confronti del protagonista.
La memoria a breve termine svanisce quasi completamente, mentre dal passato tornano dettagli e fantasmi che plasmano la quotidianità e danno ad essa nuove interpretazioni e nuovi significati. L’ansia non è completamente superata – e del resto è una condizione che spesso accompagna il malato di Alzheimer in tutto il percorso della malattia – però viene in un certo senso mitigata da questa forma di cosmogonia privata che ricolloca gli eventi incomprensibili dentro un orizzonte di senso totalmente avulso dalla realtà, ma accettabile a livello soggettivo.
Il romanzo di Bernlef credo sia la cosa che va più vicina di qualunque altra io abbia letto o visto a far provare quello che – probabilmente – prova un malato di Alzheimer dagli esordi della malattia alle fasi più avanzate.
Durante la mia personale esperienza a contatto con la malattia mi sono più volte chiesta come si sente un malato di Alzheimer: quello che osservavo dall’esterno erano momenti di ansia ossessiva e angosciante – che inevitabilmente si trasmette a chi sta intorno – ma anche momenti di straordinaria pace e serenità. E mi sono sempre detta che spero che il malato viva in un mondo tutto suo e con pochissimi contatti con la realtà, perché il rendersi conto sarebbe davvero la cosa peggiore in assoluto. Che è poi uno dei motivi per cui la malattia produce enormi carichi di angoscia ai caregiver e alle persone che sono legate al malato, e forse anche il motivo della vergogna e dello stigma sociale che spesso tiene i malati d’Alzheimer fuori dalla vista del mondo.
Bernlef riporta al centro della narrazione una di queste persone e ci costringe a entrare nella sua mente e a empatizzare con la sua condizione. E questa è la straordinaria forza della grande letteratura.
Voto: 4/5
mercoledì 12 novembre 2025
L’importanza di chiamarsi Ernesto / di Oscar Wilde; regia di Geppy Gleijeses. Teatro Sala Umberto, 29 ottobre 2025
Quella di Wilde è una commedia degli equivoci e di scambi di persona, secondo un impianto molto classico, che in questo caso sembra finalizzato in particolare a colpire l’oziosità della nobiltà inglese decaduta e in particolare i rampolli scapoli e sfaccendanti di queste famiglie.
La commedia viene portata a teatro con la regia di Geppy Gleijeses, e interpretata da Giorgio Lupano, Luigi Tabita, Maria Alberta Navello e la sempre magnifica Lucia Poli nei panni di Lady Augusta Bracknell; una menzione anche per gli attori che interpretano i personaggi secondari e di supporto, che tengono benissimo il meccanismo della commedia ed aiutano ad amplificarlo.
Nel complesso uno spettacolo gradevole, con una regia solida, delle belle scenografie e attori in parte.
Alla chiusura del sipario il pubblico sembra aver apprezzato molto, e molte persone appaiono addirittura entusiaste, cosa che faccio fatica a capire, ma forse è solo perché questo tipo di spettacoli teatrali non è esattamente il mio genere preferito, anche quando sono ben fatti come in questo caso.
Voto: 3/5
lunedì 10 novembre 2025
Festa del cinema di Roma, 15-26 ottobre 2025 (Quarta parte)
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It was just an accident = Un semplice incidenteEd eccoci alla proiezione del film vincitore della Palma d’oro a Cannes, It was just and accident (Un semplice incidente), l’ultimo film di Jafar Panahi che è presente alla festa del cinema di Roma (insieme alla moglie e alla figlia) per ricevere il premio alla carriera dalle mani di Giuseppe Tornatore. Nel discorso di ringraziamento Panahi non si fa sfuggire l’occasione di omaggiare il cinema italiano, in particolare il neorealismo, che tanta parte – dice – ha avuto nella sua formazione e nella definizione del suo cinema.
Tornato a fare film dopo l’incarcerazione da parte del regime iraniano, Panahi non dimentica l’esperienza che ha vissuto e la rilegge attraverso una storia che è un po’ un buddy movie e un po’ un road movie, e che riesce miracolosamente a mantenersi in bilico tra la commedia, il dramma e la denuncia politica e sociale, ma che non rinuncia nemmeno al registro ironico, che a tratti diventa anche grottesco, per poi sorprenderci con un finale aperto da thriller, che ogni spettatore è chiamato a interpretare secondo la propria sensibilità.
Tutto comincia con una tranquilla famigliola, padre, madre e figlia, che rientrano di notte in macchina verso casa: durante questo viaggio prima accade che la macchina investe e uccide un cane sulla strada, poi ha un guasto che li costringe a fermarsi per chiedere aiuto. In questa circostanza, un uomo riconosce nel guidatore Eghbal (Ebrahim Azizi), l’uomo che durante la sua prigionia dovuta alla partecipazione a uno sciopero lo aveva bendato e poi torturato psicologicamente. Da allora Vahid (Vahid Mobasseri) è perseguitato dal rumore sinistro della protesi che il suo aguzzino ha al posto della gamba che ha perso in Siria.
Vahid sequestra quello che ritiene essere Eghbal, ma quando sta per seppellirlo vivo in un luogo deserto si fa venire il dubbio di aver sbagliato persona e dunque va a cercare altre persone che sa aver subito da lui lo stesso trattamento in carcere per farsi aiutare nel riconoscimento. Si forma così una strana combriccola formata da Vahid, Shiva, una sua ex fidanzata che fa la fotografa, una coppia di sposi in abiti da matrimonio, e Salar.
Senza andare oltre nel racconto della trama, per non togliere niente alla sorpresa, basti dire che Panahi – il cui film è girato quasi tutto in esterni, dentro e intorno a un furgoncino – nonostante quello che ha passato ci va giù comunque durissimo con il suo paese, e, attraverso i suoi personaggi, forse tutti suoi alter ego e in qualche modo tutti sfaccettature dei suoi sentimenti complessi, dà voce al desiderio di vendetta, ma anche all’inevitabile fedeltà ai propri principi morali, che impediscono a lui e a suoi personaggi di essere malvagi fino in fondo. Un semplice incidente è un inno alla parte migliore dell’umanità, quella che non riesce a derogare ai propri principi nemmeno di fronte all’orrore altrui, sebbene - per come l’ho interpretato io - il finale scelto da Panahi rappresenti un segnale di profondo pessimismo della possibilità che questa umanità possa sopravvivere in pace.
Voto: 4/5
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If I had legs I’d kick you Allora, benissimo la narrazione che vira verso il surreale e il grottesco, benissimo il tema della maternità trattato non in quella maniera zuccherosa cui siamo abituati ma come una specie di film dell’orrore, benissimo il portare a galla temi quali lo schiacciante senso di colpa delle madri, l’assenza dei padri e le fragilità psicologiche, però il film di Mary Bronstein mi ha fatto l’effetto di un pastiche un po’ indigeribile.
La storia è quella di Linda (Rose Byrne), una psicologa sull’orlo di una crisi di nervi che, con il marito distante per lavoro, deve occuparsi della figlia affetta da una misteriosa malattia che la costringe ad essere alimentata attraverso un tubo collegato a una macchina. Le cose si complicano e prendono una strada sempre più surreale quando nell'appartamento in cui Linda abita con la figlia si apre un buco nel soffitto, e le due devono trasferirsi a vivere in uno scadente albergo in attesa della sistemazione del danno.
Operazione ardita quella della Bronstein e senza dubbio originale, ma il fatto che dopo 5 minuti non sopportavo più la bambina (di cui non si vede il volto fino alla fine del film), dopo 20 non sopportavo la protagonista, e dopo mezz'ora non sopportavo più nessun personaggio non so se interpretarlo come segno della riuscita del film oppure come il suo fallimento.
Per me comunque resta un no.
Voto: 2,5/5
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Historias del Buen Valle L’ultimo film della mia maratona alla Festa del cinema di quest’anno è il documentario realizzato da José Luis Guerin e dedicato a un quartiere periferico di Barcellona, Vallbona (Buen Valle), dove ai primi insediamenti abusivi non è mai seguito un piano regolatore e, con l’arrivo di famiglie di immigrati, prima dall’interno del paese, poi dall’esterno, si è sviluppato in maniera disordinata ma vitale.
Nonostante le grandi opere (strade ad alto scorrimento e ferrovie) che nel corso del tempo hanno in parte distrutto il tessuto urbanistico e umano di questo quartiere, la comunità di Vallbona ha continuato a resistere e a mantenere una sua identità intergenerazionale e interrazziale, e a integrare persone e famiglie di diversa estrazione e provenienza.
Raccolta intorno al canale Rec, dove adulti e bambini si riuniscono per fare il bagno (nonostante il divieto di balneazione) e passare il tempo libero nelle giornate calde, questa comunità viene raccontata con garbo ed empatia da Guerin attraverso le storie di varie persone e famiglie, realizzando un affresco di grande umanità, ma anche denunciando più o meno indirettamente le conseguenze delle politiche di sviluppo delle grandi città.
Per alcuni versi, il film mi ha ricordato El 47 (quest’ultimo di fiction ma ispirato a una storia vera) , che parla di un altro quartiere di Barcellona, Torre Barò, che ha avuto in parte una storia simile e che si trova nella stessa area della città, separata da una strada ad alto scorrimento.
Mi piace questa attenzione del cinema spagnolo e catalano allo sviluppo delle città e in particolare delle periferie e al significato che esse hanno avuto nella storia del paese, e delle quali bisogna preservare valori e conquiste.
Voto: 3/5
venerdì 7 novembre 2025
Festa del cinema di Roma, 15-26 ottobre 2025 (Terza parte)
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James McAvoy sceglie per il suo debutto dietro la macchina da presa la storia vera di un duo rap, i Silibil N' Brains, che erano due ragazzi di Dundee, Gavin e Billy, amici per la pelle, colleghi in un call center, entrambi appassionati di skateboard e scrittura di testi rap.
Dopo qualche tentativo fallimentare di piazzare le proprie canzoni presso alcune etichette musicali, i due si convincono che il motivo del loro insuccesso è il loro accento scozzese e il fatto che vengono da Dundee.
Così i due decidono di cominciare a cantare con un simil-accento californiano e a presentarsi essi stessi come americani. La strategia ha successo e i due vengono scritturati da una casa discografica e cominciano a incidere dischi, a fare concerti, e ad avere successo.
L'idea è quella di smascherare il razzismo dell'industria musicale, ma ben presto Gavin fa marcia indietro e non si rifiuta di svelare l'inganno, terrorizzato di tornare alla sua vita di prima. I due ragazzi finiranno per mettere in discussione non solo il loro futuro, ma anche la relazione tra loro e con le persone che amano.
Una commedia dal ritmo travolgente, con una sceneggiatura brillante e ricca di umorismo scottish, che si segue gradevolmente, ma che - pur impreziosita dal fatto di essere basata su una storia vera - non va oltre gli stilemi della commedia sociale.
Un esordio riuscito, ma un po' convenzionale.
Voto: 3/5
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Miss Carbón
Quando vedo film come Miss Carbón penso che davvero la realtà sia il miglior generatore di storie che ci possa essere. Se mi avessero detto che la storia di una donna trans di un paesino minerario della Patagonia che ha fatto una battaglia per poter lavorare in miniera (nelle gallerie sotterranee) anche dopo aver cambiato sesso (andando contro le norme e le superstizioni) è la storia vera di Carlita Rodriguez non ci avrei mai creduto.
E invece il film di Agustina Macri è proprio ispirato alla storia di questa donna (straordinariamente interpretata da Lux Pascal) e ci porta in un piccolo paese ai confini del mondo, dove Carlita non vuole rinunciare ad alcuno dei suoi sogni, né quello di diventare donna (cosa che già la mette in una posizione difficilissima in una comunità così piccola), né quello di essere minatrice.
Il film, pur nel suo essere un po’ olografico, è interessante sia sul piano estetico (molto belli i sogni a occhi aperti di Carlita che si immagina vestita come la madonna) sia sul piano dei contenuti, soprattutto nell’affrontare il transgenderismo come un percorso faticosissimo sul piano emotivo perché ti mette in posizione di svantaggio sia rispetto al mondo degli uomini sia rispetto a quello delle donne.
Una storia che benissimo ha fatto la Macri a riportare alla luce e all’attenzione del mondo intero.
Voto: 3/5
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Left handed girl
Il film scritto, diretto e prodotto da Shih-Ching Tsou (in cui c’è però anche lo zampino di Sean Baker, con cui la regista collabora da tempo) è la storia di una famiglia, madre single e due figlie (una tardo adolescente, I-Ann, e l’altra di 5 anni, I-Jing), che torna a vivere a Taipei, il luogo di cui proviene la madre e dove abita la sua famiglia di origine (genitori e sorelle).
Per mantenere la sua famiglia, la madre Shu-Fen prende in gestione un banco del mercato centrale dove prepara noodles, mentre la figlia grande lavora come betel nut girl e ha una relazione sessuale con il proprietario, e la bimba piccola, che è mancina, gira da sola per il mercato, cercando a suo modo di comprendere quello che le accade intorno.
Mentre Shu-Fen è in difficoltà economiche crescenti e, nonostante le attenzioni del vicino di banco al mercato, si fa sempre più depressa, I-Ann e I-Jing vanno sempre più fuori controllo, cosicché alla festa di compleanno della nonna (altro personaggio decisamente bizzarro), tutti i nodi vengono al pettine e anche le verità a lungo taciute.
Il punto di forza assoluto di questo film è la piccola Nina Ye, capace di interpretare in tutte le sfumature possibili la prospettiva visuale di I-Jing, e di conferire al film la sincerità, la leggerezza e in parte anche l’ingenuità dello sguardo di una bambina, rafforzato da una telecamera che per gran parte del tempo si colloca esattamente alla sua altezza e fa proprio il suo punto di vista sul mondo.
Voto: 3,5/5
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Holding Liat
Holding Liat è il film che ha vinto nella sezione Documentari alla Berlinale e racconta la storia di una famiglia ebrea, in particolare attraverso il punto di vista di Yehuda e Chaya, dopo che la figlia di questi ultimi, Liat, e suo marito sono stati presi in ostaggio da Hamas durante la ben nota azione terroristica del 7 ottobre 2023. Sono stati alcuni amici di famiglia, tra cui il regista Brandon Kramer, a convincere la famiglia a documentare questa esperienza fin dai primi momenti e poi fino alla liberazione di Liat (e anche oltre).
Ero arrivata a questa proiezione piuttosto prevenuta, temendo un’operazione propagandistica con un punto di vista unilaterale, e invece mi sono trovata di fronte a un film molto più mosso e complesso. La famiglia protagonista di questa storia è una famiglia di ebrei americani storicamente di sinistra (sulla loro auto c’è l’adesivo di supporto a Bernie Sanders), arrivata in Israele negli anni Settanta inseguendo l’utopia socialista dei kibbutz. Yehuda, il padre di Liat, è un feroce oppositore di Netanyahu e del suo governo, nonché di tutte le interferenze delle ideologie e ortodossie religiose nel governo del paese, così come ritiene che l’unica strada per dare un futuro a questa terra martoriata sia quella di una conciliazione tra israeliani e palestinesi.
È chiaro che di fronte all’azione di Hamas e alla preoccupazione per la figlia, tutta la famiglia, non solo i genitori di Liat, ma anche fratelli e sorelle, e i figli, sono profondamente scossi e inevitabilmente si trovano a dover fare i conti con la situazione e con i propri convincimenti.
Scopriamo così che parte della famiglia, il fratello di Yehuda in particolare, ma anche la sorella di Liat, hanno lasciato Israele, il primo perché in disaccordo completo con le modalità della nascita e della crescita dello stato israeliano a danno dei palestinesi, la seconda perché stanca di un contesto così conflittuale.
Emergono a poco a poco posizioni diverse, con altrettante sfumature di pensiero e differenze nelle posizioni: Chaya, la madre di Liat, è ad esempio più preoccupata della sorte della figlia che dell’interpretazione complessiva della vicenda, mentre il figlio di Liat – che era nel kibbutz durante l’assalto del commando di Hamas e ha avuto paura di morire – è su posizioni sicuramente meno concilianti.
Seguiamo così la famiglia Beinin in queste lunghe settimane durante le quali una rappresentanza della famiglia stessa, Yehuda insieme alla sorella di Liat e a suo figlio, vanno a Washington per sensibilizzare i politici americani a intervenire per la liberazione degli ostaggi, e lo fanno in molti casi anche con profondi dilemmi etici e di coscienza.
Interessante anche la parte di documentario dedicata al ritorno a casa di Liat, la quale, nonostante l’uccisione di suo marito, non fa niente per alimentare in sé stessa così come negli altri un desiderio di vendetta, anzi sembra uscita da questa esperienza con la convinzione che non esiste futuro per Israele senza riconoscimento del proprio dolore nel dolore degli altri e senza conciliazione.
Un film utile per evitare di guardare agli israeliani come a un blocco indistinto, errore che – se ci si pensa a mente lucida – è lo stesso di chi guarda ai palestinesi come a una massa indistinta e monolitica.
Voto: 3,5/5
mercoledì 5 novembre 2025
Festa del cinema di Roma, 15-26 ottobre 2025 (Seconda parte)
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Anatomia de un istante = Anatomia di un istante
La combinazione di una sceneggiatura che viene direttamente dal bellissimo libro di Javier Cercas (letto e amato a suo tempo) e della regia di Alberto Rodríguez (già apprezzato nei suoi lavori precedenti) mi convince immediatamente ad affrontare le tre ore di proiezione della miniserie Anatomia de un istante, che – in maniera molto rispettosa della struttura del libro – racconta la storia del tentativo di golpe spagnolo del febbraio 1981 attraverso il punto di vista di alcuni dei suoi principali protagonisti, in particolare Adolfo Suárez, presidente del consiglio dimissionario, colui che aveva traghettato la Spagna dalla dittatura alla democrazia dopo la morte di Franco, il generale Manuel Gutièrrez Mellado, vicepresidente del Consiglio e figura chiave per i rapporti del governo democratico con la parte militare del paese, e Santiago Carrillo, capo del partito comunista spagnolo vissuto a lungo in esilio e tornato in patria dopo la legalizzazione del partito.
La regia di Rodríguez è pulita e lineare, senza essere noiosa e didascalica: c’è un che di classico nella narrazione per immagini realizzata dal regista, ma con diversi twist di montaggio che le conferiscono un’allure molto contemporanea. Rodríguez e il suo sceneggiatore riescono a rendere comprensibile una storia piuttosto complessa e narrata in parte in maniera ricorsiva, in parte in modo lineare, in parte andando avanti e indietro nel tempo. Non so se perché già ne conoscevo i contenuti, personalmente non ho fatto fatica a seguirne tutti i passaggi.
La serie si sforza anche di mantenere la tridimensionalità dei suoi protagonisti e di non ridurli a macchiette, in positivo o in negativo, facendo emergere invece le contraddizioni dei processi e delle persone, e i percorsi non scontati e ben poco ideologici dei cambiamenti.
Da questo punto di vista, devo dire che la serie mi ha trasmesso di meno del libro, molto efficace – parlando di questa storia specifica – anche nel parlare della politica, un concetto che nel tempo abbiamo completamente perso di vista a vantaggio delle battaglie da social.
Comunque un gran prodotto che merita di essere visto da molta gente.
3,5/5
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Palestine 36
Avendo visto da poco il film della regista palestinese-americana Cherien Dabis Tutto quello che resta di te, che racconta tre generazioni di una famiglia palestinese dal 1948, ho scelto di vedere Palestine 36 in quanto racconta quello che accadde a questa terra (e al popolo che la abitava) a partire dal 1936 e lo fa in particolare attraverso la figura di Yusuf, un giovane che si divide tra la vita in città, a servizio degli inglesi sotto il cui protettorato si trovava la Palestina, e quella nel suo villaggio. Yusuf, e insieme a lui gli altri personaggi che animano questo racconto, diventano i testimoni della crescente immigrazione di ebrei sulla loro terra e delle politiche e decisioni via via sempre più favorevoli a questi ultimi da parte dei britannici, a svantaggio dei palestinesi.
Da qui l’inizio della rivolta armata di palestinesi che prima erano operai e abitanti pacifici di questi territori ma che finirono per imbracciare le armi a difesa della loro vita e delle loro case.
Come già avevo osservato al termine del film Tutto quello che resta di te, è giusto che – dopo tanta narrazione di matrice ebraica sulle vicende del loro popolo e sul rapporto con la Palestina – anche i palestinesi comincino a raccontare la propria versione dei fatti, a mettere in sequenza gli eventi e a proporre la propria narrazione.
Quindi ben vengano finalmente questi film che ci permettono di essere meno ignoranti e di avere più elementi di conoscenza, ma anche di sviluppare delle curiosità in più.
Però, dal mio punto di vista si tratta di prodotti non eccelsi dal punto di vista della qualità cinematografica, film ben fatti sicuramente, e anche ben recitati grazie alla presenza di attori navigati (il solito Saleh Bakri in questo caso), che però risultano dal mio punto di vista un po’ standardizzati. D'altra parte è comunque da qui che i registi palestinesi inevitabilmente debbono partire.
Voto: 2,5/5
Rental family - Nelle vite degli altri
Il film Rental family mi ha riportato immediatamente alla mente il documentario Family Romance, Llc. di Werner Herzog che avevo visto al Detour (sigh!!) e che per la prima volta mi aveva fatto conoscere questo business tutto giapponese di società che mettono a disposizione attori per impersonare una figura o un ruolo richiesto dal cliente. Tra l’altro, come in quel film, anche in questo una delle storie centrali è quella di un finto padre che viene fatto conoscere a una ragazzina che vive con la sola madre.
In questo caso si aggiunge l’aspetto della relazione tra culture diverse visto che al centro della narrazione di Rental family c’è un americano (Brendan Fraser), un attore che vive in Giappone da quando ha girato alcune pubblicità per il mercato giapponese. Visto che il lavoro scarseggia, Philip decide di accettare l’offerta di una di queste società che noleggiano persone per interpretare dei ruoli nelle vite degli altri.
A quel punto Philip si trova a fare i conti con i sentimenti delle persone nelle cui vite viene catapultato e con la propria coscienza occidentale che fa fatica ad accettare questo approccio. La regista Hikari, giapponese di nascita e formazione ma trapiantata ormai negli Stati Uniti da molti anni, sembra voler guardare alla sua cultura di origine con gli occhi nuovi di chi è andato via, e in qualche modo punta a produrre una sintesi nuova tra le sue radici e i nuovi apporti culturali.
Niente di particolarmente originale, ma una di quelle commedie di buoni sentimenti fatte con quel tocco leggero e profondo che solo i giapponesi riescono ad avere.
Voto: 3/5
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Good boy
Che Jan Komasa sia uno dei nuovi, emergenti talenti della cinematografia mondiale lo si era capito già con Corpus Christi. Grazie anche al successo di quel film, Komasa può tornare al cinema con un'opera ancora più ambiziosa, che può contare su una produzione importante e un cast di alto livello.
Dopo una notte di eccessi, traboccante di alcol, droghe e sesso, Tommy (Anson Boon), un ragazzo diciannovenne, si ritrova rinchiuso e legato a una catena nella cantina di una famiglia all'apparenza perbene (padre, madre e un figlio di 12-13 anni).
Ben presto si rende conto che l'obiettivo della famiglia che lo ha sequestrato è quello di rieducarlo e di trasformarlo in un good boy, con le buone e con le cattive.
La figura inquietante e manipolatrice di questa famiglia è la madre (la bravissima Andrea Riseborough), cui il marito (Stephen Graham)
Il film di Komasa sta sospeso tra diversi generi così come molti sono i temi che si fanno largo nella sua narrazione. Un po' Lanthimos un po' Fratelli d'innocenzo (in particolare mi ha ricordato il film America Latina) Komasa attira lo spettatore in una vera e propria trappola morale, lo chiama a scegliere da che parte stare e, nei meandri di un inquietante tono grottesco e di un'inattesa tenerezza, lo spiazza e lo disorienta, lasciandolo senza risposte preconfezionate.
Un'altra grande prova di un regista che è ormai una realtà consolidata.
Voto: 4/5
domenica 2 novembre 2025
Festa del cinema di Roma, 15-26 ottobre 2025 (Prima parte)
Sempre un po’ più insofferente rispetto al costo dei biglietti e alla necessità - almeno per alcuni film - di farli nelle primissime ore dall’apertura della biglietteria online (con il suo sistema demenziale di assegnazione dei posti e la commissione assurda per ogni biglietto fatto), eccomi comunque e sempre alla festa del cinema di Roma, anche quest’anno.
Come lo scorso anno, ho fatto una scelta che potesse comprendere sia film più mainstream – destinati a uscire in sala – sia film maggiormente di nicchia che forse in sala non vedremo mai, e ho preferito – esattamente come l’anno scorso – le proiezioni all’auditorium, in particolare in sala Borgna, per respirare un po’ di atmosfera del festival, senza spendere delle cifre assurde.
Alla fine sono riuscita a vedere parecchi film (15 in tutto), uscendo sfiancata ma felice da questa intensissima settimana di cinema.
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La festa del cinema si apre con la consegna da parte di Paola Malanga alla regista newyorkese Nia DaCosta del Premio Progressive Cinema alla carriera, con tanto di motivazione articolata e dettagliata. Personalmente non conoscevo il cinema di Nia DaCosta, né lei come regista, ma comprendo da questa presentazione che trattasi di regista e sceneggiatrice eclettica che non ha paura di cambiare e di osare.
Così dopo un horror e un film dell’universo Marvel, con Hedda eccola alle prese con Hibsen. Non conoscevo il dramma di Hibsen, Hedda Gabler, da cui è tratto il film e dunque per curiosità sono andata a rileggermi a posteriori la trama, e mi ha colpito molto il fatto che, dentro un impianto narrativo sostanzialmente rispettato, la DaCosta abbia introdotto varianti che apportano non solo modernità ma anche livelli di lettura ulteriori, dal cambio di genere o del colore della pelle di alcuni dei protagonisti all’uso del tema “sesso” come elemento catalizzatore o attivatore.
La storia è quella di Hedda Gabler (Tessa Thompson), una donna ambiziosa che ha sposato un uomo affettuoso, ma fin troppo mite, che aspira alla carriera accademica. I due decidono di dare una grande festa nella casa di campagna che non sanno se potranno mantenere, e durante questa festa gli eventi precipiteranno a causa di vecchie passioni, di rancori mai sopiti e di rivalità emergenti.
Il film di Nia DaCosta attinge a un’estetica classica e pop insieme, cui conferisce un approccio postmoderno, anche grazie all’uso di una colonna sonora cronologicamente dissonante. Da diversi punti di vista, quello estetico primariamente, ma anche quello dei contenuti, in particolare nella scelta di una protagonista con un approccio seduttivo e senza scrupoli, che utilizza il sesso come strumento di manipolazione, mi ha ricordato un film visto proprio alla festa del cinema nel 2023, ossia Saltburn di Emerald Fennell.
E forse per questo motivo l’operazione non mi è sembrata così originale e dirompente come avrebbe potuto essere, pur trattandosi di un film sicuramente ben fatto e di qualità.
Voto: 3/5
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Yes
Una volta fatta la tara della inutile polemica che ha accompagnato la presenza di questo film e del suo regista e parte del cast alla Festa del cinema di Roma, polemica che dimostra ignoranza e intolleranza in pari grado, passo a parlare di Yes, film sorprendente e imprevedibile, almeno per me che poco conoscevo della carriera cinematografica fin qui di Nadav Lapid.
Il film racconta la storia di Y (Ariel Bronz) e di Yasmin (Efrat Dor), una coppia con figlio piccolo che vive a Tel Aviv, lui un mediocre pianista, lei una ballerina; insieme integrano i loro magri guadagni esibendosi nelle feste dei ricconi ebrei e offrendo i loro corpi e le loro prestazioni sessuali per soddisfare i desideri più o meno assurdi di una borghesia annoiata. In un’atmosfera surreale e grottesca che un po’ mi ha fatto pensare a Triangle of sadness di Östlund, i personaggi si muovono in uno stato di esaltazione alternato a momenti di depressione, una specie di bipolarismo folle e senza soluzione.
La deflagrazione di questa condizione – già di per sé assurda – arriva quando a Y viene offerto di musicare un nuovo inno nazionale israeliano che chiama alla distruzione di Gaza, e l’uomo si trova lacerato tra l’irricevibilità morale di questo incarico e la tentazione di fregarsene degli scrupoli morali e intascare i soldi. In questa condizione di malessere, si allontanerà da Yasmin e andrà a incontrare la sua ex fidanzata spingendosi fino ai confini di Gaza.
Tutto nel film di Lapid è storto, confuso, doloroso, contraddittorio, sia a livello visivo e sonoro, sia a livello di contenuti. Un’esperienza sensoriale che trascina nella follia di un paese che nella sua quotidianità fa finta di essere normale, nonostante tutto intorno gridi l’impossibilità di una normalità e di una felicità che inevitabilmente diventa violenta e colpevole.
Ne viene fuori un atto d'accusa nei confronti di quello che Israele e gli israeliani sono diventati, ma anche un grido di disperazione di fronte a una complessità soverchiante che fa sentire i protagonisti continuamente inadeguati e la cui unica via d’uscita sembra la fuga.
Si ride con orrore. E non è poco.
Voto: 3,5/5
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Anemone
Ronan Day-Lewis è pittore e figlio d'arte, approdato con questo film dietro la macchina da presa per il racconto della storia di due fratelli allontanati dagli eventi della vita, che si ritrovano, confrontandosi e affrontandosi, quando uno dei due (Sean Bean) – per una serie di motivi che si scopriranno nel corso del film – decide di prendere la sua moto e di andare a trovare l’altro (Daniel Day-Lewis) che vive come un eremita in mezzo ai boschi.
Ronan Day-Lewis si può permettere una grande produzione, grandi attori nel cast e riporta al cinema il padre, Daniel Day Lewis, dopo 10 anni di assenza dal grande schermo; diciamo dunque che è nelle condizioni migliori possibili in cui si può trovare chi si trova a dirigere un film per la prima volta.
Secondo me però Ronan ha voluto in qualche modo strafare, e in questo film c'è troppo: non solo le difficoltà dei rapporti familiari, ma anche la pedofilia dei preti, un padre violento, il periodo degli attentati dell’IRA, e chi più ne ha più ne metta.
E, nonostante tutti questi contenuti, resta un film sostanzialmente noioso, che tende a girare a vuoto, tanto che a certo punto non capivo come tutti questi rivoli potessero essere ricondotti alla conclusione, tra l’altro assolutamente prevedibile.
Un film infine molto maschile, di tanti silenzi, molta fisicità e poche parole.
Insomma, l’ho trovato particolarmente indigesto.
Voto: 2/5
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Nino
Nino (il bravissimo Théodore Pellerin, uno di quegli attori che è in grado di recitare con ogni minimo movimento del corpo o del viso) scopre quasi per caso e un po' alla sprovvista che i piccoli fastidi alla gola che ha da qualche tempo sono dovuti a un cancro. Da questo momento la regista Pauline Loqués segue il suo protagonista per i tre giorni successivi fino all'inizio della prima seduta di chemioterapia, tempo nel quale Nino dovrà innanzitutto affrontare dei problemi pratici (ha perso le chiavi di casa e deve riportare in ospedale una provetta col suo sperma per congelare i suoi spermatozoi), e soprattutto dovrà accettare questa nuova condizione e anche provare a condividerla con le persone a cui vuole bene.
Lo seguiremo così prima a casa della madre, poi a casa di un amico che ha organizzato una festa a sorpresa per il suo compleanno, poi a casa della ex fidanzata con cui ha rotto da tempo, infine a casa di una vecchia amica di scuola che non incontra da tempo e che ora è madre single di un bambino.
Quella di Nino sarà una graduale presa di coscienza non solo e non tanto della nuova condizione che lo attende, ma anche e soprattutto di quello che lo circonda, di ciò che è consolidato ma che a volte diamo per scontato o non vediamo, e di ciò che potrebbe avere un significato importante – anche solo per un breve momento – e a cui non ci lasciamo andare.
È un film di sentimenti sottili, che non vuole in alcun modo essere lacrimevole o puntare al melodramma, bensì vuole farci vedere, attraverso gli occhi del suo protagonista, la ricchezza di umanità e sentimenti che ogni vita porta con sé.
E comunque, dobbiamo prendere atto che solo i francesi possono fare film così – parlando di cose piccole e grandi - senza essere banali né noiosi.
Voto: 3,5/5








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