venerdì 12 dicembre 2025

Baby reindeer = Piccola renna / di Richard Gadd; con Filippo Mandelli. Argot Studio, 28 novembre 2025

Qualche tempo fa i social erano invasi di recensioni e notizie che riguardavano la serie Baby reindeer, tratta dal testo di Richard Gadd, a sua volta ispirato alla sua vicenda personale.

Si tratta di una vicenda risalente a diversi anni prima, quando Gadd, aspirante stand-up comedian, era ancora in una fase iniziale e poco remunerativa della sua carriera artistica, e lavorava in un bar per sbarcare il lunario.

Durante un turno di lavoro al bar, Richard conosce Martha, una donna parecchio più grande di lui, e i due iniziano a flirtare. Richard non può immaginare che da quell'incontro inizierà una delle fasi più assurde della sua vita: anni e anni in cui è oggetto di uno stalking che si fa nel tempo sempre più pesante e invasivo. Migliaia di email, messaggi vocali, non solo a lui ma anche ai suoi familiari e ad altre persone care, presenza inattesa e molesta di Martha ai suoi spettacoli e persino sotto casa sua, anche dopo aver cambiato abitazione.

La vita di Richard diventa progressivamente un inferno, e tutti i nodi irrisolti della sua esistenza vengono al pettine, riportando a galla tutte le sue insicurezze e mandando in frantumi quel poco che ha costruito.

Nello stalking, come in tutte le altre relazioni tossiche, è sempre l’incontro tra due personalità complementari a consentire la patologizzazione della relazione, e anche Martha e Richard non sfuggono a questa regola.

Eppure, mentre ascoltiamo il monologo, interpretato con grande partecipazione e la giusta dose di scanzonatezza e vittimismo da Francesco Mandelli, non possiamo non provare empatia per il protagonista e angoscia per il buco nero nel quale si va ad infilare e dal quale riuscirà a tirarsi fuori solo molti anni più avanti e dopo una vera e propria discesa agli inferi.

Lo stalking è una delle forme di violenza più subdole nell’ambito di una relazione, ed è anche la meno riconosciuta e soprattutto più sottovalutata. In questo caso poi, in una situazione di ribaltamento di genere, in cui è l’uomo l’oggetto dello stalking, la sottovalutazione e il pregiudizio sono ancora maggiori. E dunque diventa ancora più difficile ottenere una tutela pubblica.

Lo spettacolo all’Argot è un monologo messo in scena in modo molto essenziale, in cui il protagonista si muove sostanzialmente tra due ambienti, il bar e la stazione di polizia, identificati semplicemente da due scritte luminose, monologo interrotto solo dalla voce di Martha (Barbara Ronchi) nei suoi deliranti messaggi vocali, e dai testi delle email proiettati sullo schermo di fondo, schermo sul quale sono proiettate anche brevi testimonianze di amici e parenti del protagonista.

Però, nella sua semplicità - anche grazie a un testo denso e in cui ognuno può ritrovare piccole parti di esperienze proprie o altrui – riesce ad essere estremamente efficace, ed emotivamente molto coinvolgente.

Non ho visto, e non credo che vedrò la serie – mi è bastato lo spettacolo -, ma posso capire le polemiche che può aver suscitato, dal momento che inevitabilmente mette in scena solo un punto di vista. Ma, per quanto si tratti di una storia che arriva direttamente dalla biografia del drammaturgo, bisogna sempre ricordarsi che arte e vita viaggiano su due binari non coincidenti, e che nel momento in cui una storia viene raccontata diventa un punto di vista e una narrazione.

Quindi, quello che ci interessa nel caso dell’arte è quanto quella storia è raccontata bene. E questa lo è sicuramente.

Voto: 3,5/5

mercoledì 10 dicembre 2025

Put your soul on your hand and walk

Avevo perso questo film all’ultima festa del cinema di Roma (non ero riuscita a incastrarlo in un programma già fittissimo), e dunque non appena è uscito in sala sono andata a vederlo.

Si tratta del documentario realizzato dalla regista iraniana Sepideh Farsi per raccontare Gaza attraverso gli occhi e le parole di Fatma Hassouna. La regista, fuggita da Teheran molti anni fa e con base a Parigi, nella primavera del 2024 vola al Cairo per raggiungere il valico di Rafah ed entrare a Gaza, dove ha numerosi amici.

La striscia di Gaza è però già blindata e per Sepideh è impossibile entrare; grazie ad alcuni amici palestinesi, la regista si mette in contatto con Fatma che vive a Gaza con la sua numerosa famiglia (dieci persone), ha 24 anni, e racconta la città grazie alle sue fotografie. Dopo la prima videochiamata, i contatti diventano periodici e la relazione tra Sepideh e Fatma si approfondisce e si consolida sempre di più, in una condivisione di sentimenti e uno scambio di punti di vista.

Fatma diventa l’occhio di Sepideh, e quello di tutti noi spettatori, su Gaza, grazie a fotografie piene di umanità e bellezza, ma anche di distruzione e di morte, di speranza e sorrisi, ma anche di tristezza e disperazione. Tutti sentimenti che nella loro contraddittorietà vediamo nel volto di questa giovanissima donna, e riconosciamo nelle sue parole, che restano poetiche e alte anche quando il suo inglese non l’aiuta a esprimersi con il massimo della complessità che vorrebbe.

Di Fatma non solo vediamo le foto che scatta, le immagini in diretta della città intorno a lei, delle esplosioni e delle distruzioni, ma ascoltiamo anche le sue poesie e le sue canzoni, guardiamo il suo sorriso instancabile, quello che a volte Sepideh ammette di non capire, di trovare stridente rispetto alla realtà, e che anche noi spettatori quasi non riusciamo ad accogliere.

Eppure Fatma sembra voler trovare la forza di sorridere, anche quando tutto intorno suggerirebbe il contrario: la morte dei parenti e degli amici più cari, la distruzione della città, l’impossibilità di una vita normale, l’assenza di cibo e la fame. Ma Fatma non si vuole far sottrarre anche i sogni e i desideri, pur nelle inevitabili contraddizioni che una situazione come quella che vive porta con sé. Gaza è il posto a cui appartiene, quello che i palestinesi sono intenzionati a ricostruire per quante volte verrà distrutto, quello da difendere e in cui resistere a costo della vita; ma è anche una prigione in cui ci si sente a volte senza scampo e senza speranza.

Mentre tra una videochiamata e l’altra passano spezzoni di telegiornali che raccontano la guerra e le azioni sempre più brutali di Israele nella striscia di Gaza, le conversazioni tra Sepideh e Fatma vanno avanti, nonostante la connessione sempre meno affidabile e più instabile. Sullo schermo a poco a poco compaiono diversi membri della famiglia di Fatma – i fratelli, il padre – e momenti di leggerezza e di quasi normalità si alternano a momenti in cui la paura e la stanchezza sono troppo forti. La cosa più incredibile è che a più riprese è Fatma la persona che dà speranza e che crede nella possibilità di un cambiamento, di fronte a una Sepideh decisamente più pessimista.

E proprio quando il documentario di Sepideh viene selezionato per Cannes e la regista coltiva il sogno di portare Fatma in Francia per la presentazione del film, arriva la bomba che durante la notte uccide la giovane donna e altri sei membri della sua famiglia.

Del resto, la frase che dà il titolo al film Put your soul in your hand and walk è – come dice Fatma – la condizione in cui i palestinesi vivono tutti i giorni, sperando che non sia il loro ultimo.

Un lavoro cinematografico semplice e forse imperfetto, ma di una potenza comunicativa notevole.

Nessuno potrà più dire di non sapere e di non aver visto.

Voto: 3,5/5


domenica 7 dicembre 2025

Robe dell'altro mondo (cronache di un'invasione aliena) / Carrozzeria Orfeo. Spazio Diamante, 27 novembre 2025.

Seguo Carrozzeria Orfeo da non moltissimo tempo e ho visto solo un loro spettacolo, Salveremo il mondo prima dell'alba, ma già da questi pochi contatti posso dire che si tratta di uno dei collettivi teatrali più interessanti tra quelli in circolazione.

Quindi, ormai quando vedo uno dei loro spettacoli in qualche cartellone mi ci fiondo a pesce.

A questo giro, non perdo l'occasione di recuperare un loro lavoro del 2012, Robe dell'altro mondo, che Gabriele Di Luca riadatta completamente dal punto di vista drammaturgico, pur mantenendo intanto il senso della narrazione.

Nella messa in scena attuale Robe dell'altro mondo è uno spettacolo teatrale e insieme una performance, la cui realizzazione è il frutto della collaborazione tra Carrozzeria Orfeo e Le canaglie, un gruppo di illustratori.

Lo spettacolo vede protagonisti sul palco l'attore Massimiliano Setti, che interpreta i personaggi della storia insieme a Sebastiano Bronzato, accompagnati da Federico Bassi e Giacomo Trivellini che sul palco disegnano ambientazioni, fondali, illustrazioni di commento delle storie.

La narrazione si costruisce letteralmente davanti ai nostri occhi attraverso l'assemblamento musicale dal vivo, i disegni realizzati al momento e proiettati sullo schermo, che a più riprese coinvolgono attori in carne e ossa e interagiscono con gli attori sulla scena, nonché vere e proprie sottotrame completamente realizzate in forma grafica e proiettate e sfogliate per il pubblico. I due attori in scena riescono a rappresentare molti personaggi diversi attraverso l'uso di maschere di gomma che gli coprono completamente la testa e che mi hanno un po' ricordato i Familie Flöz visti qualche anno fa alla Sala Umberto. Si tratta di una scelta che certamente rafforza l'approccio cartoonistico dello spettacolo, e contestualmente valorizza la gestualità degli attori, che non possono fare affidamento sulla mimica facciale.

In questo mix di arti performative molto ben orchestrate e di grande impatto secondo me dal punto di vista della fruizione, il tema di fondo è quello dello spettacolo di oltre dieci anni fa, ossia le paure metropolitane rappresentate attraverso varie situazioni: l'alterco tra due anziani all'uscita del supermercato in cui compare anche un extracomunitario, il dialogo tra un ministro in attesa di entrare in un "centro massaggi" e il suo portaborse, l'interazione tra un ragazzino e una ragazzina nipoti dei due vecchi del primo quadro, e infine la surreale conversazione tra lo stesso ragazzino e il papa che è stato rapito dagli alieni e che ha potuto sfuggire finalmente al suo ruolo. Sì, perché gli alieni sono i supereroi di questo racconto, esseri che non vedremo mai, ma che forse rappresentano l'ultima speranza dell'umanità di salvarsi, almeno fino a quando non si decide di trasformare anche loro in nemici.

Bravi tutti. A questo punto aspettiamo il nuovo spettacolo Misurare il salto delle rane al Vascello tra gennaio e febbraio.

Voto: 3,5/5

mercoledì 3 dicembre 2025

Crossing Istanbul

Siamo a Batumi, in Georgia. Lia (Mzia Arabuli), una ex insegnante di storia, dopo la morte di sua sorella, decide di partire per Istanbul alla ricerca di sua nipote Tekla, una ragazza trans, che a suo tempo è stata rifiutata dalla famiglia. A lei si unisce Achi (Lucas Kankava), un giovane che vive con il suo fratellastro e la moglie di lui e cerca un’occasione per andare via.

Una volta a Istanbul, nelle loro peregrinazioni nei quartieri abitati dalle donne trans, la loro strada incrocerà quella di Evrim (Deniz Dumanli), che sta finalmente per ottenere i suoi nuovi documenti come donna, e nel frattempo lavora per un’associazione che aiuta le donne trans e cerca l’amore.

Il film di Levan Akin, che nella versione originale si intitola semplicemente e significativamente Crossing, è un racconto on the road, fatto di tanti incontri, ma anche di assenze.

Tutti i protagonisti e i comprimari di questo racconto sono alla ricerca di qualcosa o di qualcuno, dopo che la vita li ha spinti ai suoi margini e li ha privati della possibilità di amare e di essere amati.

Nell’incrocio dei loro destini in una città che è di per sé stessa un crocevia di popoli e culture, nessuno di loro troverà quello che sta cercando o che pensa di volere, ma sarà quello di cui hanno bisogno a trovare ciascuno di loro. Achi troverà quella figura materna che non ha mai avuto, Lia dei figli da amare nonostante tutto, Evrim forse finalmente riconoscerà di meritare di più.

Di fronte a famiglie lacerate o inesistenti, è solo attraversando i confini di sé e superando le difese che ognuno si è costruito per difendersi dal mondo che diventa possibile costruire relazioni e darsi nuove possibilità.

Bellissima questa Istanbul filmata in modo così poco stereotipato, ma al contempo così riconoscibile; apprezzabilissima la scelta di non cedere al lieto fine, ma di aprire comunque la porta alla speranza dei sentimenti.

Bel film. Da vedere.

Voto: 3,5/5


lunedì 1 dicembre 2025

Micah P. Hinson. Monk, 19 novembre 2025

Il 31 ottobre scorso è uscito l’ultimo disco di Micah P. Hinson, The tomorrow man, che ho prontamente acquistato su Bandcamp in formato digitale (come faccio sempre) e ascoltato parecchie volte nel corso di queste prime settimane di novembre, al punto da diventare la mia colonna sonora preferita di queste giornate.

Il disco non prende direzioni originali o innovative rispetto a quanto Micah ha prodotto fin qui, ma devo dire che l’insieme delle canzoni del nuovo album è di una qualità media davvero elevata, e ce ne sono almeno 2 o 3 che potrei ascoltare a ripetizione. Tra l’altro, il prosieguo della collaborazione con Alessandro “Asso” Stefana negli arrangiamenti, supportato dalla splendida batteria di Paolo Mongardi, conferisce alle canzoni di Micah uno spessore e una rotondità particolarmente azzeccate.

Arrivo dunque al concerto preparata, e con grandi aspettative, anche perché la location del Monk è la mia preferita per questo tipo di concerti.

Non è previsto alcun opening e intorno alle 21,40 Micah P. Hinson sale sul palco con i suoi due musicisti e di cui si è già parlato: Mongardi che si posiziona alla sua batteria, e Asso Stefana che alterna tastiere, armonica da bocca, basso e steel guitar.

Il concerto parte subito con tre canzoni del nuovo album, Oh sleepyhead, One day I will get my revenge, e Think of me (una delle mie preferite, che Micah canta insieme alla sua nuova compagna, Stasera Micah è elegantissimo, vestito tutto di scuro, con un bel bolo tie al collo, un cappellone con la piuma, sotto il quale si cela la sua ormai stabile acconciatura da nativo americano.

D’altro canto, ormai sempre più convintamente Micah, nato a Memphis e cresciuto in Texas, rivendica le sue origini Chickasaw, un popolo nativo americano, in aperta polemica con la propaganda dell’uomo bianco, negli Stati Uniti e non solo. E del resto, sia la moglie dalla quale ha divorziato qualche anno fa, sia la nuova compagna, hanno entrambe la stessa origine.

Ma nei primi quaranta minuti, forse nella prima ora, del concerto, Micah è incredibilmente silenzioso, totalmente concentrato nel suonare la sua chitarra – imbracciata sempre alla sua maniera, con la cinta corta e quindi molto alta sul petto – e nel cantare le sue canzoni.

Il concerto prosegue con diverse altre canzoni del nuovo album, e di quando in quando nella scaletta fanno capolino canzoni provenienti da altri album, tra cui Beneath the rose. È proprio prima dell’esecuzione di questa canzone – che è una tra le più famose di Micah e risale a circa 25 anni fa – che finalmente il musicista si scioglie e comincia i monologhi a cui ci ha abituati durante i suoi concerti, che mescolano memorie personali, riflessioni politiche e religiose e molto altro.

Mentre si va verso la fine del concerto, Micah regala bellissime esecuzioni, splendidamente accompagnate dai suoi musicisti, di What does it matter now? e Carelessly, due pezzi che arrivano direttamente dal disco precedente.

Con la bellissima Walls si chiude un concerto di un’intensità straordinaria, che io mi sono goduta enormemente, e devo dire che rispetto all’ultimo concerto romano del 2024 ho trovato Micah in splendida forma, sia a livello fisico che a livello musicale ed emotivo. Evidentemente attraversa un buon periodo di vita, e del resto ormai sono stata a talmente tanti concerti di Micah che mi sembra di rincontrare un amico quando ci vado, e come con gli amici sono sempre molto contenta quando lo trovo così bene.

Micah, Asso e Mongardi escono dal palco, per poi rientrare per la reprise (su cui Micah ironizza) e dopo la versione acustica di Oh, sleepyhead, il concerto si chiude con la per me straordinaria I was just standing there e infine People e 500 miles. In questa reprise Micah è ancora più chiacchierino del solito e si lascia andare a mille riflessioni mentre – come sempre – fuma la sua sigaretta con il bocchino.

Personalmente, ho trovato il concerto musicalmente eccellente, Micah ad alti livelli, e la scelta delle canzoni mi ha resa felice: ho potuto ascoltare dal vivo tutto il suo nuovo album, e alcune delle più belle canzoni del suo repertorio recente e meno recente.

Voto: 4/5

venerdì 28 novembre 2025

Un weekend milanese: Fondazione Prada, Black Country New Road, Hangar Bicocca

Molti mesi fa avevo comprato il biglietto per il concerto dei Black Country, New Road ai Magazzini generali di Milano, perché da tempo seguo questo interessante gruppo inglese e avevo letto che l’esperienza dal vivo nel loro caso vale davvero la pena.

Considerato che a Roma ormai arrivano sempre meno i tour dei musicisti che mi interessano, ho pensato che non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione.

E così quando è arrivato il momento, nonostante un periodo decisamente pieno di impegni, ho deciso di partire per Milano e di approfittare della trasferta non solo per partecipare al concerto, ma anche per sfruttare l’offerta milanese di attività culturali, e non solo.

********************
La Fondazione Prada e la mostra di Iñárritu


Il sabato pomeriggio, approfittando del fatto che ho l’alloggio in zona, vado a visitare la Fondazione Prada, di cui ho sentito molto parlare, ma dove non sono ancora stata.

Alla biglietteria mi consigliano di andare prima a visitare la torre, ossia l’edificio di nuova costruzione che è andato a innestarsi sull’insieme di edifici industriali che compongono il complesso architettonico.

Alla torre c’è una mostra che si chiama Atlas: io attraverso tutti i piani, apprezzo alcune opere, ma soprattutto apprezzo le pareti a vetri e la vista dall’alto di questa interessante porzione di città.

Tornando all’edificio dove si trova la biglietteria, il Podium, che sta di fronte alla biblioteca e al bar, vado a visitare la mostra Sueño Perro: Instalación Celuloide de Alejandro G. Iñárritu, che era quella che mi attirava di più. Questa mostra nasce dalla scoperta da parte del regista messicano che, dopo la realizzazione del suo famoso film Amores perros, i trecento chilometri di pellicola scartati sono stati conservati dall’Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM). Il regista ha dunque deciso di dare una seconda vita a queste pellicole dimenticate, proiettandole nelle sale del Podium tramite grandi proiettori che mostrano lo srotolarsi della pellicola e che assumono un’atmosfera particolare grazie al fascio di luce che squarcia il buio delle sale. Ne viene fuori per lo spettatore un’esperienza davvero particolare, non solo visiva, ma anche sonora e tattile. Personalmente l’ho trovata molto affascinante.

Al piano di sopra dello stesso spazio espositivo c’è la mostra – primariamente fotografica - Mexico 2000: The Moment that Exploded con cui lo scrittore e giornalista messicano Juan Villoro mette in relazione il film di Iñárritu, uscito nel 2000, con la situazione politico-sociale del Messico in quel periodo, che rappresentò per il paese non l’inizio di una nuova era di democrazia, ma l’inizio di un tracollo che è ancora in corso.

Diciamo che probabilmente c’erano altri spazi e mostre da esplorare ma la Fondazione stava per chiudere e io dovevo rientrare per il concerto della sera. Comunque ci sarà certamente occasione di tornarci.

********************
Black country, new road ai Magazzini generali


L’orario di inizio del concerto dei Black Country, New Road indicato sul biglietto è le 20.00, che è uno strano orario perché nella mia ottica romana non è né un concerto presto né un concerto al solito orario. Nell’idea, anche questa molto romana, che sia solo un orario indicativo, vado ai Magazzini generali alle 20 esatte, ma a quell’ora non solo c’è la fila fuori, ma un sacco di gente è già entrata. Scopro tra l’altro che ai Magazzini generali non fanno portare e usare le macchine fotografiche (che rottura di scatole!) e dunque quando entro devo pure pagare due quote del guardaroba per la macchina fotografica e la giacca. In più cerco di avanzare tra la folla, ma sono oltre metà sala con un sacco di persone alte davanti a me, e vedo che sui ballatoi non c’è nessuno quindi ipotizzo che non ci si possa andare. Peccato che, solo quando la sala si riempie, facciano salire sui ballatoi e così chi è arrivato molto dopo di me ha probabilmente una visuale molto migliore della mia.

Tra l’altro quando arrivo sta già suonando un gruppo, formato da tre ragazzi e una ragazza, un classico gruppo indie rock, che però non so chi siano, posso solo immaginare che si tratti del gruppo spalla dei Black Country, New Road. Scoprirò solo dopo che si tratta dei Westside cowboys, la cui musica – devo ammettere – mi lascia parecchio indifferente, fors’anche perché sono infastidita dall’organizzazione del concerto in questo locale (molto, ma molto meglio il Monk!).

Comunque, quando sul palco arrivano i Black Country, New Road la musica cambia completamente e in tutti i sensi. Il gruppo è al gran completo con i suoi sei componenti, Tyler Hyde (basso), Lewis Evans (sassofono), Georgia Ellery (violino), May Kershaw (tastiere), Charlie Wayne (batteria) e Luke Mark (chitarra), disposti su due file, in prima fila le donne – protagoniste assolute dell’ultimo album, Forever Howlong – in seconda fila gli uomini.

Il concerto è in buona parte dedicato all’ultimo album che il gruppo suona quasi per intero, con un’unica pausa che è dedicata alla cover della canzone The ballad of El Goodo dei Big Star.

Mentre li ascolto e mi guardo intorno – ci sono ragazzi giovanissimi, ma anche persone di una certa età, e tutti sembrano pazzi della loro musica, che pure non si può dire veramente mainstream – capisco cosa hanno di speciale e di magnetico questi musicisti, ossia degli arrangiamenti davvero molto belli e particolari, direi quasi orchestrali, che fanno vivere il concerto come fosse non un insieme di pezzi, ma quasi un tutt’uno, una specie di musical.

Inoltre, nella loro musica c’è un mix di contemporaneo e di retrò che la rende particolare e forse anche per questo apprezzabile da persone provenienti da mondi musicali diversi.

Alla fine di questa ora e mezza abbondante di musica, i BC,NR annunciano che non fanno bis e che stanno per suonare l’ultima canzone, così – anche se il pubblico avrebbe voluto che il concerto proseguisse ancora (ma questo direi che è quasi la norma) – i musicisti ci salutano con un "arrivederci, a presto".

Bel concerto, nonostante i Magazzini generali.

********************
Hangar Bicocca e la mostra di Nan Goldin


L’ultima mattina del mio weekend milanese è dedicata alla visita ad Hangar Bicocca, un luogo che da tempo volevo visitare, e che in questo caso mi attira particolarmente visto che è in programma una retrospettiva su Nan Goldin, fotografa che ho conosciuto e apprezzato solo dopo aver visto il film vincitore qualche anno fa a Venezia All the beauty and the bloodshed.

La mostra in programmazione ad Hangar Bicocca, spazio espositivo molto interessante anche di per sé stesso, è intitolata This will not end well ed è una retrospettiva importante dedicata all’attività di Nan Goldin come filmmaker e artista multimediale. La mostra arriva a Milano dopo Stoccolma, Amsterdam e Berlino, e proseguirà verso Parigi, e si compone di 8 tra slideshow e video.

Lo slideshow, come avevo imparato nel summenzionato film, è una delle forme più tipiche di espressione di Nan Goldin, una strada intermedia tra il mezzo fotografico (inevitabilmente statico e più destinato all’osservazione attenta) e l’opera filmica vera e propria fatta di immagini in movimento. In questo caso, abbiamo immagini statiche che scorrono secondo una sequenza definita dall’artista e accompagnate da una colonna sonora, valorizzando dunque la forza narrativa delle immagini.

Il più famoso di questi slideshow della Goldin è The ballad of sexual dependency, che per la mostra in questione l’artista ha aggiornato e in parte rimontato.

Oltre a questo, in mostra ci sono altri 4 slideshow, Memory lost, Fire Leap, The other side e Stendhal Syndrome, e 3 video, due monocanale (Sirens e You Never Did Anything Wrong) e uno a tre canali con una installazione scultorea, dal titolo Sisters, Saint, Sibyls.

Ciascuna di queste proiezioni occupa un padiglione progettato appositamente dall’architetta Hala Wardé in collaborazione con la stessa Goldin, al fine di creare uno spazio che dialoghi con i contenuti proiettati.

Si consideri che per vedere l’intera mostra sono necessarie più di tre ore, perché le proiezioni possono durare ciascuna fino a 40 minuti. Io che avevo circa un’ora e mezzo di tempo, ho potuto vedere con calma solo The ballad of sexual dependency e Sisters, Saints, Sybils, quindi l’inizio e la fine, accomunate dalla dedica alla sorella di Nan, Barbara, morta suicida in un istituto psichiatrico.

L’universo di Nan Goldin – come sa chi ha visto il film – non è certo un universo spensierato e risolto, e non si può dire che si esca dalla mostra con l’animo sollevato, eppure la sua opera comunica una vitalità, una forza ed una energia davvero notevoli che meritano un’adesione emotiva e spirituale.

Da non perdere, ed eventualmente da andarci in più volte, visto che l’ingresso è gratuito.

mercoledì 26 novembre 2025

Middle England / Jonathan Coe

Middle England / Jonathan Coe; trad. di Mariagiulia Castagnone. Milano: Feltrinelli, 2018.

In occasione di una vacanza nel Sud-Ovest dell’Inghilterra, decido di immergermi nella lettura di Middle England, il romanzo scritto da Jonathan Coe dopo il referendum sulla Brexit del 2016 e le cui vicende coprono un periodo che va dal 2010 al 2017.

Coe riparte da alcuni dei personaggi del suo famoso romanzo La banda dei brocchi, in particolare i due fratelli Benjamin e Lois, per raccontare una nuova fase della storia inglese, caratterizzata da una temperie politica e sociale molto particolare.

In questo nuovo romanzo seguiamo le vicende non solo di Benjamin, che si è ritirato a vivere in una casa di campagna e sta tentando di scrivere il suo primo romanzo, e di Lois, che è sposata senza amore e avendo in parte rinunciato ai suoi sogni, ma anche quelle di numerosi altri personaggi: Doug, giornalista politico in crisi, con un rapporto complicato con sua figlia Coriander, radicalizzata a sinistra; Sophie, la figlia di Lois e nipote di Ben, che sta tentando la carriera accademica e intanto cerca la sua strada sentimentale; Charles, un amico di Benjamin, che la vita sta mettendo a dura prova; Sohan, amico gay londinese di Sophie; e molti altri.

Ognuno di loro rappresenta un punto di vista e una sfaccettatura, sul piano umano, sociale e politico, del complesso puzzle rappresentato dall’Inghilterra in quel momento storico, un paese non solo e non tanto spaccato tra conservatori e liberali, ma ostaggio di crisi economica, recriminazioni, cinismo, radicalizzazione, processi identitari, conflitti generazionali, esasperazioni da social, inconsistenza della politica.

Oltre ad essere una lettura gradevole, animata da personaggi vividi e sufficientemente complessi, resi tali anche grazie alle capacità di scrittura di Coe, la cosa sorprendente è che questo libro, scritto e pubblicato nel 2018, non solo non appare invecchiato, ma anzi oggi appare ancora più significativo in riferimento al quadro politico e sociale che si è andato delineando nel mondo occidentale nel corso degli ultimi 7-8 anni.

In fondo la vicenda inglese e il suo infausto esito con la Brexit è stato uno dei – forse tanti? – segnali che hanno prefigurato quello che si andava muovendo nelle viscere della popolazione europea (e non solo) e che avrebbe portato, nel corso degli anni successivi, alla diffusione di fenomeni quali il populismo, l’antieuropeismo, la crisi della sinistra, le presunte battaglie morali e identitarie, la rabbia sociale da un lato e l’anestetizzazione da social dall’altro.

Fa dunque una fortissima impressione leggere questo libro oggi, perché ci si accorge non solo che quella fase non è finita, ma che si è estesa temporalmente e geograficamente. E personalmente io non so bene quando e come se ne uscirà. In più, leggere questo romanzo mentre si è fisicamente in Inghilterra e intorno a sé tutto rimanda al mondo che Coe racconta non ha prezzo.

In Middle England ci sono note di speranza e c’è lo spazio per sogni individuali e collettivi. Voglio pensare – sebbene non sia facile – che sia ancora così, o quanto meno è necessario sforzarsi di pensarlo.

Voto: 3,5/5

lunedì 24 novembre 2025

Bugonia

Remake del film sci-fi sudcoreano del 2003 Jigureul jikyeora! di Jang Joon-hwan, l’ultimo lavoro di Yorgos Lanthimos sembra proseguire senza soluzione di continuità quanto iniziato con Kinds of kindness: ancora Emma Stone e Jesse Plemons al centro della narrazione, stesse location e stesse scelte estetiche, e per certi versi tematiche non dissimili, e comunque in linea con il suo gusto per il paradosso.

Il titolo del film, Bugonia, è una parola greca che viene da un episodio delle Georgiche di Virgilio che racconta come dalla carcassa di un bue morto nasca nuova vita sotto forma di uno sciame di api.

E non a caso, al centro del film di Lanthimos, c’è Teddy Gatz (Jesse Plemons) che vive, insieme a suo cugino autistico Don (Aidan Delbis), in una casa isolata in Georgia e con lui gestisce appunto un allevamento di api. Teddy, che ha una storia familiare e personale alle spalle non certo semplice, vive in uno stato di folle paranoia, alimentato da teorie complottiste su cui fa instancabili ricerche, secondo le quali una specie aliena, gli andromediani, si sarebbero mescolati agli umani per farli estinguere, esattamente come sta accadendo con le api.

In questa sua paranoia Teddy è convinto che Michelle Fuller (Emma Stone), dirigente di una grossa multinazionale, sia un’aliena e decide di rapirla per costringerla a rivelare la verità. È così che nel basement della casa inizia questo confronto a due tra Teddy e Michelle, l’uno sempre più folle ed estremo, l’altra intenzionata a usare tutte le armi manipolatorie di cui è dotata.

Ne viene fuori una narrazione dall’impianto quasi teatrale in cui i generi e i registri si mescolano e si confondono, dal grottesco al thriller psicologico, dallo splatter al dramma sociale, dallo sci-fi alla violenza improvvisa e quasi gratuita.

Non c’è dubbio che – come altri registi in questo periodo storico – anche Lanthimos abbia voluto e voglia esplorare alcune dimensioni patologiche della contemporaneità, in particolare lo scontro in atto tra visioni sempre più polarizzate e singolarmente indifendibili, ma mi pare che l’approccio del regista greco, almeno in Bugonia, sia più quello del divertissement che quello del film “impegnato” o comunque alla ricerca di un significato specifico, che è poi ciò che vado pensando e dicendo già da un po’ sulla sua cinematografia.

Lanthimos ha fatto scuola con il suo cinema paradossale e grottescamente allegorico (e anche in questo caso trovo azzeccata la straordinaria mossa ironica di nobilitare in qualche modo il complottismo), ma ormai non è più l’unico e forse nemmeno il più originale su questo piano (si veda Good boy, l’ultimo film di Komasa), e soprattutto ha perso un po’ di sostanza, spostandosi sempre di più verso un manierismo di sé stesso che finisce per non convincere più.

Secondo me Lanthimos ha bisogno di dare una sterzata alla sua cinematografia, di trovare nuovi stimoli e nuove strade, anche se potrebbero essere per lui e per il pubblico meno rassicuranti. Io lo aspetto al varco.

Voto: 3/5