giovedì 28 marzo 2013
Helmut Newton. White women / Sleepless nights / Big nudes
Di Helmut Newton avevo in mente alcune delle fotografie più famose, i grandi nudi delle modelle in tacchi a spillo ovvero le modelle un po’ androgine in abiti maschili.
Sono dunque andata alla mostra in corso al Palazzo delle Esposizioni per farmi un’idea più completa di questo grande fotografo del Novecento. Nella mostra sono esposte le foto relative a tre lavori di Newton, White women, Sleepless nights e Big nudes. Si tratta di fotografie che afferiscono quasi tutte al periodo di oro del fotografo, ossia quello che va dalla prima metà degli anni Settanta alla prima metà degli anni Ottanta, quello in cui la sua “poetica” trova espressione e compimento.
Helmut Newton è un fotografo di moda, ma del tutto sui generis, dal momento che ha sempre amato proporre le creazioni dei grandi stilisti quasi in concorrenza – ovvero in complementarità – con il corpo femminile.
Le foto della prima raccolta esposta, White women, già mettono in evidenza alcune delle componenti che saranno presenti costantemente nelle sue opere: il voyerismo, la nudità, il feticismo, uno sguardo tra il sadico e l’erotico, la rappresentazione quasi cinematografica. Va detto però che in questa prima raccolta di foto emerge anche un’ironia (vedi le foto dei finti omicidi nelle stanze d’albergo) e una leggerezza (vedi alcune delle foto notturne in piscina) che attenuano la sensazione in parte disturbante della visione.
Il secondo gruppo di foto, Sleepless nights, è probabilmente quello che può colpire maggiormente la sensibilità dello spettatore e tradursi – a seconda dei casi – in una sensazione di inquietudine se non addirittura di fastidio. Le foto delle donne costrette dei busti ortopedici o nei gessi, legate da funi e catene, o ancora le foto che mettono insieme in foto di pseudo-erotismo donne vere e manichini, i corpi delle donne trattati come pezzi di carne aventi un valore esclusivamente estetizzante ed erotizzante mi hanno sinceramente lasciato una brutta sensazione addosso. Capisco che si trattava di un momento storico nel quale la libertà sessuale aveva bisogno di trovare canali di espressione che le conferissero una specie di accettabilità sociale. E in questo certamente Newton ha fatto la sua parte. Resta però la mia sensazione di fastidio che non riesce ad essere compensata dalla bellezza e dalla qualità artistica di alcune foto. Mi sa che sono un po' bacchettona!
Nell’ultimo gruppo di foto, Big nudes, viene fuori l’Helmut Newton più conosciuto attraverso le foto che probabilmente lo hanno reso più famoso: i nudi integrali a figura intera che portano in primo piano non tanto un dettaglio del corpo che assume un valore fortemente feticistico, bensì la bellezza e l’armonia di insieme del corpo femminile. Belle anche le grandi foto in cui un gruppo di modelle viene fotografato nella stessa posa, però in una foto vestite di abiti di alta moda, nell’altra completamente nude ma con gli stessi sguardi ed espressioni.
Si esce avendo la sensazione di aver potuto guardare da vicino un pezzo della nostra storia attraverso la lente fotografica. Non c’è dubbio infatti che molte delle foto di Newton sono fortemente agganciate al loro tempo, collocabili cronologicamente, e non solo per i vestiti, le pettinature, le scarpe, alcune scelte estetiche delle modelle oggi impensabili, i colori slavati delle fotografie a colori, gli arredi e le ambientazioni, ma anche per uno sguardo fotografico che – dal mio modesto punto di vista – raramente riesce ad essere universale e fuori dal tempo.
La mostra è ben allestita e piuttosto scevra di commenti scritti, forse giustamente. Lascia tutto al dialogo muto tra lo spettatore e le fotografie. Ognuno ne uscirà con una sensazione diversa secondo la propria sensibilità.
Io non ne sono uscita con l’animo leggero.
Voto: 3,5/5
lunedì 25 marzo 2013
Il figlio dell'altra
I film sui rapporti tra israeliani e palestinesi rappresentano ormai un filone piuttosto consolidato della cinematografia internazionale. Del resto, in una situazione che ormai da oltre sessant’anni non accenna a trovare una soluzione, anzi fa registrare periodicamente recrudescenze e inasprimenti, dubito che si potrà smettere di parlarne ancora per molti anni a venire. Anche se vorrei davvero sbagliarmi.
Ne Il figlio dell’altra la vicenda raccontata è originale e ricca di spunti, per quanto in parte paradossale. Joseph (Jules Sitruk) e Yassin (Mehdi Dehbi) sono due ragazzi quasi diciottenni. Il primo è figlio di una famiglia ebrea, i Silberg, che vivono in una bella casa di Tel Aviv. Joseph vuole fare il musicista e intanto trascorre le giornate con i suoi amici sulla spiaggia di Tel Aviv pensando al suo futuro.
Yassin è il figlio di una famiglia palestinese che vive in Cisgiordania, al di là del lungo e orribile muro che delimita questo territorio. Yassin studia a Parigi e vuole diventare medico, ha un fratello più grande e una sorella più piccola e la sua famiglia vive nel ricordo di un altro figlio morto in non si sa quali circostanze.
Ma le cose non stanno come sembrano. Nella giornata in cui i due bambini sono stati partoriti in un ospedale di Haifa, a causa di un bombardamento i bambini sono stati allontanati dalle madri per essere messi in salvo e quando sono stati restituiti sono stati scambiati per errore.
Il tutto viene fuori quando Joseph fa la visita per la leva militare e il suo gruppo sanguigno risulta incompatibile con quello dei genitori.
Da lì iniziano le rivelazioni e poi i contatti tra queste due famiglie che non potrebbero essere più diverse: il padre di Joseph (Pascal Elbé) è un militare, un colonnello dell’aviazione, rigido e inflessibile, completamente interno al punto di vista israeliano sulla questione delle terre. Il padre di Yassin (Khalifa Natour) è un ingegnere ora costretto a fare il meccanico perché non ha l’opportunità di esercitare la sua professione. Il padre e il fratello di Yassin nutrono forti sentimenti anti israeliani, in quanto considerano questi ultimi gli invasori delle loro terre, coloro che le hanno occupate illegalmente e con la forza.
La religione - che pure in entrambe le famiglie non sembra assumere una centralità assoluta, bensì sembra rappresentare solo una componente culturale della tradizione - alimenta però le difficoltà della situazione, visto che Joseph, educato secondo i dettami della religione ebraica, risulta non ebreo e dunque automaticamente escluso dalla religione a cui ha ritenuto di appartenere per diciotto anni, mentre Yassin è ebreo a tutti gli effetti, in quanto figlio di madre ebrea, pur essendo stato allevato come arabo.
Ma di fronte ad una situazione come questa la questione politica e religiosa entra pesantemente in conflitto con i sentimenti e i legami di sangue. Non è un caso che le due donne di famiglia, le madri (le bravissime Emmanuelle Devos e Areen Omari) sono quelle che fin dal principio affrontano con forza e apertura questa situazione così difficile e sembrano mettere in secondo piano qualunque altra cosa rispetto alla possibilità di instaurare un legame con il proprio figlio naturale e consentire a questi figli la libertà della scelta.
I due ragazzi - che non potrebbero essere più diversi fisicamente e anche caratterialmente - sono però accomunati da un’età della vita in cui il dato più importante è lo sguardo sul proprio futuro, la costruzione di un proprio percorso. Joseph e Yassin, pur turbati profondamente dalla vicenda e dalle conseguenze che essa potrà avere sugli aspetti pratici della loro vita, non sembrano preoccupati dal fatto di essersi ritrovati improvvisamente nello schieramento opposto di una guerra, in quanto i loro sogni e i loro obiettivi sono in qualche modo indipendenti da qualunque contingenza.
È il mondo circostante a caricare questa situazione anomala di una venatura razziale, religiosa e umana tutta basata sulla contrapposizione e sull’inconciliabilità. Ma Yassin può tranquillamente vendere i gelati sulla spiaggia di Tel Aviv come fa Joseph, e Joseph può cantare una canzone alla tavola della sua nuova famiglia come avrebbe fatto a casa sua. Il punto per ciascuno di loro è non sprecare la vita che si ha davanti.
Lo sguardo finale che dall’alto dello scheletro di un edificio non finito si estende su una terra in cui si alternano città ad alta densità urbana e colline brulle attraversate dai greggi di pecore, l’apertura infinita del mare e la chiusura castrante di un muro, le lussuose case con giardino e le baracche di lamiera, le strade di terra e i corsi pieni di locali e di vetrine addobbate, ci dice che, attraverso gli occhi di Joseph e Yassin, occhi giovani e pieni di speranze, forse si può ancora provare a guardare oltre e al di là di tutto questo, sentirsi parte di un mondo più grande e portatore di nuove prospettive.
Almeno per la durata di un film vogliamo provare a crederci grazie alla brava regista Lorraine Lévy.
Voto: 4/5
giovedì 21 marzo 2013
Il giro del mondo in 80 minuti / Orchestra di Piazza Vittorio
Avevo raccontato nel mio post del 2011 le origini dell'Orchestra di Piazza Vittorio, nonché il mio entusiasmo per il loro spettacolo Il flauto magico secondo l'Orchestra di Piazza Vittorio rappresentato al Teatro Olimpico di Roma.
Così, quando ho saputo che l'Orchestra tornava sul palco con un nuovo lavoro, Il giro del mondo in 80 minuti, non ci ho pensato due volte a comprare i biglietti.
Devo dire che sono arrivata a teatro (sempre il Teatro Olimpico) stanchissima e questo non deve aver aiutato, però non posso dire di essere uscita dallo spettacolo completamente soddisfatta.
L'idea de Il giro del mondo in 80 minuti è molto semplice: Mario Tronco, il direttore dell'Orchestra, è il capitano di una nave/zattera che è in partenza per un giro intorno al mondo e che accoglie ogni tipo di migrante o di persona che coltiva speranze per il proprio futuro. La condizione per salire sulla nave è portare con se uno strumento musicale e una canzone.
E così vediamo sfilare sul palco e unirsi al gruppo i componenti dell'orchestra che ci raccontano, attraverso le canzoni, le loro storie e il mondo dal quale provengono, mescolandosi con tutti coloro che sul palco hanno già trovato posto.
Ne viene fuori un caleidoscopio di suoni, di colori e di musica, incorniciato da una vera e propria ninna nanna che apre e chiude lo spettacolo e il sogno di un viaggio verso la libertà.
Dal punto di vista musicale, la proposta dell'Orchestra di Piazza Vittorio si dimostra ancora una volta vincente e convincente. Devo però dire che l'impianto narrativo di questo spettacolo mi è sembrato un po' debole e forzato. Il filo conduttore rappresentato dal centurione romano di colore (il simpaticissimo Omar López Valle) risulta un pochino semplicistico, così come alcuni passaggi che fanno da collante a una storia che in realtà è soltanto un pretesto per fare della buona musica.
In conclusione, Il giro del mondo in 80 minuti è un bellissimo concerto, che avrebbe potuto benissimo fare a meno della struttura narrativa di fondo e - anzi - forse ne avrebbe guadagnato.
Ciò detto, lo spettacolo è godibile e vale la pena.
Voto: 3/5
lunedì 18 marzo 2013
Nei miei occhi / Bastien Vivès
Nei miei occhi / Bastien Vivès. Firenze: Black Velvet, 2010.
Ho avuto la fortuna di leggere Nei miei occhi dopo aver letto non solo Il gusto del cloro (che viene cronologicamente prima) ma anche Polina (che invece è stato realizzato dopo).
In caso contrario sarei stata anch'io facile preda della brutta sensazione che Bastien Vivés utilizzi le storie come pretesto per la sua ricerca sperimentale e tutta grafica sul fumetto.
Infatti, come ne Il gusto del cloro anche in questo albo la storia è a dir poco minimale, per quanto sincera nel fotografare una dimensione emotiva molto vera e probabilmente vissuta da molti.
Si tratta di un incontro tra un ragazzo e una ragazza che prima apre speranze d'amore ma poi sfiorisce senza un vero perché.
Anche in questo caso, inoltre, la scelta grafica è molto originale e sperimentale. Se ne Il gusto del cloro la dimensione muta e di colore uniforme della piscina finiva per essere protagonista dell'albo, in Nei miei occhi i pastelli dai colori accesi (arancio, rosso e giallo soprattutto) creano un'atmosfera molto meno asettica e più partecipata, che si conferma per lo specifico punto di vista scelto dall'autore.
L'albo è tutto disegnato in soggettiva, ossia vediamo e sentiamo tutto (oppure non vediamo e non sentiamo) esattamente come l'autore. Le cose e le persone sono vicine o lontane a seconda di quanto lo sono rispetto al "narratore", così come le parole e i tratti fisici degli altri sono più o meno definiti a seconda dell'attenzione che egli pone e dell'interesse che ha nei loro confronti.
Si tratta però di un narratore muto, uno cioè che ci racconta il suo mondo e questo incontro solo con i suoi occhi e le sue orecchie. Non esiste uno sguardo esterno, un punto di vista terzo, e forse proprio per questo non esiste una lettura della vicenda che vada al di là della sua dimensione emotiva.
Il tutto potrebbe portare a dire che Bastien Vivés è un ragazzo talentuoso e non privo di idee, anche originali, ma non ha grandi storie da raccontare e dunque l'imbastitura complessiva dei suoi albi è un po' debole.
Aver letto Polina mi fa dire però che non è così. Vivés sa raccontare anche storie articolate e complesse, ma ha un interesse preponderante per la dimensione emotiva di queste storie, per la quale è alla continua ricerca di soluzioni grafiche che la rendano al meglio.
Il dato che accomuna tutti i suoi albi non a caso è la sua straordinaria capacità di rendere fortemente tridimensionali i personaggi che disegna. Con tecniche diverse e soluzioni varie, tutti i suoi protagonisti hanno mille espressioni e una plasticità che si traduce in mille sfumature interiori.
E questo lo trovo francamente sorprendente. Una qualità difficilmente rimpiazzabile.
Forse Nei miei occhi non è all'altezza degli altri due albi, eppure apporta qualcosa di nuovo allo stile narrativo e grafico di questo giovanissimo talento francese.
Mi pare che la sua sia una strada in ascesa. Speriamo che conservi l'umiltà per non mollare.
Voto: 3,5/5
giovedì 14 marzo 2013
Memorie di Adriano / con Giorgio Albertazzi
Chi ha letto il mio post sul libro di Marguerite Yourcenar, sa che ho letteralmente adorato il romanzo Memorie di Adriano.
È fondamentalmente per questo che, quando ho visto per le strade di Roma il manifesto relativo allo spettacolo teatrale con protagonista Giorgio Albertazzi, mi sono subito fiondata a comprare il biglietto. E non me ne sono pentita.
Innanzitutto devo salutare con favore e con gioia il cambio di registro e di programmazione del Teatro Parioli (sì, sì, non vi sbagliate, è proprio quello dove si svolgeva il Maurizio Costanzo Show). Si tratta del teatro del quartiere più upper class, ma non necessariamente più intellettuale, di Roma, che dopo la fine del celebre programma televisivo ha continuato con una programmazione teatrale di impronta sostanzialmente televisiva. Tant’è che pur essendo io una che a teatro ci va abbastanza non mi era mai capitato di andarci. Finalmente il teatro è stato rilevato da Luigi, figlio di Peppino De Filippo - cui il teatro è stato intitolato - dando l’avvio a un nuovo corso, maggiormente improntato alla qualità.
In secondo luogo, bisogna certamente rendere merito alla grandezza di un attore come Giorgio Albertazzi che, alla veneranda età di 90 anni, dimostra ancora non solo di saper reggere con disinvoltura quello che di fatto è un monologo, ma di saper infondere al testo emozione e partecipazione.
Certo, si tratta di una rappresentazione che dura circa un’ora e che costituisce ormai per lui un vero e proprio cavallo di battaglia, però sulle ultime, bellissime parole che sono quelle che fanno da epigrafe al libro, Animula vagula, blandula / hospes comesque corporis / quae nunc abibis in loca / pallidula, rigida, nudula / nec, ut soles, dabis iocos…, non si può rimanere indifferenti.
L’adattamento del romanzo al monologo teatrale, pur dovendo rinunciare a molti contenuti del libro, è fedele ed efficace nel rendere l’immagine di questo grande imperatore, nonché complesso e modernissimo uomo.
La messa in scena è arricchita dall’intervento sul palco di altri attori che a volte interloquiscono con Adriano, altre volte rappresentano gli eventi della sua vita attraverso danze, giochi, coreografie.
Chi ha amato Memorie di Adriano non potrà non restare affascinato dal vedersi comparire davanti Adriano in persona, ormai anziano e pieno di acciacchi, ma lucidissimo nel ricostruire il passato e nell’andare incontro alla morte ad occhi aperti. Difficile dire dove finisce Albertazzi e comincia Adriano, e viceversa.
Voto: 4/5
lunedì 11 marzo 2013
Viva la libertà
Non so se sarebbe cambiato qualcosa andando a vedere il film di Roberto Andò prima delle elezioni della fine di febbraio. Certamente avrei guardato con molta meno amarezza e disillusione quello che mi scorreva dinanzi agli occhi.
In Viva la libertà la cui sceneggiatura è tratta dal libro Il trono vuoto dello stesso Andò si racconta la vicenda di Enrico Olivieri (Toni Servillo), il segretario di un grande partito che di fronte alla crisi della propria leadership decide di fuggire in Francia, andando a casa di una sua ex innamorata (Valeria Bruni Tedeschi), ora sposata con un regista giapponese e madre di una bella bambina.
È così che il suo collaboratore Andrea Bottini (Valerio Mastandrea) ricorre all’ultima possibilità, ingaggiare il fratello gemello di Enrico, Giovanni, che è da poco uscito da un ospedale psichiatrico, affinché interpreti il ruolo del fuggitivo.
Giovanni però non si limiterà a imitare, bensì porterà nella politica quella ventata di libertà, di incoscienza e di passione che solo lui può permettersi, ma che in fondo tutti aspettano da tempo. E questo sarà la chiave del successo.
Parallelamente Enrico dovrà fare un viaggio dentro se stesso, quello che era e che non è più, quello che avrebbe voluto essere e che ha abbandonato per strada, prima di poter tornare ai suoi doveri politici e familiari.
In fondo Enrico e Giovanni sono due facce della stessa medaglia e sono la perfetta metafora della politica tout court (non di una parte politica), quella politica che ha smarrito le sue motivazioni originarie, che si è aggrovigliata nei gangli degli equilibri e delle strategie, che non è più capace di ironia su se stessa, né di quella piccola quota di incoscienza che la renda umana e vicina ai cittadini.
Il film – nonostante qualche errata apparenza che emerge dal trailer – si concentra molto sui personaggi di Enrico e di Giovanni, per mostrare che la loro diversità è solo lo smarrimento delle radici e che le loro due anime convivono da sempre e devono continuare a farlo.
Toni Servillo è bravissimo nel doppio ruolo; il film scalda il cuore nel suggerirci che la politica può essere capace di ritrovare il senso profondo di se stessa. Resta però agli occhi di noi cittadini disillusi e amareggiati la sensazione di aver visto quello che ci piace desiderare e credere, e che purtroppo è molto lontano dalla realtà. Perché forse non basta una politica che creda veramente in quello che dice ma anche una società civile che sappia ascoltare e comprendere e farsi partecipe di questi contenuti.
Mi sa che non siamo ancora pronti. E chissà se lo saremo mai.
Voto: 3/5
sabato 9 marzo 2013
Nino Migliori. Antologica. Bologna
Nino Migliori. Antologica. Bologna, Palazzo Fava, 18 gennaio-28 aprile 2013
Nonostante io sia un'appassionata di fotografia, devo confessare di non aver mai sentito parlare di Nino Migliori prima di questa mostra.
È stato un nevosissimo weekend bolognese e una chiacchiera con un'amica entusiasta della mostra a Palazzo Fava a farmi scoprire questo fotografo bolognese.
La mostra in corso a Bologna è il modo migliore per venire a contatto con questo vero e proprio artigiano della fotografia, in quanto è un'ampia antologia della sua ampia e variegata produzione fotografica. Niente di meglio, poi, che cominciare assistendo al filmato disponibile al terzo piano di palazzo Fava, in cui lo stesso Migliori racconta come sono nati i suoi progetti fotografici, da quelli più realistici degli anni '40 e '50 a quelli molto concettuali degli ultimi anni.
Nino Migliori è un personaggio incredibile, uno che a ottantasette anni continua a mostrare un entusiasmo e una passione per la scoperta assolutamente invidiabili. Il rapporto tra Migliori e la fotografia è come quello tra un bambino e il suo giocattolo più amato, di cui vengono esplorate tutte le possibilità, guardandolo da ogni prospettiva e smontandolo per capirne il funzionamento e realizzarne tutte le possibili applicazioni anche grazie a una inesauribile fantasia.
Così Migliori - dopo aver in qualche modo esaurito le possibilità della fotografia realistica (nell'ambito della quale ha realizzato dei lavori pregevoli e di grande impatto visivo) - ha cominciato a giocare con la luce e la macchina fotografica: lenti polarizzate e cellophane per ottenere colori scomposti ed effetti visivi inediti, interventi arditi in camera oscura con l'acqua e il calore per realizzare fotografie concettuali di grande impatto visivo, stampe da polaroid modificate in tempo reale, scomposte e ricomposte con lamine dorate, opere d'arte pittoriche e scultoree rilette attraverso l'arte fotografica, nature morte sotto vetro, muri e manifesti strappati, installazioni che combinano fotografia, proiezione ed oggetti tridimensionali.
E con questo elenco ho ricordato solo una piccolissima parte dei suoi lavori e di quanto ci viene proposto in questa mostra antologica a lui dedicata.
Ne viene fuori l'immagine di un fotografo che è perfettamente consapevole del fatto che la fotografia non è una neutrale documentazione della realtà, bensì una reinterpretazione del reale che passa attraverso l'immaginario e le idee del fotografo.
Emerge inoltre l'idea di un fotografo aperto a qualunque innovazione della tecnica, desideroso di sperimentare ogni nuova possibilità che la tecnologia mette a disposizione, facendone però in molti casi un uso capovolto ed originale.
Per concludere mi associo a Migliori nel dire che la "cultura è ciò che resta quando si è dimenticato tutto"; speriamo che la nostra memoria non ci tradisca.
Intanto, andate a vedere la mostra. Ché ne vale la pena.
Voto: 4,5/5
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