So di dare un dispiacere ai miei amici e colleghi bibliotecari che hanno visto questo documentario di Frederick Wiseman molto prima di me e che me l’hanno più o meno caldamente consigliato. Ebbene, a me il film non è piaciuto granché dal punto di vista cinematografico.
Attenzione, concordo certamente sul fatto che Wiseman sia riuscito a raccontare a tutto tondo il sistema bibliotecario pubblico di New York e il ruolo culturale e sociale che le biblioteche svolgono nei diversi quartieri, nonché il lavoro dei bibliotecari non solo nel momento del contatto con gli utenti bensì anche dietro le quinte, però un film non si giudica solo da questo ma anche dalla sua confezione.
E a mio parere il film di Wiseman perde appeal man mano che la visione procede. Un film che dura quasi tre ore e mezzo di per sé stesso non mette lo spettatore nella migliore disposizione d’animo e – devo aggiungere – non rende nemmeno un grande servizio al mondo delle biblioteche e dei bibliotecari, confermando con la sua stessa lunghezza e parziale lentezza una certa percezione e idea della biblioteca che circola non tanto tra chi già le utilizza ma tra chi non ci ha mai messo piede.
La struttura ricorsiva del film che vede alternarsi momenti della vita delle biblioteche del sistema pubblico newyorkese (letture pubbliche, conferenze, concerti, dibattiti, performance, servizi di reference, consultazione delle varie tipologie di materiali bibliografici disponibili, servizi per utenti con varie forme di disabilità, azioni di inclusività, riunioni dello staff) separati gli uni dagli altri da sequenze-video girate nelle strade e nei luoghi circostanti la sede delle diverse branches della biblioteca dopo un po’ si fa noiosa e in qualche modo ripetitiva.
Le clip estrapolate dagli eventi svoltisi in biblioteca a volte suscitano curiosità e interesse, altre volte invece risultano troppo lunghe o comunque poco congeniali per chi guarda, sebbene capisco che l’intento sia quello di dare conto della molteplicità, se non infinità di aree di interesse e settori di attività della biblioteca, e della sua capacità di poter offrire una proposta culturale per qualunque nicchia di utenti.
Sarà che nel mio caso - visto che mi occupo e lavoro in biblioteca da ormai più di 20 anni - sono cose tutto sommato abbastanza scontate e conosciute (sebbene il dubbio che le riunioni reali dello staff direttivo si svolgano proprio così mi rimane) ma alla fine ho fatto davvero fatica ad arrivare fino in fondo.
Sarebbe interessante ascoltare il parere di chi ha poca esperienza delle biblioteche, ma in questo nemmeno la chat popolata dagli spettatori durante la visione su MyMovies è stata di molto aiuto, visto che – a differenza che per altri film – in questo caso i commenti sono stati pochi, e in alcuni casi talmente prematuri che a qualcuno è venuto il dubbio che siano stati espressi senza nemmeno vedere il film. O forse già il ridotto numero dei commenti è di per sé una prova del fatto che - un po’ come le biblioteche – anche i film, o quantomeno i documentari, sulle biblioteche non sono cosa da grande pubblico.
Voto: 3/5
martedì 30 giugno 2020
mercoledì 24 giugno 2020
Estate / Alessandro Tota
Estate / Alessandro Tota. Quartu Dant'Elena: Oblomov edizioni, 2018.
Con questo albo continua la ricerca - in parte autobiografica - che Alessandro Tota sta dedicando alla vita dei giovani a Bari negli anni Novanta. Come lui stesso afferma in un'intervista, si tratta di fatto della terza puntata di una serie iniziata con Fratelli e proseguita con Charles, e che l'autore stesso non esclude possa avere sviluppi in albi successivi.
Non a caso nei tre lavori fin qui pubblicati si incontrano almeno in parte gli stessi personaggi, ad esempio Claudio e Nicola che già avevamo conosciuto nella seconda parte di Fratelli e che qui sono attori a vari livelli della storia.
Siamo in una assolata e focosa estate barese degli anni Novanta, come è testimoniato anche dalla scelta della monocromia rossa acquarellata utilizzata dall'autore per l'intero lavoro. Claudio - che abbiamo conosciuto come studente appassionato di poesia e letteratura, ma alla ricerca di esperienze forti - abbandona temporaneamente il suo gruppo di amici punkabbestia, tra cui l'amico di sempre Nicola cui ha tirato un brutto scherzo mescolando trielina al whisky procurandogli una temporanea cecità, per inseguire la bella Mirtilla, una ragazza della Bari bene che ha incontrato casualmente al parco.
Claudio si troverà così a frequentare ambienti e contesti sociali cui non è abituato, trascorrendo parte della sua estate nei lidi chic popolati dagli amici palestrati, benestanti e classisti della sua nuova fiamma.
Mentre Claudio sperimenta un mondo con il quale non ha nulla in comune, i suoi amici si mettono in macchina alla volta di un rave in un casale sperduto. L'incontro per strada con gli amici di Mirtilla si trasformerà in uno scontro e ben presto in tragedia, mentre l'esperienza di Claudio nella casa del mare di Mirtilla assumerà presto contorni surreali per la presenza dell'"uomo-cavallo" e della zia ninfomane di Mirtilla.
Il casale dove si svolge la festa che vede protagonisti un santone onnisciente e una massa di giovani strafatti diventerà il punto di convergenza dove Claudio e i suoi amici si ritroveranno dopo le peripezie e le avventure vissute individualmente. Questo incontro sarà vissuto come un vero e proprio ritorno alla normalità, a conferma della sostanzialità incomunicabilità e aperta ostilità tra gruppi sociali che sembrano non avere nulla in comune e il cui confine sembra non poter essere attraversato da nessuno senza conseguenze nefaste.
Estate si colloca a metà strada tra un divertissement venato di grottesco e una riflessione amara su una realtà che ha lasciato segni profondi nel tessuto sociale. I due mondi raccontati - a dire il vero in maniera un po' manichea - da Alessandro Tota rivelano ciascuno il proprio lato oscuro: da un lato l'ingenuità adolescenziale e in parte pericolosa dei punkabbestia, dall'altro l'arroganza e la violenza insita in quella borghesia che si ritiene superiore al resto del mondo e al di sopra di tutto.
Il risultato è un racconto tragicomico che si mantiene in bilico - talvolta oscillando pericolosamente - tra il demenziale e il noir. Certamente Tota dimostra di essere a suo agio con storie e linguaggi molto diversi; a me personalmente piace di più la sua anima documentaristica (vedi Palacinche) e quella favolistica (vedi Yeti) rispetto alle memorie del passato in chiave fiction.
Voto: 3/5
Con questo albo continua la ricerca - in parte autobiografica - che Alessandro Tota sta dedicando alla vita dei giovani a Bari negli anni Novanta. Come lui stesso afferma in un'intervista, si tratta di fatto della terza puntata di una serie iniziata con Fratelli e proseguita con Charles, e che l'autore stesso non esclude possa avere sviluppi in albi successivi.
Non a caso nei tre lavori fin qui pubblicati si incontrano almeno in parte gli stessi personaggi, ad esempio Claudio e Nicola che già avevamo conosciuto nella seconda parte di Fratelli e che qui sono attori a vari livelli della storia.
Siamo in una assolata e focosa estate barese degli anni Novanta, come è testimoniato anche dalla scelta della monocromia rossa acquarellata utilizzata dall'autore per l'intero lavoro. Claudio - che abbiamo conosciuto come studente appassionato di poesia e letteratura, ma alla ricerca di esperienze forti - abbandona temporaneamente il suo gruppo di amici punkabbestia, tra cui l'amico di sempre Nicola cui ha tirato un brutto scherzo mescolando trielina al whisky procurandogli una temporanea cecità, per inseguire la bella Mirtilla, una ragazza della Bari bene che ha incontrato casualmente al parco.
Claudio si troverà così a frequentare ambienti e contesti sociali cui non è abituato, trascorrendo parte della sua estate nei lidi chic popolati dagli amici palestrati, benestanti e classisti della sua nuova fiamma.
Mentre Claudio sperimenta un mondo con il quale non ha nulla in comune, i suoi amici si mettono in macchina alla volta di un rave in un casale sperduto. L'incontro per strada con gli amici di Mirtilla si trasformerà in uno scontro e ben presto in tragedia, mentre l'esperienza di Claudio nella casa del mare di Mirtilla assumerà presto contorni surreali per la presenza dell'"uomo-cavallo" e della zia ninfomane di Mirtilla.
Il casale dove si svolge la festa che vede protagonisti un santone onnisciente e una massa di giovani strafatti diventerà il punto di convergenza dove Claudio e i suoi amici si ritroveranno dopo le peripezie e le avventure vissute individualmente. Questo incontro sarà vissuto come un vero e proprio ritorno alla normalità, a conferma della sostanzialità incomunicabilità e aperta ostilità tra gruppi sociali che sembrano non avere nulla in comune e il cui confine sembra non poter essere attraversato da nessuno senza conseguenze nefaste.
Estate si colloca a metà strada tra un divertissement venato di grottesco e una riflessione amara su una realtà che ha lasciato segni profondi nel tessuto sociale. I due mondi raccontati - a dire il vero in maniera un po' manichea - da Alessandro Tota rivelano ciascuno il proprio lato oscuro: da un lato l'ingenuità adolescenziale e in parte pericolosa dei punkabbestia, dall'altro l'arroganza e la violenza insita in quella borghesia che si ritiene superiore al resto del mondo e al di sopra di tutto.
Il risultato è un racconto tragicomico che si mantiene in bilico - talvolta oscillando pericolosamente - tra il demenziale e il noir. Certamente Tota dimostra di essere a suo agio con storie e linguaggi molto diversi; a me personalmente piace di più la sua anima documentaristica (vedi Palacinche) e quella favolistica (vedi Yeti) rispetto alle memorie del passato in chiave fiction.
Voto: 3/5
lunedì 22 giugno 2020
Temblores = Terremoti
In occasione della Giornata internazionale contro l'omofobia, la transfobia e la bifobia, l’iniziativa di Mymovies #iorestoacasa ci propone – in collaborazione con il Milano MIX Festival - il film Terremoti (Temblores) del regista guatemalteco Jayro Bustamante (già conosciuto in Italia per il film La Llorona).
In questo film il protagonista è Pablo (Juan Pablo Olyslager, che secondo me assomiglia molto a Mel Gibson), un quarantenne di famiglia benestante che vive a Guatemala City, ha una moglie e due figli, e frequenta convintamente la chiesa evangelica.
Il racconto inizia però quando gli equilibri un po’ ingessati della vita di Pablo si sono ormai spezzati. L’uomo infatti si è innamorato di Francisco (il bravissimo Mauricio Armas) e la sua famiglia lo ha scoperto e stigmatizzato.
Inizia così un dramma che vede Pablo lacerato tra la necessità di essere sé stesso, lasciandosi andare all’amore per Francisco e alla vita molto diversa che questi gli offre, e il bisogno di rimanere fedele alla propria religione e ai suoi rigidissimi dogmi. Messo di fronte a una scelta, resa meno libera dal ricatto di non fargli più vedere gli amatissimi figli, Pablo deciderà di sottoporsi al programma evangelico per la “correzione” delle sue tendenze omosessuali e il ritorno alla comunità religiosa dopo il pentimento.
Il film di Bustamante gioca sulla contrapposizione dei due mondi tra cui Pablo è diviso: il mondo di Francisco è fatto di piccoli appartamenti disordinati ma pieni di vita, bar affollati, feste e balli, ma anche di incertezza e rischi legati alle forme più o meno palesi di omofobia, mentre il mondo della famiglia di Pablo è fatto di grandi case con tavole imbandite e fiori, salotti dai colori spenti e relazioni molto impostate, ricevimenti eleganti, nonché momenti di preghiera collettiva nella locale chiesa guidati dal pastore e da sua moglie.
L’anello di congiunzione tra questi due mondi sarà il personale di servizio della famiglia di Pablo, esponenti della comunità india che, pur legati da un rapporto di riconoscenza e conoscenza con i loro datori di lavoro, sono certamente più vicini al mondo della strada frequentato da Francisco.
Il titolo del film Temblores (Terremoti) fa riferimento alla terra guatemalteca che più volte trema durante il corso del film, ma anche simbolicamente allo sconvolgimento di vita cui Pablo si trova di fronte e che lo mette in una situazione di incertezza e di pericolo.
Ne viene fuori l’orrore di un’appartenenza religiosa vissuta come dogma e coercitiva rispetto alla libertà degli individui, e il condizionamento profondo che non solo la religione in sé, ma soprattutto la partecipazione a una specifica comunità religiosa esercita sui suoi membri, privati completamente del loro libero arbitrio e oggetto di forme di violenza psicologica non banali.
Il film di Bustamante sceglie di non essere minimamente consolatorio, e si chiude in una cupezza persino superiore a quella con cui si apre, escludendo qualunque possibilità di poter coniugare la propria felicità e libertà personale con l’accettazione familiare e sociale.
Un film forse un po’ troppo manicheo nella sua rappresentazione della realtà un po’ estrema e con pochi chiaroscuri, ma certamente efficace nel rappresentare il dissidio interiore di un uomo messo di fronte a una scelta impossibile e innaturale.
Voto: 3,5/5
In questo film il protagonista è Pablo (Juan Pablo Olyslager, che secondo me assomiglia molto a Mel Gibson), un quarantenne di famiglia benestante che vive a Guatemala City, ha una moglie e due figli, e frequenta convintamente la chiesa evangelica.
Il racconto inizia però quando gli equilibri un po’ ingessati della vita di Pablo si sono ormai spezzati. L’uomo infatti si è innamorato di Francisco (il bravissimo Mauricio Armas) e la sua famiglia lo ha scoperto e stigmatizzato.
Inizia così un dramma che vede Pablo lacerato tra la necessità di essere sé stesso, lasciandosi andare all’amore per Francisco e alla vita molto diversa che questi gli offre, e il bisogno di rimanere fedele alla propria religione e ai suoi rigidissimi dogmi. Messo di fronte a una scelta, resa meno libera dal ricatto di non fargli più vedere gli amatissimi figli, Pablo deciderà di sottoporsi al programma evangelico per la “correzione” delle sue tendenze omosessuali e il ritorno alla comunità religiosa dopo il pentimento.
Il film di Bustamante gioca sulla contrapposizione dei due mondi tra cui Pablo è diviso: il mondo di Francisco è fatto di piccoli appartamenti disordinati ma pieni di vita, bar affollati, feste e balli, ma anche di incertezza e rischi legati alle forme più o meno palesi di omofobia, mentre il mondo della famiglia di Pablo è fatto di grandi case con tavole imbandite e fiori, salotti dai colori spenti e relazioni molto impostate, ricevimenti eleganti, nonché momenti di preghiera collettiva nella locale chiesa guidati dal pastore e da sua moglie.
L’anello di congiunzione tra questi due mondi sarà il personale di servizio della famiglia di Pablo, esponenti della comunità india che, pur legati da un rapporto di riconoscenza e conoscenza con i loro datori di lavoro, sono certamente più vicini al mondo della strada frequentato da Francisco.
Il titolo del film Temblores (Terremoti) fa riferimento alla terra guatemalteca che più volte trema durante il corso del film, ma anche simbolicamente allo sconvolgimento di vita cui Pablo si trova di fronte e che lo mette in una situazione di incertezza e di pericolo.
Ne viene fuori l’orrore di un’appartenenza religiosa vissuta come dogma e coercitiva rispetto alla libertà degli individui, e il condizionamento profondo che non solo la religione in sé, ma soprattutto la partecipazione a una specifica comunità religiosa esercita sui suoi membri, privati completamente del loro libero arbitrio e oggetto di forme di violenza psicologica non banali.
Il film di Bustamante sceglie di non essere minimamente consolatorio, e si chiude in una cupezza persino superiore a quella con cui si apre, escludendo qualunque possibilità di poter coniugare la propria felicità e libertà personale con l’accettazione familiare e sociale.
Un film forse un po’ troppo manicheo nella sua rappresentazione della realtà un po’ estrema e con pochi chiaroscuri, ma certamente efficace nel rappresentare il dissidio interiore di un uomo messo di fronte a una scelta impossibile e innaturale.
Voto: 3,5/5
giovedì 18 giugno 2020
Il colibrì / Sandro Veronesi
Il colibrì / Sandro Veronesi. Milano: La nave di Teseo, 2019.
Non avevo mai letto nulla di Sandro Veronesi, ma dopo il suggerimento entusiastico del mio amico M. e la lettura di recensioni altrettanto entusiastiche (anche da parte di personaggi significativi del mondo intellettuale italiano) ho deciso di avvicinarmi al suo ultimo romanzo, Il colibrì, candidato al Premio Strega 2020.
La storia è quella di Marco Carrera, un uomo di cui il narratore ricostruisce la vita andando avanti e indietro nel tempo dall’infanzia fino alla morte, e affidando in parte questo racconto alle parole dello stesso protagonista, sia attraverso le lettere ch’egli scrive alla donna amata, Luisa Lattes, che al fratello Giacomo, sia attraverso i dialoghi con gli altri personaggi, in particolare lo psicoterapeuta Carradori.
L’arco temporale in cui si sviluppa il racconto va dagli anni Settanta fino a oltre il 2030, ma – come già detto – il racconto non è lineare, bensì - mescolando le vicende e le testimonianze - l’autore trasforma la vita di Carrera quasi in un “piccolo giallo” di cui siamo chiamati a riconoscere i momenti topici e gli snodi principali, nonché a intuire gli eventi connettendo i pezzi del racconto.
Questa storia individuale è costellata di molti dolori e perdite, ma il protagonista dimostra ogni volta una resilienza che gli permette di non crollare, fino a individuare nella sua nipotina Miraijin (letteralmente “uomo nuovo”) il vero scopo della sua vita, l’eredità genetica da tramandare a un futuro in cui le nuove generazioni sapranno superare i limiti del passato e portare a compimento le promesse mancate.
Che dire? Dal punto di vista narrativo la figura di Marco Carrera e il suo modo di interpretare la vita e di darle un significato cercandone uno scopo futuro attraverso la propria eredità genetica è quanto di più lontano ci sia dalla mia visione dell’esistenza, e quindi personalmente non sono riuscita minimamente a empatizzare con il protagonista. In generale, ho trovato la vicenda umana di Carrera tutto sommato poco realistica e a tratti scarsamente credibile e mi è rimasta addosso fortissima la sensazione che sia stata concepita totalmente a tavolino. L’ultima parte in particolare - in cui emerge l’utopia del futuro legata alla figura quasi messianica di Miaijin – mi ha addirittura quasi infastidita, perché mi sono sinceramente sentita un po’ presa in giro.
A questo si aggiunga lo stile di scrittura che alterna mimesi del parlato, anche al di fuori dei dialoghi, all’utilizzo di termini forbiti, in maniera secondo me del tutto gratuita. Il risultato è una scrittura scorrevole e piana (il libro si legge in pochissimo tempo), ma dal mio punto di vista per niente evocativa. All’ultima pagina mi sembra che il libro mi abbia lasciato addosso solo una sensazione di fastidio, per un’operazione che non sono riuscita a sentire autentica e che invece ho percepito come un po’ ruffiana e costruita.
Poi, è chiaro, io non sono nessuno, e il libro invece è un candidato al Premio Strega. Però a me non è piaciuto e se questo è il meglio che la letteratura italiana può offrire sono sinceramente preoccupata.
Voto: 2,5/5
Non avevo mai letto nulla di Sandro Veronesi, ma dopo il suggerimento entusiastico del mio amico M. e la lettura di recensioni altrettanto entusiastiche (anche da parte di personaggi significativi del mondo intellettuale italiano) ho deciso di avvicinarmi al suo ultimo romanzo, Il colibrì, candidato al Premio Strega 2020.
La storia è quella di Marco Carrera, un uomo di cui il narratore ricostruisce la vita andando avanti e indietro nel tempo dall’infanzia fino alla morte, e affidando in parte questo racconto alle parole dello stesso protagonista, sia attraverso le lettere ch’egli scrive alla donna amata, Luisa Lattes, che al fratello Giacomo, sia attraverso i dialoghi con gli altri personaggi, in particolare lo psicoterapeuta Carradori.
L’arco temporale in cui si sviluppa il racconto va dagli anni Settanta fino a oltre il 2030, ma – come già detto – il racconto non è lineare, bensì - mescolando le vicende e le testimonianze - l’autore trasforma la vita di Carrera quasi in un “piccolo giallo” di cui siamo chiamati a riconoscere i momenti topici e gli snodi principali, nonché a intuire gli eventi connettendo i pezzi del racconto.
Questa storia individuale è costellata di molti dolori e perdite, ma il protagonista dimostra ogni volta una resilienza che gli permette di non crollare, fino a individuare nella sua nipotina Miraijin (letteralmente “uomo nuovo”) il vero scopo della sua vita, l’eredità genetica da tramandare a un futuro in cui le nuove generazioni sapranno superare i limiti del passato e portare a compimento le promesse mancate.
Che dire? Dal punto di vista narrativo la figura di Marco Carrera e il suo modo di interpretare la vita e di darle un significato cercandone uno scopo futuro attraverso la propria eredità genetica è quanto di più lontano ci sia dalla mia visione dell’esistenza, e quindi personalmente non sono riuscita minimamente a empatizzare con il protagonista. In generale, ho trovato la vicenda umana di Carrera tutto sommato poco realistica e a tratti scarsamente credibile e mi è rimasta addosso fortissima la sensazione che sia stata concepita totalmente a tavolino. L’ultima parte in particolare - in cui emerge l’utopia del futuro legata alla figura quasi messianica di Miaijin – mi ha addirittura quasi infastidita, perché mi sono sinceramente sentita un po’ presa in giro.
A questo si aggiunga lo stile di scrittura che alterna mimesi del parlato, anche al di fuori dei dialoghi, all’utilizzo di termini forbiti, in maniera secondo me del tutto gratuita. Il risultato è una scrittura scorrevole e piana (il libro si legge in pochissimo tempo), ma dal mio punto di vista per niente evocativa. All’ultima pagina mi sembra che il libro mi abbia lasciato addosso solo una sensazione di fastidio, per un’operazione che non sono riuscita a sentire autentica e che invece ho percepito come un po’ ruffiana e costruita.
Poi, è chiaro, io non sono nessuno, e il libro invece è un candidato al Premio Strega. Però a me non è piaciuto e se questo è il meglio che la letteratura italiana può offrire sono sinceramente preoccupata.
Voto: 2,5/5
martedì 16 giugno 2020
La sposa bambina - I am Nojoom, Age 10 and Divorced
Siamo in Yemen. Nojoom (Reham Mohammed), una ragazzina di poco più di 10 anni, si presenta in tribunale per chiedere il divorzio da suo marito. Da questa premessa inizia in flashback – ma non in ordine cronologico – la narrazione della sua storia e di tutto quello che precede la causa in tribunale.
La bambina è una dei figli di una famiglia yemenita che vive in un piccolo villaggio sulle montagne: suo padre, che è un agricoltore e un allevatore come tutti gli altri membri del villaggio, ha due mogli e numerosi figli, che l’aiutano nel lavoro e nel sostentamento familiare.
Nojoom è particolarmente legata a suo fratello – quasi coetaneo – con cui condivide giochi e sentimenti.
L’intera famiglia a un certo punto è costretta a trasferirsi in città, in una casa molto piccola e scomoda, e suo padre insieme a suo figlio maggiore ogni giorno sperano di essere scelti per lavorare a giornata nei cantieri o altrove, ma i soldi sono pochi e non bastano per dare una vita dignitosa a tutti. Il perché di questo trasferimento lo scopriremo più avanti nel racconto.
La situazione di povertà in cui versa la famiglia convince il capofamiglia a dare Nojoom in sposa a un uomo molto più grande di lei. La ragazzina, strappata dai giochi dell’infanzia, viene portata in un altro villaggio sulle montagne dove deve soddisfare i bisogni sessuali del marito, sottostare alla suocera e lavorare duramente insieme alle altre mogli.
Il suo malessere cresce al punto tale da determinare prima uno stato depressivo e poi un moto di ribellione che la porterà alfine in tribunale per chiedere il divorzio, chiamando in causa suo marito e suo padre.
Di fronte al giudizio emergerà tutta la verità di una società in cui sono la povertà e l’ignoranza a farla da padroni, e di cui le principali vittime sono le donne e i bambini.
Il film della regista yemenita Khadija Al-Salami non è un capolavoro cinematografico: appartiene alla nutrita categoria dei film a tema con uno smaccato intento didascalico (per l’idea di fondo e in alcuni tratti mi ha ricordato Capharnaum di Nadine Labaki), però è un film coraggioso e necessario che ci fa scoprire un paese bello e selvaggio, ma con un’organizzazione ancora fortemente tribale in cui gli uomini sono i padroni della vita delle donne, ma a loro volta sono sottoposti ai capi tribù e condannati dalla loro stessa ignoranza.
Interessante.
Voto: 3/5
La bambina è una dei figli di una famiglia yemenita che vive in un piccolo villaggio sulle montagne: suo padre, che è un agricoltore e un allevatore come tutti gli altri membri del villaggio, ha due mogli e numerosi figli, che l’aiutano nel lavoro e nel sostentamento familiare.
Nojoom è particolarmente legata a suo fratello – quasi coetaneo – con cui condivide giochi e sentimenti.
L’intera famiglia a un certo punto è costretta a trasferirsi in città, in una casa molto piccola e scomoda, e suo padre insieme a suo figlio maggiore ogni giorno sperano di essere scelti per lavorare a giornata nei cantieri o altrove, ma i soldi sono pochi e non bastano per dare una vita dignitosa a tutti. Il perché di questo trasferimento lo scopriremo più avanti nel racconto.
La situazione di povertà in cui versa la famiglia convince il capofamiglia a dare Nojoom in sposa a un uomo molto più grande di lei. La ragazzina, strappata dai giochi dell’infanzia, viene portata in un altro villaggio sulle montagne dove deve soddisfare i bisogni sessuali del marito, sottostare alla suocera e lavorare duramente insieme alle altre mogli.
Il suo malessere cresce al punto tale da determinare prima uno stato depressivo e poi un moto di ribellione che la porterà alfine in tribunale per chiedere il divorzio, chiamando in causa suo marito e suo padre.
Di fronte al giudizio emergerà tutta la verità di una società in cui sono la povertà e l’ignoranza a farla da padroni, e di cui le principali vittime sono le donne e i bambini.
Il film della regista yemenita Khadija Al-Salami non è un capolavoro cinematografico: appartiene alla nutrita categoria dei film a tema con uno smaccato intento didascalico (per l’idea di fondo e in alcuni tratti mi ha ricordato Capharnaum di Nadine Labaki), però è un film coraggioso e necessario che ci fa scoprire un paese bello e selvaggio, ma con un’organizzazione ancora fortemente tribale in cui gli uomini sono i padroni della vita delle donne, ma a loro volta sono sottoposti ai capi tribù e condannati dalla loro stessa ignoranza.
Interessante.
Voto: 3/5
domenica 14 giugno 2020
Impressionisti segreti. Palazzo Bonaparte, 2 giugno 2020
Dopo circa tre mesi di vita casalinga e di panificazione, approfitto del primo weekend di ritorno - parziale - alla normalità per fare delle cose che erano scomparse completamente dai nostri orizzonti, ad esempio una passeggiata con un'amica, un aperitivo preserale (in presenza e non virtuale) e la visita di una mostra.
Grazie all'apertura straordinaria di Palazzo Bonaparte io, F., L. e P. riusciamo in extremis a vedere la mostra sugli impressionisti segreti che già avevamo adocchiato prima del lockdown.
Le misure di sicurezza per la salute individuale sono abbastanza attente e rigorose e dunque possiamo attraversare le varie sale in cui si sviluppa la mostra tranquillamente e piacevolmente.
In mostra ci sono circa 50 opere provenienti in buona parte da collezioni private, cosicché nonostante la sovraesposizione quasi stucchevole degli impressionisti negli ultimi anni, il percorso risulta sicuramente meno scontato e più originale di quanto si potesse pensare.
Oltre ad alcune chicche della produzione di Monet, Manet, Renoir, Pissarro e Zandomeneghi, la mostra permette di accostarsi ai lavori di figure meno note del movimento impressionista. Su tutti l'unica donna del gruppo, Berthe Morisot, spesso anche modella per gli altri, un dipinto della quale non a caso è stato scelto come locandina della mostra.
Il percorso attraverso le sale è insieme cronologico e tematico. Si comincia con i pittori che preannunciano lo stile impressionista per arrivare nell'ultima sala ai lavori dei rappresentanti del divisionismo con cui in un certo senso si porta a compimento e al contempo si supera la poetica e la tecnica degli impressionisti. Alcune sale però approfondiscono temi specifici del movimento, ad esempio i paesaggi ovvero i ritratti, offrendo delle occasioni di analisi comparativa.
La cura della mostra è di Claire Durand-Ruel, discendente di Paul Durand-Ruel, e di Marianne Mathieu, direttrice scientifica del Musée Marmottan Monet di Parigi.
La visita della mostra è anche l'occasione per scoprire Palazzo Bonaparte, un palazzetto seicentesco - che è stato chiuso e non visitabile a lungo - con una deliziosa loggia esterna che affaccia su piazza Venezia e dalle cui finestre si incornicia l'Altare della Patria.
Voto: 3,5/5
Grazie all'apertura straordinaria di Palazzo Bonaparte io, F., L. e P. riusciamo in extremis a vedere la mostra sugli impressionisti segreti che già avevamo adocchiato prima del lockdown.
Le misure di sicurezza per la salute individuale sono abbastanza attente e rigorose e dunque possiamo attraversare le varie sale in cui si sviluppa la mostra tranquillamente e piacevolmente.
In mostra ci sono circa 50 opere provenienti in buona parte da collezioni private, cosicché nonostante la sovraesposizione quasi stucchevole degli impressionisti negli ultimi anni, il percorso risulta sicuramente meno scontato e più originale di quanto si potesse pensare.
Oltre ad alcune chicche della produzione di Monet, Manet, Renoir, Pissarro e Zandomeneghi, la mostra permette di accostarsi ai lavori di figure meno note del movimento impressionista. Su tutti l'unica donna del gruppo, Berthe Morisot, spesso anche modella per gli altri, un dipinto della quale non a caso è stato scelto come locandina della mostra.
Il percorso attraverso le sale è insieme cronologico e tematico. Si comincia con i pittori che preannunciano lo stile impressionista per arrivare nell'ultima sala ai lavori dei rappresentanti del divisionismo con cui in un certo senso si porta a compimento e al contempo si supera la poetica e la tecnica degli impressionisti. Alcune sale però approfondiscono temi specifici del movimento, ad esempio i paesaggi ovvero i ritratti, offrendo delle occasioni di analisi comparativa.
La cura della mostra è di Claire Durand-Ruel, discendente di Paul Durand-Ruel, e di Marianne Mathieu, direttrice scientifica del Musée Marmottan Monet di Parigi.
La visita della mostra è anche l'occasione per scoprire Palazzo Bonaparte, un palazzetto seicentesco - che è stato chiuso e non visitabile a lungo - con una deliziosa loggia esterna che affaccia su piazza Venezia e dalle cui finestre si incornicia l'Altare della Patria.
Voto: 3,5/5
venerdì 12 giugno 2020
I racconti dei vicoletti / Nie Jun
I racconti dei vicoletti / Nie Jun. Milano: Bao Publishing, 2017.
Bao Publishing ha di recente dedicato una specifica collana delle sue pubblicazioni a una selezione di fumetti cinesi moderni. Questa collana è stata inaugurata con l'albo I racconti dei vicoletti di Nie Jun, che raccoglie quattro racconti che hanno come protagonisti la piccola Yu'er, una bimba con una disabilità che le crea dei problemi di deambulazione, e il nonno Doubao, un tenero sognatore con un enorme affetto per la nipotina.
In ciascuno di questi racconti abbiamo la possibilità di conoscere la vita dei vicoletti e dei suoi abitanti e ci immergiamo in questo mondo fatto di piccoli eventi quotidiani ma anche di grandi sogni e un pizzico di magia, il tutto raccontato con straordinaria leggerezza e amorevolezza.
Il primo episodio, Il sogno di Yu'er, vede quest'ultima desiderosa di imparare a nuotare e diventare una campionessa, ma respinta a un corso di nuoto a causa della sua disabilità; sarà il nonno a inventare uno stratagemma che aiuterà Yu'er a imparare a nuotare e la farà volare con l'immaginazione sul mondo nel quale abita.
Nel secondo episodio, Il paradiso degli insetti, viene raccontato un episodio di bullismo nei confronti di Yu'er, nato dal tentativo di quest'ultima di salvare una farfalla. In soccorso della bimba arriverà il piccolo Doubao che porterà poi Yu'er nel paradiso degli insetti da lui stessi creato e curato. Ma Doubao è reale o è la personificazione dei racconti del nonno in merito alla sua infanzia?
Il terzo episodio, La lettera, ci racconta come il nonno Doubao, che faceva il postino e collezionava francobolli, ha incontrato la ragazza che sarebbe poi divenuta sua moglie (nonché nonna di Yu'er) grazie a una lettera che portava attaccati dei francobolli molto rari.
Nell'ultimo episodio dal titolo Vecchi bambini, il protagonista assoluto è Doubao che con le sue storie intrattiene gli abitanti del quartiere e cerca di gestire il brutto carattere del suo amico d'infanzia Zucca.
Alla fine della lettura di ciascun racconto un sorriso si stampa sulla faccia del lettore e l'animo si fa leggero e contento.
Belli anche i disegni, che ricordano un po' quelli dell'animazione giapponese dello studio Ghibli, e sono arricchiti da un colore acquerellato perfettamente in linea con l'atmosfera di leggerezza che promana da queste pagine.
Un buon modo per investire qualche ora di un pomeriggio assolato d'estate.
Voto: 3,5/5
Bao Publishing ha di recente dedicato una specifica collana delle sue pubblicazioni a una selezione di fumetti cinesi moderni. Questa collana è stata inaugurata con l'albo I racconti dei vicoletti di Nie Jun, che raccoglie quattro racconti che hanno come protagonisti la piccola Yu'er, una bimba con una disabilità che le crea dei problemi di deambulazione, e il nonno Doubao, un tenero sognatore con un enorme affetto per la nipotina.
In ciascuno di questi racconti abbiamo la possibilità di conoscere la vita dei vicoletti e dei suoi abitanti e ci immergiamo in questo mondo fatto di piccoli eventi quotidiani ma anche di grandi sogni e un pizzico di magia, il tutto raccontato con straordinaria leggerezza e amorevolezza.
Il primo episodio, Il sogno di Yu'er, vede quest'ultima desiderosa di imparare a nuotare e diventare una campionessa, ma respinta a un corso di nuoto a causa della sua disabilità; sarà il nonno a inventare uno stratagemma che aiuterà Yu'er a imparare a nuotare e la farà volare con l'immaginazione sul mondo nel quale abita.
Nel secondo episodio, Il paradiso degli insetti, viene raccontato un episodio di bullismo nei confronti di Yu'er, nato dal tentativo di quest'ultima di salvare una farfalla. In soccorso della bimba arriverà il piccolo Doubao che porterà poi Yu'er nel paradiso degli insetti da lui stessi creato e curato. Ma Doubao è reale o è la personificazione dei racconti del nonno in merito alla sua infanzia?
Il terzo episodio, La lettera, ci racconta come il nonno Doubao, che faceva il postino e collezionava francobolli, ha incontrato la ragazza che sarebbe poi divenuta sua moglie (nonché nonna di Yu'er) grazie a una lettera che portava attaccati dei francobolli molto rari.
Nell'ultimo episodio dal titolo Vecchi bambini, il protagonista assoluto è Doubao che con le sue storie intrattiene gli abitanti del quartiere e cerca di gestire il brutto carattere del suo amico d'infanzia Zucca.
Alla fine della lettura di ciascun racconto un sorriso si stampa sulla faccia del lettore e l'animo si fa leggero e contento.
Belli anche i disegni, che ricordano un po' quelli dell'animazione giapponese dello studio Ghibli, e sono arricchiti da un colore acquerellato perfettamente in linea con l'atmosfera di leggerezza che promana da queste pagine.
Un buon modo per investire qualche ora di un pomeriggio assolato d'estate.
Voto: 3,5/5
mercoledì 10 giugno 2020
Les Misérables = I Miserabili
Siamo a Parigi nell'estate del 2018. La nazionale di calcio francese ha appena vinto i mondiali e tutti si riversano nel centro della città per festeggiare la vittoria, compresi i tanti giovani e giovanissimi immigrati di seconda e terza generazione che vivono nelle periferie della città.
Tra questi ci sono i ragazzi che provengono da Montfermeil, un comune a sud est di Parigi, noto da un lato per essere uno dei luoghi dove è ambientato il romanzo di Victor Hugo Les Misérables e dall'altro per essere stato uno dei centri delle rivolte delle banlieue nel 2005.
Qui vive Buzz (Al-Hassan Ly), un ragazzino che passa il suo tempo libero facendo volare il suo drone tra le case per riprendere le ragazze o quello che lo colpisce, e anche Issa (Issa Perica), un altro ragazzino che continua a entrare e uscire dalla Questura a causa delle sue scorribande.
A Montfermeil è appena arrivato un nuovo poliziotto, Stéphane (Damien Bonnard), che farà parte della BAC, il nucleo antidroga che è ben noto nel quartiere e che intrattiene rapporti non esattamente trasparenti con i boss che controllano il territorio.
Il film di Ladj Ly, il regista e sceneggiatore di origine maliana che in questo quartiere è cresciuto, si svolge tutto nell'arco delle 48 ore che seguono all'arrivo di Stéphane e che sostanzialmente corrispondono alle sue due prime giornate di lavoro.
I poliziotti saranno impegnati nel recupero di un cucciolo di leone che Issa ha rubato agli zingari del circo e che ha creato le premesse per possibili conflitti nel quartiere. L'inseguimento di Issa e il recupero del leone si riveleranno molto più difficili e rischiosi del previsto, al punto da innescare una reazione a catena destinata a infiammare gli animi dei giovani abitanti di Montfermeil, intrappolati dentro un sistema di potere che li condanna senza speranza.
La loro sarà una rivolta senza distinguo, perché quando sei condannato dalla nascita a non avere un futuro non puoi distinguere veramente tra buoni e cattivi, tra stato di giustizia e stato criminale, perché è il sistema nel suo complesso che va combattuto e rovesciato.
Ciò che rimane sono solo le macerie di una guerra tra "miserabili" di cui a nessuno interessa davvero. Le banlieue sono l'arena che il sistema sociale costituito ha creato e continua a mantenere per fungere da spazio nel quale gli emarginati si fanno le loro guerre lontano dal cuore pulsante della città.
Ladj Ly non è il primo a raccontare questo mondo ma certamente lo fa con un ritmo, una crudezza e al contempo una tenerezza che lasciano senza fiato e che scuotono profondamente lo spettatore. Al termine del film - sulla citazione finale di Victor Hugo - non si può fare a meno di sentire la proprio impotenza di fronte all'enormità di una situazione che è andata già troppo oltre per avere soluzioni semplici o anche solo immaginabili e di comprendere la rabbia e la frustrazione di questa generazione di francesi (perché non ha più senso chiamarli immigrati) che è stata completamente abbandonata al proprio destino.
Sarà che ho visto Les Misérables dopo poche settimane da Favolacce dei fratelli D'Innocenzo, ma io ho riconosciuto un ideale fil rouge tra questi due film che parlano entrambi della generazione dei giovanissimi. Gli uni - quelli di Ladj Ly - esclusi ed emarginati dal benessere dell'Occidente pur standoci all'interno, gli altri - quelli dei D'Innocenzo - perfettamente integrati nella "società del benessere" ma vittime anch'essi di un modello economico e sociale che dimostra ogni giorno di più le sue drammatiche conseguenze.
Quale prezzo dovrà pagare questa generazione per il perdurare di un modello sociale basato sull'immagine e produttore di iniquità?
Voto: 4/5
Tra questi ci sono i ragazzi che provengono da Montfermeil, un comune a sud est di Parigi, noto da un lato per essere uno dei luoghi dove è ambientato il romanzo di Victor Hugo Les Misérables e dall'altro per essere stato uno dei centri delle rivolte delle banlieue nel 2005.
Qui vive Buzz (Al-Hassan Ly), un ragazzino che passa il suo tempo libero facendo volare il suo drone tra le case per riprendere le ragazze o quello che lo colpisce, e anche Issa (Issa Perica), un altro ragazzino che continua a entrare e uscire dalla Questura a causa delle sue scorribande.
A Montfermeil è appena arrivato un nuovo poliziotto, Stéphane (Damien Bonnard), che farà parte della BAC, il nucleo antidroga che è ben noto nel quartiere e che intrattiene rapporti non esattamente trasparenti con i boss che controllano il territorio.
Il film di Ladj Ly, il regista e sceneggiatore di origine maliana che in questo quartiere è cresciuto, si svolge tutto nell'arco delle 48 ore che seguono all'arrivo di Stéphane e che sostanzialmente corrispondono alle sue due prime giornate di lavoro.
I poliziotti saranno impegnati nel recupero di un cucciolo di leone che Issa ha rubato agli zingari del circo e che ha creato le premesse per possibili conflitti nel quartiere. L'inseguimento di Issa e il recupero del leone si riveleranno molto più difficili e rischiosi del previsto, al punto da innescare una reazione a catena destinata a infiammare gli animi dei giovani abitanti di Montfermeil, intrappolati dentro un sistema di potere che li condanna senza speranza.
La loro sarà una rivolta senza distinguo, perché quando sei condannato dalla nascita a non avere un futuro non puoi distinguere veramente tra buoni e cattivi, tra stato di giustizia e stato criminale, perché è il sistema nel suo complesso che va combattuto e rovesciato.
Ciò che rimane sono solo le macerie di una guerra tra "miserabili" di cui a nessuno interessa davvero. Le banlieue sono l'arena che il sistema sociale costituito ha creato e continua a mantenere per fungere da spazio nel quale gli emarginati si fanno le loro guerre lontano dal cuore pulsante della città.
Ladj Ly non è il primo a raccontare questo mondo ma certamente lo fa con un ritmo, una crudezza e al contempo una tenerezza che lasciano senza fiato e che scuotono profondamente lo spettatore. Al termine del film - sulla citazione finale di Victor Hugo - non si può fare a meno di sentire la proprio impotenza di fronte all'enormità di una situazione che è andata già troppo oltre per avere soluzioni semplici o anche solo immaginabili e di comprendere la rabbia e la frustrazione di questa generazione di francesi (perché non ha più senso chiamarli immigrati) che è stata completamente abbandonata al proprio destino.
Sarà che ho visto Les Misérables dopo poche settimane da Favolacce dei fratelli D'Innocenzo, ma io ho riconosciuto un ideale fil rouge tra questi due film che parlano entrambi della generazione dei giovanissimi. Gli uni - quelli di Ladj Ly - esclusi ed emarginati dal benessere dell'Occidente pur standoci all'interno, gli altri - quelli dei D'Innocenzo - perfettamente integrati nella "società del benessere" ma vittime anch'essi di un modello economico e sociale che dimostra ogni giorno di più le sue drammatiche conseguenze.
Quale prezzo dovrà pagare questa generazione per il perdurare di un modello sociale basato sull'immagine e produttore di iniquità?
Voto: 4/5
lunedì 8 giugno 2020
Eros / Tina Modotti. Palazzo Merulana. Ara Güler. Museo di Roma in Trastevere, 23 febbraio 2020
Era una bella domenica di sole poco prima che iniziasse l'incubo Coronavirus e ancora si girava tranquilli per la città a godere delle sue bellezze e delle sue attività culturali. Poi con il lockdown questo post è rimasto in panchina e avevo pensato di non pubblicarlo più. Ora che almeno il Museo di Roma in Trastevere ha riaperto ho pensato che potesse essere utile offrire questi brevi appunti ai lettori.
La prima delle due mostre visitate in quel weekend era stata inaugurata da pochissimo a Palazzo Merulana nell'ambito di una serie di iniziative dedicate complessivamente alla fotografia. Si trattava della mostra intitolata Eros e dedicata a Tina Modotti, grande fotografa e non solo, la cui vita assomiglia davvero a un romanzo. La mostra occupava l'ultimo piano del palazzo, cosicché abbiamo approfittato del biglietto d'ingresso per dare anche un occhio alla collezione Cerasi, ossia la raccolta di quadri e sculture prevalentemente degli anni '20 e '30 appartenenti ai coniugi Cerasi ed esposto al secondo e terzo piano del palazzo.
La mostra fotografica - come spesso accade per le mostre di Palazzo Merulana - si presentava piuttosto risicata. Si componeva di quattro parti: una parete raccoglieva alcune fotografie iconiche della Modotti, un'altra era dedicata alle fotografie di mani e fiori che instaurano tra loro quasi un dialogo, un'altra parete ancora era dedicata alle donne messicane che camminano con i tipici contenitori in equilibrio sulla testa, infine il corridoio era dedicato alle foto dei murales messicani.
Si trattava nel complesso di foto belle e interessanti, ma che certamente non rendevano appieno la complessità della figura di Tina Modotti come fotografa e come attivista, e la visita nel complesso ci ha lasciato un po' di amaro in bocca perché ci saremmo aspettate molto di più.
Voto: 2,5/5
Per consolarci avevamo deciso di andare a fare un salto anche al Museo di Roma in Trastevere dove era corso - ed è ancora visitabile - la mostra dedicata al fotografo turco Ara Güler. Come spesso accade per le mostre in questo museo, il nome del fotografo non mi dice nulla, ma poi scopro che si tratta di una figura importantissima nel mondo della fotografia, vincitore di moltissimi premi e riconoscimenti in tutto il mondo.
La mostra romana dedica molto spazio in particolare alle sue foto della città di Istanbul, sua città di origine che Güler ha continuato a fotografare per tutta la vita, riuscendo a coglierne l'anima e a raccontarne i diversi quartieri con uno sguardo attento e amorevole. Le fotografie sono bellissime ed emozionanti, e fanno venire voglia di vederne ancora e ancora, e di mettersi immediatamente in viaggio verso Istanbul, anche se quella Istanbul che Güler fotografa forse non esiste quasi più.
L'ultima parte della mostra è dedicata ai ritratti che Güler ha fatto ai personaggi famosi, anche questi affascinanti e originali per la capacità - come mi fa notare S. - di ritrarre queste persone come fosse persone normali e nello stesso tempo di farne venir fuori l'anima.
Facciamo un giro esplorativo anche al piano superiore, ma le mostre lì in corso non ci catturano, così usciamo nella luce rosata di un bellissimo tramonto romano di fine febbraio.
Voto: 4/5
La prima delle due mostre visitate in quel weekend era stata inaugurata da pochissimo a Palazzo Merulana nell'ambito di una serie di iniziative dedicate complessivamente alla fotografia. Si trattava della mostra intitolata Eros e dedicata a Tina Modotti, grande fotografa e non solo, la cui vita assomiglia davvero a un romanzo. La mostra occupava l'ultimo piano del palazzo, cosicché abbiamo approfittato del biglietto d'ingresso per dare anche un occhio alla collezione Cerasi, ossia la raccolta di quadri e sculture prevalentemente degli anni '20 e '30 appartenenti ai coniugi Cerasi ed esposto al secondo e terzo piano del palazzo.
La mostra fotografica - come spesso accade per le mostre di Palazzo Merulana - si presentava piuttosto risicata. Si componeva di quattro parti: una parete raccoglieva alcune fotografie iconiche della Modotti, un'altra era dedicata alle fotografie di mani e fiori che instaurano tra loro quasi un dialogo, un'altra parete ancora era dedicata alle donne messicane che camminano con i tipici contenitori in equilibrio sulla testa, infine il corridoio era dedicato alle foto dei murales messicani.
Si trattava nel complesso di foto belle e interessanti, ma che certamente non rendevano appieno la complessità della figura di Tina Modotti come fotografa e come attivista, e la visita nel complesso ci ha lasciato un po' di amaro in bocca perché ci saremmo aspettate molto di più.
Voto: 2,5/5
Per consolarci avevamo deciso di andare a fare un salto anche al Museo di Roma in Trastevere dove era corso - ed è ancora visitabile - la mostra dedicata al fotografo turco Ara Güler. Come spesso accade per le mostre in questo museo, il nome del fotografo non mi dice nulla, ma poi scopro che si tratta di una figura importantissima nel mondo della fotografia, vincitore di moltissimi premi e riconoscimenti in tutto il mondo.
La mostra romana dedica molto spazio in particolare alle sue foto della città di Istanbul, sua città di origine che Güler ha continuato a fotografare per tutta la vita, riuscendo a coglierne l'anima e a raccontarne i diversi quartieri con uno sguardo attento e amorevole. Le fotografie sono bellissime ed emozionanti, e fanno venire voglia di vederne ancora e ancora, e di mettersi immediatamente in viaggio verso Istanbul, anche se quella Istanbul che Güler fotografa forse non esiste quasi più.
L'ultima parte della mostra è dedicata ai ritratti che Güler ha fatto ai personaggi famosi, anche questi affascinanti e originali per la capacità - come mi fa notare S. - di ritrarre queste persone come fosse persone normali e nello stesso tempo di farne venir fuori l'anima.
Facciamo un giro esplorativo anche al piano superiore, ma le mostre lì in corso non ci catturano, così usciamo nella luce rosata di un bellissimo tramonto romano di fine febbraio.
Voto: 4/5
mercoledì 3 giugno 2020
Is the man who is tall happy? An animated conversation with Noam Chomsky
Michel Gondry è secondo me uno dei cineasti più versatili ed originali del nostro tempo, dotato di una creatività e di una capacità immaginifica decisamente rara. Lui – per intenderci – è quello di The eternal sunshine of the spotless mind (indimenticabile film con Jim Carrey e Kate Winslet), ma anche de L’arte del sogno e di Microbo e Gasolina. Non sempre i suoi lavori sono ugualmente riusciti e risolti, ma in ogni suo film è possibile trovare degli spunti interessanti e sorprendenti.
In questo caso Gondry decide di raccontare uno dei più grandi pensatori della nostra epoca, Noam Chomsky, e lo fa a modo suo. Innanzitutto lo riprende con una cinepresa meccanica di cui conserva nel film il rumore in sottofondo, in secondo luogo sceglie di evitare per quanto possibile il montaggio e di raccontare quello che Chomsky dice in risposta alle sue domande attraverso dei disegni animati. La premessa – che il regista ci spiega all’inizio del film – è che il video, anche quello di carattere documentario, è per sua stessa natura manipolatorio, e che - attraverso la scelta delle parti di girato da mostrare e del montaggio che viene applicato - di fatto lo spettatore viene indotto a seguire il ragionamento del regista, pur pensando di stare semplicemente osservando la realtà.
Per evitare questa impressione di realtà in presa diretta, Gondry sceglie di introdurre l’elemento di finzione nella forma delle animazioni e del rumore della cinepresa per non far mai dimenticare allo spettatore che quella che guarda è una realtà ricostruita.
Con questi presupposti, Gondry propone un ritratto a tutto tondo di Chomsky, di cui porta alla luce sia la dimensione privata che quella dello studioso, in particolare per i suoi innovativi studi di linguistica. Mi pare che Gondry scelga di mantenere volutamente sullo sfondo l’attivismo politico di Chomsky che emerge di tanto in tanto nei suoi ricordi, ma che non è centrale nella narrazione, a favore della componente umana e di quella scientifica.
Il dialogo sui temi centrali della ricerca di Chomsky in campo linguistico, in particolare quelli relativi alla grammatica generativa, fa emergere discorsi complessi che si fa fatica a seguire, e rispetto ai quali lo stesso regista e intervistatore è talvolta perplesso, tra l’altro non certo favorito dal suo inglese con forte accento francese che rende la conversazione con lo studioso non sempre semplice e piana.
Ci si perde nelle parole di Chomsky, e in molto casi ci si sente stupidi esattamente come Gondry di fronte alle sue spiegazioni, ma poi si resta folgorati quando improvvisamente alcune sue affermazioni ci illuminano e ci si scolpiscono nel cervello, come quando ci dice che in natura tutto è semplice e ha una spiegazione semplice, il che vuol dire che se qualcosa ci appare complesso è perché non l’abbiamo ancora compreso. Interessanti anche le riflessioni sul fatto che la scienza avanza quando qualcuno cambia completamente il punto di vista sulle cose e anche le riflessioni sulla morte, termine naturale di un ciclo vitale che arriva dal nulla e finisce nel nulla, senza essere dotato di senso, sebbene la morte delle persone che amiamo non possano che lasciare delle ferite indelebili nella nostra anima.
Per me che sono affascinata dalle scienze cognitive – che come dice Chomsky sono ancora ai primordi – un film di grande impatto, nonostante la difficoltà anche solo di arrivare per intuizione a cogliere alcuni dei ragionamenti che il grande studioso ci propone.
Un film anomalo, forse non del tutto riuscito, ma di grande interesse.
Voto: 3,5/5
In questo caso Gondry decide di raccontare uno dei più grandi pensatori della nostra epoca, Noam Chomsky, e lo fa a modo suo. Innanzitutto lo riprende con una cinepresa meccanica di cui conserva nel film il rumore in sottofondo, in secondo luogo sceglie di evitare per quanto possibile il montaggio e di raccontare quello che Chomsky dice in risposta alle sue domande attraverso dei disegni animati. La premessa – che il regista ci spiega all’inizio del film – è che il video, anche quello di carattere documentario, è per sua stessa natura manipolatorio, e che - attraverso la scelta delle parti di girato da mostrare e del montaggio che viene applicato - di fatto lo spettatore viene indotto a seguire il ragionamento del regista, pur pensando di stare semplicemente osservando la realtà.
Per evitare questa impressione di realtà in presa diretta, Gondry sceglie di introdurre l’elemento di finzione nella forma delle animazioni e del rumore della cinepresa per non far mai dimenticare allo spettatore che quella che guarda è una realtà ricostruita.
Con questi presupposti, Gondry propone un ritratto a tutto tondo di Chomsky, di cui porta alla luce sia la dimensione privata che quella dello studioso, in particolare per i suoi innovativi studi di linguistica. Mi pare che Gondry scelga di mantenere volutamente sullo sfondo l’attivismo politico di Chomsky che emerge di tanto in tanto nei suoi ricordi, ma che non è centrale nella narrazione, a favore della componente umana e di quella scientifica.
Il dialogo sui temi centrali della ricerca di Chomsky in campo linguistico, in particolare quelli relativi alla grammatica generativa, fa emergere discorsi complessi che si fa fatica a seguire, e rispetto ai quali lo stesso regista e intervistatore è talvolta perplesso, tra l’altro non certo favorito dal suo inglese con forte accento francese che rende la conversazione con lo studioso non sempre semplice e piana.
Ci si perde nelle parole di Chomsky, e in molto casi ci si sente stupidi esattamente come Gondry di fronte alle sue spiegazioni, ma poi si resta folgorati quando improvvisamente alcune sue affermazioni ci illuminano e ci si scolpiscono nel cervello, come quando ci dice che in natura tutto è semplice e ha una spiegazione semplice, il che vuol dire che se qualcosa ci appare complesso è perché non l’abbiamo ancora compreso. Interessanti anche le riflessioni sul fatto che la scienza avanza quando qualcuno cambia completamente il punto di vista sulle cose e anche le riflessioni sulla morte, termine naturale di un ciclo vitale che arriva dal nulla e finisce nel nulla, senza essere dotato di senso, sebbene la morte delle persone che amiamo non possano che lasciare delle ferite indelebili nella nostra anima.
Per me che sono affascinata dalle scienze cognitive – che come dice Chomsky sono ancora ai primordi – un film di grande impatto, nonostante la difficoltà anche solo di arrivare per intuizione a cogliere alcuni dei ragionamenti che il grande studioso ci propone.
Un film anomalo, forse non del tutto riuscito, ma di grande interesse.
Voto: 3,5/5
lunedì 1 giugno 2020
Le variazioni Bradshaw / Rachel Cusk
Le variazioni Bradshaw / Rachel Cusk; trad. di Silvia Pareschi. Milano: Mondadori, 2009.
Era un po’ che sentivo parlare dei libri di Rachel Cusk, in particolare dopo l’uscita dei libri che compongono la sua trilogia, Resoconto, Transiti e Onori, che l’hanno consacrata come una delle scrittrici più significative della contemporaneità e più originali sul piano dello stile di scrittura.
Incuriosita, ho cominciato a spulciare la sua bibliografia alla ricerca di un titolo che mi attirasse e da cui potessi cominciare a scoprire la sua opera. La mia scelta è caduta su Le variazioni Bradshaw in virtù della mia passione per le storie familiari.
Il romanzo della Cusk parla infatti di un periodo della vita della famiglia Bradshaw, soffermandosi in particolare sulle figure di Thomas, che ha preso un anno sabbatico e passa dunque le sue giornate a casa, e Tonie, sua moglie che invece ha ricevuto un incarico importante dalla sua università e dunque passa sempre più tempo fuori casa. Uno spazio significativo è dedicato anche al fratello di Thomas, Howard, e alla sua famiglia, in particolare alla moglie Claudia, e qualche breve flash all’altro fratello Leo e a sua moglie Susie, nonché ai genitori di questi tre fratelli.
Lo stile narrativo della Cusk è certamente particolare, in quanto la scrittrice non adotta una narrazione lineare, bensì è come se in ciascun capitolo mettesse a fuoco una situazione o un dettaglio, lasciando al lettore il compito di costruire l’esile trama d’insieme.
La scrittura (molto ben resa dalla traduttrice Silvia Pareschi) ha una forte componente intellettualistica, messa al servizio del ritratto di una famiglia borghese in cui ogni componente è a suo modo profondamente frustrato e infelice.
In questo senso la Cusk eredita la lunga tradizione americana dei romanzi che tolgono il velo da quell’immagine di perfezione della famiglia borghese che a lungo la società americana ha coltivato e veicolato. Per alcuni versi il libro mi ha riportato alla mente romanzi quali Le correzioni di Jonathan Franzen.
E – anche considerando la reazione che avevo avuto alla lettura del libro di Franzen – può essere che io abbia una specie di idiosincrasia verso questa tematica e questo stile.
Col passare del tempo sopporto sempre meno questa passione quasi morbosa degli scrittori americani per questa forma di “male di vivere”, che appare ai miei occhi indebolita dall’insipienza di questi personaggi frustrati e scontenti senza motivo.
Per di più, man mano che il topos della famiglia che guardata da vicino mostra tutte le sue crepe continua a essere usato e abusato, il senso di artificiosità che porta con sé risulta crescente, creando un inevitabile e fastidiosa distanza emotiva – forse voluta – dai protagonisti.
Ho sperato più volte nel corso della lettura in un guizzo o in un cambio di marcia, ma la Cusk prosegue dall’inizio alla fine sullo stesso binario, semmai scavando via via più in profondità il solco del grigiore emotivo della famiglia Bradshaw.
Voto: 2,5/5
Era un po’ che sentivo parlare dei libri di Rachel Cusk, in particolare dopo l’uscita dei libri che compongono la sua trilogia, Resoconto, Transiti e Onori, che l’hanno consacrata come una delle scrittrici più significative della contemporaneità e più originali sul piano dello stile di scrittura.
Incuriosita, ho cominciato a spulciare la sua bibliografia alla ricerca di un titolo che mi attirasse e da cui potessi cominciare a scoprire la sua opera. La mia scelta è caduta su Le variazioni Bradshaw in virtù della mia passione per le storie familiari.
Il romanzo della Cusk parla infatti di un periodo della vita della famiglia Bradshaw, soffermandosi in particolare sulle figure di Thomas, che ha preso un anno sabbatico e passa dunque le sue giornate a casa, e Tonie, sua moglie che invece ha ricevuto un incarico importante dalla sua università e dunque passa sempre più tempo fuori casa. Uno spazio significativo è dedicato anche al fratello di Thomas, Howard, e alla sua famiglia, in particolare alla moglie Claudia, e qualche breve flash all’altro fratello Leo e a sua moglie Susie, nonché ai genitori di questi tre fratelli.
Lo stile narrativo della Cusk è certamente particolare, in quanto la scrittrice non adotta una narrazione lineare, bensì è come se in ciascun capitolo mettesse a fuoco una situazione o un dettaglio, lasciando al lettore il compito di costruire l’esile trama d’insieme.
La scrittura (molto ben resa dalla traduttrice Silvia Pareschi) ha una forte componente intellettualistica, messa al servizio del ritratto di una famiglia borghese in cui ogni componente è a suo modo profondamente frustrato e infelice.
In questo senso la Cusk eredita la lunga tradizione americana dei romanzi che tolgono il velo da quell’immagine di perfezione della famiglia borghese che a lungo la società americana ha coltivato e veicolato. Per alcuni versi il libro mi ha riportato alla mente romanzi quali Le correzioni di Jonathan Franzen.
E – anche considerando la reazione che avevo avuto alla lettura del libro di Franzen – può essere che io abbia una specie di idiosincrasia verso questa tematica e questo stile.
Col passare del tempo sopporto sempre meno questa passione quasi morbosa degli scrittori americani per questa forma di “male di vivere”, che appare ai miei occhi indebolita dall’insipienza di questi personaggi frustrati e scontenti senza motivo.
Per di più, man mano che il topos della famiglia che guardata da vicino mostra tutte le sue crepe continua a essere usato e abusato, il senso di artificiosità che porta con sé risulta crescente, creando un inevitabile e fastidiosa distanza emotiva – forse voluta – dai protagonisti.
Ho sperato più volte nel corso della lettura in un guizzo o in un cambio di marcia, ma la Cusk prosegue dall’inizio alla fine sullo stesso binario, semmai scavando via via più in profondità il solco del grigiore emotivo della famiglia Bradshaw.
Voto: 2,5/5
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