Nel programma teatrale di quest’anno non so se non mi ero accorta della programmazione di questo spettacolo, oppure lo avevo considerato un po’ estraneo ai miei interessi nonostante la presenza di Elisabetta Pozzi. Poi, su sollecitazione di F., mi sono convinta ad andare e devo dire che non me ne sono pentita.
I maneggi per maritare una figlia è un’opera in dialetto genovese scritta a cavallo tra Ottocento e Novecento da un drammaturgo genovese di nome Niccolò Bacigalupo. L’opera è stata resa famosa dalla messa in scena - registrata anche per la televisione nel 1959 – interpretata dal genovese doc Gilberto Govi e da sua moglie Rina Gaioni.
A riportare in scena questo classico del teatro genovese è un altro genovese doc, Tullio Solenghi, che cura l’adattamento insieme a Margherita Rubino, la regia e l’interpretazione del personaggio principale, Steva, ossia il ruolo che fu di Govi. Nel ruolo invece di sua moglie Giggia la mia adorata Elisabetta Pozzi, anche lei genovese, e del resto non poteva che essere così per un testo in cui la genovesità è un tratto fortemente caratterizzante.
I maneggi per maritare una figlia è una commedia in due atti: il primo è ambientato a Genova nella casa di città dove Steva e Giggia vivono con la figlia Matilde in età da matrimonio, di cui è innamorato il cugino Cesare, ma che aspira invece al signor Riccardo, figlio di un senatore, il secondo è ambientato nella villa di campagna dove Steva, Giggia e Matilde hanno invitato anche la cugina Carlotta e suo fratello Cesare, nonché il signor Riccardo e il suo amico Pippo, e dove arriva a un certo punto anche il signor Venanzio.
È nel secondo atto che a poco a poco si va dispiegando il tipico intreccio narrativo da commedia degli equivoci sulla base del quale le cose prendono direzioni diverse da quelle che in particolare Giggia e Matilde si aspettano, ma che alla fine riusciranno a convergere verso un finale tutto sommato felice e ben accetto per tutti.
Tullio Solenghi sceglie una messa in scena molto rispettosa del testo e certamente coglie l’occasione per confezionare un vero e proprio omaggio a Gilberto Govi, di cui tra l’altro proprio in conclusione sentiamo la voce registrata come se provenisse dalla radio che Steva ha ricevuto in dono e che è giunta con un pacco da Buenos Aires.
In un certo senso proprio la fedeltà al testo e l’esplicita ispirazione alla messa in scena degli anni Cinquanta sono al contempo il punto di forza e il punto di debolezza dello spettacolo. Da un lato infatti lo spettatore fa un vero e proprio viaggio nel tempo, catapultato in un teatro che praticamente non esiste più, e ne riscopre le virtù semplici ma anche immortali, dall'altro il salto indietro nel tempo non può passare inosservato a livello di ritmi, di intreccio e di drammaturgia.
Non a caso, e a seconda delle inclinazioni individuali, nel pubblico c’è chi si fa trascinare dal fascino e dalla comicità un po’ vintage di questo testo, e si diverte molto, e chi – com'è il mio caso – non riesce completamente a superare la percezione di una distanza temporale che diventa a tratti emotiva, nonostante la bravura di tutti gli attori e i temi universali che sono sottesi a questo intreccio.
Ciò detto, si tratta di un’esperienza teatrale che sono contenta di aver fatto, e che aggiunge un ulteriore tassello al quadro complessivo del mio rapporto con il teatro.
Voto: 3/5
lunedì 29 aprile 2024
mercoledì 24 aprile 2024
Come dividere una pesca / Noor Naga
Come dividere una pesca / Noor Naga; trad. di Francesca Pe'. Milano: Feltrinelli, 2023.
Protagonisti di questo romanzo di Noor Naga sono una ragazza e un ragazzo senza nome. Lei è di origine egiziana ma è cresciuta in America dopo che i genitori si sono trasferiti lì, lui viene da un piccolo e poverissimo villaggio che ha abbandonato per spostarsi al Cairo dove ha partecipato alle manifestazioni che hanno portato alla caduta di Mubarak.
Lei decide di trascorrere un periodo al Cairo perché vuole entrare in contatto con il suo paese d'origine, nonostante il parere contrario della madre, e ci arriva da privilegiata, con un lavoro, una bella casa a disposizione e ampie possibilità economiche. Nel frequentare il Riche Cafe conosce il ragazzo di Shubra Khit, e da qui inizia una relazione tra i due. Si tratterà di un incontro tra due mondi apparentemente vicini, ma in realtà lontanissimi e inevitabilmente destinati a entrare in collisione.
Il libro di Noor Naga è articolato in tre parti. Nella prima ogni capitolo inizia con una domanda più o meno bizzarra, cui segue il relativo punto di vista dei due protagonisti, che si alternano capitolo dopo capitolo. Nella seconda parte la storia continua senza domande, ma sempre attraverso l'alternarsi del racconto di lei e di lui, dopo che le loro strade si sono separate. L'ultima parte racconta un laboratorio di scrittura in cui un insegnante e un gruppo di persone stanno commentando il romanzo di Noor, in particolare discutono della sua terza parte, e dunque di quanto accaduto dopo gli ultimi eventi descritti nella seconda parte, e si conclude con la notizia che il romanzo verrà pubblicato.
Sul piano della struttura narrativa, come si vede, si tratta di un romanzo molto originale che spariglia un po' le carte della narrazione e, in particolare nell'ultima sezione, svela la finzione, facendosi meta-narrativo, e portando direttamente nel romanzo alcune possibili obiezioni del lettore. E già questo lo rende piuttosto interessante.
A me personalmente ha però intrigato particolarmente lo sguardo all'interno della cultura e della società egiziane, soprattutto in relazione al rapporto con il mondo femminile. Il fatto che la protagonista sia una egiziana (e non una straniera), ma una egiziana di cultura occidentale, rende questo sguardo estremamente sfaccettato e complesso, pieno di contraddizioni, e costringe il lettore a riflettere sul tema delle distanze culturali, sulle moltissime forme ancora esistenti di colonialismo, sulle disparità interne alla stessa società egiziana, sulla profonda delusione di un popolo rispetto al sogno di riscattarsi, e su molto altro che il nostro punto di vista occidentale non solo ci rende difficile comprendere ma talvolta persino riconoscere.
Una lettura non facile e a tratti persino respingente, per la violenza psicologica strisciante che la attraversa, ma estremamente stimolante.
Voto: 3,5/5
Protagonisti di questo romanzo di Noor Naga sono una ragazza e un ragazzo senza nome. Lei è di origine egiziana ma è cresciuta in America dopo che i genitori si sono trasferiti lì, lui viene da un piccolo e poverissimo villaggio che ha abbandonato per spostarsi al Cairo dove ha partecipato alle manifestazioni che hanno portato alla caduta di Mubarak.
Lei decide di trascorrere un periodo al Cairo perché vuole entrare in contatto con il suo paese d'origine, nonostante il parere contrario della madre, e ci arriva da privilegiata, con un lavoro, una bella casa a disposizione e ampie possibilità economiche. Nel frequentare il Riche Cafe conosce il ragazzo di Shubra Khit, e da qui inizia una relazione tra i due. Si tratterà di un incontro tra due mondi apparentemente vicini, ma in realtà lontanissimi e inevitabilmente destinati a entrare in collisione.
Il libro di Noor Naga è articolato in tre parti. Nella prima ogni capitolo inizia con una domanda più o meno bizzarra, cui segue il relativo punto di vista dei due protagonisti, che si alternano capitolo dopo capitolo. Nella seconda parte la storia continua senza domande, ma sempre attraverso l'alternarsi del racconto di lei e di lui, dopo che le loro strade si sono separate. L'ultima parte racconta un laboratorio di scrittura in cui un insegnante e un gruppo di persone stanno commentando il romanzo di Noor, in particolare discutono della sua terza parte, e dunque di quanto accaduto dopo gli ultimi eventi descritti nella seconda parte, e si conclude con la notizia che il romanzo verrà pubblicato.
Sul piano della struttura narrativa, come si vede, si tratta di un romanzo molto originale che spariglia un po' le carte della narrazione e, in particolare nell'ultima sezione, svela la finzione, facendosi meta-narrativo, e portando direttamente nel romanzo alcune possibili obiezioni del lettore. E già questo lo rende piuttosto interessante.
A me personalmente ha però intrigato particolarmente lo sguardo all'interno della cultura e della società egiziane, soprattutto in relazione al rapporto con il mondo femminile. Il fatto che la protagonista sia una egiziana (e non una straniera), ma una egiziana di cultura occidentale, rende questo sguardo estremamente sfaccettato e complesso, pieno di contraddizioni, e costringe il lettore a riflettere sul tema delle distanze culturali, sulle moltissime forme ancora esistenti di colonialismo, sulle disparità interne alla stessa società egiziana, sulla profonda delusione di un popolo rispetto al sogno di riscattarsi, e su molto altro che il nostro punto di vista occidentale non solo ci rende difficile comprendere ma talvolta persino riconoscere.
Una lettura non facile e a tratti persino respingente, per la violenza psicologica strisciante che la attraversa, ma estremamente stimolante.
Voto: 3,5/5
lunedì 22 aprile 2024
Rendez-vous festival del nuovo cinema francese, 3-7 aprile 2024
E anche quest'anno come da tradizione non poteva mancare una piccola maratona di cinema francese grazie al Festival Rendez-vous, che ancora una volta è ospitato al Nuovo Sacher dove c'è sempre Nanni Moretti a fare gli onori di casa. In tutto riesco a vedere tre film, piuttosto diversi l'uno dall'altro, scelti un po' sulla base dell'interesse, un po' sulla base delle mie disponibilità di tempo. Ovviamente non mi permetto di dare un giudizio sul festival a partire da questi soli tre film, ma il mio bilancio finale, pur essendo positivo, non è entusiasta come in altre circostanze, nel senso che ho trovato i film godibili, ma non imperdibili. Comunque il valore aggiunto di poterli vedere in anteprima, in lingua originale e poter assistere al Q&A con il regista o gli interpreti rende l'esperienza assolutamente valida.
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Le procès Goldman = Il caso Goldman
In questo caso la scelta del film scaturisce sia dall'apprezzamento verso il regista Cédric Kahn sia dall'interesse verso i film giudiziari, che - se ben fatti - trovo molto appassionanti.
In questo caso Kahn ci propone un film strettamente giudiziario, visto che l'azione si svolge quasi interamente all'interno dell'aula del tribunale, il che - anche per effetto dell'uso di un formato 4/3 - produce un effetto decisamente claustrofobico.
Al centro la figura di Pierre Goldman, un estremista di sinistra di origine ebreo-polacca che negli anni Settanta compì numerose rapine, una delle quali finì con l'uccisione di due donne. L'uomo fu condannato in primo grado all'ergastolo in quanto riconosciuto colpevole anche del duplice omicidio. Il film di Kahn ci racconta il secondo grado del processo che arrivò anche grazie alla determinazione del padre di Pierre, figura di spicco della Resistenza francese, e sulla scia del grande successo del libro che lo stesso Goldman aveva scritto e che gli aveva procurato un ampio sostegno.
Come ci dice il regista, il film è stato interamente scritto sulla base dello studio dei giornali dell'epoca, mentre non è stato possibile accedere agli atti originali del processo. Ne viene fuori la figura istrionica di Goldman, che spesso interveniva persino contraddicendo i suoi avvocati, che pure ebbero un ruolo decisivo nell'assoluzione dell'uomo dall'accusa di omicidio.
È evidente che il film nasce da una vera e propria fascinazione per questo personaggio, che io personalmente non conoscevo, ma che certamente in Francia ha segnato un'epoca e il cui processo è stato rappresentativo di una temperie politico-sociale, che - pur non riguardando solo la Francia - certamente in questo paese ha avuto caratteristiche specifiche, che in parte ci sfuggono.
Sarà anche per questo che il film risulta piuttosto impegnativo da seguire; in generale la sceneggiatura appare un po' legnosa e a tratti meccanica, forse a causa di una ricostruzione che nasce da fonti molto frammentarie.
L'aspetto certamente più affascinante - che viene sottolineato anche dal regista nel dibattito finale - riguarda il meccanismo di funzionamento della giustizia, che - in assenza di prove schiaccianti - inevitabilmente risente di valutazioni di contesto, pur cercando di tenersi aggrappata alle procedure giudiziarie. Dunque, se Goldman sia stato o meno responsabile degli omicidi, per i quali si professava innocente a differenza che per le rapine, non lo sapremo mai, ma il rischio di un nuovo Affaire Dreyfus e tutta una serie di altri elementi hanno certamente contribuito a spingere verso l'assoluzione.
Voto: 3/5
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Le procès Goldman = Il caso Goldman
In questo caso la scelta del film scaturisce sia dall'apprezzamento verso il regista Cédric Kahn sia dall'interesse verso i film giudiziari, che - se ben fatti - trovo molto appassionanti.
In questo caso Kahn ci propone un film strettamente giudiziario, visto che l'azione si svolge quasi interamente all'interno dell'aula del tribunale, il che - anche per effetto dell'uso di un formato 4/3 - produce un effetto decisamente claustrofobico.
Al centro la figura di Pierre Goldman, un estremista di sinistra di origine ebreo-polacca che negli anni Settanta compì numerose rapine, una delle quali finì con l'uccisione di due donne. L'uomo fu condannato in primo grado all'ergastolo in quanto riconosciuto colpevole anche del duplice omicidio. Il film di Kahn ci racconta il secondo grado del processo che arrivò anche grazie alla determinazione del padre di Pierre, figura di spicco della Resistenza francese, e sulla scia del grande successo del libro che lo stesso Goldman aveva scritto e che gli aveva procurato un ampio sostegno.
Come ci dice il regista, il film è stato interamente scritto sulla base dello studio dei giornali dell'epoca, mentre non è stato possibile accedere agli atti originali del processo. Ne viene fuori la figura istrionica di Goldman, che spesso interveniva persino contraddicendo i suoi avvocati, che pure ebbero un ruolo decisivo nell'assoluzione dell'uomo dall'accusa di omicidio.
È evidente che il film nasce da una vera e propria fascinazione per questo personaggio, che io personalmente non conoscevo, ma che certamente in Francia ha segnato un'epoca e il cui processo è stato rappresentativo di una temperie politico-sociale, che - pur non riguardando solo la Francia - certamente in questo paese ha avuto caratteristiche specifiche, che in parte ci sfuggono.
Sarà anche per questo che il film risulta piuttosto impegnativo da seguire; in generale la sceneggiatura appare un po' legnosa e a tratti meccanica, forse a causa di una ricostruzione che nasce da fonti molto frammentarie.
L'aspetto certamente più affascinante - che viene sottolineato anche dal regista nel dibattito finale - riguarda il meccanismo di funzionamento della giustizia, che - in assenza di prove schiaccianti - inevitabilmente risente di valutazioni di contesto, pur cercando di tenersi aggrappata alle procedure giudiziarie. Dunque, se Goldman sia stato o meno responsabile degli omicidi, per i quali si professava innocente a differenza che per le rapine, non lo sapremo mai, ma il rischio di un nuovo Affaire Dreyfus e tutta una serie di altri elementi hanno certamente contribuito a spingere verso l'assoluzione.
Voto: 3/5
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Con il film di Xavier Legrand ci si sposta decisamente verso un’altra dimensione cinematografica, che sta dalle parti del thriller psicologico. Protagonista è Ellias Barnès (Marc-André Grondin), un giovane stilista di origine canadese (è di Montreal) che si sta definitivamente affermando nell'ambiente dell’alta moda a Parigi, città dove vive da molto tempo. Il film inizia con una sfilata che si svolge in una scenografia a spirale, inquadrata a più riprese dall'alto e accompagnata da una musica che trasmette fin dall'inizio un senso di angoscia e di tragedia imminente.
Ellias sta per prendere l'eredità di una casa di alta moda quando arriva la notizia che suo padre – con il quale si era messo in contatto qualche giorno prima dopo moltissimi anni di lontananza – è morto, cosicché Ellias deve partire per Montreal per gestire il funerale e la dismissione dei beni del padre, compresa la casa nella quale viveva. Qui farà una scoperta agghiacciante che manderà in tilt i suoi programmi e la sua capacità razionale, innescando una reazione a catena che lo condurrà in un abisso sempre più profondo, a fare i conti con l’eredità di suo padre e le colpe dei genitori che ricadono sui figli.
Il regista al termine della proiezione ci dice che con questo film ha voluto indagare un altro aspetto del patriarcato, quello che ha meno a che fare con il rapporto tra uomini e donne, ma che in qualche modo inquina anche l’universo maschile. Sinceramente non so se ho colto quest’aspetto della narrazione; certamente però ho sentito molto intensamente lo stato d'animo del protagonista e, pur riconoscendone dall'esterno gli errori strategici, ho vissuto insieme a lui l'angoscia, la disperazione, il dolore, il senso di sconfitta, l'eterno ritorno di quello che pensavamo di esserci definitivamente lasciati alle spalle. Del resto il film si apre con una spirale, e la spirale ritorna anche nella scala della casa funeraria a cui Ellias si rivolge a Montreal, e in quella spirale il protagonista in qualche modo è destinato a rimanere intrappolato.
Voto: 3,5/5
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Bernadette = La moglie del presidente
Con l'opera prima di Lèa Domenech si chiude l’edizione 2024 del Rendez-vous film festival, e quest’ultima proiezione vede la partecipazione, oltre alla regista, della protagonista del film, Catherine Deneuve, che si porta ancora piuttosto bene i suoi 81 anni. Per la Domenech è la prima volta nel lungometraggio di finzione e, prima dell’inizio del film, la giovane regista ci spiega in un buon italiano la genesi di questo progetto. Dice che la figura di Bernadette Chirac è stata centrale nella società francese negli anni in cui era ragazzina, e che nel suo caso specifico il contatto con questa figura era ancora più forte in quanto suo padre era un giornalista politico. Nonostante l’appartenenza a una parte politica opposta e la cattiva nomea che Bernadette si portava addosso, la regista dice di averne rivalutato la figura dopo aver visto un documentario su di lei, e proprio a partire da quella suggestione ha deciso di realizzare una commedia incentrata su di lei e in particolare sulla sua rivincita come politica e come donna nei confronti di suo marito Jacques Chirac.
Il film è giocato su un registro molto divertente e divertito, come si capisce fin dalle prime scene quando compare un coro che con le sue esecuzioni a cappella spiega e commenta quanto accade nel film; ovviamente, la realtà storica, pur presente, è ampiamente mescolata con la finzione e l’invenzione cinematografica, che trasformano la coppia presidenziale e il suo entourage in un gruppo di personaggi da commedia dell’arte, con venature esilaranti e grottesche. Si tratta però di una leggerezza della narrazione che non scade mai nella volgarità e che non usa mai mezzucci, anzi si mette al servizio di una storia di riscatto femminile, e guarda a Bernadette con lo sguardo benevolo di chi – pur riconoscendone i limiti e i difetti – intende però anche mostrarne le qualità e le intuizioni.
Accanto alla bravissima Deneuve, straordinaria nel non prendersi sul serio, troviamo un grande Denis Podalydès (nel ruolo del consigliere della first lady) e un più macchiettistico Michel Vuillermoz nel ruolo del presidente. Un film godibile che ancora una volta dimostra la capacità dei francesi di parlare di politica e società con tanti registri diversi, ma in maniera non banale.
Voto: 3/5
Le successeur = Il successore
Con il film di Xavier Legrand ci si sposta decisamente verso un’altra dimensione cinematografica, che sta dalle parti del thriller psicologico. Protagonista è Ellias Barnès (Marc-André Grondin), un giovane stilista di origine canadese (è di Montreal) che si sta definitivamente affermando nell'ambiente dell’alta moda a Parigi, città dove vive da molto tempo. Il film inizia con una sfilata che si svolge in una scenografia a spirale, inquadrata a più riprese dall'alto e accompagnata da una musica che trasmette fin dall'inizio un senso di angoscia e di tragedia imminente.
Ellias sta per prendere l'eredità di una casa di alta moda quando arriva la notizia che suo padre – con il quale si era messo in contatto qualche giorno prima dopo moltissimi anni di lontananza – è morto, cosicché Ellias deve partire per Montreal per gestire il funerale e la dismissione dei beni del padre, compresa la casa nella quale viveva. Qui farà una scoperta agghiacciante che manderà in tilt i suoi programmi e la sua capacità razionale, innescando una reazione a catena che lo condurrà in un abisso sempre più profondo, a fare i conti con l’eredità di suo padre e le colpe dei genitori che ricadono sui figli.
Il regista al termine della proiezione ci dice che con questo film ha voluto indagare un altro aspetto del patriarcato, quello che ha meno a che fare con il rapporto tra uomini e donne, ma che in qualche modo inquina anche l’universo maschile. Sinceramente non so se ho colto quest’aspetto della narrazione; certamente però ho sentito molto intensamente lo stato d'animo del protagonista e, pur riconoscendone dall'esterno gli errori strategici, ho vissuto insieme a lui l'angoscia, la disperazione, il dolore, il senso di sconfitta, l'eterno ritorno di quello che pensavamo di esserci definitivamente lasciati alle spalle. Del resto il film si apre con una spirale, e la spirale ritorna anche nella scala della casa funeraria a cui Ellias si rivolge a Montreal, e in quella spirale il protagonista in qualche modo è destinato a rimanere intrappolato.
Voto: 3,5/5
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Bernadette = La moglie del presidente
Con l'opera prima di Lèa Domenech si chiude l’edizione 2024 del Rendez-vous film festival, e quest’ultima proiezione vede la partecipazione, oltre alla regista, della protagonista del film, Catherine Deneuve, che si porta ancora piuttosto bene i suoi 81 anni. Per la Domenech è la prima volta nel lungometraggio di finzione e, prima dell’inizio del film, la giovane regista ci spiega in un buon italiano la genesi di questo progetto. Dice che la figura di Bernadette Chirac è stata centrale nella società francese negli anni in cui era ragazzina, e che nel suo caso specifico il contatto con questa figura era ancora più forte in quanto suo padre era un giornalista politico. Nonostante l’appartenenza a una parte politica opposta e la cattiva nomea che Bernadette si portava addosso, la regista dice di averne rivalutato la figura dopo aver visto un documentario su di lei, e proprio a partire da quella suggestione ha deciso di realizzare una commedia incentrata su di lei e in particolare sulla sua rivincita come politica e come donna nei confronti di suo marito Jacques Chirac.
Il film è giocato su un registro molto divertente e divertito, come si capisce fin dalle prime scene quando compare un coro che con le sue esecuzioni a cappella spiega e commenta quanto accade nel film; ovviamente, la realtà storica, pur presente, è ampiamente mescolata con la finzione e l’invenzione cinematografica, che trasformano la coppia presidenziale e il suo entourage in un gruppo di personaggi da commedia dell’arte, con venature esilaranti e grottesche. Si tratta però di una leggerezza della narrazione che non scade mai nella volgarità e che non usa mai mezzucci, anzi si mette al servizio di una storia di riscatto femminile, e guarda a Bernadette con lo sguardo benevolo di chi – pur riconoscendone i limiti e i difetti – intende però anche mostrarne le qualità e le intuizioni.
Accanto alla bravissima Deneuve, straordinaria nel non prendersi sul serio, troviamo un grande Denis Podalydès (nel ruolo del consigliere della first lady) e un più macchiettistico Michel Vuillermoz nel ruolo del presidente. Un film godibile che ancora una volta dimostra la capacità dei francesi di parlare di politica e società con tanti registri diversi, ma in maniera non banale.
Voto: 3/5
venerdì 19 aprile 2024
No sleep till Shengal / Zerocalcare
No sleep till Shengal / Zerocalcare; con i toni di grigio di Alberto Madrigal. Milano: Bao Publishing, 2022.
A distanza di sei anni da Kobane calling, e con ormai all'attivo un numero imprecisato di albi e ormai ben due serie tv per Netflix, Zerocalcare torna a parlarci di quell'area del mondo collocata tra Siria, Turchia, Iran e Iraq che è il Kurdistan, ma che come tale non viene riconosciuto da nessuno dei paesi citati e nemmeno da buona parte della comunità internazionale.
A fronte di un mio incontro iniziale piuttosto tiepido con il mondo di Zerocalcare, Kobane calling ha rappresentato per me il momento della svolta, quello che mi ha definitivamente conquistata. La versione graphic journalist di Zerocalcare - ovviamente una versione originale e perfettamente in linea con lo stile di Zero (che a me ricorda un po' Guy Delisle) - è forse quella che mi convince di più o quanto meno quella con cui mi è più facile entrare in sintonia.
E la magia si ripete anche con No sleep till Shengal, che racconta il viaggio compiuto da Zerocalcare tra la primavera e l'estate 2021 nell'area dell'Iraq dove la comunità degli Ezidi rivendica l'autonomia dopo aver messo in piedi una confederazione democratica, ma è oggetto di una persecuzione su vasta scala.
Ancora una volta, dietro il viaggio di Zero c'è la comunità curda di Roma e la necessità di accendere i riflettori su un conflitto volutamente dimenticato. Zerocalcare ce ne parla a modo suo, raccontandoci il viaggio, le traversie, i checkpoint, gli incontri, le paure e i dubbi. E in tutto questo il fumettista romano è sempre lui, con le sue idiosincrasie e le sue pippe mentali, ma anche con sei anni di più, e quindi ancora più idiosincrasie e pippe :-D
In ogni caso, il graphic novel è un buon punto di partenza per incuriosirsi alla vicenda degli Ezidi, popolazione che è stata oggetto di numerosi massacri e tentativi di genocidio durante la sua storia, e che combatte per esistere e sopravvivere. Ovviamente questa è una sintesi semplificata, e - come direbbe Zero - le cose sono molto più complesse di così, e lui è un vero maestro nel mettere in scena - prima di tutto per sé stesso - l'obiezione.
Io me lo sono divorato una sera prima di andare a dormire, e non ho spento la luce finché non ho letto l'ultima pagina, la nota scritta che Zerocalcare pospone all'albo per dire che da quando il viaggio è stato compiuto alla pubblicazione dell'albo è passato circa un anno, e ovviamente le cose sono cambiate e alcune delle persone raccontate non ci sono più, perché questa area del mondo ha un livello di instabilità altissimo e raccontarne le vicende è difficile perché le cose cambiano molto rapidamente. Resta però sempre vero che il Kurdistan e più in generale questa area del mondo non trova pace né equilibrio, non solo per gli interessi vari e contrapposti dei paesi che vi gravitano (primo fra tutti la Turchia), ma anche e soprattutto per l'indifferenza - in buona parte interessata - del mondo occidentale.
Zerocalcare ci aiuta a non dimenticarcelo.
Voto: 3,5/5
A distanza di sei anni da Kobane calling, e con ormai all'attivo un numero imprecisato di albi e ormai ben due serie tv per Netflix, Zerocalcare torna a parlarci di quell'area del mondo collocata tra Siria, Turchia, Iran e Iraq che è il Kurdistan, ma che come tale non viene riconosciuto da nessuno dei paesi citati e nemmeno da buona parte della comunità internazionale.
A fronte di un mio incontro iniziale piuttosto tiepido con il mondo di Zerocalcare, Kobane calling ha rappresentato per me il momento della svolta, quello che mi ha definitivamente conquistata. La versione graphic journalist di Zerocalcare - ovviamente una versione originale e perfettamente in linea con lo stile di Zero (che a me ricorda un po' Guy Delisle) - è forse quella che mi convince di più o quanto meno quella con cui mi è più facile entrare in sintonia.
E la magia si ripete anche con No sleep till Shengal, che racconta il viaggio compiuto da Zerocalcare tra la primavera e l'estate 2021 nell'area dell'Iraq dove la comunità degli Ezidi rivendica l'autonomia dopo aver messo in piedi una confederazione democratica, ma è oggetto di una persecuzione su vasta scala.
Ancora una volta, dietro il viaggio di Zero c'è la comunità curda di Roma e la necessità di accendere i riflettori su un conflitto volutamente dimenticato. Zerocalcare ce ne parla a modo suo, raccontandoci il viaggio, le traversie, i checkpoint, gli incontri, le paure e i dubbi. E in tutto questo il fumettista romano è sempre lui, con le sue idiosincrasie e le sue pippe mentali, ma anche con sei anni di più, e quindi ancora più idiosincrasie e pippe :-D
In ogni caso, il graphic novel è un buon punto di partenza per incuriosirsi alla vicenda degli Ezidi, popolazione che è stata oggetto di numerosi massacri e tentativi di genocidio durante la sua storia, e che combatte per esistere e sopravvivere. Ovviamente questa è una sintesi semplificata, e - come direbbe Zero - le cose sono molto più complesse di così, e lui è un vero maestro nel mettere in scena - prima di tutto per sé stesso - l'obiezione.
Io me lo sono divorato una sera prima di andare a dormire, e non ho spento la luce finché non ho letto l'ultima pagina, la nota scritta che Zerocalcare pospone all'albo per dire che da quando il viaggio è stato compiuto alla pubblicazione dell'albo è passato circa un anno, e ovviamente le cose sono cambiate e alcune delle persone raccontate non ci sono più, perché questa area del mondo ha un livello di instabilità altissimo e raccontarne le vicende è difficile perché le cose cambiano molto rapidamente. Resta però sempre vero che il Kurdistan e più in generale questa area del mondo non trova pace né equilibrio, non solo per gli interessi vari e contrapposti dei paesi che vi gravitano (primo fra tutti la Turchia), ma anche e soprattutto per l'indifferenza - in buona parte interessata - del mondo occidentale.
Zerocalcare ci aiuta a non dimenticarcelo.
Voto: 3,5/5
mercoledì 17 aprile 2024
Kripton
Avevo puntato questo film fin dalla sua programmazione nell'ambito della Festa del cinema di Roma, ma non ero riuscita a vederlo. Già in quella circostanza ne avevo sentito parlare molto bene da diversi amici, poi il film esce in sala e la mia amica A. ne fa un post entusiastico su Facebook, cosicché la mia curiosità cresce ulteriormente.
Per fortuna, dopo averlo lisciato ancora, grazie al cinema Troisi che organizza una serata ad hoc co-organizzata con la Facoltà di psichiatria e psicologia della Sapienza Università di Roma, riesco finalmente a recuperarlo insieme a mio padre, mio ospite a Roma proprio in quei giorni.
Il film di Francesco Munzi, presente in sala e protagonista del dibattito finale insieme a Mauro Pallagrosi, dirigente medico psichiatra ASL Roma 1, è un documentario che nasce da un'esperienza molto particolare: la piccola troupe di Munzi, in particolare Valerio Azzali, trascorrono 100 giorni con il personale e i pazienti psichiatrici della ASL Roma 1, nonché le loro famiglie, e, in questo tempo, la telecamera riesce miracolosamente a scomparire, restituendoci la quotidianità di questo luogo e delle persone che lo popolano.
Ovviamente, non tutte le unità di personale né tutti i pazienti si sono resi disponibili a comparire nel film, ma le storie che Munzi e Azzali ci propongono costituiscono uno spaccato umano di grandissima intensità e valore.
Di fronte a noi le storie di Dimitri, ragazzo ucraino adottato quando aveva tre anni che sembra vivere in uno stato di apatia e sfiducia verso il futuro e ha un rapporto difficile con i genitori separati, Georgiana che ha avuto una figlia che le è stata tolta ma con cui vorrebbe ricongiungersi, Silvia che ha disturbi alimentari e non vuole separarsi dal padre, un ragazzo di 43 anni che vive in un delirio di persecuzione e di dissociazione dalla realtà, una ragazza di colore che si muove con circospezione e sembra rifuggire tutti.
Si tratta di storie difficili con percorsi terapeutici lunghi e non scontati, carichi di sofferenza e con prospettive incerte, eppure Munzi riesce nel non facile risultato di restituirci intera l'umanità di tutte le persone coinvolte, i pazienti, le famiglie, gli operatori sanitari. L'empatia è totale, anche con chi evidentemente ha una sofferenza psichica importante, e passa attraverso la possibilità - se non di una vera e propria comprensione - quanto meno di una compassione, intesa in senso letterale, ossia di sentire insieme a queste persone.
Assistiamo così ai colloqui tra pazienti e operatori, tra familiari e operatori, o anche a incontri allargati in cui partecipano insieme pazienti e familiari, oppure anche tutti i pazienti della struttura. Assistiamo anche a momenti difficili, momenti di crisi, di ribellione, di sofferenza, ma il film prende il volo soprattutto nel trasmetterci anche occasioni di incontro emotivo, di serenità, di chiarimento e addirittura momenti che definirei di pura poesia. C'è tanto pudore e tanto amore nella telecamera di Munzi che ci trasmette un voler bene, che finisce per essere anche il nostro, e che ci dimostra ancora una volta che solo la conoscenza aiuta a superare il pregiudizio ovvero i giudizi semplificati.
Il regista ci spiega durante il dibattito anche la scelta di introdurre nel film - quasi a creare dei veri e propri momenti onirici o di pausa - degli spezzoni tratti da filmini familiari (non direttamente relativi ai protagonisti) o ricavati da film sperimentali del passato. Si tratta - come ci dice Munzi - di suggestioni di tipo molto personale e forse arbitrario, che però ogni spettatore può cogliere e interpretare come vuole.
Si tratta in ogni caso di un asse "narrativo" parallelo che certamente aiuta a ritmare il racconto e in un certo senso ad amplificarlo, e che si affianca a un montaggio del girato molto efficace nello spostarsi da un personaggio all'altro e da una situazione all'altra in maniera intelligente e attrattiva per lo spettatore.
In definitiva il film di Munzi è un regalo prezioso che per una volta - ce ne vorrebbero molte di più di occasioni così - ci aiuta ad assumere, con intelligenza e sensibilità, un punto di vista davvero altro, e a renderci più consapevoli di una umanità ferita (che come ci dicono i titoli di coda è sempre più ampia, soprattutto dopo la pandemia) e che meriterebbe più attenzioni da parte delle istituzioni.
Al contrario, quello a cui assistiamo sono tagli alle strutture e al personale e rimozione collettiva, ossia la negazione di quello che una società davvero civile dovrebbe auspicare.
Voto: 4/5
Per fortuna, dopo averlo lisciato ancora, grazie al cinema Troisi che organizza una serata ad hoc co-organizzata con la Facoltà di psichiatria e psicologia della Sapienza Università di Roma, riesco finalmente a recuperarlo insieme a mio padre, mio ospite a Roma proprio in quei giorni.
Il film di Francesco Munzi, presente in sala e protagonista del dibattito finale insieme a Mauro Pallagrosi, dirigente medico psichiatra ASL Roma 1, è un documentario che nasce da un'esperienza molto particolare: la piccola troupe di Munzi, in particolare Valerio Azzali, trascorrono 100 giorni con il personale e i pazienti psichiatrici della ASL Roma 1, nonché le loro famiglie, e, in questo tempo, la telecamera riesce miracolosamente a scomparire, restituendoci la quotidianità di questo luogo e delle persone che lo popolano.
Ovviamente, non tutte le unità di personale né tutti i pazienti si sono resi disponibili a comparire nel film, ma le storie che Munzi e Azzali ci propongono costituiscono uno spaccato umano di grandissima intensità e valore.
Di fronte a noi le storie di Dimitri, ragazzo ucraino adottato quando aveva tre anni che sembra vivere in uno stato di apatia e sfiducia verso il futuro e ha un rapporto difficile con i genitori separati, Georgiana che ha avuto una figlia che le è stata tolta ma con cui vorrebbe ricongiungersi, Silvia che ha disturbi alimentari e non vuole separarsi dal padre, un ragazzo di 43 anni che vive in un delirio di persecuzione e di dissociazione dalla realtà, una ragazza di colore che si muove con circospezione e sembra rifuggire tutti.
Si tratta di storie difficili con percorsi terapeutici lunghi e non scontati, carichi di sofferenza e con prospettive incerte, eppure Munzi riesce nel non facile risultato di restituirci intera l'umanità di tutte le persone coinvolte, i pazienti, le famiglie, gli operatori sanitari. L'empatia è totale, anche con chi evidentemente ha una sofferenza psichica importante, e passa attraverso la possibilità - se non di una vera e propria comprensione - quanto meno di una compassione, intesa in senso letterale, ossia di sentire insieme a queste persone.
Assistiamo così ai colloqui tra pazienti e operatori, tra familiari e operatori, o anche a incontri allargati in cui partecipano insieme pazienti e familiari, oppure anche tutti i pazienti della struttura. Assistiamo anche a momenti difficili, momenti di crisi, di ribellione, di sofferenza, ma il film prende il volo soprattutto nel trasmetterci anche occasioni di incontro emotivo, di serenità, di chiarimento e addirittura momenti che definirei di pura poesia. C'è tanto pudore e tanto amore nella telecamera di Munzi che ci trasmette un voler bene, che finisce per essere anche il nostro, e che ci dimostra ancora una volta che solo la conoscenza aiuta a superare il pregiudizio ovvero i giudizi semplificati.
Il regista ci spiega durante il dibattito anche la scelta di introdurre nel film - quasi a creare dei veri e propri momenti onirici o di pausa - degli spezzoni tratti da filmini familiari (non direttamente relativi ai protagonisti) o ricavati da film sperimentali del passato. Si tratta - come ci dice Munzi - di suggestioni di tipo molto personale e forse arbitrario, che però ogni spettatore può cogliere e interpretare come vuole.
Si tratta in ogni caso di un asse "narrativo" parallelo che certamente aiuta a ritmare il racconto e in un certo senso ad amplificarlo, e che si affianca a un montaggio del girato molto efficace nello spostarsi da un personaggio all'altro e da una situazione all'altra in maniera intelligente e attrattiva per lo spettatore.
In definitiva il film di Munzi è un regalo prezioso che per una volta - ce ne vorrebbero molte di più di occasioni così - ci aiuta ad assumere, con intelligenza e sensibilità, un punto di vista davvero altro, e a renderci più consapevoli di una umanità ferita (che come ci dicono i titoli di coda è sempre più ampia, soprattutto dopo la pandemia) e che meriterebbe più attenzioni da parte delle istituzioni.
Al contrario, quello a cui assistiamo sono tagli alle strutture e al personale e rimozione collettiva, ossia la negazione di quello che una società davvero civile dovrebbe auspicare.
Voto: 4/5
lunedì 15 aprile 2024
L'origine del mondo. Ritratto di un interno / di Lucia Calamaro. Teatro Argentina, 26 marzo 2024
Sono ormai diversi anni che seguo il lavoro di Lucia Calamaro, di cui ho già visto diversi spettacoli a teatro. La considero una delle drammaturghe italiane più interessanti e che ha davvero qualcosa da dire e da raccontare.
Con L'origine del mondo torniamo indietro nel tempo, a un suo lavoro che risale a circa 15 anni fa, a un periodo alquanto difficile della sua vita, segnato dalla depressione, tema centrale di questo testo.
Quel periodo e quella condizione fortemente individuale hanno acquisito negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia, una rilevanza sociale, tanto che da più parti si lancia l'allarme sul dilagare delle situazioni depressive, anche nei giovani.
Il testo torna dunque di stringente attualità, e così Lucia Calamaro decide di riportarlo in scena offrendo il ruolo principale a Concita De Gregorio, che - nonostante le perplessità iniziali - decide di accettare perché, anche in conseguenza delle sue vicende individuali, sente il testo molto vicino e personale.
Per quanto mi riguarda, mentre vedo lo spettacolo - e non avendo ancora letto che risale a 15 anni fa -, penso a più riprese che sia stato scritto per Concita, quasi cucito addosso a lei, tanto percepisco un forte senso di riconoscimento con quanto sta recitando.
L'origine del mondo parla di una donna di mezza età che cade in una condizione depressiva: non ci viene spiegato perché e se c'è un motivo specifico, ma la donna si è praticamente autoreclusa in casa, fatte salve le sedute presso la sua psicanalista.
La vicenda viene raccontata in tre parti. Nel primo atto, Concita durante la notte, a causa dell'insonnia si ritrova davanti al frigorifero a decidere se e cosa ha voglia di mangiare e a fare considerazioni su sé stessa e la propria vita; a un certo punto compare sua figlia, che a sua volta si è svegliata e con cui inizia un dialogo nel quale si confrontano la necessità della ragazza di poter contare sulla madre e l'impossibilità della madre di occuparsi di altro che non sia la sua condizione di malessere perenne. Il dialogo con la figlia si alterna a quello con la psicanalista, da cui emerge il senso di frustrazione di chi vorrebbe una soluzione al proprio stato e non la trova. Nel secondo atto, madre e figlia sono intorno alla lavatrice, quando arriva la madre di Concita, una donna di un'altra generazione che non riesce a farsi una ragione dello stato di catatonia della figlia e cerca di scuoterla con il suo approccio dirompente e un po' invadente, e con un buon senso forse un po' terra terra ma a tratti comprensibile. Nel terzo atto, Concita è di nuovo a confronto con la sua psicanalista con cui l'incomunicabilità sembra totale, ma in realtà nelle pieghe di questa non comunicazione si intrufola la possibilità per Concita di uscire finalmente dal suo guscio e di provare a riprendere in mano la propria vita.
Il racconto dei passaggi narrativi fa forse pensare a uno spettacolo drammatico, ma in realtà - com'è tipico degli spettacoli della Calamaro - il testo, pur trattando temi importanti, è fortemente ironico: si ride dei personaggi sul palco e anche di sé stessi, perché non si può fare a meno di riconoscersi in alcuni passaggi del testo, che è poi probabilmente il vero punto di forza del lavoro della Calamaro, cioè la profonda umanità che - pur concedendosi divagazioni intellettualistiche e colte, comunque in questo caso in modo ironico - riesce a parlare credo davvero a tutti.
Sarà per questo che due ore e mezza di spettacolo non mi sono pesate affatto. Le attrici tutte molto brave: Concita De Gregorio in questa inedita veste di attrice davvero sorprendente, notevoli anche Alice Redini (nel doppio ruolo della figlia e della psicanalista) e Lucia Mascino (nel ruolo della madre), che a teatro trovo ad ogni spettacolo sempre più brava e convincente.
Mi accorgo - guardando le mie recensioni degli altri spettacoli della Calamaro che ho visto in passato - che ho sempre messo lo stesso voto (3,5/5), il che significa che trovo che il suo teatro di alto livello e totalmente godibile, oltre che dai contenuti interessanti, ma - per il mio personale punto di vista - manca quel quid - che non saprei nemmeno identificare - per rendermeli totalmente indimenticabili.
Voto: 3,5/5
Con L'origine del mondo torniamo indietro nel tempo, a un suo lavoro che risale a circa 15 anni fa, a un periodo alquanto difficile della sua vita, segnato dalla depressione, tema centrale di questo testo.
Quel periodo e quella condizione fortemente individuale hanno acquisito negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia, una rilevanza sociale, tanto che da più parti si lancia l'allarme sul dilagare delle situazioni depressive, anche nei giovani.
Il testo torna dunque di stringente attualità, e così Lucia Calamaro decide di riportarlo in scena offrendo il ruolo principale a Concita De Gregorio, che - nonostante le perplessità iniziali - decide di accettare perché, anche in conseguenza delle sue vicende individuali, sente il testo molto vicino e personale.
Per quanto mi riguarda, mentre vedo lo spettacolo - e non avendo ancora letto che risale a 15 anni fa -, penso a più riprese che sia stato scritto per Concita, quasi cucito addosso a lei, tanto percepisco un forte senso di riconoscimento con quanto sta recitando.
L'origine del mondo parla di una donna di mezza età che cade in una condizione depressiva: non ci viene spiegato perché e se c'è un motivo specifico, ma la donna si è praticamente autoreclusa in casa, fatte salve le sedute presso la sua psicanalista.
La vicenda viene raccontata in tre parti. Nel primo atto, Concita durante la notte, a causa dell'insonnia si ritrova davanti al frigorifero a decidere se e cosa ha voglia di mangiare e a fare considerazioni su sé stessa e la propria vita; a un certo punto compare sua figlia, che a sua volta si è svegliata e con cui inizia un dialogo nel quale si confrontano la necessità della ragazza di poter contare sulla madre e l'impossibilità della madre di occuparsi di altro che non sia la sua condizione di malessere perenne. Il dialogo con la figlia si alterna a quello con la psicanalista, da cui emerge il senso di frustrazione di chi vorrebbe una soluzione al proprio stato e non la trova. Nel secondo atto, madre e figlia sono intorno alla lavatrice, quando arriva la madre di Concita, una donna di un'altra generazione che non riesce a farsi una ragione dello stato di catatonia della figlia e cerca di scuoterla con il suo approccio dirompente e un po' invadente, e con un buon senso forse un po' terra terra ma a tratti comprensibile. Nel terzo atto, Concita è di nuovo a confronto con la sua psicanalista con cui l'incomunicabilità sembra totale, ma in realtà nelle pieghe di questa non comunicazione si intrufola la possibilità per Concita di uscire finalmente dal suo guscio e di provare a riprendere in mano la propria vita.
Il racconto dei passaggi narrativi fa forse pensare a uno spettacolo drammatico, ma in realtà - com'è tipico degli spettacoli della Calamaro - il testo, pur trattando temi importanti, è fortemente ironico: si ride dei personaggi sul palco e anche di sé stessi, perché non si può fare a meno di riconoscersi in alcuni passaggi del testo, che è poi probabilmente il vero punto di forza del lavoro della Calamaro, cioè la profonda umanità che - pur concedendosi divagazioni intellettualistiche e colte, comunque in questo caso in modo ironico - riesce a parlare credo davvero a tutti.
Sarà per questo che due ore e mezza di spettacolo non mi sono pesate affatto. Le attrici tutte molto brave: Concita De Gregorio in questa inedita veste di attrice davvero sorprendente, notevoli anche Alice Redini (nel doppio ruolo della figlia e della psicanalista) e Lucia Mascino (nel ruolo della madre), che a teatro trovo ad ogni spettacolo sempre più brava e convincente.
Mi accorgo - guardando le mie recensioni degli altri spettacoli della Calamaro che ho visto in passato - che ho sempre messo lo stesso voto (3,5/5), il che significa che trovo che il suo teatro di alto livello e totalmente godibile, oltre che dai contenuti interessanti, ma - per il mio personale punto di vista - manca quel quid - che non saprei nemmeno identificare - per rendermeli totalmente indimenticabili.
Voto: 3,5/5
venerdì 12 aprile 2024
Inshallah A Boy
Inshallah A Boy è il film del regista giordano Amjad Al Rasheed, primo film giordano ad essere selezionato in concorso per il Festival di Cannes, che racconta la storia di Nawal (Mouna Hawa), una giovane donna musulmana che ha una figlia di 6-7 anni e sta cercando di avere un altro figlio con suo marito. Purtroppo il marito muore improvvisamente nel sonno, e Nawal si trova a fare i conti non solo con le strette regole sul lutto femminile, ma anche con una serie di problemi economici e di scoperte sorprendenti sul marito di cui non sospettava praticamente nulla.
Di fronte alle richieste sempre più insistenti del cognato, che approfitta del fatto che Nawal si è sempre fidata del marito rispetto alla gestione degli aspetti economici e ora si trova a doverne ripagare dei debiti e anche non riconosciuta nella proprietà della casa, la donna decide di non arrendersi alla situazione e resistere con tutte le sue forze. Sa che la sua unica via d'uscita, almeno sul breve termine, è essere incinta, e, sul medio termine, avere un figlio maschio, e Nawal è disposta a inseguire questo obiettivo anche con mezzi poco leciti, ma soprattutto a crederci con tutte le sue forze.
Il film di Al Rasheed, purtroppo visto doppiato (che ormai sta diventando per me una vera sofferenza, soprattutto per i film recitati in arabo), è tecnicamente un dramedy, ma la confezione serve solo a non caricare di ulteriori elementi melodrammatici e tragici una storia e una realtà pesantissimi di per sé.
Durante tutta la visione del film non si può infatti che provare angoscia per la posizione in cui si viene a trovare questa donna (e con lei tutte le donne che vivono in contesti similari), costretta non solo a lottare per la propria sopravvivenza, pur essendo la moglie legittima dell'uomo deceduto, ma persino per la custodia della propria figlia che può esserle sottratta con molta facilità. Gli uomini che popolano questo mondo fortemente patriarcale e in cui forti sono i condizionamenti religiosi oscillano tra l'inerte e l'aggressivo, ma in ogni caso sembrano non rendersi conto neppure lontanamente dell'ingiustizia profonda della situazione.
La cosa ancora più triste è che di fronte alla situazione di Nawal non scatta nemmeno alcuna solidarietà femminile, un po' forse per assuefazione a uno stato di cose considerato normale e di cui non si vede un'alternativa, un po' perché ciascuna donna è in un certo senso impegnata a combattere la sua personale battaglia di sopravvivenza in una società siffatta.
Si esce piuttosto depresse, sentendosi fortunate ad essere nate in un'altra parte del mondo dove almeno alcune cose sono state superate da tempo e interrogandosi su quale speranza ci possa essere che in alcuni paesi la situazione femminile possa migliorare e con quali tempi.
Voto: 3,5/5
Di fronte alle richieste sempre più insistenti del cognato, che approfitta del fatto che Nawal si è sempre fidata del marito rispetto alla gestione degli aspetti economici e ora si trova a doverne ripagare dei debiti e anche non riconosciuta nella proprietà della casa, la donna decide di non arrendersi alla situazione e resistere con tutte le sue forze. Sa che la sua unica via d'uscita, almeno sul breve termine, è essere incinta, e, sul medio termine, avere un figlio maschio, e Nawal è disposta a inseguire questo obiettivo anche con mezzi poco leciti, ma soprattutto a crederci con tutte le sue forze.
Il film di Al Rasheed, purtroppo visto doppiato (che ormai sta diventando per me una vera sofferenza, soprattutto per i film recitati in arabo), è tecnicamente un dramedy, ma la confezione serve solo a non caricare di ulteriori elementi melodrammatici e tragici una storia e una realtà pesantissimi di per sé.
Durante tutta la visione del film non si può infatti che provare angoscia per la posizione in cui si viene a trovare questa donna (e con lei tutte le donne che vivono in contesti similari), costretta non solo a lottare per la propria sopravvivenza, pur essendo la moglie legittima dell'uomo deceduto, ma persino per la custodia della propria figlia che può esserle sottratta con molta facilità. Gli uomini che popolano questo mondo fortemente patriarcale e in cui forti sono i condizionamenti religiosi oscillano tra l'inerte e l'aggressivo, ma in ogni caso sembrano non rendersi conto neppure lontanamente dell'ingiustizia profonda della situazione.
La cosa ancora più triste è che di fronte alla situazione di Nawal non scatta nemmeno alcuna solidarietà femminile, un po' forse per assuefazione a uno stato di cose considerato normale e di cui non si vede un'alternativa, un po' perché ciascuna donna è in un certo senso impegnata a combattere la sua personale battaglia di sopravvivenza in una società siffatta.
Si esce piuttosto depresse, sentendosi fortunate ad essere nate in un'altra parte del mondo dove almeno alcune cose sono state superate da tempo e interrogandosi su quale speranza ci possa essere che in alcuni paesi la situazione femminile possa migliorare e con quali tempi.
Voto: 3,5/5
mercoledì 10 aprile 2024
Iliade, o Il gioco degli dei / con Alessio Boni e Iaia Forte. Teatro Ambra Jovinelli, 21 marzo 2024
In una stagione teatrale piuttosto avara di spettacoli che mi siano piaciuti senza vere perplessità, volentieri spendo qualche parola in più su questo spettacolo della Compagnia del Quadrivio, il gruppo di autori (alcuni dei quali anche attori) formato da Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini e Marcello Prayer.
Quella realizzata dal Quadrivio non è l'ennesima trasposizione teatrale dell'opera omerica come si potrebbe immaginare, bensì una lettura originale e ricca di spunti, oltre che complessivamente godibile e divertente. I quattro drammaturghi dicono di essersi ispirati agli elementi ironici, se non a tratti comici, presenti qua e là nell'Iliade, e che sono spesso stati trascurati dalle letture scolastiche, più concentrate sugli accenti drammatici della storia.
Ironica è dunque la cornice della storia: ritroviamo gli dei dell'Olimpo su una spiaggia, vestiti in abiti moderni, che un po' si annoiano, un po' rimpiangono i fasti del passato, un po' riaccendono vecchie discussioni familiari. Zeus (Alessio Boni) è invecchiato e ha grossi vuoti di memoria; sua moglie Era (Iaia Forte) mal sopporta il modo di essere del marito, e i due litigano spesso per i figli, Ares (figlio di Era, ma non di Zeus), ma anche Atena, Hermes, Afrodite, Apollo (tutti figli di Zeus, di cui a più riprese si sottolinea la natura libertina, ma non di Era). Tutti, ognuno con le proprie idiosincrasie, rimpianti e rivendicazioni, si ritrovano su questa spiaggia, a ricordare i bei tempi in cui governavano gli esseri umani ed erano in grado - anche solo per il loro divertimento - di cambiare il corso degli eventi e influenzare i comportamenti degli uomini.
Per richiamare i vecchi tempi e anche per capire in che momento è iniziata la loro decadenza, decidono di riportare in scena la guerra e l’assedio degli Achei contro la città di Troia, iniziata a seguito del rapimento di Elena, moglie di Menelao e cognata di Agamennone, considerata la donna più bella dell’antichità. Il rapitore, Paride, era figlio del re di Troia, Priamo, e per questo gli Achei organizzarono la spedizione di cui furono protagonisti da parte achea figure come Achille e Patroclo, e da parte troiana Ulisse (Odisseo).
La vicenda narrata nell'Iliade viene raccontata dagli dei decaduti come si trattasse di un teatro delle marionette; ognuno di loro di volta in volta si fa portatore di una marionetta che lo copre quasi integralmente e che manovra nelle azioni e interazioni, interpretando così gli umani protagonisti della guerra di Troia. Di tanto in tanto gli dei lasciano le loro marionette e commentano i fatti della guerra e le azioni dei vari personaggi, e soprattutto rivendicano il ruolo che hanno avuto nel confondere la percezione degli umani ovvero nel raggirarli, spingendoli a fare azioni che probabilmente non avrebbero altrimenti fatto.
E però all'esito della guerra di Troia, con l'ingresso del cavallo di legno nelle mura della città, e la strage dei troiani, gli dei si chiedono se la loro intromissione non sia stata eccessiva e se non sia da quel momento che il loro rapporto con gli umani è cambiato, dando l'avvio a quella decadenza che li vede ormai vecchi, inutili e annoiati.
Eppure, in questa commedia dell'arte che mette in scena quasi uno spettacolo di pupi nel quale tutto ci fa pensare che gli uomini siano manovrati dagli dei (e in questo caso lo sono persino letteralmente), man mano il sospetto che siano invece gli dei che narrano la storia ad essere creazioni umane diventa sempre più forte, fino a trasformarsi in certezza. E così non solo ci appare chiaro che gli dei sono lo specchio nel quale gli uomini trasferiscono tutti i loro difetti e meschinità, nonché forse le loro ambizioni, ma sono anche uno straordinario strumento di deresponsabilizzazione collettiva, lì dove qualunque nefandezza e azione più o meno orribile può essere ascritta all'intervento divino o fatta in nome di un qualche dio, togliendo dunque agli esseri umani il pesante fardello di fare i conti con le loro azioni e le relative conseguenze.
Uno spettacolo apparentemente leggero - e per questo molto godibile dal punto di vista degli spettatori - che riesce però a far riflettere e a non lasciare indifferenti.
Voto: 3,5/5
Quella realizzata dal Quadrivio non è l'ennesima trasposizione teatrale dell'opera omerica come si potrebbe immaginare, bensì una lettura originale e ricca di spunti, oltre che complessivamente godibile e divertente. I quattro drammaturghi dicono di essersi ispirati agli elementi ironici, se non a tratti comici, presenti qua e là nell'Iliade, e che sono spesso stati trascurati dalle letture scolastiche, più concentrate sugli accenti drammatici della storia.
Ironica è dunque la cornice della storia: ritroviamo gli dei dell'Olimpo su una spiaggia, vestiti in abiti moderni, che un po' si annoiano, un po' rimpiangono i fasti del passato, un po' riaccendono vecchie discussioni familiari. Zeus (Alessio Boni) è invecchiato e ha grossi vuoti di memoria; sua moglie Era (Iaia Forte) mal sopporta il modo di essere del marito, e i due litigano spesso per i figli, Ares (figlio di Era, ma non di Zeus), ma anche Atena, Hermes, Afrodite, Apollo (tutti figli di Zeus, di cui a più riprese si sottolinea la natura libertina, ma non di Era). Tutti, ognuno con le proprie idiosincrasie, rimpianti e rivendicazioni, si ritrovano su questa spiaggia, a ricordare i bei tempi in cui governavano gli esseri umani ed erano in grado - anche solo per il loro divertimento - di cambiare il corso degli eventi e influenzare i comportamenti degli uomini.
Per richiamare i vecchi tempi e anche per capire in che momento è iniziata la loro decadenza, decidono di riportare in scena la guerra e l’assedio degli Achei contro la città di Troia, iniziata a seguito del rapimento di Elena, moglie di Menelao e cognata di Agamennone, considerata la donna più bella dell’antichità. Il rapitore, Paride, era figlio del re di Troia, Priamo, e per questo gli Achei organizzarono la spedizione di cui furono protagonisti da parte achea figure come Achille e Patroclo, e da parte troiana Ulisse (Odisseo).
La vicenda narrata nell'Iliade viene raccontata dagli dei decaduti come si trattasse di un teatro delle marionette; ognuno di loro di volta in volta si fa portatore di una marionetta che lo copre quasi integralmente e che manovra nelle azioni e interazioni, interpretando così gli umani protagonisti della guerra di Troia. Di tanto in tanto gli dei lasciano le loro marionette e commentano i fatti della guerra e le azioni dei vari personaggi, e soprattutto rivendicano il ruolo che hanno avuto nel confondere la percezione degli umani ovvero nel raggirarli, spingendoli a fare azioni che probabilmente non avrebbero altrimenti fatto.
E però all'esito della guerra di Troia, con l'ingresso del cavallo di legno nelle mura della città, e la strage dei troiani, gli dei si chiedono se la loro intromissione non sia stata eccessiva e se non sia da quel momento che il loro rapporto con gli umani è cambiato, dando l'avvio a quella decadenza che li vede ormai vecchi, inutili e annoiati.
Eppure, in questa commedia dell'arte che mette in scena quasi uno spettacolo di pupi nel quale tutto ci fa pensare che gli uomini siano manovrati dagli dei (e in questo caso lo sono persino letteralmente), man mano il sospetto che siano invece gli dei che narrano la storia ad essere creazioni umane diventa sempre più forte, fino a trasformarsi in certezza. E così non solo ci appare chiaro che gli dei sono lo specchio nel quale gli uomini trasferiscono tutti i loro difetti e meschinità, nonché forse le loro ambizioni, ma sono anche uno straordinario strumento di deresponsabilizzazione collettiva, lì dove qualunque nefandezza e azione più o meno orribile può essere ascritta all'intervento divino o fatta in nome di un qualche dio, togliendo dunque agli esseri umani il pesante fardello di fare i conti con le loro azioni e le relative conseguenze.
Uno spettacolo apparentemente leggero - e per questo molto godibile dal punto di vista degli spettatori - che riesce però a far riflettere e a non lasciare indifferenti.
Voto: 3,5/5
lunedì 8 aprile 2024
Another end
Avevo già adocchiato il film di Piero Messina, che mi incuriosiva molto per trama e cast molto lontani dagli standard del cinema italiano. Quando poi F. mi ha segnalato la proiezione al Greenwich con presenza in sala del regista e dell'attore principale Gael García Bernal non ho avuto più dubbi.
I due salgono sul palco per una breve intervista, e si capisce che oltre ad aver lavorato insieme per questo film sono amici: Piero Messina ci spiega che il film che stiamo per vedere, pur flirtando con il cinema di genere, in questo caso il sci-fi, è in realtà una storia molto personale e che sente molto sua; Bernal invece ci parla del suo personale rapporto con il cinema italiano, iniziato molto tardi ma piuttosto importante nella sua formazione.
Dopo questa breve introduzione eccoci al film (purtroppo anche questo doppiato: i due protagonisti, Bernal e Berenice Bejo, sono fratelli nel film e parlano tra di loro spagnolo, mentre con gli altri parlano in inglese). Another end - che nei titoli di apertura gioca con un'altra espressione inglese contenuta nel titolo, Not Here - racconta la storia di Sal (Bernal), un uomo che ha perso la compagna Zoe in un incidente stradale, e non riesce a fare i conti con il lutto e con il senso di colpa. Siamo in una città senza nome, livida e piovosa (in realtà un mix di Parigi e Roma), in un futuro che potrebbe non essere tanto lontano dal nostro presente, e in questo futuro una società che si chiama Aeterna, dove lavora anche Eve (Bejo), la sorella di Sal, offre ai suoi clienti la possibilità di trasferire il contenuto della mente del defunto nel corpo di un locatore, una persona che per soldi o altri motivi decide di prestarsi alla causa e, per un numero di incontri prestabilito, diventa l'avatar della persona morta e potrà interagire con chi è rimasto, dando loro la possibilità di elaborare e gestire meglio l'addio. Convinta da Eve, anche Sal decide - dopo qualche esitazione - di ricorrere ai servizi di Aeterna, e così Zoe ritorna nel corpo di un'altra donna (la bravissima Renate Reinsve, già apprezzata ne La persona peggiore del mondo). Durante questi incontri Sal non solo ritrova Zoe attraverso la donna che ne porta i pensieri e le memorie, ma a poco a poco si affeziona anche a questo nuovo corpo che lo mette in contatto con Zoe. Per questo Sal chiede alla sorella di proseguire gli incontri e a un certo punto comincia anche a seguire la donna nella sua vita normale creando una situazione che si fa via via sempre più difficile da decifrare.
Mi fermo qua perché ho detto fin troppo e perché Another end è uno di quei film che gioca molto sul finale a sorpresa e sul gioco che in questo modo innesca con lo spettatore, anche durante l'intera visione.
Come già era stato per Estranei, con cui questo film condivide il tema della perdita e del lutto, e anche la componente diciamo non realistica (soprannaturale nel primo caso, e fantascientifica nel secondo), io non sospetto praticamente nulla fino alle fine. E dire che leggo qua e là che si capisce tutto già da metà film, ma evidentemente la mia elasticità mentale deve essersi enormemente ridotta con l'età.
In ogni caso, al di là del più o meno atteso finale, all'interno di questa confezione sci-fi dal respiro decisamente internazionale (e ne va dato decisamente merito a Piero Messina, tra l'altro compositore anche di parte dei brani che costituiscono la colonna sonora del film) si sviluppa un racconto i cui temi sono universali e senza tempo, ossia l'amore e la perdita, cui si affianca una riflessione sui legami umani e su cosa li sostanzi (le esperienze condivise, i ricordi, il nostro modo di essere, l'intimità dei corpi, un mix di tutto questo?), e in ultima istanza ci si chiede cosa fa della persona quello che è, perché se siamo il nostro cervello allora sembra perdere importanza in quale corpo agisca, ma solo come. Sono temi per me estremamente affascinanti e su cui negli ultimi anni per vari motivi ho avuto modo di riflettere tanto, e devo dire che il film di Messina mette sul piatto una serie di elementi di analisi intellettuale ed emotiva non banali né scontati.
Si potrà dunque dire che non si tratta di un film perfetto, non certo un capolavoro, ma personalmente ho moltissimo apprezzato sguardo e ambizione di questo regista italiano sui generis che a questo punto intendo seguire con particolare attenzione.
Voto: 3,5/5
I due salgono sul palco per una breve intervista, e si capisce che oltre ad aver lavorato insieme per questo film sono amici: Piero Messina ci spiega che il film che stiamo per vedere, pur flirtando con il cinema di genere, in questo caso il sci-fi, è in realtà una storia molto personale e che sente molto sua; Bernal invece ci parla del suo personale rapporto con il cinema italiano, iniziato molto tardi ma piuttosto importante nella sua formazione.
Dopo questa breve introduzione eccoci al film (purtroppo anche questo doppiato: i due protagonisti, Bernal e Berenice Bejo, sono fratelli nel film e parlano tra di loro spagnolo, mentre con gli altri parlano in inglese). Another end - che nei titoli di apertura gioca con un'altra espressione inglese contenuta nel titolo, Not Here - racconta la storia di Sal (Bernal), un uomo che ha perso la compagna Zoe in un incidente stradale, e non riesce a fare i conti con il lutto e con il senso di colpa. Siamo in una città senza nome, livida e piovosa (in realtà un mix di Parigi e Roma), in un futuro che potrebbe non essere tanto lontano dal nostro presente, e in questo futuro una società che si chiama Aeterna, dove lavora anche Eve (Bejo), la sorella di Sal, offre ai suoi clienti la possibilità di trasferire il contenuto della mente del defunto nel corpo di un locatore, una persona che per soldi o altri motivi decide di prestarsi alla causa e, per un numero di incontri prestabilito, diventa l'avatar della persona morta e potrà interagire con chi è rimasto, dando loro la possibilità di elaborare e gestire meglio l'addio. Convinta da Eve, anche Sal decide - dopo qualche esitazione - di ricorrere ai servizi di Aeterna, e così Zoe ritorna nel corpo di un'altra donna (la bravissima Renate Reinsve, già apprezzata ne La persona peggiore del mondo). Durante questi incontri Sal non solo ritrova Zoe attraverso la donna che ne porta i pensieri e le memorie, ma a poco a poco si affeziona anche a questo nuovo corpo che lo mette in contatto con Zoe. Per questo Sal chiede alla sorella di proseguire gli incontri e a un certo punto comincia anche a seguire la donna nella sua vita normale creando una situazione che si fa via via sempre più difficile da decifrare.
Mi fermo qua perché ho detto fin troppo e perché Another end è uno di quei film che gioca molto sul finale a sorpresa e sul gioco che in questo modo innesca con lo spettatore, anche durante l'intera visione.
Come già era stato per Estranei, con cui questo film condivide il tema della perdita e del lutto, e anche la componente diciamo non realistica (soprannaturale nel primo caso, e fantascientifica nel secondo), io non sospetto praticamente nulla fino alle fine. E dire che leggo qua e là che si capisce tutto già da metà film, ma evidentemente la mia elasticità mentale deve essersi enormemente ridotta con l'età.
In ogni caso, al di là del più o meno atteso finale, all'interno di questa confezione sci-fi dal respiro decisamente internazionale (e ne va dato decisamente merito a Piero Messina, tra l'altro compositore anche di parte dei brani che costituiscono la colonna sonora del film) si sviluppa un racconto i cui temi sono universali e senza tempo, ossia l'amore e la perdita, cui si affianca una riflessione sui legami umani e su cosa li sostanzi (le esperienze condivise, i ricordi, il nostro modo di essere, l'intimità dei corpi, un mix di tutto questo?), e in ultima istanza ci si chiede cosa fa della persona quello che è, perché se siamo il nostro cervello allora sembra perdere importanza in quale corpo agisca, ma solo come. Sono temi per me estremamente affascinanti e su cui negli ultimi anni per vari motivi ho avuto modo di riflettere tanto, e devo dire che il film di Messina mette sul piatto una serie di elementi di analisi intellettuale ed emotiva non banali né scontati.
Si potrà dunque dire che non si tratta di un film perfetto, non certo un capolavoro, ma personalmente ho moltissimo apprezzato sguardo e ambizione di questo regista italiano sui generis che a questo punto intendo seguire con particolare attenzione.
Voto: 3,5/5
venerdì 5 aprile 2024
Salveremo il mondo prima dell'alba / Carrozzeria Orfeo. Teatro Vascello, 16 marzo 2024
L'anno scorso - dopo che un'amica mi aveva parlato benissimo della compagnia e visto che il Teatro Vascello dedicava una specie di retrospettiva ai loro spettacoli - avevo preso il biglietto per andare a vedere Thanks for Vaselina, ma, a causa di uno dei tanti eventi romani che bloccano il traffico in mezza città, non sono riuscita a raggiungere il teatro per tempo e ho dovuto rinunciare.
Quest'anno dunque non mi sono lasciata scappare l'occasione di vedere il loro ultimo spettacolo, Salveremo il mondo prima dell'alba, in programmazione sempre al Teatro Vascello. In realtà avevo avuto un primo assaggio della scrittura di Gabriele Di Luca, il drammaturgo che scrive gli spettacoli di Carrozzeria Orfeo con lo spettacolo Stupida Show!, la stand up comedy realizzata per Paola Minaccioni, ma in questo caso ho potuto apprezzare la compagnia in tutta la sua articolazione e complessità.
Salveremo il mondo prima dell'alba è ambientato in un wellness centre per ricchi collocato su un satellite spaziale. In questo centro ci sono Jasmine (Alice Giroldini), una popstar afflitta dalla sua stessa celebrità e con un rapporto difficile con la madre e con la sessualità, Omar (Sergio Romano), un imprenditore ricco che ha lasciato la sua famiglia (moglie e figlia) per vivere la sua sessualità con il compagno Patrizio (Roberto Serpi), William (Ivan Zerbinati), un capitalista senza scrupoli che fa soldi creando e diffondendo fake news, e il suo domestico bengalese Nat (Sebastiano Bronzato). A gestire questo processo di riabilitazione un coach, interpretato da Massimiliano Setti, vestito come Dargen D'Amico (!), che un po' è una quasi figura di terapeuta, un po' è un ca**one che fa battute stupide.
Lo spettacolo, che dura circa due ore e mezza con una pausa tra i due atti, fila via come un treno, senza un momento di stanchezza o di noia, grazie alla regia di Di Luca, Setti e Tedeschi, a un allestimento perfetto, ad attori di grande qualità e a un testo scoppiettante, in cui si alternano comicità pura, satira sociale e intermezzi di riflessione.
Non posso fare il confronto con i lavori precedenti, ma mi pare che la caratteristica principale di Carrozzeria Orfeo stia proprio in questo mirabile equilibrio tra leggerezza e profondità, in virtù del quale tutti i temi trattati - che sono tanti, dal femminismo ai social, dal rapporto tra ricchi e poveri al cambiamento climatico, dalle dinamiche familiari alle storture del capitalismo, e molte altre - sono affrontati in modo non superficiale, ma senza nemmeno prendersi troppo sul serio, ché altrimenti si finirebbe in uno stucchevole discorso esistenzialista e filosofico. Qualche elemento di banalità che mi ha fatto un po' storcere il naso l'ho trovato proprio nelle riflessioni presuntamente filosofiche, però perdonabili in quanto compensati dalla ricchezza di umanità, di compassione, di empatia che questo testo mette in campo, cercando di comprendere le sofferenze, le piccolezze e gli errori dei singoli, anche quelli più insopportabili, e attraverso di loro quelle dell'umanità tutta, che alla fine - vista da lontano e con un cannocchiale capovolto - emerge in tutta la sua piccolezza, ma anche unicità. Al punto tale che lo spettacolo riesce a concludersi con un'apertura di speranza, riconoscendo a un'umanità che si sta autodistruggendo la possibilità di ripartire daccapo, anche se forse destinata alla stessa parabola.
Durante Salveremo il mondo prima dell'alba si ride molto, ma si pensa anche molto, e soprattutto si viene stimolati a mettere in campo il proprio senso di appartenenza all'umanità in tutte le sue sfaccettature, facendo dunque un esercizio di comprensione prima - e soprattutto oltre - il giudizio. Perché nessuno di noi del pubblico è diverso da quell'umanità confusa, dipendente, sofferente, eppure adorabile che si muove sul palco davanti a noi.
Voto: 4/5
Quest'anno dunque non mi sono lasciata scappare l'occasione di vedere il loro ultimo spettacolo, Salveremo il mondo prima dell'alba, in programmazione sempre al Teatro Vascello. In realtà avevo avuto un primo assaggio della scrittura di Gabriele Di Luca, il drammaturgo che scrive gli spettacoli di Carrozzeria Orfeo con lo spettacolo Stupida Show!, la stand up comedy realizzata per Paola Minaccioni, ma in questo caso ho potuto apprezzare la compagnia in tutta la sua articolazione e complessità.
Salveremo il mondo prima dell'alba è ambientato in un wellness centre per ricchi collocato su un satellite spaziale. In questo centro ci sono Jasmine (Alice Giroldini), una popstar afflitta dalla sua stessa celebrità e con un rapporto difficile con la madre e con la sessualità, Omar (Sergio Romano), un imprenditore ricco che ha lasciato la sua famiglia (moglie e figlia) per vivere la sua sessualità con il compagno Patrizio (Roberto Serpi), William (Ivan Zerbinati), un capitalista senza scrupoli che fa soldi creando e diffondendo fake news, e il suo domestico bengalese Nat (Sebastiano Bronzato). A gestire questo processo di riabilitazione un coach, interpretato da Massimiliano Setti, vestito come Dargen D'Amico (!), che un po' è una quasi figura di terapeuta, un po' è un ca**one che fa battute stupide.
Lo spettacolo, che dura circa due ore e mezza con una pausa tra i due atti, fila via come un treno, senza un momento di stanchezza o di noia, grazie alla regia di Di Luca, Setti e Tedeschi, a un allestimento perfetto, ad attori di grande qualità e a un testo scoppiettante, in cui si alternano comicità pura, satira sociale e intermezzi di riflessione.
Non posso fare il confronto con i lavori precedenti, ma mi pare che la caratteristica principale di Carrozzeria Orfeo stia proprio in questo mirabile equilibrio tra leggerezza e profondità, in virtù del quale tutti i temi trattati - che sono tanti, dal femminismo ai social, dal rapporto tra ricchi e poveri al cambiamento climatico, dalle dinamiche familiari alle storture del capitalismo, e molte altre - sono affrontati in modo non superficiale, ma senza nemmeno prendersi troppo sul serio, ché altrimenti si finirebbe in uno stucchevole discorso esistenzialista e filosofico. Qualche elemento di banalità che mi ha fatto un po' storcere il naso l'ho trovato proprio nelle riflessioni presuntamente filosofiche, però perdonabili in quanto compensati dalla ricchezza di umanità, di compassione, di empatia che questo testo mette in campo, cercando di comprendere le sofferenze, le piccolezze e gli errori dei singoli, anche quelli più insopportabili, e attraverso di loro quelle dell'umanità tutta, che alla fine - vista da lontano e con un cannocchiale capovolto - emerge in tutta la sua piccolezza, ma anche unicità. Al punto tale che lo spettacolo riesce a concludersi con un'apertura di speranza, riconoscendo a un'umanità che si sta autodistruggendo la possibilità di ripartire daccapo, anche se forse destinata alla stessa parabola.
Durante Salveremo il mondo prima dell'alba si ride molto, ma si pensa anche molto, e soprattutto si viene stimolati a mettere in campo il proprio senso di appartenenza all'umanità in tutte le sue sfaccettature, facendo dunque un esercizio di comprensione prima - e soprattutto oltre - il giudizio. Perché nessuno di noi del pubblico è diverso da quell'umanità confusa, dipendente, sofferente, eppure adorabile che si muove sul palco davanti a noi.
Voto: 4/5
mercoledì 3 aprile 2024
Falling into place
Siamo alla quarta edizione del Festival del cinema tedesco, organizzato in collaborazione tra l'Ambasciata tedesca a Roma e il Goethe Institut, e in programmazione quest'anno al Cinema Quattro Fontane. Ma io solo quest'anno riesco a parteciparvi. Incastrati i vari impegni, prendo i biglietti per la seconda visione di questo film, Falling into place, dell'attrice Aylin Tezel, qui anche in veste di sceneggiatrice e regista.
E forse questo è il primo problema. La Tezel, classe 1983, ha deciso con questo film di fare il grande salto, e ha scelto di portare sul grande schermo una storia - secondo me - molto generazionale.
Protagonisti di Falling into place sono Ian (Chris Fulton, un misto tra Bradley Cooper, Ryan Gosling e Jake Gyllenhall) e Kira (la stessa Tezel), due giovani ma non troppo, che si incontrano più o meno casualmente nell'isola di Skye (bellissima, tra l'altro). I due si portano dietro varie pesantezze: Kira ha da poco chiuso una storia ed è sull'isola da sola, sebbene inizialmente il viaggio fosse programmato con il suo fidanzato; Ian è tornato per andare a trovare la sua famiglia, con cui ha un rapporto piuttosto problematico, anche per via di una inizialmente non precisata situazione difficile che riguarda sua sorella.
Durante la permanenza all'isola di Skye, Ian e Kira entrano in un'intimità profonda, ma ben presto ognuno torna alla sua vita di tutti i giorni: Ian a Londra dove vive con la sua fidanzata e Kira sempre a Londra, dove deve fare i conti con il suo passato sentimentale e il suo futuro lavorativo.
Come si può facilmente immaginare, i due saranno destinati a incontrarsi nuovamente e a fare delle scelte, anche dopo aver affrontato i loro fantasmi.
È evidente che siamo all'interno del genere della dramedy di tipo sentimentale, con una forte componente generazionale, quella della generazione tra i trenta e i quarant'anni, e forse proprio per questo con una presunta riflessione esistenziale. Il punto di vista è decisamente femminile ma anche - a dire il vero - piuttosto adolescenziale.
C'è dunque sicuramente in questo film quella immaturità e confusione esistenziale e sentimentale che caratterizzano questa generazione (e che si ritrova in molti altri prodotti culturali della stessa provenienza). Però non si può nascondere che anche il prodotto cinematografico si presenta acerbo e un po' scolastico: a livello di fotografia, di montaggio, di colonna sonora si sente forte un approccio di maniera, che - sommato a una narrazione e a una sceneggiatura piuttosto semplicistici - fa sì che il risultato finale risulti tendenzialmente banale e a tratti stucchevole.
La ciliegina sulla torta è che andiamo a un festival del cinema in cui uno dei principali valori aggiunti dovrebbe essere la possibilità di vedere i film in lingua originale (ed effettivamente questo promette il festival): peccato che il film di Aylin Tezel, pur essendo recitato integralmente in lingua inglese - in quanto la protagonista Kira, pur essendo tedesca, vive in Gran Bretagna, e Ian è scozzeze -, ci viene proposto doppiato in tedesco, tra l'altro con un doppiaggio di qualità non elevatissima. Il risultato è quasi paradossale e totalmente straniante, cosicché usciamo dal cinema piuttosto interdette, ma anche divertite da questa esperienza davvero surreale.
Voto: 2/5
E forse questo è il primo problema. La Tezel, classe 1983, ha deciso con questo film di fare il grande salto, e ha scelto di portare sul grande schermo una storia - secondo me - molto generazionale.
Protagonisti di Falling into place sono Ian (Chris Fulton, un misto tra Bradley Cooper, Ryan Gosling e Jake Gyllenhall) e Kira (la stessa Tezel), due giovani ma non troppo, che si incontrano più o meno casualmente nell'isola di Skye (bellissima, tra l'altro). I due si portano dietro varie pesantezze: Kira ha da poco chiuso una storia ed è sull'isola da sola, sebbene inizialmente il viaggio fosse programmato con il suo fidanzato; Ian è tornato per andare a trovare la sua famiglia, con cui ha un rapporto piuttosto problematico, anche per via di una inizialmente non precisata situazione difficile che riguarda sua sorella.
Durante la permanenza all'isola di Skye, Ian e Kira entrano in un'intimità profonda, ma ben presto ognuno torna alla sua vita di tutti i giorni: Ian a Londra dove vive con la sua fidanzata e Kira sempre a Londra, dove deve fare i conti con il suo passato sentimentale e il suo futuro lavorativo.
Come si può facilmente immaginare, i due saranno destinati a incontrarsi nuovamente e a fare delle scelte, anche dopo aver affrontato i loro fantasmi.
È evidente che siamo all'interno del genere della dramedy di tipo sentimentale, con una forte componente generazionale, quella della generazione tra i trenta e i quarant'anni, e forse proprio per questo con una presunta riflessione esistenziale. Il punto di vista è decisamente femminile ma anche - a dire il vero - piuttosto adolescenziale.
C'è dunque sicuramente in questo film quella immaturità e confusione esistenziale e sentimentale che caratterizzano questa generazione (e che si ritrova in molti altri prodotti culturali della stessa provenienza). Però non si può nascondere che anche il prodotto cinematografico si presenta acerbo e un po' scolastico: a livello di fotografia, di montaggio, di colonna sonora si sente forte un approccio di maniera, che - sommato a una narrazione e a una sceneggiatura piuttosto semplicistici - fa sì che il risultato finale risulti tendenzialmente banale e a tratti stucchevole.
La ciliegina sulla torta è che andiamo a un festival del cinema in cui uno dei principali valori aggiunti dovrebbe essere la possibilità di vedere i film in lingua originale (ed effettivamente questo promette il festival): peccato che il film di Aylin Tezel, pur essendo recitato integralmente in lingua inglese - in quanto la protagonista Kira, pur essendo tedesca, vive in Gran Bretagna, e Ian è scozzeze -, ci viene proposto doppiato in tedesco, tra l'altro con un doppiaggio di qualità non elevatissima. Il risultato è quasi paradossale e totalmente straniante, cosicché usciamo dal cinema piuttosto interdette, ma anche divertite da questa esperienza davvero surreale.
Voto: 2/5
lunedì 1 aprile 2024
Al bubduqyyia - Il Concerto perduto / Giovanni Sollima, il Pomo d'Oro e Federico Guglielmo. Istituzione Universitaria Concerti, La Sapienza, Aula Magna, 12 marzo 2024
Come sa chi un po' legge questo blog, non sono né particolarmente appassionata né particolarmente conoscitrice della musica classica, ma ogni tanto mi piace fare qualche incursione in questo territorio, soprattutto quando vengo in contatto con musicisti che riescono a trasmettermi qualcosa.
Questo è il caso di Giovanni Sollima, compositore e violoncellista palermitano, che ormai seguo da diverso tempo con soddisfazione.
Questa volta Sollima è - insieme all'ensemble Il Pomo d'Oro e al violinista Federico Guglielmo - nel programma dell'Istituzione Universitaria Concerti (IUC) che ogni anno porta una bella selezione di musica classica e non solo nell'Aula magna della Sapienza.
La bellezza della proposta musicale di Sollima sta nel fatto che la sua non è solo una scelta di brani da suonare, bensì è un percorso di senso, una narrazione in musica, che consente anche al pubblico più ignorante (a cui ritengo di appartenere da questo punto di vista) di cogliere dei collegamenti inaspettati.
In questo caso, al centro della ricerca musicale c'è il mare Adriatico e soprattutto la città di Venezia, a lungo luogo di incontro di culture diverse ma tutte accomunate da un legame profondo con il mar Mediterraneo.
Questa centralità di Venezia è confermata dal fatto che il programma si costruisce intorno ad alcune composizioni di Vivaldi (Concerto in si bemolle maggiore RV 547, Sinfonia dall’opera Dorilla in Tempe 709, Recitativo dal Concerto Grosso Mogul RV 208, Il Proteo o sia il mondo al rovescio, Concerto in fa maggiore RV 544), cui fanno da controcanto musiche popolari provenienti da Cipro (Kartsilamades) e dalla cultura Arbereshe (Moje Bokura), cui si aggiungono Tartini (Aria del Tasso e Gondoliera) e le composizioni dello stesso Sollima (Il Concerto Perduto, Moghul, The Family Tree).
Dentro questo concerto si passa dalle sonorità settecentesche di Vivaldi a quelle ritmate della musica tzigana e balcanica, dai suoni melodiosi di ascendenza mediorientale agli elementi alle dissonanze contemporanee, il tutto in un discorso però unitario e coerente.
Sollima è come sempre spaziale con il suo violoncello a cui fa fare praticamente qualunque cosa, ma devo dire che l'ensemble Il Pomo d'Oro e il violinista Federico Guglielmo reggono brillantemente il confronto, e trasformano ogni esecuzione in un momento di straordinaria goduria.
Voto: 4/5
Questo è il caso di Giovanni Sollima, compositore e violoncellista palermitano, che ormai seguo da diverso tempo con soddisfazione.
Questa volta Sollima è - insieme all'ensemble Il Pomo d'Oro e al violinista Federico Guglielmo - nel programma dell'Istituzione Universitaria Concerti (IUC) che ogni anno porta una bella selezione di musica classica e non solo nell'Aula magna della Sapienza.
La bellezza della proposta musicale di Sollima sta nel fatto che la sua non è solo una scelta di brani da suonare, bensì è un percorso di senso, una narrazione in musica, che consente anche al pubblico più ignorante (a cui ritengo di appartenere da questo punto di vista) di cogliere dei collegamenti inaspettati.
In questo caso, al centro della ricerca musicale c'è il mare Adriatico e soprattutto la città di Venezia, a lungo luogo di incontro di culture diverse ma tutte accomunate da un legame profondo con il mar Mediterraneo.
Questa centralità di Venezia è confermata dal fatto che il programma si costruisce intorno ad alcune composizioni di Vivaldi (Concerto in si bemolle maggiore RV 547, Sinfonia dall’opera Dorilla in Tempe 709, Recitativo dal Concerto Grosso Mogul RV 208, Il Proteo o sia il mondo al rovescio, Concerto in fa maggiore RV 544), cui fanno da controcanto musiche popolari provenienti da Cipro (Kartsilamades) e dalla cultura Arbereshe (Moje Bokura), cui si aggiungono Tartini (Aria del Tasso e Gondoliera) e le composizioni dello stesso Sollima (Il Concerto Perduto, Moghul, The Family Tree).
Dentro questo concerto si passa dalle sonorità settecentesche di Vivaldi a quelle ritmate della musica tzigana e balcanica, dai suoni melodiosi di ascendenza mediorientale agli elementi alle dissonanze contemporanee, il tutto in un discorso però unitario e coerente.
Sollima è come sempre spaziale con il suo violoncello a cui fa fare praticamente qualunque cosa, ma devo dire che l'ensemble Il Pomo d'Oro e il violinista Federico Guglielmo reggono brillantemente il confronto, e trasformano ogni esecuzione in un momento di straordinaria goduria.
Voto: 4/5
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