Dopo esserci scambiate un'occhiata di intesa, io e F. entriamo nella nostra saletta dove ci aspetta questo film di Michelangelo Frammartino di cui tutti parlano bene, ma da cui non sappiamo cosa aspettarci.
Intanto Silvio Orlando saluta gli altri due, che si incamminano proprio verso la nostra saletta, e si siedono esattamente dietro di noi.
Inizia così questo viaggio in cui Frammartino ci conduce alla scoperta dell'Abisso del Bifurto, una grotta collocata nel Parco del Pollino che si inoltra per 683 m nelle viscere della terra e che fu un gruppo di giovani speleologi proveniente dal Nord a esplorare nel 1961. È appunto quell'impresa che il regista intende ricostruire e omaggiare, chiedendo a un altro gruppo di giovani speleologi di ripetere quel percorso, mentre fuori dal "buco" la vita dei pastori e delle mucche continua secondo i suoi ritmi e le sue tradizioni ancestrali. Anche nel vicino paese di San Lorenzo Bellizzi si respira un'aria antica e si conduce uno stile di vita sostanzialmente rurale, anche se gli abitanti del posto si incontrano la sera nella piazzetta per guardare la televisione, dove assistono all'inaugurazione del grattacielo Pirelli, segno di un'Italia in pieno boom economico.
Il film di Frammartino, tutto orientato verso l'enfatizzazione dell'immagine e del suono (per esempio i rumori della natura, ovvero i versi dei pastori, o ancora i respiri affannati degli speleologi), è invece avaro di parole, tanto che non assistiamo praticamente ad alcun dialogo vero e proprio.
Tutto si gioca sulla contrapposizione tra questa modernità che avanza - e che presto travolgerà tutto - e l'arcaicità del contesto nel quale si realizza un'impresa per certi versi altrettanto arcaica, sebbene epica, in quanto basata sul desiderio dell'uomo di immergersi nella natura e conoscerla sempre più in profondità, nella consapevolezza che la sua riuscita dipende primariamente dall'umiltà con cui l'uomo le si accosta.
Un film diverso da qualunque altro io abbia visto nella mia vita, in cui l'assenza di dialoghi lascia quasi interamente allo spettatore, attraverso una maggiore attenzione alla propria percezione sensoriale, l'onere e il piacere di trovare un senso e delle risposte.
Voto: 3,5/5
mercoledì 27 ottobre 2021
Il buco
lunedì 25 ottobre 2021
La vergine nel giardino / Antonia S. Byatt
La vergine nel giardino / Antonia S. Byatt; trad. di Anna Nadotti e Giovanna Iorio Bates. Torino: Einaudi, 1978.
Questo primo libro della tetralogia dedicata da Antonia S. Byatt a Frederica Potter mi era stato prestato qualche anno fa da S., insieme al secondo, immagino nella convinzione che potesse piacermi o comunque nell'idea che letto il primo potessi valutare se continuare con i successivi.
All'approssimarsi di questa estate ho pensato fosse arrivato il momento opportuno per dedicarmi a questa lettura.
In realtà per le prime duecento pagine ho fatto una fatica immane e più volte ho accarezzato l'idea di abbandonare. In un momento di particolare frustrazione ho persino interrotto e letto Agenzia A di Matsumoto Seichō.
Fino a un certo punto della lettura non sono riuscita a superare la sensazione che non succedesse assolutamente nulla e che il susseguirsi dei capitoli dedicati di volta in volta a uno dei fratelli Potter, Stephanie, Frederica e Marcus, fosse semplicemente l'occasione per la Byatt di fare sfoggio delle sue conoscenze e creare un universo sovrabbondante di citazioni e di riferimenti, per lo più a me sconosciuti. Insomma non sono riuscita a farmi conquistare dal mondo costruito dalla scrittrice, che tra l'altro mi procurava una sensazione di spaesamento temporale. Mentre lo leggevo continuavo infatti a pensare che si trattasse di una storia ambientata a cavallo tra Ottocento e Novecento e invece di tanto in tanto alcuni dettagli e riferimenti mi riportavano bruscamente all'ambientazione effettiva degli anni Cinquanta.
La lettura per me ha cominciato a decollare quando la primogenita Stephanie si innamora del reverendo Orton e decide di sposarlo, e questa scelta mette in subbuglio l'intera famiglia Potter e in particolare il padre Bill, ateo e anticlericale. Parallelamente Marcus, fragile e tormentato, comincia a frequentare il suo professore Lucas Simmonds, che ha un interesse particolare per l'ignoto e i fenomeni paranormali, mentre Frederica dopo aver ottenuto la parte di Elisabetta I nel dramma di Alexander Wedderburn si lancia nelle sue prime esperienze erotiche nel tentativo di perdere la verginità.
Diciamo che un po' di verve narrativa ha dato linfa alla mia voglia di andare avanti e ha definitivamente superato le mie resistenze. Cosicché - pur restando il libro decisamente sovrabbondante per il mio gusto - man mano che andavo avanti ho cominciato ad apprezzarne la sua natura originale, il suo collocarsi in un punto da qualche parte in mezzo tra una commedia shakespeariana alla maniera - per fare un esempio - di Molto rumore per nulla, un'opera buffa e una commedia dell'arte, per quel mix tutto suo di intellettualismo, licenziosità, sentimenti, invenzioni, reale e fantastico.
All'ultima pagina sono stata dunque contenta di non aver mollato, però certo la lettura del secondo volume non arriverà nell'immediato ;-)
Voto: 3/5
mercoledì 20 ottobre 2021
Festival del cinema spagnolo. Cinema Farnese, 1-7 ottobre 2021
Anche quest'anno il cinema Farnese ospita il Festival del cinema spagnolo (e latinoamericano), un'occasione imperdibile per conoscere il meglio di questa produzione cinematografica, tra cui film che fanno fatica a trovare una distribuzione in Italia e che dunque si rischia di perdere completamente. Oltre al fatto che il piacere di vedere i film in lingua originale è sempre impagabile.
Quest'anno riesco ad andare a vedere tre film, tutti e tre spagnoli, tutti e tre in qualche modo incentrati sul tema del rapporto tra genitori e figli (anche se in Intemperie non si tratta di un legame di sangue), sebbene ambientati in luoghi e tempi completamente diversi. Per i primi due film - entrambi opere prime - abbiamo anche la possibilità, sempre speciale, di dialogare con i due giovani registi e di ascoltare il loro percorso e le loro motivazioni.
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Il film di Lucía Alemany - come ci dice lei stessa nel dibattito che segue la visione - ha una base fortemente autobiografica. La protagonista quindicenne, Lis (la bravissima Carmen Arrufat), vive nel piccolo paese della regione di Valencia dove la regista è nata e ha vissuto la sua adolescenza (e nel film alcuni dei personaggi e delle comparse sono i veri abitanti del posto). Inoltre, la protagonista de La inocencia condivide con la Alemany altre due cose molto importanti: una passione per l'attività circense e un aborto in età precoce dovuto a una gravidanza indesiderata.
Il film in un certo senso rappresenta per la regista un modo per far pace con la sé stessa adolescente e con le dinamiche del piccolo paese in cui è cresciuta (dinamiche del resto tipiche di tutti i paesi rurali e di provincia).
Lis è in quell'età di confine tra l'adolescenza e l'età adulta, un mix di curiosità verso la sessualità e desiderio di indipendenza, ma anche di fragilità e ingenuità. Un'età nella quale la comunicazione con i propri genitori (interpretati da Sergi Lopez e Laia Marull) è difficile, soprattutto se si vive in un contesto tradizionalista e patriarcale. Lis frequenta la scuola e sogna un'accademia circense a Barcellona, ha amiche più o meno disinibite e pettegole, va in discoteca anche se non ha l'età per entrare, frequenta un ragazzo più grande di lei, Nestor (Joel Bosqued), che spaccia e fa il bulletto, ma che pure lui si dimostra alfine insicuro e fragile. A seguito della gravidanza non voluta, la ragazza dovrà affrontare i suoi genitori (e anche la comunità cui appartiene) e fare i conti con le proprie responsabilità, amorevolmente consigliata da Remedios, la madre un po' alternativa di una delle sue amiche.
La regia di Lucía Alemany è fatta di numerosi piani sequenza e di una camera che sta molto addosso alla protagonista, ricordando a tratti - come lei stessa ammette - la scelta di Abdellatif Kechiche in La vita di Adèle, tanto più che Carmen Arrufat richiama alla memoria alcune espressioni della protagonista di quel film, Adèle Exarchopoulos.
Un bell'esordio cinematografico che si muove agevolmente tra commedia e dramma, e che si conclude su una nota di speranza e ottimismo verso il futuro, attraverso la riconciliazione tra madre e figlia sancito dall'aprirsi dei due volti in un luminoso sorriso.
Voto: 3,5/5
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Anche con Ane ci troviamo di fronte a un'opera prima, quella di David Gómez Sañudo, regista di Bilbao, già prolifico e premiato autore di cortometraggi.
Siamo nei Paesi Baschi nel 2009. Lide (Patricia López Arnaiz) fa la guardia giurata nel cantiere dove si sta realizzando un tratto spagnolo della TAV, opera poco gradita agli abitanti del territorio e contro cui un gruppo di giovani organizza azioni dimostrative e di contrasto. Un giorno, tornata a casa, Lide scopre che sua figlia Ane, diciassettenne, non ha dormito nel suo letto. Ben presto la donna deve prendere atto della scomparsa della figlia, e per cercarla chiede aiuto al suo ex marito, Fernando.
La ragazza che dà il titolo al film per circa la metà di esso è un fantasma, un'assenza; sentiamo parlare di lei in maniere varie e contraddittorie che rendono la situazione sempre più misteriosa. Il film di Gómez Sañudo inizia dunque come un thriller per poi virare verso il dramma socio-politico; in realtà, però, l'uso dei generi è strumentale all'approfondimento di tematiche molto più intime e personali riferite primariamente al rapporto madre-figlia: la difficoltà di comprendersi nonostante l'affetto, il bisogno di proteggere della madre e quello di essere indipendente della figlia, il gap generazionale, il doloroso divaricarsi di un percorso.
Sullo sfondo un contesto non certo semplice come quello dei paesi baschi, sul quale pesa l'ombra pesante del terrorismo dell'ETA e della "quasi guerra civile" che li ha attraversati per anni, un luogo nel quale la spinta autonomista e il rifiuto delle imposizioni dall'alto sono particolarmente forti e sentite. Tutto questo però confluisce nel rapporto tra una madre che oscilla tra concretezza e disillusione e una figlia che è mossa dal sacro fuoco degli ideali della lotta.
Non è detto che questi due mondi riescano a incontrarsi da qualche parte.
Voto: 3/5
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Intemperie
Andalucia, 1946. La guerra è finita e il dittatore Francisco Franco è salito al potere, mentre tanti piccoli dittatori spadroneggiano nei latifondi della Spagna meridionale.
Un ragazzino (Jaime Lòpez) scappa dalla fattoria in cui uno di questi latifondisti senza scrupoli (Luis Callejo) vessa i suoi lavoranti trattandoli come schiavi e mantenendoli in una condizione di miseria estrema.
Il ragazzino è diretto in città, alla ricerca della propria libertà e con il sogno di riscattare la sua famiglia.
Ben presto però sulle sue tracce si mettono gli scagnozzi del padrone, cosicché egli è costretto ad attraversare a piedi un deserto riarso e ostile. Sul suo cammino incontrerà un pastore (Luis Tosar), ex soldato nella guerra in Marocco, diretto con le sue pecore e il suo asino a casa della sorella, che diventerà il suo "angelo custode" e una sorta di padre putativo.
Benito Zambrano adatta per il cinema il romanzo omonimo di Jesús Carrasco, costruendo un western anomalo di grande impatto visivo ed emotivo, incentrato sulla classica - e forse fin troppo semplicistica - contrapposizione tra bene e male, ma dentro una più complessa e articolata contestualizzazione storico-politica.
In essenza si tratta di un racconto di coming of age, una dolorosa e definitiva perdita dell'innocenza, un viaggio esperienziale al termine del quale il ragazzino che uscirà dal deserto non sarà lo stesso che vi è entrato, dopo aver conosciuto e affrontato la paura, la morte, la pietà, e aver fatto i conti con la malvagità e le bassezze umane proprie e altrui.
Sullo sfondo, una Spagna bellissima e ostile (fotografata o in pieno sole oppure con la luce magica del tramonto o dell'ora blu), in cui si respirano povertà e disuguaglianza, ma anche - grazie all'umanità e alla dignità che il pastore è riuscito a conservare nonostante e forse anche grazie alla guerra e che trasmette al ragazzino - la speranza di un futuro più giusto.
Registicamente il film di Zambrano è costruito su un ritmo sostenuto e incalzante, in cui la tensione cresce progressivamente, interrotta da brevi momenti di distensione.
A fare da cornice alla storia le canzoni eseguite dalla voce delicata di Silvia Pérez Cruz, una delle quali è stata premiata come miglior canzone originale ai Goya.
Il film ha vinto il premio del pubblico al festival romano.
Voto: 4/5
lunedì 18 ottobre 2021
Compleanno / di e con Enzo Moscato. Teatro India, 30 settembre 2021
La conoscenza di Ruccello e delle sue opere ci ha portate dritte dritte a un altro grande autore, anzi il capofila del nuovo teatro napoletano, Enzo Moscato.
Grazie a questi due mostri sacri, il primo morto troppo giovane, in un incidente stradale a 30 anni, il secondo ancora in attività, abbiamo imparato a esplorare e apprezzare il teatro napoletano contemporaneo nelle sue diverse declinazioni, passando per alcune opere di Giuseppe Patroni Griffi fino ad arrivare a Manlio Santanelli.
E così ora come ora non appena leggiamo uno di questi nomi nei cartelloni dei teatri romani cerchiamo di non mancare all'appuntamento. Come potevamo dunque perdere Compleanno, il testo scritto da Enzo Moscato pochi mesi dopo la morte di Ruccello, e messo in scena la prima volta nel 1992?
La presenza nel pubblico di Giorgio Barberio Corsetti, già direttore del Teatro di Roma, è un'ulteriore conferma del fatto che Compleanno è uno spettacolo da non perdere.
Si tratta sostanzialmente di un monologo, preceduto però da una breve introduzione recitata da un giovane - forse il fantasma di Ruccello? - che riflette sulla morte e su cosa significa morire giovani.
La scenografia è fatta di una sedia vuota ricoperta di veli rossi e di un banchetto decorato in maniera kitsch. Il giovane che introduce la pièce lascia sparse sul palco cinque rose, che richiamano immediatamente una delle opere più famose di Ruccello (Le cinque rose di Jennifer). Da dietro le quinte arriva Moscato, con una maglietta con la scritta "Life's a bitch and then you die" e una torta con le candeline in mano.
Siamo - come spesso nella nuova drammaturgia partenopea - in un qualche basso napoletano, tra trans e femminielli, quel mondo dolente ed emarginato, ma anche ricco di umanità e ironia, tanto amato da Ruccello e Moscato. Si prepara una festa di compleanno in absentia e questi preparativi sono accompagnati da un flusso di parole, in lingue diverse, inframmezzate da spezzoni di canzoni (Suzanne Vega, i Gipsy King, Donatella Rettore), e tutto questo si trasforma a tratti in cantilena o in filastrocca, attraverso la ripetizione quasi ossessiva.
Dietro queste parole e la loro solo apparente leggerezza in alcuni passaggi si percepisce dal principio alla fine un dolore con cui non si riesce a fare i conti e che solo per poco non si trasforma in dramma autoinflitto. Un dolore che alla fine si trasforma in commozione, non solo per l'artista sul palco ma anche per un pubblico che sente una presenza forte anche lì dove la persona non c'è fisicamente.
Il lungo applauso finale è liberatorio, e non è solo un riconoscimento della bravura di Moscato, ma anche un rito collettivo di elaborazione di un lutto che si fa fatica ad accettare e anche di una vita che - come dice il giovane nel prologo - più è lunga e più ti mette di fronte alla perdita e all'inevitabile declino, in un paradosso insolubile proprio dell'essere umano in quanto essere cosciente di sé stesso.
Voto: 4/5
mercoledì 13 ottobre 2021
Sardegna luminosa e crepuscolare (II parte)
Sant'Antioco |
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Sant'Antioco
Di Sant'Antioco abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto. Qualcuno ci dice che non è niente di che, qualcun altro che è troppo turistica, qualcun altro ancora che è molto bella. Insomma, non sappiamo davvero cosa aspettarci. Addirittura troviamo su un blog di viaggi il resoconto di una coppia che avendola visitata poco fuori stagione si lamenta dei ristoranti chiusi e dell'eccesso di tranquillità.
Noi ne usciamo entusiaste e quanto avremmo desiderato una presenza un po' meno massiccia, che ci avrebbe probabilmente consentito di godere appieno della bellezza dell'isola.
Le spiagge Sant'Antioco, Cala della Signora
Anche in questo caso adottiamo la strategia di fare un giro per tutta l'isola già il giorno in cui arriviamo per renderci conto delle spiagge, della loro conformazione e del loro grado di affollamento. Decidiamo per esempio che alla spiaggia di Maladroxia non ci andremo, perché c'è davvero troppa gente.
Alla fine le spiagge dove staremo nei giorni sull'isola e che ameremo di più sono le seguenti:
Cala della Signora: si tratta di una delle cale che si trovano sul lato ovest dell'isola, a metà strada circa tra Cala Sapone e Cala Lunga (quest'ultima una specie di fiordo con un arenile molto profondo). Di Cala della Signora ci innamoriamo quando dopo aver parcheggiato con l'idea di andare a Cala Sapone ci inerpichiamo in cima a una collinetta e davanti a noi si apre lo spettacolo di un'insenatura di rocce a picco sul mare e scogli piatti che incorniciano un'acqua verde smeraldo. Capito qual è il punto di accesso alla cala, trascorreremo l'intera giornata lì, anche approfittando di una giornata in cui le nuvole regalano ogni tanto un po' di tregua dal sole e dal caldo. Qui non c'è sabbia, e l'ingresso al mare è dagli scogli (il fondale è costellato di ricci), ma con delle comode scarpette da scoglio non c'è alcun problema ed è pieno di signore di una certa età che fanno il bagno.
Turri: le calette che si aprono invece dopo Turri (una torre che domina un piccolo promontorio a sud est dell'isola) e prima di capo Sperone le scopriamo il primo giorno, quando percorriamo in macchina la strada litoranea e a un certo punto ci si apre davanti lo spettacolo di un mare dalle mille sfumature di azzurro e spiaggette poco affollate. Durante la nostra permanenza nell'isola torneremo dunque in questa zona e sceglieremo di trascorrere una mattinata nell'ultima delle spiagge che si incontrano dopo Turri, la meno agevole da raggiungere, nonché quella coperta di posidonia. Quando ci arriviamo, la mattina (non prestissimo), sulla spiaggia ci siamo solo noi (a parte alcune barche ormeggiate poco lontano dalla costa). Certo la luce e il caldo non sono di quelli che ci permettono di apprezzare il contesto al massimo grado, ma godiamo della solitudine e di un'acqua pulitissima. Poi qualcuno comincia ad arrivare, ma i metri che ci dividono dagli altri abitanti della spiaggia restano tanti. Sant'Antioco, Turri
Coaquaddus: a dire la verità quella dove andiamo noi non è la parte più conosciuta e frequentata della spiaggia (ossia quella il cui ingresso sta di fronte a un grande parcheggio), ma l'estremità più a sud dove la costa si chiude in un'insenatura e dove si arriva o camminando per un po' lungo la spiaggia o scendendo per un piccolo sentiero, cui veniamo inconsapevolmente indirizzati da due locali. La giornata in questa spiaggia sarà la nostra ultima giornata di vacanza e vi assicuro che non ci sono parole per descrivere la bellezza di questo posto e i colori del mare. Quando andiamo via gettare l'ultimo sguardo su questa spiaggia e questo mare è al contempo doloroso e commovente. Sant'Antioco, Coaquaddus
Delle altre spiagge che abbiamo visto solo di sfuggita (Maladroxia, Spiaggia Grande, Le Saline) non possiamo dire molto. Sono certamente bellissime, ma ad agosto quasi impraticabili.
Cosa vedere
Sant'Antioco, Museo etnografico |
Le tracce di questa lunga storia sono sparse su tutta la sua superficie e per quanto ci riguarda se avessimo avuto più tempo avremmo voluto fare un salto anche alle tombe dei giganti e al pozzo nuragico.
Dedichiamo però un paio di tardi pomeriggi alla visita della chiesa di Sant'Antioco con le sue catacombe, al museo etnografico, al villaggio ipogeo (le tombe fenicie riutilizzate come case fino agli anni Sessanta), al forte sabaudo de su pisu, all'acropoli della città antica e alla grande necropoli fenicia e poi punica e romana che copre una superficie ampia del Comune di Sant'Antioco e oltre.
Sant'Antioco, Faro mangiabarche |
Sant'Antioco, ex Semaforo |
Calasetta pure è molto carino, con le sue strade regolari e le case colorate. Noi lo visitiamo un pomeriggio afoso, in cui le strade sono quasi deserte perché probabilmente sono tutti o in spiaggia o a fare la pennichella.
Sant'Antioco, tramonto su Calasetta |
Anche in questo caso non possiamo dare molti suggerimenti. Siamo andate a mangiare fuori solo una sera, da Acqua Sale, una pizzeria molto ben recensita che ci dà l'occasione di goderci un bel tramonto su Calasetta e di apprezzare il piccolo borgo di pescatori dove si trova, oltre a farci gustare due ottime pizze (che però a S. risultano un po' pesanti).
Per il resto compriamo e prepariamo in autonomia le nostre cene, anche perché in alcuni posti è quasi impossibile prenotare. Mangiamo una strepitosa fregola con le arselle, poi un'altra sera un ottimo polpo con patate e olive, e persino un fantastico filetto alla brace di fassona sarda.
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Isola di San Pietro Isola di San Pietro, Carloforte
Dell'isola di San Pietro, che molti chiamano Carloforte, dal nome dell'unico comune dell'isola, ci hanno tutti parlato benissimo e molti ci hanno caldamente consigliato di fermarci più di un giorno.
Noi decidiamo però di andare e tornare in giornata, prendendo il traghetto che parte da Calasetta e arriva a Carloforte in circa mezz'ora. Prendiamo (e facciamo benissimo) il primo traghetto della mattina (alle 7.35) e questo ci dà la possibilità di godere di una splendida alba sul porto, resa più scintillante da un cielo in parte nuvoloso.
Arrivate a Carloforte facciamo colazione dal bar Cipollina, dove io faccio il bis del bombolone (troppo piccolo per esserne soddisfatta). Facciamo una bella passeggiata per il paese dove intorno a noi tutti parlano con accento ligure, cosa che sapevamo ma ci destabilizza e meraviglia comunque. Saliamo ai resti del forte, giriamo in lungo e in largo le stradine e poi facciamo un giro al mercato, che capiamo essere gettonatissimo tanto che c'è gente che prende apposta il traghetto da Sant'Antioco o da Portovesme.
Isola di San Pietro, Cala Fico |
- Cala Fico (dove si trova l'oasi della Lipu), un fiordo incastonato tra le rocce, dove seguiamo il sentiero che ci porta in cima alla scogliera e ci permette di ammirare un paesaggio strepitoso;
- Capo Sandalo, a nord ovest dell'isola, dove un faro domina l'alta scogliera che si apre sul mare aperto;
- le casette bianche dell'interno dell'isola, tutte costruite con un lato piatto e quasi senza finestre, che è quello che si oppone al maestrale e che protegge i patii che si aprono sull'altro lato;
Isola di San Pietro, Capo Sandalo |
Peccato invece per i molti orrori edilizi che punteggiano l'isola soprattutto in prossimità di alcuni luoghi molto belli: ce n'è uno in prossimità della Caletta, l'unica spiaggia di sabbia del lato ovest, e uno persino a Cala Fico, edificio che tra l'altro quando siamo andate noi sembrava in fase di ristrutturazione e che io avrei preferito fosse abbattuto per non rovinare la meraviglia di questo posto la cui bellezza è legata alla sua anima selvaggia.
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Per finire Isola di Sant'Antioco
Anche questa volta la Sardegna ci è entrata nel cuore, per le tante cose che ha da offrire, anche al di là dei posti più famosi e rinomati. A noi piace la Sardegna dei sardi, anche se mi rendo conto che per loro siamo turisti scocciatori come gli altri, e che ci sopportano solo perché il turismo è una risorsa fondamentale per l'isola. Spero di poter dire che la nostra vacanza di quest'anno, trascorsa a fuggire da posti troppo affollati e turistici e a cercare angoli apparentemente meno belli e rinomati ma ricchi di altrettanto fascino, ci abbia consentito di essere un po' più vicine allo spirito di questa terra bellissima. Il fatto poi che S. dimentichi il suo smartphone in aeroporto prima di partire e lo lasci di nuovo all'autonoleggio al ritorno dopo la consegna della macchina la dice lunga sul nostro desiderio di tagliare i ponti con tutto (non preoccupatevi però: entrambe le volte il telefono è stato recuperato!).
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Chi volesse un racconto fotografico completo di questo viaggio lo troverà a questo link su Behance.
lunedì 11 ottobre 2021
Un autre monde
Con questo film Stéphane Brizé porta a compimento la sua trilogia dedicata ai meccanismi perversi del turbocapitalismo finanziario. Purtroppo non ho visto i primi due, La legge del mercato e In guerra (che conto di recuperare prossimamente), ma la visione di Un autre monde è stata sufficiente a farmi apprezzare stile e poetica del regista francese.
Protagonista del film è Philippe Lemesle (un poderoso Vincent Lindon), dirigente di una delle filiali francesi di una multinazionale americana che produce elettrodomestici. Mentre l'azienda gli chiede di prevedere l'ennesimo piano di tagli al personale e ai costi, Philippe deve fare i conti con il divorzio dalla moglie (Sandrine Kiberlain) e il tracollo nervoso di suo figlio, che frequenta l'ultimo anno di una business school.
L'insieme di queste vicende costringe il protagonista a interrogarsi sul proprio lavoro e su quanto in là è disposto a spingersi.
La forza del film di Brizé consiste nella scelta del punto di vista. In questo caso infatti il protagonista non è un precario o un operaio o altre figure assimilabili, cioè coloro che normalmente sono considerati gli anelli più deboli della catena e che non a caso sono normalmente prescelti nei drammi sociali di registi quali Ken Loach, bensì un quadro, un dirigente ben pagato e apparentemente in una situazione di forza.
Scopo del regista è portare all'evidenza il fatto che in un sistema turbocapitalistico nessuno - a qualunque livello del sistema si collochi - è realmente libero e tutti sono intrappolati e resi fragili da un meccanismo di ricatti, in cui l'unico vero "padrone" sono i mercati finanziari e le esigenze degli azionisti. È chiaro altresì che, all'interno di questo meccanismo che ingabbia tutti, non tutti sono uguali, perché c'è chi asseconda il sistema senza porsi domande preservando solo sé stesso, e chi non può fare a meno di interrogarsi e di fare i conti con la propria coscienza. Philippe è uno di questi: di fronte al fallimento della sua vita personale, non può non chiedersi che ruolo ha il lavoro, così come non può far finta di non rendersi conto della disumanità e della insensatezza di alcune scelte aziendali. Proverà a suo modo a individuare una strada che sia gradita ai vertici aziendali e che preservi il lavoro dei lavoratori della filiale, ma finirà per scontrarsi contro un Leviatano che fa molta più paura di quello hobbesiano.
Sono anni ormai che sono convinta che qualunque discorso su un futuro più equo, ecologico e sostenibile non abbia senso senza considerare il ruolo pervasivo che i mercati finanziari hanno nell'economia contemporanea. Un'economia fondata non sul lavoro, ma sulla scommessa, crea storture infinite e inquina i nostri modi di vivere e di convivere. Ci si potrebbe augurare che questa bomba a orologeria esploda e collassi su sé stessa come un buco nero, ma in realtà già sappiamo per esperienza che i mercati finanziari hanno la straordinaria capacità di scaricare i costi dei fallimenti su alcune parti della società e di rinascere dalle proprie ceneri ancora più aggressivi e deregolamentati. Riguardo al perché non si muova un dito per mettere delle regole a questo sistema credo che ognuno possa provare a dare una risposta. Brizé non si spinge così in là e si "limita" a denunciare lo stato delle cose, che ovviamente non è affatto scontato né secondario, visto che questo dibattito è colpevolmente - e forse anche comprensibilmente se si pensa alle risposte di cui sopra - assente dal nostro vivere sociale.
Da questo punto di vista continuo a essere piacevolmente sorpresa dal fatto che i registi francesi sono forse ormai tra i pochi capaci di guardare al di là del proprio ombelico e di affrontare temi di respiro molto più ampio, dalla politica all'economia, dall'ambiente alle dinamiche sociali, e di farlo in maniera lucida e diretta.
Un film da vedere.
Voto: 4/5
giovedì 7 ottobre 2021
Sardegna luminosa e crepuscolare (I parte)
Agriturismo Sa Reina, Masainas |
La nostra destinazione è quella parte della costa ovest che era rimasta fuori dal viaggio del 2018, cioè in realtà la parte sud-ovest del'isola compresa Sant'Antioco. Prenotiamo così cinque giorni in zona Porto Pino, precisamente in una piccola frazione che si chiama Cannigonis, e cinque giorni sull'isola di Sant'Antioco, precisamente a metà strada tra il paese di Sant'Antioco e la spiaggia di Maladroxia.
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Dentro la cattedrale di Cagliari |
Cagliari
Le prime 24 ore, compresa la prima notte, la trascorriamo a Cagliari, una città dove si rischia colpevolmente di essere sempre di passaggio, senza mai visitarla. In realtà 24 ore non sono sufficienti per esplorare la città e soprattutto per guardarla da diverse angolazioni, ma intanto per noi è stato un primo assaggio.
Cosa abbiamo visto/visitato
La prima sera abbiamo risalito a piedi il Bastione Saint Remy e fatto lì una passeggiata: è stato bello stare a guardare un gruppo di persone che ballava il tango.
Cagliari, Torre dell'elefante |
Dove abbiamo mangiato
Ci siamo fidate - e abbiamo fatto bene - del consiglio di un'amica e abbiamo mangiato al Cerchio rosso, che ha dalla sua anche una splendida location, con i tavoli al centro di una tranquilla piazzetta. Il cibo è all'altezza della location: cucina sarda rivisitata in chiave contemporanea. Tutto buono, alcune cose veramente squisite come il gazpacho con fregola e bottarga, o anche il polpo con salsa teriyaki. Selezione di vini di gran livello.
Il giorno dopo abbiamo pranzato a uno dei chioschi del Poetto, il Twist (sempre consigliato da un'amica), dove abbiamo gustato un'ottima frittura di mare.
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Is arenas biancas |
Le spiagge
Arrivando in macchina da Cagliari, la costa che si incontra è ricchissima di spiagge, alcune famosissime, ad esempio Chia, Su Giudeu, Cala Cipolla, Tuerredda. Mentre andiamo verso la nostra casetta a Cannigonis ci affacciamo a quasi tutte, ma la quantità di macchine e persone è tale da convincerci a lasciar perdere. Prendiamo invece nota di alcune calette un po' meno affollate.
Nei giorni successivi esploriamo tutte le possibilità, e alla fine le spiagge che promuoviamo in questa settimana di metà agosto sono le seguenti:
Is arenas biancas |
Is Solinas |
Is Solinas: anche in questa spiaggia (molto più vicina alla nostra casetta di Cannigonis) ci torniamo due volte. La prima volta è quasi ora del tramonto, e ci andiamo solo in esplorazione. Al bivio imbocchiamo il ponticello e andiamo nella zona del porticciolo, a un'estremità dell'arenile. Anche in questo caso c'è un vento pazzesco, ma facciamo una bella passeggiata sulla spiaggia vuota, poi torniamo indietro a guardare e fotografare un bellissimo tramonto.
La seconda volta prendiamo la strada che porta al Jamaican Bar. Sulla spiaggia c'è gente, ma non si può dire che sia affollata. Troviamo un nostro angolino riparato e anche in questo caso possiamo goderci una bella giornata di mare. La spiaggia offre anche lo spettacolo dei windsurf e dei kitesurf, sebbene a volte si avvicinino un po' troppo alla riva.
Piscinnì |
Mangiare e bere
Cannigonis |
I due agriturismi sperimentati sono Is Concais, in zona Tratalias, dove tra le altre cose mangiamo uno splendido porcetto e dei buonissimi ravioli fritti, e l'agriturismo Sa Reina, dove gustiamo una cena tutta a base dei prodotti della fattoria, tra cui spiccano i malloreddus con la salsiccia, la pecora in umido, lo spezzato di manzo e un'ottima cheesecake. Il posto è molto bello, in una campagna autentica e poco addomesticata, dove possiamo godere del tramonto del sole e del sorgere della luna.
Porto Botte |
Un giorno andiamo a dare un'occhiata alla spiaggia dei francesi a Porto Pinetto (anche questa parecchio affollata), e ci fermiamo a prendere un aperitivo al chiosco che si trova sulla strada per arrivarci. Un'altra sera invece compriamo l'occorrente e andiamo a fare aperitivo sulla spiaggia di Porto Botte, da dove si può ammirare uno splendido tramonto e le atmosfere misteriose del crepuscolo sulla laguna sono molto affascinanti. La spiaggia qui è scenografica per la laguna alle spalle ma di per sé non è la più bella della zona (viene frequentata soprattutto da locali); però è certamente un posto fantastico per un aperitivo all'ora blu. Accanto a noi un gruppo di locali si è attrezzato molto meglio di noi, con accampamento e luci, per una vera e propria cena in spiaggia.
In generale, non facile trovare un ristorante di pesce come lo vogliamo noi, e così un po' di volte lo prepariamo a casa: una sera facciamo sauté di cozze e frittura mista, accompagnati da un ottimo rosato sardo.
Laguna tra Porto Pino e Sant'Anna Arresi |
E per finire
Un giorno andiamo a Porto Pino e attraversiamo la pineta Candiani fino al belvedere della grotta dei baci, dove arriviamo quando il sole sta calando.
Sempre lo stesso giorno ammiriamo lo spettacolo della luna piena che si specchia all'ora blu sulla laguna di Porto Pino. Spettacolo incredibile. Io non smetto di fotografare, anche se ci siamo accostate lungo lo stradone affollatissimo che da Porto Pino conduce a Sant'Anna Arresi e le altre macchine ci suonano dietro.
A seguire la seconda puntata del racconto di viaggio.
lunedì 4 ottobre 2021
Drive my car
Questa volta arrivavo in sala preparata a un film fatto di molte parole e molti silenzi, ed ero pronta ad affrontare le quasi tre ore di visione, delle quali quasi tre quarti d'ora costituiscono una specie di prologo al termine del quale partono finalmente i titoli di testa (e solo a quel punto lo spettatore si accorge di non averli ancora visti passare).
Tratto da un racconto di Murakami Haruki presente nella raccolta Uomini senza donne, il film racconta la storia di Yûsuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima), regista e attore prima di televisione e poi di teatro. Il lungo prologo ci racconta la sua vita di coppia, e come - dopo un grave lutto che li unisce - lui e sua moglie si "incontrano" in quel tempo indefinito che sta tra il giorno e la notte, o tra la notte e il giorno, tempo spesso di amplessi sessuali ma soprattutto tempo in cui sua moglie racconta frammenti di storie che poi alla luce del giorno dimentica, ma di cui Kafuku tiene memoria, consentendole di trasformarle in sceneggiature di successo. Un evento inatteso incrina il rapporto di fiducia tra i due, ma la morte improvvisa di lei chiude in una cassaforte inespugnabile tutti i sentimenti incerti di Kafuku.
Qui comincia il film di Hamaguchi. Due anni dopo la morte della moglie, Kafuku accetta un invito a tenere un laboratorio teatrale a Hiroshima per poi mettere in scena Lo zio Vanja di Checov, pièce cui Kafuku è particolarmente legato e la cui registrazione fatta da sua moglie ascolta in macchina per memorizzare le battute.
L'abitacolo della sua SAAB 900 rossa fiammante diventa così il confine e la metafora di un mondo interiore inceppato su un lutto mai elaborato, e totalmente impermeabile al mondo esterno. Kafuku vive delle parole di Checov lette dalla moglie, ma non ascolta il mondo intorno, condizione che si concretizza nella scelta di mettere in scena spettacoli in cui gli attori parlano lingue diverse e dunque non si comprendono reciprocamente.
A Hiroshima però Kafuku deve accettare suo malgrado l'autista che la produzione dello spettacolo gli impone: si tratta di una giovane di umili origini, Misaki (Toko Miura), dalla presenza sobria e discreta, che guida l'auto in modo mirabile.
Mentre Kafuku inizia il laboratorio di teatro e fa avanti e indietro dalla sua residenza al luogo delle prove, Misaki è spettatrice silente ma partecipe. La presenza di Misaki innesca a poco a poco un processo di disgelo nel cuore di Kafuku, processo che passa anche attraverso dei momenti particolarmente intensi nella preparazione dello spettacolo. I due "si rispecchiano", riconoscendo ciascuno il dolore e il senso di colpa dell'altro, che grazie al lungo viaggio in macchina verso l'Hokkaido, il luogo di origine di Misaki, troveranno finalmente espressione, e dunque anche la possibilità di essere superati per ricominciare ciascuno la propria vita. E parallelamente anche lo spettacolo teatrale andrà in scena, segnando il passaggio dal rancore alla speranza.
Nel film di Hamaguchi ci sono tantissime chiavi di lettura, molte probabilmente sfuggono a chi - come me - non riesce a cogliere i suoi riferimenti cinematografici e in generale intellettuali. Certamente il suo cinema è espressione di quella che il regista considera una caratteristica della società giapponese e dei suoi individui: la spaccatura profonda tra i sentimenti che si muovono all'interno dei personaggi - potenti ed estremi come sono quelli di tutti gli esseri umani - e l'immagine esteriore sempre improntata alla massima compostezza e a un autocontrollo esasperato, che a tratti appare quasi disumano.
È solo nella ricomposizione di queste due dimensioni - che poi in fondo era l'oggetto anche dei tre episodi del film precedente - che ciascuno trova la propria personale redenzione.
Sicuramente un film stratificato e complesso, che richiede molta pazienza e attenzione, ma che tanto ci dice non solo del suo regista e sceneggiatore, ma anche del mondo giapponese.
Io nella cinematografia giapponese contemporanea continuo a preferire il linguaggio e lo stile di Kore-Eda Hirokazu, ma il mio interesse per la cultura giapponese mi spinge ad approfondirne tutte le espressioni e devo riconoscere che Hamaguchi è un maestro da osservare con attenzione.
Voto: 3,5/5