Ora che con Povere creature! (ma in realtà già con La favorita) Yorgos Lanthimos ha messo al sicuro il suo posto nell'empireo di Hollywood, conquistando il grande pubblico, il regista greco sembra volersi permettere sia di ritornare ad alcune atmosfere proprie dei suoi primi film (e a lavorare con il suo sceneggiatore Efthymis Filippou) sia di utilizzare alcuni di quei registri a scopo di divertissement, anche sfruttando la disponibilità dei grandi attori che ha a disposizione.
E così più o meno contemporaneamente a Povere creature! con lo stesso gruppo di attori (Emma Stone, la sua ormai dichiarata musa, Jesse Plemons, Willem Dafoe, Margaret Qualley, cui qui si aggiungono Hong Chau e Mamoudou Athie) mette in piedi questo film, Kinds of kindness, che in realtà è praticamente la somma di tre mediometraggi, e infatti il tutto dura quasi tre ore.
Matteo Bordone nel suo podcast che ascolto più o meno quotidianamente dice che i tre episodi non hanno un filo conduttore e che sono ciascuno finalizzato a stigmatizzare un fenomeno della vita contemporanea: il servilismo, la paranoia e il settarismo. Pur essendo vero che le tematiche sono quelle citate, personalmente ritengo che il filo conduttore ci sia e non sia soltanto il fantomatico personaggio di R.M.F. che compare in tutti gli episodi, una specie di McGuffin che attraversa il racconto, bensì sia dichiarato fin dai primissimi minuti, quando sui titoli di testa (a partire dalla sequenza di video delle case di produzione che di solito hanno proprie musiche) parte la canzone Sweet dreams degli Eurythmics in cui l'amatissima Annie Lennox a più riprese intona:
Everybody's looking for something
Some of them want to use you
Some of them want to get used by you
Some of them want to abuse you
Some of them want to be abused
Ebbene, secondo me questa strofa è la chiave interpretativa del film che ci mostra in fondo diverse storie di manipolazione e abuso, storie nelle quali - come sempre accade in queste derive patologiche - vittime e carnefici sono legati a doppio filo.
Gli attori che interpretano i vari personaggi nei tre episodi sono sempre gli stessi, e la loro prova attoriale è decisamente di grande livello, per la loro capacità trasformativa che li fa immedesimare in ruoli diversi e spesso opposti, senza che questo stoni agli occhi dello spettatore.
Nel primo episodio Jesse Plemons è lo schiavo di Willem Dafoe, con il quale intrattiene anche una relazione sentimentale. La sua vita ogni giorno viene letteralmente scritta dal padrone che prende tutte le decisioni e chiede al suo servo lo svolgimento di prove sempre più impegnative. Quando il padrone chiede allo schiavo di uccidere un uomo il rapporto va in crisi.
Nel secondo episodio Jesse Plemons è un poliziotto la cui moglie, Emma Stone, è dispersa in seguito a un naufragio. Quando viene ritrovata e torna a casa, il marito comincia a coltivare il dubbio che non sia realmente lei e la sottopone a "prove d'amore" sempre più crudeli ed estreme.
Nel terzo episodio Emma Stone è un'adepta di una setta a capo della quale ci sono Dafoe e Hong Chau, e insieme a Jesse Plemons, ha il compito di individuare una specie di messia donna capace di guarire e resuscitare i morti. L'incontro con il marito e la figlia che il personaggio della Stone ha abbandonato per unirsi alla setta innesca una serie di eventi non senza conseguenze.
Kinds of kindness è tutto fuorché un film gentile: la violenza unita a un'ironia macabra producono un mix a volte insostenibile per lo spettatore, ma devo dire che - abituata agli altri film realizzati da Lanthimos insieme a Filippou - la cosa non mi ha sorpreso più di tanto, anzi per certi versi non ho potuto fare a meno di pensare che Lanthimos è tornato a fare Lanthimos, non solo sul piano della narrazione ma anche delle scelte tecniche (abbandonando i fish eye e le pompose scenografie degli ultimi film, e tornando a uno stile più asciutto e minimal). Pur apprezzando il Lanthimos hollywodiano, ho salutato con favore questo ritorno alle origini, anche se - a pensarci a mente più fredda - è un ritorno solo parziale, com'è normale che sia quando si fa un viaggio in altri territori e inevitabilmente si torna cambiati.
Il vero limite di Kinds of kindness secondo me è la sua natura - nemmeno tanto celata - di divertissement registico, in cui in realtà il regista non ha cose particolarmente originali né particolarmente approfondite da comunicare allo spettatore. Anzi, per certi versi il regista si diverte quasi a spese dello spettatore, sottoposto a tre ore di sostanziale sofferenza dalla quale la risata che scatta inevitabile a più riprese non libera, anzi amplifica il disagio.
Voto: 3,5/5
venerdì 28 giugno 2024
mercoledì 26 giugno 2024
Eileen
Vado a vedere questo film attirata dal fatto che la sua sceneggiatura è l’adattamento del romanzo omonimo di Ottessa Moshfegh, a cui la stessa scrittrice ha partecipato. Non che io conosca bene la Moshfegh (ho letto solo Il mio anno di riposo e oblio che nemmeno mi era piaciuto particolarmente), però trovo che nel suo sguardo obliquo sull'esistenza ci sia qualcosa di affascinante e nello stesso tempo di inquietante.
Per cui l’idea di una declinazione noir di questo sguardo mi è sembrata particolarmente attraente.
Siamo negli anni Sessanta. La storia è quella di Eileen (la bravissima Thomasin McKenzie), una giovane donna che vive in un paesino del Massachussets, dove lavora come segretaria nel carcere minorile e vive con il padre, ex poliziotto e alcolista. La vita di Eileen è monotona e infelice, e tutto il suo desiderio di ribellione cova sotto una superficie incolore e anonima, ma nel privato della sua macchina (che perde monossido nell'abitacolo, ma che Eileen non fa riparare) e della sua camera. Eileen esprime tutta la sua frustrazione attraverso fantasie che non si trasformano mai in azione, se non attraverso masturbazione e caramelle succhiate ma non masticate.
Quando nel carcere dove lavora arriva Rebecca Saint John (la conturbante Anne Hathaway), psicologa elegante e assertiva, totalmente distante dal modello femminile remissivo che Eileen ha conosciuto fino a quel momento, Eileen ne è immediatamente conquistata, anche perché contro ogni pronostico Rebecca si interessa a lei e le due diventano amiche, se non qualcosa di più.
Man mano che Rebecca è coinvolta nel caso di Lee Polk – che ha ucciso a coltellate il padre – anche Eileen viene trascinata nel desiderio della dottoressa di far luce sul caso, anche attraverso metodi non convenzionali e totalmente fuori dalle regole deontologiche. Per Eileen sarà l'occasione per tirare fuori i desideri sopiti e dare una possibile svolta alla propria esistenza.
Quello di William Oldroyd è costruito come un noir classico, nel rispetto delle scelte narrative del romanzo della Moshfegh, e - oltre a scegliere una cifra stilistica e visiva assolutamente coerente con i suoi modelli (il buio che domina sovrano, gli squallidi interni delle case, i bar pieni di fumo, i percorsi in macchina in strade che attraversano boschi e campagne) – non tralascia alcuna delle tematiche tipiche del genere (la provincia noiosa e becera, l'assenza di prospettive, la violenza e gli abusi che la attraversano, il maschilismo dominante). A fronte di questa confezione e narrazione, Eileen riesce però al contempo a essere estremamente moderno, rovesciando alcuni topoi e mettendo al centro del racconto sì una femme fatale (il cui nome, Rebecca, è tutto un programma), ma ancora di più una giovane donna che, trascinata nel suo gioco e poi inevitabilmente tradita, coglie comunque l'occasione di questa potenziale discesa agli inferi per intraprendere – forse – un percorso di emancipazione e di liberazione dalla insostenibile cappa che la sovrasta e dalla prigione in cui è rinchiusa.
Non tutto nel film di Oldroyrd è perfettamente riuscito, e alcune cose non sono molto credibili – anche questo, forse, nella tradizione del miglior noir – ma il risultato di tensione e di oscura angoscia è perfettamente raggiunto, anche grazie all'inserimento di sequenze immaginarie che aggiungono turbamento a turbamento.
Voto: 3,5/5
Per cui l’idea di una declinazione noir di questo sguardo mi è sembrata particolarmente attraente.
Siamo negli anni Sessanta. La storia è quella di Eileen (la bravissima Thomasin McKenzie), una giovane donna che vive in un paesino del Massachussets, dove lavora come segretaria nel carcere minorile e vive con il padre, ex poliziotto e alcolista. La vita di Eileen è monotona e infelice, e tutto il suo desiderio di ribellione cova sotto una superficie incolore e anonima, ma nel privato della sua macchina (che perde monossido nell'abitacolo, ma che Eileen non fa riparare) e della sua camera. Eileen esprime tutta la sua frustrazione attraverso fantasie che non si trasformano mai in azione, se non attraverso masturbazione e caramelle succhiate ma non masticate.
Quando nel carcere dove lavora arriva Rebecca Saint John (la conturbante Anne Hathaway), psicologa elegante e assertiva, totalmente distante dal modello femminile remissivo che Eileen ha conosciuto fino a quel momento, Eileen ne è immediatamente conquistata, anche perché contro ogni pronostico Rebecca si interessa a lei e le due diventano amiche, se non qualcosa di più.
Man mano che Rebecca è coinvolta nel caso di Lee Polk – che ha ucciso a coltellate il padre – anche Eileen viene trascinata nel desiderio della dottoressa di far luce sul caso, anche attraverso metodi non convenzionali e totalmente fuori dalle regole deontologiche. Per Eileen sarà l'occasione per tirare fuori i desideri sopiti e dare una possibile svolta alla propria esistenza.
Quello di William Oldroyd è costruito come un noir classico, nel rispetto delle scelte narrative del romanzo della Moshfegh, e - oltre a scegliere una cifra stilistica e visiva assolutamente coerente con i suoi modelli (il buio che domina sovrano, gli squallidi interni delle case, i bar pieni di fumo, i percorsi in macchina in strade che attraversano boschi e campagne) – non tralascia alcuna delle tematiche tipiche del genere (la provincia noiosa e becera, l'assenza di prospettive, la violenza e gli abusi che la attraversano, il maschilismo dominante). A fronte di questa confezione e narrazione, Eileen riesce però al contempo a essere estremamente moderno, rovesciando alcuni topoi e mettendo al centro del racconto sì una femme fatale (il cui nome, Rebecca, è tutto un programma), ma ancora di più una giovane donna che, trascinata nel suo gioco e poi inevitabilmente tradita, coglie comunque l'occasione di questa potenziale discesa agli inferi per intraprendere – forse – un percorso di emancipazione e di liberazione dalla insostenibile cappa che la sovrasta e dalla prigione in cui è rinchiusa.
Non tutto nel film di Oldroyrd è perfettamente riuscito, e alcune cose non sono molto credibili – anche questo, forse, nella tradizione del miglior noir – ma il risultato di tensione e di oscura angoscia è perfettamente raggiunto, anche grazie all'inserimento di sequenze immaginarie che aggiungono turbamento a turbamento.
Voto: 3,5/5
lunedì 24 giugno 2024
Narciso. La fotografia allo specchio. Terme di Caracalla, 1 giugno 2024
Nella stessa location dove avevo visitato qualche tempo fa la mostra dedicata a Letizia Battaglia (di cui mi accorgo solo ora di non aver fatto alcun post), è attualmente in corso la mostra Narciso. La fotografia allo specchio, promossa dalla Soprintendenza Speciale di Roma, diretta da Daniela Porro, e organizzata da Electa con la cura di Nunzio Giustozzi.
Si tratta di una mostra che si sviluppa attraverso 78 fotografie di una quarantina di autori, da quelli notissimi come Robert Capa, Lisetta Carmi, Robert Doisneau, Frank Horvat, Inge Morath, Helmut Newton, Ferdinando Scianna, a quelli - almeno per me - un po' meno noti, come Simon Annand, Ilse Bing, Claude Cahun, Burt Glinn, Guido Harari, Richard Kalvar, Astrid Kirchner, Hiroji Kubota, Simone Martinetto, Duane Michals, Jeanloup Sieff e Wanda Wulz.
Il tema dello specchio è stato ispirato dalla realizzazione ad aprile, nello spazio delle terme, dello specchio d'acqua con i giochi e i riflessi (installazione che tornerà a settembre), e attraverso il percorso - articolato in tre sezioni - è esplorato in tutte le sue sfaccettature, secondo le linee di creatività dei fotografi in mostra. Dai doppi alle autorappresentazioni, dalle maschere alle deformazioni, dai molteplici io alle introspezioni.
Lo scenario nel quale la mostra è collocata è parte dello spettacolo, e chi non è mai stato alle terme di Caracalla può cogliere l'occasione della esposizione per conoscere meglio questo straordinario monumento e i bellissimi mosaici che ancora si possono ammirare nei suoi ambienti.
Il terzo e ultimo spazio in cui si sviluppa la mostra, la cosiddetta natatio, è sicuramente quello più suggestiva con gli espositori che offrono in visione fotografie su entrambi i lati e vanno a costituire un quasi labirinto all'interno del quale i visitatori si perdono e si inseguono. In questo caso tra gli espositori delle foto sono collocati anche alcuni specchi fronte-retro che permettono anche ai visitatori-fotografi di fare i loro esperimenti di doppi e rappresentazioni.
Chi non ha mai visitato le terme di Caracalla ha una "scusa" in più per andarci, combinando la visita alla mostra a quella del sito archeologico. Devo dire però che, per quanto mi riguarda, dopo aver visitato la mostra della Battaglia, con un allestimento simile e foto di grandissimo impatto, questa seconda esposizione mi è parsa più debole e ripetitiva. Non che non ci siano grandi fotografie, ma l'insieme risulta meno potente, e l'effetto "wow" dell'allestimento funziona meno nel momento in cui lo si è già sperimentato una volta.
Sono uscita dunque un po' delusa, ma pensando - anche grazie alla bellissima luce del tramonto - che la location è perfetta per sperimentare con le fotografie e può essere che io ci torni anche solo per questo.
Voto: 2,5/5
Si tratta di una mostra che si sviluppa attraverso 78 fotografie di una quarantina di autori, da quelli notissimi come Robert Capa, Lisetta Carmi, Robert Doisneau, Frank Horvat, Inge Morath, Helmut Newton, Ferdinando Scianna, a quelli - almeno per me - un po' meno noti, come Simon Annand, Ilse Bing, Claude Cahun, Burt Glinn, Guido Harari, Richard Kalvar, Astrid Kirchner, Hiroji Kubota, Simone Martinetto, Duane Michals, Jeanloup Sieff e Wanda Wulz.
Il tema dello specchio è stato ispirato dalla realizzazione ad aprile, nello spazio delle terme, dello specchio d'acqua con i giochi e i riflessi (installazione che tornerà a settembre), e attraverso il percorso - articolato in tre sezioni - è esplorato in tutte le sue sfaccettature, secondo le linee di creatività dei fotografi in mostra. Dai doppi alle autorappresentazioni, dalle maschere alle deformazioni, dai molteplici io alle introspezioni.
Lo scenario nel quale la mostra è collocata è parte dello spettacolo, e chi non è mai stato alle terme di Caracalla può cogliere l'occasione della esposizione per conoscere meglio questo straordinario monumento e i bellissimi mosaici che ancora si possono ammirare nei suoi ambienti.
Il terzo e ultimo spazio in cui si sviluppa la mostra, la cosiddetta natatio, è sicuramente quello più suggestiva con gli espositori che offrono in visione fotografie su entrambi i lati e vanno a costituire un quasi labirinto all'interno del quale i visitatori si perdono e si inseguono. In questo caso tra gli espositori delle foto sono collocati anche alcuni specchi fronte-retro che permettono anche ai visitatori-fotografi di fare i loro esperimenti di doppi e rappresentazioni.
Chi non ha mai visitato le terme di Caracalla ha una "scusa" in più per andarci, combinando la visita alla mostra a quella del sito archeologico. Devo dire però che, per quanto mi riguarda, dopo aver visitato la mostra della Battaglia, con un allestimento simile e foto di grandissimo impatto, questa seconda esposizione mi è parsa più debole e ripetitiva. Non che non ci siano grandi fotografie, ma l'insieme risulta meno potente, e l'effetto "wow" dell'allestimento funziona meno nel momento in cui lo si è già sperimentato una volta.
Sono uscita dunque un po' delusa, ma pensando - anche grazie alla bellissima luce del tramonto - che la location è perfetta per sperimentare con le fotografie e può essere che io ci torni anche solo per questo.
Voto: 2,5/5
venerdì 21 giugno 2024
The National. Auditorium Parco della Musica, 3 giugno 2024
Quando ho saputo che il tour estivo dei National prevedeva una tappa romana mi sono immediatamente fiondata a comprare i biglietti, perché da tanto aspettavo la possibilità di ascoltarli dal vivo e di poter sentire cantare il loro leader Matt Berninger.
Certo, la location della cavea non mi rendeva particolarmente felice – per le note questioni dell’impossibilità di portare all’interno la mia macchina fotografica, un’acustica secondo me non ottimale e un clima complessivo che non mi entusiasma (vedi mia recensione sul concerto degli Smile).
Però mi sono turata il naso, ho speso i miei quasi 70 euro e ho preso degli ottimi posti nella tribuna centrale.
La serata del concerto è una bella serata di primavera inoltrata, in cui a un certo punto bisogna anche indossare la giacchetta per non sentire freddo.
I National arrivano sul palco con un ritardo non maggiore di 15 minuti, e cominciano subito a suonare sfoderando la potenza musicale del loro allestimento sul palco.
Matt Berninger affronta il palco con un atteggiamento quasi clownesco, che non so se gli appartiene, sinceramente io non me lo aspettavo. Non sta fermo un attimo, fa cadere continuamente l’asta del microfono, va a destra e a sinistra del palco trascinandosi dietro il filo del suo microfono, scende talvolta nella prima fila del parterre per recuperare cartelli o stabilire un contatto con il pubblico.
Ma tutto questo sarebbe anche secondario se non fosse che, nonostante la mia posizione molto centrale, io non riesco ad apprezzare appieno le esecuzioni musicali, né quelle degli strumenti che solo raramente riesco davvero a cogliere nel loro specifico contributo, né quella del cantato che pur avvalendosi della straordinaria voce di Matt Berninger non riesce ad emozionarmi e a tratti mi sembra quasi urlata.
La scelta della scaletta, fors’anche adeguata al contesto della cavea che certo non si presta a concerti a carattere intimistico, è quasi tutta virata sulla produzione musicalmente più dirompente e rock della band americana, e molto meno sui toni notturni e malinconici che io personalmente preferisco e che mi avevano fatto amare particolarmente il disco solista di Berninger.
Va detto che non sono una fan sfegatata dei National (come non lo sono di praticamente alcuna band o cantante) e dunque non sono tra quelli che possono unirsi a Berninger nei ritornelli e partecipare al maestoso singalong della canzone di chiusura del bis Vanderlyle Crybaby Geeks. E forse questo mi fa godere di meno di questo tipo di spettacoli. O forse semplicemente mi sono talmente abituata ai concerti in contesti più raccolti e di dimensioni più piccole, dove riesco ad apprezzare musicalmente anche cantanti e band che non conosco grazie alla possibilità di goderne musicalmente, che ormai con questo tipo di spettacolo non riesco a entrare in sintonia e non riesco davvero a emozionarmi.
Peccato, ma spero di ricordarmene la prossima volta che un cantante o una band che voglio ascoltare dal vivo dovessero scegliere la cavea dell’auditorium come location della loro puntata romana (quantomeno spero di ricordarmi di prendere i posti nel parterre che forse fanno sentire di più l'atmosfera vera del concerto).
Voto: 3/5
Certo, la location della cavea non mi rendeva particolarmente felice – per le note questioni dell’impossibilità di portare all’interno la mia macchina fotografica, un’acustica secondo me non ottimale e un clima complessivo che non mi entusiasma (vedi mia recensione sul concerto degli Smile).
Però mi sono turata il naso, ho speso i miei quasi 70 euro e ho preso degli ottimi posti nella tribuna centrale.
La serata del concerto è una bella serata di primavera inoltrata, in cui a un certo punto bisogna anche indossare la giacchetta per non sentire freddo.
I National arrivano sul palco con un ritardo non maggiore di 15 minuti, e cominciano subito a suonare sfoderando la potenza musicale del loro allestimento sul palco.
Matt Berninger affronta il palco con un atteggiamento quasi clownesco, che non so se gli appartiene, sinceramente io non me lo aspettavo. Non sta fermo un attimo, fa cadere continuamente l’asta del microfono, va a destra e a sinistra del palco trascinandosi dietro il filo del suo microfono, scende talvolta nella prima fila del parterre per recuperare cartelli o stabilire un contatto con il pubblico.
Ma tutto questo sarebbe anche secondario se non fosse che, nonostante la mia posizione molto centrale, io non riesco ad apprezzare appieno le esecuzioni musicali, né quelle degli strumenti che solo raramente riesco davvero a cogliere nel loro specifico contributo, né quella del cantato che pur avvalendosi della straordinaria voce di Matt Berninger non riesce ad emozionarmi e a tratti mi sembra quasi urlata.
La scelta della scaletta, fors’anche adeguata al contesto della cavea che certo non si presta a concerti a carattere intimistico, è quasi tutta virata sulla produzione musicalmente più dirompente e rock della band americana, e molto meno sui toni notturni e malinconici che io personalmente preferisco e che mi avevano fatto amare particolarmente il disco solista di Berninger.
Va detto che non sono una fan sfegatata dei National (come non lo sono di praticamente alcuna band o cantante) e dunque non sono tra quelli che possono unirsi a Berninger nei ritornelli e partecipare al maestoso singalong della canzone di chiusura del bis Vanderlyle Crybaby Geeks. E forse questo mi fa godere di meno di questo tipo di spettacoli. O forse semplicemente mi sono talmente abituata ai concerti in contesti più raccolti e di dimensioni più piccole, dove riesco ad apprezzare musicalmente anche cantanti e band che non conosco grazie alla possibilità di goderne musicalmente, che ormai con questo tipo di spettacolo non riesco a entrare in sintonia e non riesco davvero a emozionarmi.
Peccato, ma spero di ricordarmene la prossima volta che un cantante o una band che voglio ascoltare dal vivo dovessero scegliere la cavea dell’auditorium come location della loro puntata romana (quantomeno spero di ricordarmi di prendere i posti nel parterre che forse fanno sentire di più l'atmosfera vera del concerto).
Voto: 3/5
mercoledì 19 giugno 2024
Diari d'amore / regia di Nanni Moretti. Teatro Argentina, 31 maggio 2024
La prima regia teatrale di Nanni Moretti è finalizzata al portare in scena due testi di Natalia Ginzburg, Dialogo e Fragole e panna, che costituiscono i due atti di questo spettacolo teatrale della durata di circa un'ora e mezzo, per il quale Moretti si affida ad attori di provata esperienza tra cui Valerio Binasco e Daria Deflorian.
Nel primo atto i protagonisti sono marito e moglie (Valerio Binasco e Alessia Giuliani). È mattino e i due sono ancora a letto, mentre è in arrivo la signora che aiuta in casa e la bambina dorme nell'altra stanza. La conversazione comincia come una normale conversazione all'interno di una coppia consolidata ma ormai stanca, con i momenti di confidenza, le piccole scaramucce, i momenti di sintonia, l'interesse e il disinteresse, la distanza emotiva che a volte si fa incolmabile. Via via diventa chiaro che lei ha qualcosa di importante da raccontare al marito, sebbene nel fluire della conversazione il momento non sembra mai quello giusto per una rivelazione destinata a mettere in discussione la vita di coppia, costringendo i due a interrogarsi sul futuro. Il tono non è mai strettamente drammatico: ci sono una leggerezza e un'ironia di fondo in questa conversazione, sebbene sotto la superficie si muovano sentimenti contraddittori, insicurezze, e la consapevolezza - tutto sommato condivisa dai due protagonisti - che l'amore è qualcosa che non si capisce mai fino in fondo e che ci sfugge quanto più ci sforziamo di afferrarlo. Un testo modernissimo che si fa fatica a pensare che sia stato scritto all'inizio degli anni Settanta (nato come pièce per la televisione).
Il secondo atto dello spettacolo, Fragole e panna (scritto dalla Ginzburg nel 1966), si svolge nel salotto di una casa borghese, nella campagna alle porte di Roma. Qui suona alla porta una giovane donna, Barbara (Arianna Pozzoli) che cerca il padrone di casa, Cesare (Valerio Binasco). La governante (Daria Deflorian) le dice che l'avvocato è all'estero; di lì a poco arriva però la padrona di casa, nonché moglie di Cesare, Flaminia (Alessia Giuliani), che di fronte alla storia della ragazza, amante di Cesare, scappata di casa perché picchiata dal marito, ha un atteggiamento apparentemente distaccato e cinico. Insieme alla sorella Letizia (Giorgia Senesi), arrivata a trovare Flaminia, finiranno per cercare una sistemazione per Barbara affinché non debba tornare a casa. Al rientro di Cesare, sarà evidente la crisi del rapporto tra marito e moglie, ormai separati in casa, ma in maniera emotivamente non pacifica, almeno per Flaminia, nonché la superficialità di Cesare che passa da un'amante all'altra e ostenta un'indifferenza quasi sprezzante verso Barbara, che l'ha conquistato con la sua giovinezza ma che non gli interessa più. Anche in questo caso, pur essendo le tematiche trattate anche piuttosto drammatiche, il testo ha momenti di alleggerimento - per esempio attraverso il personaggio della governante, magnificamente interpretata dalla Deflorian - e riesce a risultare molto realistico e credibile.
La messa in scena è semplice ma del tutto coerente, e in generale la regia è leggera ma assolutamente appropriata, e soprattutto consente di concentrarsi sulla incredibile modernità dei testi della Ginzburg, spiazzanti nella loro capacità di risuonare con le nostre vite e di muoversi con leggiadra profondità nei meandri delle relazioni umane, in particolare quelle di coppia.
Bello spettacolo, che raggiunge il suo risultato senza voler essere pirotecnico a tutti i costi, bensì valorizzando testi e attori, che sono poi l'essenza del teatro.
Voto: 3,5/5
Il secondo atto dello spettacolo, Fragole e panna (scritto dalla Ginzburg nel 1966), si svolge nel salotto di una casa borghese, nella campagna alle porte di Roma. Qui suona alla porta una giovane donna, Barbara (Arianna Pozzoli) che cerca il padrone di casa, Cesare (Valerio Binasco). La governante (Daria Deflorian) le dice che l'avvocato è all'estero; di lì a poco arriva però la padrona di casa, nonché moglie di Cesare, Flaminia (Alessia Giuliani), che di fronte alla storia della ragazza, amante di Cesare, scappata di casa perché picchiata dal marito, ha un atteggiamento apparentemente distaccato e cinico. Insieme alla sorella Letizia (Giorgia Senesi), arrivata a trovare Flaminia, finiranno per cercare una sistemazione per Barbara affinché non debba tornare a casa. Al rientro di Cesare, sarà evidente la crisi del rapporto tra marito e moglie, ormai separati in casa, ma in maniera emotivamente non pacifica, almeno per Flaminia, nonché la superficialità di Cesare che passa da un'amante all'altra e ostenta un'indifferenza quasi sprezzante verso Barbara, che l'ha conquistato con la sua giovinezza ma che non gli interessa più. Anche in questo caso, pur essendo le tematiche trattate anche piuttosto drammatiche, il testo ha momenti di alleggerimento - per esempio attraverso il personaggio della governante, magnificamente interpretata dalla Deflorian - e riesce a risultare molto realistico e credibile.
La messa in scena è semplice ma del tutto coerente, e in generale la regia è leggera ma assolutamente appropriata, e soprattutto consente di concentrarsi sulla incredibile modernità dei testi della Ginzburg, spiazzanti nella loro capacità di risuonare con le nostre vite e di muoversi con leggiadra profondità nei meandri delle relazioni umane, in particolare quelle di coppia.
Bello spettacolo, che raggiunge il suo risultato senza voler essere pirotecnico a tutti i costi, bensì valorizzando testi e attori, che sono poi l'essenza del teatro.
Voto: 3,5/5
lunedì 17 giugno 2024
Anatomia di un istante / Javier Cercas
Dopo aver letto quasi ininterrottamente durante una domenica di pioggia, chiusa l'ultima pagina del volume (prima della corposa bibliografia finale) e con il colpo al cuore del riferimento al padre di Cercas, resto senza parole.
Il libro di Javier Cercas non è un romanzo: lui stesso ci spiega all'inizio del volume che l'idea iniziale era quella di scrivere un romanzo, ma - man mano che studiava gli eventi e il contesto del golpe spagnolo del 23 febbraio 1981 - si è reso conto che talvolta la realtà è molto più appassionante della finzione letteraria.
Cercas fa ruotare tutta la sua ricostruzione intorno alle immagini dell'emiciclo riprese dalle telecamere interne durante il colpo di stato: in particolare la sua attenzione si concentra sul fermo immagine che mostra il tenente Tejero con la pistola in pugno, il generale Mellado in piedi che tenta di affrontare i militari, e Adolfo Suárez seduto immobile al suo posto, mentre il resto dell'aula sembra vuoto in quanto gli altri deputati si sono nascosti dietro gli scranni. Intanto le pallottole fischiano tutto intorno.
Nelle oltre 400 pagine del volume, Cercas ci aiuta a conoscere tutti i protagonisti di questa vicenda, raccontandoci la storia politica e personale di ciascuno, a partire dal presidente del consiglio dimissionario Adolfo Suárez, per proseguire con il generale Manuel Gutièrrez Mellado, vicepresidente del Consiglio, con Santiago Carrillo, deputato e capo del partito comunista spagnolo da poco legalizzato, per arrivare infine ai protagonisti del golpe, il generale Alfonso Armada, il capitano generale Milans, uno dei capi dei servizi segreti José Luis Cortina, lo stesso tenente Tejero, nonché il re Juan Carlos, a capo di una monarchia non ancora totalmente consolidata.
Attraverso lo straordinario racconto di Cercas, conosciamo nel dettaglio i fatti che sono stati ricostruiti nel corso del tempo, ma anche tutti i punti oscuri di questa vicenda, sui quali l'autore prova a proporre una sua interpretazione o a indicare l'ipotesi secondo lui più probabile tra quelle via via emerse.
Ne esce certamente un grande affresco di un paese che fa i conti con il suo pesante passato dittatoriale e che faticosamente si converte alle gioie e ai dolori della democrazia, ma il racconto di Cercas è anche l'occasione per riflettere su temi di portata molto più ampia: il ruolo della politica e i meccanismi che la caratterizzano, nonché gli uomini che la agiscono.
Tra le pagine più belle quella in cui parla di lealtà e tradimento:
«Suárez, Gutiérrez Mellado e Carrillo [...] tradirono la lealtà nei confronti di un errore per costruire la lealtà a una scelta giusta; tradirono i loro seguaci per non tradire se stessi; tradirono il passato per non tradire il presente. A volte per essere fedeli al presente occorre tradire il passato. A volte il tradimento è più difficile della lealtà. A volte la lealtà è una forma di coraggio, ma in certi casi è una forma di codardia. A volte la lealtà è una forma di tradimento e il tradimento una forma di lealtà. Forse non sappiamo di preciso cosa sia la lealtà e cosa il tradimento. Possediamo un'etica della lealtà, ma non un'etica del tradimento. L'eroe della ritirata è un eroe del tradimento.»
Oggi che tanto si parla di storytelling e che ormai quest'ultimo si è degradato ad una versione becera e opportunistica della Narrazione con la N maiuscola, Cercas ci offre un eccezionale saggio di cosa significhi davvero fare storytelling, senza tradire la storia e i fatti, senza adulare il lettore o l'ascoltatore, bensì usando le proprie ricerche e le fonti per costruire un racconto che si legge tutto d'un fiato, sebbene si tratti di un racconto che non ci risparmia alcun tipo di complessità e a volte risulta persino ridondante. Non nascondo di aver avuto anche io dei momenti di stanchezza (intorno alla metà delle 400 pagine), ma poi Cercas mi ha sempre riacchiappato e trascinato nel suo entusiasmante viaggio nel tentativo di comprendere la storia recente del suo paese e alcuni meccanismi universali.
Un grande libro, che aiuta a capire meglio un paese che non è il nostro, ma che tanto ci dice anche della nostra realtà, e soprattutto a ragionare e a riflettere sul rapporto tra gli uomini e la storia.
Da leggere.
Voto: 4/5
Il libro di Javier Cercas non è un romanzo: lui stesso ci spiega all'inizio del volume che l'idea iniziale era quella di scrivere un romanzo, ma - man mano che studiava gli eventi e il contesto del golpe spagnolo del 23 febbraio 1981 - si è reso conto che talvolta la realtà è molto più appassionante della finzione letteraria.
Cercas fa ruotare tutta la sua ricostruzione intorno alle immagini dell'emiciclo riprese dalle telecamere interne durante il colpo di stato: in particolare la sua attenzione si concentra sul fermo immagine che mostra il tenente Tejero con la pistola in pugno, il generale Mellado in piedi che tenta di affrontare i militari, e Adolfo Suárez seduto immobile al suo posto, mentre il resto dell'aula sembra vuoto in quanto gli altri deputati si sono nascosti dietro gli scranni. Intanto le pallottole fischiano tutto intorno.
Nelle oltre 400 pagine del volume, Cercas ci aiuta a conoscere tutti i protagonisti di questa vicenda, raccontandoci la storia politica e personale di ciascuno, a partire dal presidente del consiglio dimissionario Adolfo Suárez, per proseguire con il generale Manuel Gutièrrez Mellado, vicepresidente del Consiglio, con Santiago Carrillo, deputato e capo del partito comunista spagnolo da poco legalizzato, per arrivare infine ai protagonisti del golpe, il generale Alfonso Armada, il capitano generale Milans, uno dei capi dei servizi segreti José Luis Cortina, lo stesso tenente Tejero, nonché il re Juan Carlos, a capo di una monarchia non ancora totalmente consolidata.
Attraverso lo straordinario racconto di Cercas, conosciamo nel dettaglio i fatti che sono stati ricostruiti nel corso del tempo, ma anche tutti i punti oscuri di questa vicenda, sui quali l'autore prova a proporre una sua interpretazione o a indicare l'ipotesi secondo lui più probabile tra quelle via via emerse.
Ne esce certamente un grande affresco di un paese che fa i conti con il suo pesante passato dittatoriale e che faticosamente si converte alle gioie e ai dolori della democrazia, ma il racconto di Cercas è anche l'occasione per riflettere su temi di portata molto più ampia: il ruolo della politica e i meccanismi che la caratterizzano, nonché gli uomini che la agiscono.
Tra le pagine più belle quella in cui parla di lealtà e tradimento:
«Suárez, Gutiérrez Mellado e Carrillo [...] tradirono la lealtà nei confronti di un errore per costruire la lealtà a una scelta giusta; tradirono i loro seguaci per non tradire se stessi; tradirono il passato per non tradire il presente. A volte per essere fedeli al presente occorre tradire il passato. A volte il tradimento è più difficile della lealtà. A volte la lealtà è una forma di coraggio, ma in certi casi è una forma di codardia. A volte la lealtà è una forma di tradimento e il tradimento una forma di lealtà. Forse non sappiamo di preciso cosa sia la lealtà e cosa il tradimento. Possediamo un'etica della lealtà, ma non un'etica del tradimento. L'eroe della ritirata è un eroe del tradimento.»
Oggi che tanto si parla di storytelling e che ormai quest'ultimo si è degradato ad una versione becera e opportunistica della Narrazione con la N maiuscola, Cercas ci offre un eccezionale saggio di cosa significhi davvero fare storytelling, senza tradire la storia e i fatti, senza adulare il lettore o l'ascoltatore, bensì usando le proprie ricerche e le fonti per costruire un racconto che si legge tutto d'un fiato, sebbene si tratti di un racconto che non ci risparmia alcun tipo di complessità e a volte risulta persino ridondante. Non nascondo di aver avuto anche io dei momenti di stanchezza (intorno alla metà delle 400 pagine), ma poi Cercas mi ha sempre riacchiappato e trascinato nel suo entusiasmante viaggio nel tentativo di comprendere la storia recente del suo paese e alcuni meccanismi universali.
Un grande libro, che aiuta a capire meglio un paese che non è il nostro, ma che tanto ci dice anche della nostra realtà, e soprattutto a ragionare e a riflettere sul rapporto tra gli uomini e la storia.
Da leggere.
Voto: 4/5
giovedì 13 giugno 2024
Chien de la casse
L'opera prima di Jean-Baptiste Durand ha fatto il pienone delle nomination ai César, i cosiddetti Oscar francesi, per poi vincere i premi per la miglior opera prima e la migliore promessa maschile a uno dei protagonisti e vero mattatore della pellicola, Raphaël Quenard, che interpreta nel film Antoine Miralés.
Chien de la casse è ambientato a Le Pouget, un piccolo paesino del sud della Francia, e racconta la storia dell'amicizia tra Antoine, che tutti chiamano Miralés, e Damien (Anthony Bajon), che tutti chiamano Dog.
I due sono amici da molti anni, diversissimi e al contempo accomunati da un senso di insoddisfazione rispetto alle proprie vite. Miralés ha studiato da cuoco, ma passa il tempo a bighellonare per la città con il suo cane Balabar e il suo amico Dog, che sta aspettando la chiamata nell'esercito. Il primo ha una personalità esuberante, una parlantina inarrestabile e atteggiamenti molto contraddittori: da un lato si occupa della madre che soffre di depressione, va a trovare la vicina di casa anziana portandole dei biscotti, si ferma a chiacchierare col matto del paese, dall'altro non perde occasione per riprendere l'amico e dimostrare la sua predominanza nel rapporto e la sua superiorità. Il secondo è di pochissime parole, ha lo sguardo triste di chi non brilla in autostima, e subisce passivamente il ruolo predominante di Miralés.
Il loro è un rapporto di codipendenza, in cui amore e tossicità convivono, ma che in un certo senso è per entrambi l'unica difesa rispetto a un contesto sociale piccolo, asfissiante e senza prospettive. Miralés sembra soffrire dell'impossibilità di mettere a frutto i suoi talenti e la sua cultura, Dog vive uno stato di compressione emotiva e di paura da cui sembra non riuscire ad affrancarsi.
A scompigliare le carte di una routine insopportabile ma rassicurante arriva Elsa (Galatéa Bellugi), una ragazza proveniente dalla Bretagna che si trasferisce per un mese a casa della nonna.
Contro ogni aspettativa, Elsa inizia una storia con Dog, e - compresa la dinamica nella quale quest'ultimo è intrappolato - opera attivamente per affrancarlo da Miralés, determinando l'allontanamento tra i due ragazzi e la gelosia di Miralés, che non è chiaro se sia maggiormente rivolta a Elsa o a Dog.
Questa interruzione dei rapporti di forza consolidati innesca una serie di eventi che costringeranno i due ragazzi a interrogarsi su tutto quello che davano per scontato o che accettavano più o meno passivamente senza fare nulla per produrre una qualche forma di cambiamento.
Non è una "grande" storia quella raccontata da Durand, e probabilmente in essa c'è anche tanta parte di memoria autobiografica, però in questa storia piccola e in fondo molto personale ci sono tanti temi diversi, affrontati senza paura né sconti: la provincia e i suoi limitati orizzonti, l'amicizia maschile e i suoi stereotipi, i rapporti di codipendenza, un'originale tipologia di triangolo amoroso, la contraddittorietà individuale che ci riguarda tutti, soprattutto nella fase della gioventù. E molto altro.
Non un film che punta alla gradevolezza a tutti i costi, ma che secondo me coglie nel segno, soprattutto grazie alla complessità del personaggio di Miralés e alla interpretazione di Quenard, al punto che vorresti menarlo e abbracciarlo al contempo.
Voto: 3,5/5
Chien de la casse è ambientato a Le Pouget, un piccolo paesino del sud della Francia, e racconta la storia dell'amicizia tra Antoine, che tutti chiamano Miralés, e Damien (Anthony Bajon), che tutti chiamano Dog.
I due sono amici da molti anni, diversissimi e al contempo accomunati da un senso di insoddisfazione rispetto alle proprie vite. Miralés ha studiato da cuoco, ma passa il tempo a bighellonare per la città con il suo cane Balabar e il suo amico Dog, che sta aspettando la chiamata nell'esercito. Il primo ha una personalità esuberante, una parlantina inarrestabile e atteggiamenti molto contraddittori: da un lato si occupa della madre che soffre di depressione, va a trovare la vicina di casa anziana portandole dei biscotti, si ferma a chiacchierare col matto del paese, dall'altro non perde occasione per riprendere l'amico e dimostrare la sua predominanza nel rapporto e la sua superiorità. Il secondo è di pochissime parole, ha lo sguardo triste di chi non brilla in autostima, e subisce passivamente il ruolo predominante di Miralés.
Il loro è un rapporto di codipendenza, in cui amore e tossicità convivono, ma che in un certo senso è per entrambi l'unica difesa rispetto a un contesto sociale piccolo, asfissiante e senza prospettive. Miralés sembra soffrire dell'impossibilità di mettere a frutto i suoi talenti e la sua cultura, Dog vive uno stato di compressione emotiva e di paura da cui sembra non riuscire ad affrancarsi.
A scompigliare le carte di una routine insopportabile ma rassicurante arriva Elsa (Galatéa Bellugi), una ragazza proveniente dalla Bretagna che si trasferisce per un mese a casa della nonna.
Contro ogni aspettativa, Elsa inizia una storia con Dog, e - compresa la dinamica nella quale quest'ultimo è intrappolato - opera attivamente per affrancarlo da Miralés, determinando l'allontanamento tra i due ragazzi e la gelosia di Miralés, che non è chiaro se sia maggiormente rivolta a Elsa o a Dog.
Questa interruzione dei rapporti di forza consolidati innesca una serie di eventi che costringeranno i due ragazzi a interrogarsi su tutto quello che davano per scontato o che accettavano più o meno passivamente senza fare nulla per produrre una qualche forma di cambiamento.
Non è una "grande" storia quella raccontata da Durand, e probabilmente in essa c'è anche tanta parte di memoria autobiografica, però in questa storia piccola e in fondo molto personale ci sono tanti temi diversi, affrontati senza paura né sconti: la provincia e i suoi limitati orizzonti, l'amicizia maschile e i suoi stereotipi, i rapporti di codipendenza, un'originale tipologia di triangolo amoroso, la contraddittorietà individuale che ci riguarda tutti, soprattutto nella fase della gioventù. E molto altro.
Non un film che punta alla gradevolezza a tutti i costi, ma che secondo me coglie nel segno, soprattutto grazie alla complessità del personaggio di Miralés e alla interpretazione di Quenard, al punto che vorresti menarlo e abbracciarlo al contempo.
Voto: 3,5/5
martedì 11 giugno 2024
Bonnie Prince Billy. Unplugged in Monti, Monk, 22 maggio 2024
Sempre alla ricerca di bella musica da andare ad ascoltare dal vivo, il Monk si conferma ormai un punto di riferimento per la scena musicale romana dal vivo, almeno per quanto riguarda il tipo di musica che ascolto io. In questo caso ci hanno messo lo zampino anche i ragazzi di Unplugged in Monti che hanno catturato Bonnie Prince Billy (al secolo Will Oldham, attore, oltre che musicista) nel suo tour italiano.
Io ho incontrato la musica di Bonnie Prince Billy parecchio tempo fa, e non so bene neanche come e perché. Ho alcuni CD di lui da solista, ma anche Superwolf, quello realizzato insieme al sodale Matt Sweeney. Negli ultimi anni lo avevo seguito di meno, ma qualcosa via via avevo comprato, trovando sempre conferma delle sue qualità, sebbene non sempre entusiasmandomi.
L'ultimo suo lavoro Keeping secrets will destroy you l'ho preso e ascoltato con molto interesse, trascinata dalle ottime recensioni. E così non potevo perdere l'occasione di andare ad ascoltarlo dal vivo.
In questo tour il cantante di Louisville, Kentucky, si presenta in trio, accompagnato da due polistrumentisti molto bravi, Thomas Deakin che alterna clarinetto, tromba e chitarra elettrica, e Drew Miller che suona sax e flauto traverso. E devo dire che personalmente ho particolarmente apprezzato gli arrangiamenti e il tipo di atmosfera intima scelta per questi concerti.
I tre salgono sul palco e iniziano subito a cantare e suonare, ma scopriremo a poco a poco la simpatia e le capacità istrioniche di Bonnie, suggerite anche dal suo look, fatto dall'immancabile cappello da baseball con la bandiera della Sierra Leone, una camicia di jeans ricamata con dei fiorellini, l'eyeliner agli occhi e un fard con brillantini sulle guance (che caratterizza anche gli altri due musicisti), smalto celeste alle mani, calzini a quadri. Tutti e tre sono seduti sulle sedie per eseguire i loro brani, anche se Bonnie continuerà ad assumere posizioni diverse, e poi si alzerà in piedi in particolare per cantare la canzone L'ultima occasione di Mina.
Durante il concerto si alternano canzoni dell'ultimo album a suoi lavori più vecchi, nonché a cover di famose canzoni della tradizione country-folk, e tra una canzone e l'altra Will ci racconta aneddoti della sua vita, e ogni tanto si rivolge a sua figlia, una bambina dai capelli biondi che va avanti e indietro tra la zona davanti al palco e il dietro le quinte. Tra le numerose chiacchiere, Will ci racconta anche della sua amicizia con Steve Albini, morto qualche settimana fa, e a lui dedica la classica I see a darkness.
Al termine del concerto i tre quasi subito si esibiscono in un bis, ma quando escono dal palco e sembra che tutto sia finito tornano, chiamati a gran voce per un'ultima canzone, lasciandoci poi a una bella notte romana di primavera.
Voto: 3,5/5
Io ho incontrato la musica di Bonnie Prince Billy parecchio tempo fa, e non so bene neanche come e perché. Ho alcuni CD di lui da solista, ma anche Superwolf, quello realizzato insieme al sodale Matt Sweeney. Negli ultimi anni lo avevo seguito di meno, ma qualcosa via via avevo comprato, trovando sempre conferma delle sue qualità, sebbene non sempre entusiasmandomi.
L'ultimo suo lavoro Keeping secrets will destroy you l'ho preso e ascoltato con molto interesse, trascinata dalle ottime recensioni. E così non potevo perdere l'occasione di andare ad ascoltarlo dal vivo.
In questo tour il cantante di Louisville, Kentucky, si presenta in trio, accompagnato da due polistrumentisti molto bravi, Thomas Deakin che alterna clarinetto, tromba e chitarra elettrica, e Drew Miller che suona sax e flauto traverso. E devo dire che personalmente ho particolarmente apprezzato gli arrangiamenti e il tipo di atmosfera intima scelta per questi concerti.
I tre salgono sul palco e iniziano subito a cantare e suonare, ma scopriremo a poco a poco la simpatia e le capacità istrioniche di Bonnie, suggerite anche dal suo look, fatto dall'immancabile cappello da baseball con la bandiera della Sierra Leone, una camicia di jeans ricamata con dei fiorellini, l'eyeliner agli occhi e un fard con brillantini sulle guance (che caratterizza anche gli altri due musicisti), smalto celeste alle mani, calzini a quadri. Tutti e tre sono seduti sulle sedie per eseguire i loro brani, anche se Bonnie continuerà ad assumere posizioni diverse, e poi si alzerà in piedi in particolare per cantare la canzone L'ultima occasione di Mina.
Durante il concerto si alternano canzoni dell'ultimo album a suoi lavori più vecchi, nonché a cover di famose canzoni della tradizione country-folk, e tra una canzone e l'altra Will ci racconta aneddoti della sua vita, e ogni tanto si rivolge a sua figlia, una bambina dai capelli biondi che va avanti e indietro tra la zona davanti al palco e il dietro le quinte. Tra le numerose chiacchiere, Will ci racconta anche della sua amicizia con Steve Albini, morto qualche settimana fa, e a lui dedica la classica I see a darkness.
Al termine del concerto i tre quasi subito si esibiscono in un bis, ma quando escono dal palco e sembra che tutto sia finito tornano, chiamati a gran voce per un'ultima canzone, lasciandoci poi a una bella notte romana di primavera.
Voto: 3,5/5
domenica 9 giugno 2024
Look back / Tatsuki Fujimoto
Look back / Tatsuki Fujimoto; trad. di Luigi Boccasile. Bosco (PG): Star Comics, 2022.
Il manga di Tatsuki Fujimoto (che scopro che gli appassionati definiscono un oneshot perché è una storia unitaria e non seriale) racconta la storia di due ragazze, Fujino e Kyomoto, entrambe appassionate di disegno.
Innanzitutto, la scelta di questi due nomi che combinati formato il nome dell'autore (Fuji + moto = Fujimoto) tradisce o meglio suggerisce la matrice autobiografica di questo albo, che parla dell'ossessione per il disegno che anche l'autore ha sperimentato fin dall'infanzia e adolescenza.
Fujino e Kyomoto frequentano la stessa scuola: la prima ha un carattere socievole e determinato, ed è una otaku (ossia è ossessionata dai fumetti), la seconda invece è una hikikomori, una giovane che vive in isolamento nella sua casa per una timidezza patologica e una difficoltà ad affrontare il mondo esterno, ma anche lei è appassionata di disegno.
Entrambe le ragazze pubblicano dei fumetti sul giornalino della scuola, e quando Fujino scopre che Kyomoto è molto brava, scatta in lei una sorta di competizione che la spinge a migliorarsi e a diventare sempre più brava. Costretta ad andare a casa di Kyomoto per motivi scolastici, tra le due ragazze nascerà un'amicizia e una collaborazione professionale che le porterà a vincere dei premi e a pubblicare una serie a fumetti.
A un certo punto le loro strade si dividono, perché Kyomoto decide di frequentare l'Accademia di Belle Arti mentre Fujino prosegue la sua carriera da sola. Un evento drammatico cambierà il corso degli eventi, o meglio segnerà uno spartiacque temporale di fronte al quale l'autore di questo albo ci mostra o forse attribuisce all'animo scosso di Fujino una serie di finali alternativi, come in una sorta di sliding doors.
Ho dovuto rileggere due volte l'albo perché dopo una prima metà molto lineare ho fatto fatica a comprendere o quantomeno a spiegare razionalmente la parte finale, che sceglie di essere emotiva più che realistica.
Ho anche cercato in rete le recensioni dell'albo per farmi illuminare da qualcuno più intelligente di me o più abituato allo stile dei manga, ma ho trovato quasi solo recensioni di persone che facevano sfoggio di conoscenza del mondo dei manga ma senza aggiungere una virgola sull'effettivo senso del libro, ovvero recensioni entusiastiche senza motivazioni specifiche.
Questa cosa mi ha fatto un effetto strano e mi ha fatto pensare al moltiplicarsi delle recensioni tutte uguali, che sembrano scritte più per non restare fuori da un "giro" che perché si ha da dire qualcosa di interessante. Spero di non fare la stessa fine.
Comunque l'albo di Fujimoto è una lettura che incuriosisce ma che personalmente non mi ha lasciato molto.
Voto: 3/5
Il manga di Tatsuki Fujimoto (che scopro che gli appassionati definiscono un oneshot perché è una storia unitaria e non seriale) racconta la storia di due ragazze, Fujino e Kyomoto, entrambe appassionate di disegno.
Innanzitutto, la scelta di questi due nomi che combinati formato il nome dell'autore (Fuji + moto = Fujimoto) tradisce o meglio suggerisce la matrice autobiografica di questo albo, che parla dell'ossessione per il disegno che anche l'autore ha sperimentato fin dall'infanzia e adolescenza.
Fujino e Kyomoto frequentano la stessa scuola: la prima ha un carattere socievole e determinato, ed è una otaku (ossia è ossessionata dai fumetti), la seconda invece è una hikikomori, una giovane che vive in isolamento nella sua casa per una timidezza patologica e una difficoltà ad affrontare il mondo esterno, ma anche lei è appassionata di disegno.
Entrambe le ragazze pubblicano dei fumetti sul giornalino della scuola, e quando Fujino scopre che Kyomoto è molto brava, scatta in lei una sorta di competizione che la spinge a migliorarsi e a diventare sempre più brava. Costretta ad andare a casa di Kyomoto per motivi scolastici, tra le due ragazze nascerà un'amicizia e una collaborazione professionale che le porterà a vincere dei premi e a pubblicare una serie a fumetti.
A un certo punto le loro strade si dividono, perché Kyomoto decide di frequentare l'Accademia di Belle Arti mentre Fujino prosegue la sua carriera da sola. Un evento drammatico cambierà il corso degli eventi, o meglio segnerà uno spartiacque temporale di fronte al quale l'autore di questo albo ci mostra o forse attribuisce all'animo scosso di Fujino una serie di finali alternativi, come in una sorta di sliding doors.
Ho dovuto rileggere due volte l'albo perché dopo una prima metà molto lineare ho fatto fatica a comprendere o quantomeno a spiegare razionalmente la parte finale, che sceglie di essere emotiva più che realistica.
Ho anche cercato in rete le recensioni dell'albo per farmi illuminare da qualcuno più intelligente di me o più abituato allo stile dei manga, ma ho trovato quasi solo recensioni di persone che facevano sfoggio di conoscenza del mondo dei manga ma senza aggiungere una virgola sull'effettivo senso del libro, ovvero recensioni entusiastiche senza motivazioni specifiche.
Questa cosa mi ha fatto un effetto strano e mi ha fatto pensare al moltiplicarsi delle recensioni tutte uguali, che sembrano scritte più per non restare fuori da un "giro" che perché si ha da dire qualcosa di interessante. Spero di non fare la stessa fine.
Comunque l'albo di Fujimoto è una lettura che incuriosisce ma che personalmente non mi ha lasciato molto.
Voto: 3/5
venerdì 7 giugno 2024
Festival del cinema spagnolo e latinoamericano, 15-19 maggio 2024
E anche quest'anno un breve passaggio al Festival del cinema spagnolo e latinoamericanoFestival del cinema spagnolo e latinoamericano lo faccio, nonostante cada in un periodo per me molto intenso in termini di lavoro e spostamenti vari.
Non posso dunque fare valutazioni sul festival nel suo complesso - anche se gli organizzatori parlano di una delle edizioni più ricche di sempre - ma certamente mi confermo nell'idea che il cinema spagnolo e latinoamericano meriti attenzione, in quanto riesce a sfornare abbastanza regolarmente film importanti e originali sia sul piano tecnico che su quello dei contenuti.
Appuntamento dunque al prossimo anno.
***********************
Voy a pasarmelo bien
Il film di apertura del festival - alla presenza del regista David Serrano e della sua co-sceneggiatrice nonché sua moglie Luz Cipriota - è Voy a pasarmelo bien, titolo che richiama l'omonima canzone degli Hombres G, un gruppo rock spagnolo costituitosi nei primi anni Ottanta e che - mentre è per noi praticamente sconosciuto - in patria ebbe uno straordinario successo fino agli inizi del decennio successivo.
Ci spiega il regista che il film doveva essere un biopic degli Hombres G, ma che - poiché nel momento in cui si cominciò a lavorare allo stesso erano in uscita e realizzazione moltissimi biopic di area musicale - a lui venne l'idea di parlare del gruppo indirettamente attraverso una storia molto più personale, ossia raccontando il suo sé tredicenne che era pazzo del gruppo e che, proprio sulla comune passione per lo stesso, si innamorò per la prima volta di una ragazzina della sua età.
Sempre nell'introduzione al film si pone anche l'accento sul fatto che il regista ne ha voluto fare un vero e proprio musical, dal momento che la narrazione è più volte interrotta da sequenze ballate e cantate, in cui ovviamente la fa da padrone il repertorio degli Hombres G.
Siamo a Valladolid nel 1989: pur non essendo la città del regista, Valladolid è stata scelta per le sue caratteristiche e dimensioni, e perché probabilmente si tratta di una città alla ricerca di visibilità e che si propone in Spagna come patria del cinema, ospitando il SEMINCI, la settimana internazionale del cinema, che ha anche una parte importante nel film.
La storia di Voy a pasarmelo bien si svolge su due assi temporali: il 1989, anno in cui il protagonista David e i suoi amici (i cosiddetti "monelli") sono alle prese con i bulli della scuola e soprattutto con l'arrivo in classe di una nuova alunna, Layla, di cui David si innamora e con cui condivide la passione per gli Hombres G, e il presente in cui David (Raul Arèvalo) e gli amici Paco, Luis e Fernando sono ormai adulti, vivono a Valladolid e hanno preso strade diverse, ma devono fare i conti con il ritorno di Layla (Karla Souza) che è ormai una regista famosa e sta per ricevere un premio al SEMINCI.
Passato e presente si incrociano e si rincorrono, e i nodi non sciolti ritornano al pettine, ma forse sono destinati a restare tali. Nel frattempo tante bellissime coreografie, una storia molto divertente, una sceneggiatura leggera ma intelligente, degli interpreti bambini bravissimi, e la possibilità per gli spettatori (anche quelli come noi che gli Hombres G non li hanno mai sentiti nominare) di ritornare con la memoria agli anni della nostra infanzia e adolescenza anni Ottanta, e a tutte le assurdità e le follie che caratterizzano quell'età e che erano rafforzate dalle specificità di quell'epoca.
Insomma un gran divertimento che mai avrei pensato per un film che sulla carta temevo non essere minimamente nelle mie corde.
Voto: 3,5/5
***********************
La mesita del comedor
Il secondo e ultimo film della mia breve presenza al festival del cinema spagnolo e latinoamericano l'ho scelto perché è l'unico compatibile con i miei orari di lavoro. Avevo quasi pensato di lasciar perdere dopo che avevo letto che si trattava di un horror, ma la notizia dei numerosi premi vinti dal film mi ha convinta.
In sala c'è Caye Casas, il regista del film, e alla fine della proiezione - con il suo approccio da buontempone - ci racconterà che il film è stato realizzato con un budget minimale in 17 giorni, 7 di prove e 10 di girato. A chi gli chiede se è stato ispirato da quel filone del cinema spagnolo che si muove tra grottesco e humour nero risponde che sicuramente c'entra anche quello, ma più ancora c'è un elemento proprio della cultura spagnola e anche della sua cultura familiare. E ci racconta qualche aneddoto relativo a sua nonna quasi centenaria.
La categorizzazione del film come horror si rivela dunque del tutto insufficiente e inadeguata a descrivere questo film, che al massimo possiamo definire un film sull'horror del quotidiano.
La mesita del comedor (che uscirà in Italia con il titolo Il tavolino di vetro) inizia con una scena grottesca - esilarante e drammatica al contempo - che si svolge in un negozio di mobili, dove una coppia con un bambino piccolo sta decidendo se comprare un tavolino di design per il salotto. La moglie è fortemente contraria e oppositiva, mentre lui è favorevole all'acquisto. Alla fine la contrattazione si trasformerà in una resa dei conti di coppia, ma il tavolino sarà alla fine acquistato. Una volta portato a casa per il montaggio, il tavolino sarà protagonista dell'evento intorno al quale ruota tutto il film e che farà crescere minuto dopo minuto la tensione sullo schermo e negli spettatori fino al tragico scioglimento finale.
Qualcuno nel pubblico parla di un'ispirazione hitchcockiana, in particolare del film Nodo alla gola, dal momento che in entrambi i film esiste una specie di complicità tra il protagonista e gli spettatori, gli unici a conoscere la verità fino al disvelamento che arriva al termine.
A più riprese, durante la visione, si ha la netta percezione che il film sia stato girato con pochi mezzi e diverse scene fanno quasi pensare a un girato amatoriale. Nonostante questo, va dato merito al regista di aver saputo utilizzare sapientemente tutti gli strumenti a sua disposizione e di aver fatto delle scelte tali da minimizzare i limiti tecnici e da non impattare sul crescendo di tensione.
Insomma una scommessa vinta, grazie alla creatività del regista e alla bravura degli attori, che risultano credibili in ogni situazione e momento.
Voto: 4/5
Non posso dunque fare valutazioni sul festival nel suo complesso - anche se gli organizzatori parlano di una delle edizioni più ricche di sempre - ma certamente mi confermo nell'idea che il cinema spagnolo e latinoamericano meriti attenzione, in quanto riesce a sfornare abbastanza regolarmente film importanti e originali sia sul piano tecnico che su quello dei contenuti.
Appuntamento dunque al prossimo anno.
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Voy a pasarmelo bien
Il film di apertura del festival - alla presenza del regista David Serrano e della sua co-sceneggiatrice nonché sua moglie Luz Cipriota - è Voy a pasarmelo bien, titolo che richiama l'omonima canzone degli Hombres G, un gruppo rock spagnolo costituitosi nei primi anni Ottanta e che - mentre è per noi praticamente sconosciuto - in patria ebbe uno straordinario successo fino agli inizi del decennio successivo.
Ci spiega il regista che il film doveva essere un biopic degli Hombres G, ma che - poiché nel momento in cui si cominciò a lavorare allo stesso erano in uscita e realizzazione moltissimi biopic di area musicale - a lui venne l'idea di parlare del gruppo indirettamente attraverso una storia molto più personale, ossia raccontando il suo sé tredicenne che era pazzo del gruppo e che, proprio sulla comune passione per lo stesso, si innamorò per la prima volta di una ragazzina della sua età.
Sempre nell'introduzione al film si pone anche l'accento sul fatto che il regista ne ha voluto fare un vero e proprio musical, dal momento che la narrazione è più volte interrotta da sequenze ballate e cantate, in cui ovviamente la fa da padrone il repertorio degli Hombres G.
Siamo a Valladolid nel 1989: pur non essendo la città del regista, Valladolid è stata scelta per le sue caratteristiche e dimensioni, e perché probabilmente si tratta di una città alla ricerca di visibilità e che si propone in Spagna come patria del cinema, ospitando il SEMINCI, la settimana internazionale del cinema, che ha anche una parte importante nel film.
La storia di Voy a pasarmelo bien si svolge su due assi temporali: il 1989, anno in cui il protagonista David e i suoi amici (i cosiddetti "monelli") sono alle prese con i bulli della scuola e soprattutto con l'arrivo in classe di una nuova alunna, Layla, di cui David si innamora e con cui condivide la passione per gli Hombres G, e il presente in cui David (Raul Arèvalo) e gli amici Paco, Luis e Fernando sono ormai adulti, vivono a Valladolid e hanno preso strade diverse, ma devono fare i conti con il ritorno di Layla (Karla Souza) che è ormai una regista famosa e sta per ricevere un premio al SEMINCI.
Passato e presente si incrociano e si rincorrono, e i nodi non sciolti ritornano al pettine, ma forse sono destinati a restare tali. Nel frattempo tante bellissime coreografie, una storia molto divertente, una sceneggiatura leggera ma intelligente, degli interpreti bambini bravissimi, e la possibilità per gli spettatori (anche quelli come noi che gli Hombres G non li hanno mai sentiti nominare) di ritornare con la memoria agli anni della nostra infanzia e adolescenza anni Ottanta, e a tutte le assurdità e le follie che caratterizzano quell'età e che erano rafforzate dalle specificità di quell'epoca.
Insomma un gran divertimento che mai avrei pensato per un film che sulla carta temevo non essere minimamente nelle mie corde.
Voto: 3,5/5
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La mesita del comedor
Il secondo e ultimo film della mia breve presenza al festival del cinema spagnolo e latinoamericano l'ho scelto perché è l'unico compatibile con i miei orari di lavoro. Avevo quasi pensato di lasciar perdere dopo che avevo letto che si trattava di un horror, ma la notizia dei numerosi premi vinti dal film mi ha convinta.
In sala c'è Caye Casas, il regista del film, e alla fine della proiezione - con il suo approccio da buontempone - ci racconterà che il film è stato realizzato con un budget minimale in 17 giorni, 7 di prove e 10 di girato. A chi gli chiede se è stato ispirato da quel filone del cinema spagnolo che si muove tra grottesco e humour nero risponde che sicuramente c'entra anche quello, ma più ancora c'è un elemento proprio della cultura spagnola e anche della sua cultura familiare. E ci racconta qualche aneddoto relativo a sua nonna quasi centenaria.
La categorizzazione del film come horror si rivela dunque del tutto insufficiente e inadeguata a descrivere questo film, che al massimo possiamo definire un film sull'horror del quotidiano.
La mesita del comedor (che uscirà in Italia con il titolo Il tavolino di vetro) inizia con una scena grottesca - esilarante e drammatica al contempo - che si svolge in un negozio di mobili, dove una coppia con un bambino piccolo sta decidendo se comprare un tavolino di design per il salotto. La moglie è fortemente contraria e oppositiva, mentre lui è favorevole all'acquisto. Alla fine la contrattazione si trasformerà in una resa dei conti di coppia, ma il tavolino sarà alla fine acquistato. Una volta portato a casa per il montaggio, il tavolino sarà protagonista dell'evento intorno al quale ruota tutto il film e che farà crescere minuto dopo minuto la tensione sullo schermo e negli spettatori fino al tragico scioglimento finale.
Qualcuno nel pubblico parla di un'ispirazione hitchcockiana, in particolare del film Nodo alla gola, dal momento che in entrambi i film esiste una specie di complicità tra il protagonista e gli spettatori, gli unici a conoscere la verità fino al disvelamento che arriva al termine.
A più riprese, durante la visione, si ha la netta percezione che il film sia stato girato con pochi mezzi e diverse scene fanno quasi pensare a un girato amatoriale. Nonostante questo, va dato merito al regista di aver saputo utilizzare sapientemente tutti gli strumenti a sua disposizione e di aver fatto delle scelte tali da minimizzare i limiti tecnici e da non impattare sul crescendo di tensione.
Insomma una scommessa vinta, grazie alla creatività del regista e alla bravura degli attori, che risultano credibili in ogni situazione e momento.
Voto: 4/5
lunedì 3 giugno 2024
Chagall. Sogno d'amore. Conversano, Castello Aragonese, 11 maggio 2024
Ora che il castello aragonese di Conversano è diventato abbastanza stabilmente sede di mostre di un certo prestigio, ho l'opportunità - ogni volta che vado nel mio paesello natìo - di poter anche godere di questa opportunità, non certo scontata.
Dopo aver visitato e apprezzato qualche mese fa la mostra su Ligabue, a questo giro propongo alla mia amica G. di vederci alla mostra e poi farci due chiacchiere.
La mostra, sempre organizzata da Arthemisia, si sviluppa nelle medesime sale del castello che hanno ospitato le precedenti e anche l'allestimento e l'organizzazione mi paiono ricalcare quelle che già erano state sperimentate con successo nelle precedenti occasioni.
Si tratta anche in questo caso di una mostra che non segue un percorso cronologico, bensì tematico, ma che - anche grazie ai pannelli esplicativi e soprattutto all'audioguida - consente di conoscere meglio Chagall e il suo percorso umano e artistico.
Va detto che sebbene la mostra sia composta di oltre 100 opere, non ci sono moltissimi quadri in esposizione, perché alcune sale sono integralmente dedicate alle illustrazioni (litografie, xilografie ecc.) realizzate da Chagall per opere letterarie (le fiabe di La Fontaine, il libro dell'Esodo, il suo libro di poesie).
Chiaramente i tratti caratteristici dell'immaginario di Chagall attraversano tutte le sue opere, ma chi si aspetta di vedere alcuni dei suoi quadri più famosi resterà deluso.
La visita della mostra sarà però l'occasione di comprendere le origini della sua pittura e delle sue scelte figurative, che affondano le radici nel paese d'origine, ossia la Russia (era nato e vissuto fino alla giovinezza a Lëzna, presso Vicebsk, oggi facente parte della Bielorussia), nella sua fede religiosa e nel suo essere ebreo, motivo per il quale a un certo punto non fece più ritorno in Russia e fu naturalizzato francese (morì quasi centenario a Saint Paul-de-Vence). Parte importante della sua ispirazione artistica arrivò dalla moglie Bella, sua musa, alla cui morte prematura seguì per Chagall un periodo di allontanamento dall'arte.
All'interno di un approccio surrealista e poetico, in cui i dati di realtà - pur riconoscibili - sono come trasportati in un universo onirico in cui le leggi naturali non valgono, si comprendono così alcuni temi ricorrenti che vanno dagli amanti volanti agli animali (in particolare il gallo) fino ai fiori, spesso combinati tra di loro ovvero inseriti in un contesto cittadino o rurale che a seconda dei casi rimanda all'originaria Vicebsk oppure al suo paese di adozione, la Francia.
Un percorso interessante, dunque, anche per chi - come me - non è particolarmente appassionata di questa corrente pittorica e fa fatica a entrarvi in connessione emotiva. Sebbene di fronte al tratto materico dei quadri di Chagall si faccia fatica a restare davvero indifferenti.
Voto: 3/5
Dopo aver visitato e apprezzato qualche mese fa la mostra su Ligabue, a questo giro propongo alla mia amica G. di vederci alla mostra e poi farci due chiacchiere.
La mostra, sempre organizzata da Arthemisia, si sviluppa nelle medesime sale del castello che hanno ospitato le precedenti e anche l'allestimento e l'organizzazione mi paiono ricalcare quelle che già erano state sperimentate con successo nelle precedenti occasioni.
Si tratta anche in questo caso di una mostra che non segue un percorso cronologico, bensì tematico, ma che - anche grazie ai pannelli esplicativi e soprattutto all'audioguida - consente di conoscere meglio Chagall e il suo percorso umano e artistico.
Va detto che sebbene la mostra sia composta di oltre 100 opere, non ci sono moltissimi quadri in esposizione, perché alcune sale sono integralmente dedicate alle illustrazioni (litografie, xilografie ecc.) realizzate da Chagall per opere letterarie (le fiabe di La Fontaine, il libro dell'Esodo, il suo libro di poesie).
Chiaramente i tratti caratteristici dell'immaginario di Chagall attraversano tutte le sue opere, ma chi si aspetta di vedere alcuni dei suoi quadri più famosi resterà deluso.
La visita della mostra sarà però l'occasione di comprendere le origini della sua pittura e delle sue scelte figurative, che affondano le radici nel paese d'origine, ossia la Russia (era nato e vissuto fino alla giovinezza a Lëzna, presso Vicebsk, oggi facente parte della Bielorussia), nella sua fede religiosa e nel suo essere ebreo, motivo per il quale a un certo punto non fece più ritorno in Russia e fu naturalizzato francese (morì quasi centenario a Saint Paul-de-Vence). Parte importante della sua ispirazione artistica arrivò dalla moglie Bella, sua musa, alla cui morte prematura seguì per Chagall un periodo di allontanamento dall'arte.
All'interno di un approccio surrealista e poetico, in cui i dati di realtà - pur riconoscibili - sono come trasportati in un universo onirico in cui le leggi naturali non valgono, si comprendono così alcuni temi ricorrenti che vanno dagli amanti volanti agli animali (in particolare il gallo) fino ai fiori, spesso combinati tra di loro ovvero inseriti in un contesto cittadino o rurale che a seconda dei casi rimanda all'originaria Vicebsk oppure al suo paese di adozione, la Francia.
Un percorso interessante, dunque, anche per chi - come me - non è particolarmente appassionata di questa corrente pittorica e fa fatica a entrarvi in connessione emotiva. Sebbene di fronte al tratto materico dei quadri di Chagall si faccia fatica a restare davvero indifferenti.
Voto: 3/5
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