Oscar 2010 per il miglior film straniero a questo film diretto da un argentino (naturalizzato spagnolo), Juan José Campanella, e ambientato in Argentina a cavallo tra il 1974 e il 1999. Protagonista Benjamin Esposito (Ricardo Darin), assistente del Pubblico Ministero, che – una volta in pensione – decide di dedicarsi alla scrittura di un romanzo incentrato su un caso giudiziario che in qualche modo gli ha cambiato la vita, il caso Morales. Una giovane e bellissima donna, Liliana Collotto, violentata e uccisa nella sua casa nel 1974. Un marito, Ricardo Morales (Pablo Rago), altrettanto giovane e innamoratissimo che non si darà pace finché l’assassino della moglie non avrà scontato la sua pena.
Intorno al caso Morales molti eventi e vicende convergono, sia sul piano nazionale sia su quello personale. La fine dell’epoca Peron e l’inizio di un regime in mano ai militari, molto più interessato alla repressione del dissenso che alla ricerca della giustizia. La storia mai esplicitata né tanto meno consumata tra Benjamin e Irene Menendez Hastings (Soledad Villamil), l'assistente che arriva dalla Cornell University a lavorare nello stesso ufficio di Benjamin. L’amicizia tra lo stesso Benjamin e il collega di ufficio, Pedro Sandoval (Guillermo Francella), simpatico ubriacone, dotato però di straordinario acume e generosità.
Così come tante storie si intrecciano, anche numerosi registri si mescolano in questo film: quello drammatico, quello ironico, il poliziesco, il giallo, il romantico in un mix molto equilibrato ed efficace. Perfetto anche l’equilibrio tra la parola, affidata soprattutto ad alcuni personaggi e ad alcuni momenti della storia, e il silenzio, che attraverso gli occhi dei protagonisti veicola il non detto che attraversa tutta la vicenda e che ne è la sua cifra dominante.
Anche dal punto di vista della tecnica cinematografica, Campanella dimostra maestria nel riprodurre l’atmosfera (anche sul piano dei colori e dell’impressione visiva) dell’Argentina degli anni '70, così come nel maneggiare la macchina da presa (straordinario il lungo piano sequenza che inizia in volo sullo stadio per concludersi nell’inseguimento e nella cattura del presunto assassino!).
Il regista riesce a tenerci incollati alla sedia per due ore fino allo scioglimento finale, finanche un po’ eccessivo. In conclusione, un bel film, di impianto classico e moderno allo stesso tempo. Probabilmente Oscar meritato, sebbene non abbia visto i concorrenti.
Personalmente mi è piaciuta – ancora una volta – la riflessione sul senso della vita, sul significato della passione, sul valore della memoria. La scrittura del romanzo e la ricerca di quanto non è stato a suo tempo chiarito è, in realtà, per Esposito l’occasione per chiedersi cosa ci permette di sopravvivere, cosa ci tiene attaccati a una vita vuota e priva di senso. La risposta sembra essere "la forza di un sentimento", "l’intensità di una passione". Questa è la chiave di volta che permette di risolvere il giallo dell’uccisione di Liliana Collotto, ma è anche lo strumento che consente di leggere e interpretare tutti i personaggi. Sandoval e la sua dipendenza dall’alcol, più forte della quale c’è solo la lealtà e l’amicizia per Benjamin fino al sacrificio di sé. Morales e il suo amore ormai incorruttibile, idealizzato e infine quasi ossessivo per la moglie uccisa, che lo porterà a perseguire tutta la vita una particolare forma di vendetta verso l’assassino. Esposito e la sua passione altrettanto incorruttibile per la Irene, che le circostanze e la mancanza di coraggio renderanno impossibile, ma che lo spingeranno infine a darsi un’altra possibilità.
Apparentemente consolante, e invece inquietante nella misura in cui, sequenza dopo sequenza, diventa chiaro il paradosso di fondo. La forza di un sentimento è tanto maggiore quanto più quel sentimento viene preservato dalla necessità di mettersi alla prova con la realtà e con lo squallore dell’abitudine e del quotidiano. Infatti, solo così acquista progressivamente, grazie all’operazione di filtro esercitata dalla memoria, quell’insostituibilità e quell’immortalità che ne fanno realmente motore dell’esistenza.
E ancora una volta mi viene da pensare a che esseri sfortunati e fortunati allo stesso tempo siamo. Con questa scintilla di immortalità che ci portiamo dentro e, al contempo, la consapevolezza dell’insensatezza della nostra piccola esistenza, acuita dal potere selettivo, distruttivo e ricostruttivo della memoria. Esseri che vivono lacerati tra una costante proiezione verso il futuro (come dice Irene, "Io ho sempre guardato adelante, non mi posso permettere di guardare indietro") e il desiderio e la necessità di non perdere i ricordi che sono la nostra storia (Morales dice "La cosa più brutta è rendersi conto di cominciare a dimenticare e non essere più in grado di distinguere tra ricordi reali e ricordo dei ricordi"). Esseri, dunque, spesso irrimediabilmente astratti da un presente che finiamo per lasciarci sfuggire.
Non ci resta dunque che aggrapparci alla bellezza di un’idea, di un ricordo, di un momento, di una possibilità, di una prospettiva, facendo di tutto per preservarla e darle respiro. Peccato che a volte ci manchi il coraggio di afferrarla completamente. O l'occasione. O entrambe.
Voto: 4/5
martedì 29 giugno 2010
domenica 27 giugno 2010
Bright star
La premessa. A Bruxelles Bright star lo danno solo allo Styx, un cinema non molto distante da casa, ma che ancora non conosco. Bene, mi dico. Sarà anche l'occasione per sperimentare un altro cinema, oltre quello sotto casa.
A parte il fatto che lungo il percorso scopro l'esistenza di una interessante brasserie che magari diventerà meta di future uscite mangerecce, arrivo al cinema un quarto d'ora in anticipo. La cassa è chiusa e la maschera mi chiede se posso pazientare un po'. Ovviamente rispondo: "nessun problema". Verso le 19,05 (il film dovrebbe iniziare alle 19,10) arriva un ragazzo barbuto e molto di sinistra - trafelato - che apre la cassa e tira fuori patatine e bibite. A me e a un altro ragazzo in fila dice: "Ero alla festa a Matongè (per inciso, si tratta di Matongè en couleurs); scusate. Era bella. Ho fatto un po' tardi". Il ragazzo accanto a me gli dice che non c'è bisogno di scusarsi. Io sorrido silenziosamente.
Vado in sala e per un attimo mi sembra di essere al Politecnico Fandango a Roma. Sono da sola in una sala da 25 posti, con uno schermo da home theatre. Dopo poco arrivano il ragazzo di prima e una signora, che si siedono dietro di me parlando una lingua dell'Est. Penso: che situazione assurda! Ma divertente!
Intanto le luci si spengono e il film comincia. Certo, faccio più fatica del solito a seguire: il film è in inglese e in molti punti si tratta di citazioni di versi di Keats, e i sottotitoli in francese non sempre mi aiutano... Comunque, mi dico, se il film è ben fatto mi convincerà lo stesso.
Fondamentalmente si tratta di una storia d'amore, quella tra John Keats (poeta di modesta estrazione e senza soldi, interpretato da Ben Whishaw) e la sua vicina di casa Fanny (borghese dedita all'arte del cucito e del ricamo, interpretata da Abbie Cornish). Due mondi apparentemente lontani e che sulle prime non si capiscono e fondamentalmente si trattano con sufficienza, ma che l'amore metterà in contatto producendo uno scambio appassionato. Un amore che ha tutte le caratteristiche di un tempo lontano (John e Fanny sono costantemente seguiti dal fratello e dalla sorellina di lei, i due non possono fidanzarsi né sposarsi per la condizione di lui, la tubercolosi si porta via John giovanissimo), ma che ha anche un'universalità che trascende il tempo e lo spazio, come la poesia, suo corollario e immortale prodotto.
Senza la grandezza dei versi del poeta, l'incontro tra John e Fanny non sarebbe molto diverso dall'amore tra due giovanissimi, con tutta l'esasperazione dei sentimenti che questo comporta, con tutte le schermaglie, gli apparentemente stupidi giochi che gli amanti inventano per sentirsi vicini, con tutte le sue ingenuità, con la sensazione della sua precarietà. Ma quando l'amore incontra la poesia si trasfigura e acquista quell'eternità e immortalità che lo sollevano dalla finitezza del quotidiano. E la musa di questa poesia ritrovata da parte del poeta è Fanny, il cui sguardo, la cui partecipazione alla storia è ciò che più interessa Jane Campion.
Mi è piaciuto? Sinceramente non saprei dirlo.
Certamente la fotografia è superba. Alcune immagini di Fanny nella natura con quella perfezione visiva e di colore che le caratterizza, alcune sequenze che ci trasmettono la freschezza e l'affezione dei due innamorati (quando giocano con la sorellina di lei che li precede, o quando avvicinano i letti al muro per sentirsi vicini attraverso di esso, quando sono accucciati sul letto con le fronti appoggiate) lasciano decisamente a bocca aperta e probabilmente valgono il film.
Devo, però, ammettere che, come mi era capitato per altri film della Campion, durante tutta la visione non mi abbandona mai una sensazione di gelo, la percezione di una formalità e di una perfezione stilistica che non sempre trova soluzione nella storia e non produce una reale elaborazione emotiva nello spettatore.
C'è qualcosa che accomuna Abbie Cornish/Fanny a Nicole Kidman/Isabel Archer di Ritratto di signora a Holly Hunter/Ada di Lezioni di piano. Donne dalle personalità straordinarie, condannate all'infelicità, ma capaci di affrancarsi moralmente e intellettualmente da una società che le vuole inferiori, quintessenza di una manifesto quasi politico.
Purtroppo, però, non mi abbandona ogni volta la sensazione di una lezione di stile, in un'atmosfera il cui manierismo raggela, espressione di un dramma letterario che fa fatica a prendere realmente vita.
Voto: 3/5
P.S. Sono contenta che uno dei prossimi post sarà dedicato a Le perfezioni provvisorie di Carofiglio, perché in qualche modo questo titolo e il film appena visto mi sembrano avere molto in comune.
A parte il fatto che lungo il percorso scopro l'esistenza di una interessante brasserie che magari diventerà meta di future uscite mangerecce, arrivo al cinema un quarto d'ora in anticipo. La cassa è chiusa e la maschera mi chiede se posso pazientare un po'. Ovviamente rispondo: "nessun problema". Verso le 19,05 (il film dovrebbe iniziare alle 19,10) arriva un ragazzo barbuto e molto di sinistra - trafelato - che apre la cassa e tira fuori patatine e bibite. A me e a un altro ragazzo in fila dice: "Ero alla festa a Matongè (per inciso, si tratta di Matongè en couleurs); scusate. Era bella. Ho fatto un po' tardi". Il ragazzo accanto a me gli dice che non c'è bisogno di scusarsi. Io sorrido silenziosamente.
Vado in sala e per un attimo mi sembra di essere al Politecnico Fandango a Roma. Sono da sola in una sala da 25 posti, con uno schermo da home theatre. Dopo poco arrivano il ragazzo di prima e una signora, che si siedono dietro di me parlando una lingua dell'Est. Penso: che situazione assurda! Ma divertente!
Intanto le luci si spengono e il film comincia. Certo, faccio più fatica del solito a seguire: il film è in inglese e in molti punti si tratta di citazioni di versi di Keats, e i sottotitoli in francese non sempre mi aiutano... Comunque, mi dico, se il film è ben fatto mi convincerà lo stesso.
Fondamentalmente si tratta di una storia d'amore, quella tra John Keats (poeta di modesta estrazione e senza soldi, interpretato da Ben Whishaw) e la sua vicina di casa Fanny (borghese dedita all'arte del cucito e del ricamo, interpretata da Abbie Cornish). Due mondi apparentemente lontani e che sulle prime non si capiscono e fondamentalmente si trattano con sufficienza, ma che l'amore metterà in contatto producendo uno scambio appassionato. Un amore che ha tutte le caratteristiche di un tempo lontano (John e Fanny sono costantemente seguiti dal fratello e dalla sorellina di lei, i due non possono fidanzarsi né sposarsi per la condizione di lui, la tubercolosi si porta via John giovanissimo), ma che ha anche un'universalità che trascende il tempo e lo spazio, come la poesia, suo corollario e immortale prodotto.
Senza la grandezza dei versi del poeta, l'incontro tra John e Fanny non sarebbe molto diverso dall'amore tra due giovanissimi, con tutta l'esasperazione dei sentimenti che questo comporta, con tutte le schermaglie, gli apparentemente stupidi giochi che gli amanti inventano per sentirsi vicini, con tutte le sue ingenuità, con la sensazione della sua precarietà. Ma quando l'amore incontra la poesia si trasfigura e acquista quell'eternità e immortalità che lo sollevano dalla finitezza del quotidiano. E la musa di questa poesia ritrovata da parte del poeta è Fanny, il cui sguardo, la cui partecipazione alla storia è ciò che più interessa Jane Campion.
Mi è piaciuto? Sinceramente non saprei dirlo.
Certamente la fotografia è superba. Alcune immagini di Fanny nella natura con quella perfezione visiva e di colore che le caratterizza, alcune sequenze che ci trasmettono la freschezza e l'affezione dei due innamorati (quando giocano con la sorellina di lei che li precede, o quando avvicinano i letti al muro per sentirsi vicini attraverso di esso, quando sono accucciati sul letto con le fronti appoggiate) lasciano decisamente a bocca aperta e probabilmente valgono il film.
Devo, però, ammettere che, come mi era capitato per altri film della Campion, durante tutta la visione non mi abbandona mai una sensazione di gelo, la percezione di una formalità e di una perfezione stilistica che non sempre trova soluzione nella storia e non produce una reale elaborazione emotiva nello spettatore.
C'è qualcosa che accomuna Abbie Cornish/Fanny a Nicole Kidman/Isabel Archer di Ritratto di signora a Holly Hunter/Ada di Lezioni di piano. Donne dalle personalità straordinarie, condannate all'infelicità, ma capaci di affrancarsi moralmente e intellettualmente da una società che le vuole inferiori, quintessenza di una manifesto quasi politico.
Purtroppo, però, non mi abbandona ogni volta la sensazione di una lezione di stile, in un'atmosfera il cui manierismo raggela, espressione di un dramma letterario che fa fatica a prendere realmente vita.
Voto: 3/5
P.S. Sono contenta che uno dei prossimi post sarà dedicato a Le perfezioni provvisorie di Carofiglio, perché in qualche modo questo titolo e il film appena visto mi sembrano avere molto in comune.
sabato 26 giugno 2010
Pyongyang / Guy Delisle
Pyongyang / Guy Delisle. Paris, L'Association, 2003.
Non sono una grande intenditrice di fumetti. Ammetto di aver letto prevalentemente le serie italiane, in particolare Martin Mystère e Ken Parker, e poco altro (Marjane Satrapi), ma da quando sono a Bruxelles circondata da librerie che vendono solo fumetti e frequento persone cui i fumetti piacciono parecchio (!), mi sto avvicinando in maniera più appassionata a questo mondo che da sempre - però - un po' mi affascina.
Guy Delisle non lo conoscevo affatto. Questo fumetto, Pyongyang, forse il suo più famoso, mi è stato regalato per il mio compleanno e mi ci sono buttata dentro a capofitto con l'entusiasmo tipico dei bambini. Sì, perché il fumetto fa un po' questo effetto, di riportarci a una dimensione comunicativa più infantile, ma allo stesso tempo più potente grazie alla capacità di trasmettere contenuti, emozioni, sensazioni non tanto attraverso le parole, bensì attraverso la forza del tratto disegnato. Al punto tale che, pur essendo il fumetto in francese (lingua che certo non si può dire io domini perfettamente), credo di aver capito praticamente tutto, o comunque non mi è sfuggito niente di quell'essenziale che l'autore voleva trasmettere.
E devo dire che in questo Delisle è assolutamente straordinario. Il suo tratto contiene di per sé un'ironia che mille parole non sarebbero in grado di eguagliare, quell'ironia che è tipica delle situazioni, delle espressioni del volto, dei gesti e dei movimenti del corpo. Nello stesso tempo, il racconto della sua esperienza autobiografica in Corea del Nord è dotato di una precisione e di un dettaglio descrittivo che ci permette di capire questa realtà forse meglio di un documentario.
Leggere Pyongyang e trascorrere insieme al protagonista queste strane giornate in una città e in un Paese costruito intorno al suo dittatore, Kim Il-Sung, e a suo figlio, Kim Jong-Li, ha qualcosa di estremamente divertente e, d'altro canto, del tutto inquietante. La città al buio la sera, i badge in segno di appartenenza al regime indossati dai cittadini, i musei interamente dedicati a Kim Il-Sung, il rapporto con gli stranieri, il controllo costante, l'assuefazione delle persone ai limiti del lavaggio del cervello. Un mondo, insomma, talmente lontano da risultare per molti versi comico, ma - se solo ci si sofferma un po' a riflettere - talmente ancora possibile e in qualche modo vicino da lasciarci inorriditi.
E nella varietà di espressioni del suo protagonista, ora basito, ora rassegnato, ora impressionato, ora disperato, leggiamo un mondo intero e ne cogliamo l'essenziale. Mi è subito e inevitabilmente tornata in mente Marjane Satrapi e il suo Persepolis.
E mi è quasi venuto da pensare quanto sarebbe utile anche da noi in Italia una riscoperta di questa arte, il fumetto, popolare e raffinata allo stesso tempo, capace forse ancora - e più della letteratura tradizionale - di comunicare idee e di far riflettere. E il tutto apparentemente senza sforzo. Che in questi tempi di pigrizia mentale collettiva è certamente uno straordinario valore aggiunto.
Ma chissà se questo basterebbe.
Voto: 4/5
P.S. Intanto ho comprato io altri due libri di Guy Delisle. Per tutto il resto si vedrà.
Non sono una grande intenditrice di fumetti. Ammetto di aver letto prevalentemente le serie italiane, in particolare Martin Mystère e Ken Parker, e poco altro (Marjane Satrapi), ma da quando sono a Bruxelles circondata da librerie che vendono solo fumetti e frequento persone cui i fumetti piacciono parecchio (!), mi sto avvicinando in maniera più appassionata a questo mondo che da sempre - però - un po' mi affascina.
Guy Delisle non lo conoscevo affatto. Questo fumetto, Pyongyang, forse il suo più famoso, mi è stato regalato per il mio compleanno e mi ci sono buttata dentro a capofitto con l'entusiasmo tipico dei bambini. Sì, perché il fumetto fa un po' questo effetto, di riportarci a una dimensione comunicativa più infantile, ma allo stesso tempo più potente grazie alla capacità di trasmettere contenuti, emozioni, sensazioni non tanto attraverso le parole, bensì attraverso la forza del tratto disegnato. Al punto tale che, pur essendo il fumetto in francese (lingua che certo non si può dire io domini perfettamente), credo di aver capito praticamente tutto, o comunque non mi è sfuggito niente di quell'essenziale che l'autore voleva trasmettere.
E devo dire che in questo Delisle è assolutamente straordinario. Il suo tratto contiene di per sé un'ironia che mille parole non sarebbero in grado di eguagliare, quell'ironia che è tipica delle situazioni, delle espressioni del volto, dei gesti e dei movimenti del corpo. Nello stesso tempo, il racconto della sua esperienza autobiografica in Corea del Nord è dotato di una precisione e di un dettaglio descrittivo che ci permette di capire questa realtà forse meglio di un documentario.
Leggere Pyongyang e trascorrere insieme al protagonista queste strane giornate in una città e in un Paese costruito intorno al suo dittatore, Kim Il-Sung, e a suo figlio, Kim Jong-Li, ha qualcosa di estremamente divertente e, d'altro canto, del tutto inquietante. La città al buio la sera, i badge in segno di appartenenza al regime indossati dai cittadini, i musei interamente dedicati a Kim Il-Sung, il rapporto con gli stranieri, il controllo costante, l'assuefazione delle persone ai limiti del lavaggio del cervello. Un mondo, insomma, talmente lontano da risultare per molti versi comico, ma - se solo ci si sofferma un po' a riflettere - talmente ancora possibile e in qualche modo vicino da lasciarci inorriditi.
E nella varietà di espressioni del suo protagonista, ora basito, ora rassegnato, ora impressionato, ora disperato, leggiamo un mondo intero e ne cogliamo l'essenziale. Mi è subito e inevitabilmente tornata in mente Marjane Satrapi e il suo Persepolis.
E mi è quasi venuto da pensare quanto sarebbe utile anche da noi in Italia una riscoperta di questa arte, il fumetto, popolare e raffinata allo stesso tempo, capace forse ancora - e più della letteratura tradizionale - di comunicare idee e di far riflettere. E il tutto apparentemente senza sforzo. Che in questi tempi di pigrizia mentale collettiva è certamente uno straordinario valore aggiunto.
Ma chissà se questo basterebbe.
Voto: 4/5
P.S. Intanto ho comprato io altri due libri di Guy Delisle. Per tutto il resto si vedrà.
giovedì 24 giugno 2010
Le braci / Sàndor Marài
Le braci / Sàndor Màrai; a cura di Marinella D'Alessandro. Milano, Adelphi, 1998.
Cinque giorni di pedalata tra le campagne e le colline dell'Alsazia. Cinque giorni di stacco dal lavoro e dalla vita di tutti i giorni. Tre libri all'attivo, di cui poter scrivere nei prossimi giorni.
Sono tornata con una gran voglia di scrivere. Non tanto di raccontare, quanto di scrivere. Non so, è che quando sono inquieta la scrittura forse è l'unica cosa che riesce davvero a calmarmi.
E direi che parlare de Le braci di Sàndor Màrai mi dà certamente l'occasione di scrivere non di eventi, ma di sentimenti, di emozioni, della vita e delle sue contraddizioni. In questo romanzo, infatti, non accade praticamente nulla. Ci sono due uomini, Henrik e Konrad, che si incontrano dopo più di quarant'anni per chiarire e capire ciò che quarant'anni prima li ha divisi. In realtà, è un lunghissimo monologo di Henrik, sebbene sia la presenza silenziosa di Konrad a conferire carica emotiva a questo racconto di sentimenti.
I due uomini, di estrazioni sociali differenti, hanno condiviso un'amicizia lunga e profonda, fino a quando l'amore per la stessa donna, Krisztina, e un episodio avvenuto durante una battuta di caccia - e che è destinato a rimanere in qualche modo in parte nell'ombra - non li separa fino a questo nuovo, a lungo atteso incontro.
Henrik ha aspettato quarant'anni questo momento, per sapere, per darsi una spiegazione, per avere la conferma di ciò che ha compreso da solo, per trovare pace. Forse non otterrà delle risposte. Ma forse, in qualche modo, non ne ha più bisogno, perché i sentimenti sono come il fuoco che prima arde visibilmente, poi lo fa silenziosamente sotto la cenere, ma poi, prima o poi, si spegne, conservando solo una tenue memoria del calore distruttivo e al contempo salvifico che ha prodotto.
Ho praticamente divorato il libro, perché dentro ci sono tutti i temi che mi toccano il cuore: l'amicizia, la passione, l'amore, la memoria, il tempo, il significato della vita. Credo - ancora una volta - di essere stata colpita soprattutto da questa dinamica che mette le nostre piccole vite a confronto con lo scorrere ineluttabile del tempo.
Henrik è stato un giovane che ha aggredito la vita, ha preso tutto quello che ha potuto senza ringraziare e forse senza neanche realizzare appieno la propria fortuna. Per lungo tempo, non si è fatto domande, non ha cercato risposte. Sembra non aver conosciuto sensibilità e delicatezza, difficoltà e ricerca di sé, ciò a cui da sempre Konrad è - in qualche modo - condannato, diverso proprio per questo.
Due uomini opposti, dunque. Eppure, al termine delle loro vite, alla resa dei conti, non vediamo davvero la differenza. La vita ha riservato a entrambi grandi sentimenti, partenze, ritorni, tradimenti, sofferenze, abbandoni, scelte difficili. E lì, arrivati a quel punto, tutto si relativizza, tutta la tensione si scioglie, non perché acquisti senso, ma forse perché smettiamo di cercarlo.
Continuo a pensare che siamo davvero animali strani noi umani. E non capisco del tutto per quale scherzo del destino la nostra evoluzione ci ha voluto con una mente dotata di una proiezione nel tempo, che forse è l'unica cosa che ci distingue realmente dagli altri esseri viventi. Certo, è in qualche modo la nostra grandezza questa, di vedere al di là di noi stessi e di poter agire e ragionare in una prospettiva di ben più lungo termine, ma è anche la nostra condanna. La consapevolezza della finitezza di noi e di tutte le cose della nostra vita irrimediabilmente ci spinge a perseguire non esclusivamente il nostro destino biologico, ma a conferire un senso a quello che facciamo, a caricare di significato le cose della nostra vita, a percepire la provvisorietà dei momenti di felicità e di perfezione, ma anche la loro straordinarietà e bellezza.
Henrik e Konrad hanno aspettato quarant'anni, si sono ostinatamente tenuti aggrappati alla vita per poter dare una risposta alle rispettive scelte di esilio volontario, l'uno nel proprio castello, l'altro nelle terre lontane dei Tropici. E ora che sono lì, si rendono conto di aver passato la vita a elaborare quella risposta, al punto tale che in fondo non li interessa più. Forse è quella che qualcuno definisce la saggezza della vecchiaia e che, forse, altro non è che approssimarsi della fine e accettazione della vita con l'incertezza e l'insensatezza che si porta con sè. Eh sì, perché in fondo niente ci appartiene veramente, nel senso che possiamo di fatto governarne il percorso. Non certamente le persone che amiamo e i sentimenti che proviamo per loro, non quello che facciamo e le motivazioni che ci muovono, non le nostre emozioni e il loro andamento.
Cosa ci rimane dunque? I nostri pensieri, la nostra capacità di riflettere su noi stessi, la possibilità di sviluppare una consapevolezza, il senso di eternità e al contempo la sua relativizzazione, la prospettiva di fare forse pace con il tempo, con le persone che amiamo e che abbiamo amato, con quello che abbiamo fatto e che avremmo potuto, con quello che siamo e che avremmo potuto, con noi stessi. E magari, di tanto in tanto, il senso del presente.
Sì, siamo condannati a essere diversi, soprattutto se la nostra pelle è sottile, il nostro animo fragile, la nostra sensibilità esasperata, la nostra mente costantemente proiettata su se stessa e sul mondo circostante. Condannati a vivere tutto con intensità fin eccessiva, a cercare l'impossibile risposta, a inseguire moti di un animo a volte impazzito, a rileggere continuamente noi stessi e la realtà che ci circonda. Ma senza le braci che ardono dentro di noi saremmo solo cenere priva di vita. E quando l'animo si quieta, come dice Henrik, forse abbiamo deciso che abbiamo vissuto abbastanza.
Voto: 5/5
P.S. So cosa state pensando: che ho bisogno di un'altra vacanza! ;-) Mi sa tanto che avete ragione.
Cinque giorni di pedalata tra le campagne e le colline dell'Alsazia. Cinque giorni di stacco dal lavoro e dalla vita di tutti i giorni. Tre libri all'attivo, di cui poter scrivere nei prossimi giorni.
Sono tornata con una gran voglia di scrivere. Non tanto di raccontare, quanto di scrivere. Non so, è che quando sono inquieta la scrittura forse è l'unica cosa che riesce davvero a calmarmi.
E direi che parlare de Le braci di Sàndor Màrai mi dà certamente l'occasione di scrivere non di eventi, ma di sentimenti, di emozioni, della vita e delle sue contraddizioni. In questo romanzo, infatti, non accade praticamente nulla. Ci sono due uomini, Henrik e Konrad, che si incontrano dopo più di quarant'anni per chiarire e capire ciò che quarant'anni prima li ha divisi. In realtà, è un lunghissimo monologo di Henrik, sebbene sia la presenza silenziosa di Konrad a conferire carica emotiva a questo racconto di sentimenti.
I due uomini, di estrazioni sociali differenti, hanno condiviso un'amicizia lunga e profonda, fino a quando l'amore per la stessa donna, Krisztina, e un episodio avvenuto durante una battuta di caccia - e che è destinato a rimanere in qualche modo in parte nell'ombra - non li separa fino a questo nuovo, a lungo atteso incontro.
Henrik ha aspettato quarant'anni questo momento, per sapere, per darsi una spiegazione, per avere la conferma di ciò che ha compreso da solo, per trovare pace. Forse non otterrà delle risposte. Ma forse, in qualche modo, non ne ha più bisogno, perché i sentimenti sono come il fuoco che prima arde visibilmente, poi lo fa silenziosamente sotto la cenere, ma poi, prima o poi, si spegne, conservando solo una tenue memoria del calore distruttivo e al contempo salvifico che ha prodotto.
Ho praticamente divorato il libro, perché dentro ci sono tutti i temi che mi toccano il cuore: l'amicizia, la passione, l'amore, la memoria, il tempo, il significato della vita. Credo - ancora una volta - di essere stata colpita soprattutto da questa dinamica che mette le nostre piccole vite a confronto con lo scorrere ineluttabile del tempo.
Henrik è stato un giovane che ha aggredito la vita, ha preso tutto quello che ha potuto senza ringraziare e forse senza neanche realizzare appieno la propria fortuna. Per lungo tempo, non si è fatto domande, non ha cercato risposte. Sembra non aver conosciuto sensibilità e delicatezza, difficoltà e ricerca di sé, ciò a cui da sempre Konrad è - in qualche modo - condannato, diverso proprio per questo.
Due uomini opposti, dunque. Eppure, al termine delle loro vite, alla resa dei conti, non vediamo davvero la differenza. La vita ha riservato a entrambi grandi sentimenti, partenze, ritorni, tradimenti, sofferenze, abbandoni, scelte difficili. E lì, arrivati a quel punto, tutto si relativizza, tutta la tensione si scioglie, non perché acquisti senso, ma forse perché smettiamo di cercarlo.
Continuo a pensare che siamo davvero animali strani noi umani. E non capisco del tutto per quale scherzo del destino la nostra evoluzione ci ha voluto con una mente dotata di una proiezione nel tempo, che forse è l'unica cosa che ci distingue realmente dagli altri esseri viventi. Certo, è in qualche modo la nostra grandezza questa, di vedere al di là di noi stessi e di poter agire e ragionare in una prospettiva di ben più lungo termine, ma è anche la nostra condanna. La consapevolezza della finitezza di noi e di tutte le cose della nostra vita irrimediabilmente ci spinge a perseguire non esclusivamente il nostro destino biologico, ma a conferire un senso a quello che facciamo, a caricare di significato le cose della nostra vita, a percepire la provvisorietà dei momenti di felicità e di perfezione, ma anche la loro straordinarietà e bellezza.
Henrik e Konrad hanno aspettato quarant'anni, si sono ostinatamente tenuti aggrappati alla vita per poter dare una risposta alle rispettive scelte di esilio volontario, l'uno nel proprio castello, l'altro nelle terre lontane dei Tropici. E ora che sono lì, si rendono conto di aver passato la vita a elaborare quella risposta, al punto tale che in fondo non li interessa più. Forse è quella che qualcuno definisce la saggezza della vecchiaia e che, forse, altro non è che approssimarsi della fine e accettazione della vita con l'incertezza e l'insensatezza che si porta con sè. Eh sì, perché in fondo niente ci appartiene veramente, nel senso che possiamo di fatto governarne il percorso. Non certamente le persone che amiamo e i sentimenti che proviamo per loro, non quello che facciamo e le motivazioni che ci muovono, non le nostre emozioni e il loro andamento.
Cosa ci rimane dunque? I nostri pensieri, la nostra capacità di riflettere su noi stessi, la possibilità di sviluppare una consapevolezza, il senso di eternità e al contempo la sua relativizzazione, la prospettiva di fare forse pace con il tempo, con le persone che amiamo e che abbiamo amato, con quello che abbiamo fatto e che avremmo potuto, con quello che siamo e che avremmo potuto, con noi stessi. E magari, di tanto in tanto, il senso del presente.
Sì, siamo condannati a essere diversi, soprattutto se la nostra pelle è sottile, il nostro animo fragile, la nostra sensibilità esasperata, la nostra mente costantemente proiettata su se stessa e sul mondo circostante. Condannati a vivere tutto con intensità fin eccessiva, a cercare l'impossibile risposta, a inseguire moti di un animo a volte impazzito, a rileggere continuamente noi stessi e la realtà che ci circonda. Ma senza le braci che ardono dentro di noi saremmo solo cenere priva di vita. E quando l'animo si quieta, come dice Henrik, forse abbiamo deciso che abbiamo vissuto abbastanza.
Voto: 5/5
P.S. So cosa state pensando: che ho bisogno di un'altra vacanza! ;-) Mi sa tanto che avete ragione.
giovedì 17 giugno 2010
FUORI TEMA: Il perché di tutto sommato
No, non è la recensione al libro di Quim Monzó che vedete qui accanto. A dire la verità è un libro che possiedo dai tempi dell'università; forse addirittura qualcuno me l'aveva prestato e non regalato (e mi sembra anche di ricordare chi), ma non l'ho mai restituito (!!!). E soprattutto, quel che è peggio, è che non l'ho mai letto!
Però il titolo mi è rimasto impresso e mi è tornato in mente quando, qualche giorno fa, qualcuno mi diceva che nelle mie recensioni c'è sempre una nota positiva, un occhio condiscendente su qualunque cosa io decida di trattare: libri, film, spettacoli teatrali.
Sì, in parte è vero. Ma forse devo ai miei lettori anche una spiegazione sulla "filosofia" che c'è dietro questo blog, che è poi il risultato della mia un po' bizzarra forma mentis. Diciamo che in qualche modo opero una selezione a monte, qualcuno potrebbe dire una censura (che certo non è proprio bello per una bibliotecaria). E forse proprio per questo devo spiegare perché e come.
In pratica, oltre alle cose che vedete qui recensite, ce ne sono altre che leggo, vedo e cui partecipo, ma che non incontrano il mio interesse, la mia attenzione. Film che non mi sono piaciuti, libri che non mi hanno detto nulla, viaggi che non mi hanno regalato vere e profonde emozioni, e così via. E su questi non ho nessuna voglia di scrivere un post: a dire la verità, non saprei proprio cosa dire, se non vuote parole già lette mille volte.
Lo so che i veri recensori si valutano dalle loro stroncature piuttosto che da tutto il resto, ma io posso parlare di una cosa che non mi è piaciuta solo se mi ha colpito per qualche motivo. E se mi ha colpito vuol dire che in qualche modo ci ho trovato qualcosa di significativo per me. E, dunque, in fondo mi è piaciuta!
Insomma, lo so, sono un po' contorta. Però era solo - in conclusione - per dire che in questo blog non troverete cose che mi sono scivolate addosso, che mi hanno lasciato totalmente indifferente e che, dunque, non ho voglia di portare né alla vostra né alla mia attenzione. Esattamente quello che mi capita con la fotografia. Ciò che ho intorno mi deve ispirare in qualche modo, per la sua bellezza, o la sua bruttezza, o l'emozione che mi comunica.
E quindi, se decido di parlare di qualcosa, dovrà pur esserci qualcosa di significativo per me, qualcosa per cui valga la pena spendere qualche minuto del mio tempo e utilizzare queste consunte parole.
Perché, "tutto sommato", niente è ideale, ma è fondamentale cercare un valore in ogni cosa che si fa. E poi, se proprio non lo si trova, in fondo basta far finta di niente. Proprio come faccio io (almeno nel blog!).
Però il titolo mi è rimasto impresso e mi è tornato in mente quando, qualche giorno fa, qualcuno mi diceva che nelle mie recensioni c'è sempre una nota positiva, un occhio condiscendente su qualunque cosa io decida di trattare: libri, film, spettacoli teatrali.
Sì, in parte è vero. Ma forse devo ai miei lettori anche una spiegazione sulla "filosofia" che c'è dietro questo blog, che è poi il risultato della mia un po' bizzarra forma mentis. Diciamo che in qualche modo opero una selezione a monte, qualcuno potrebbe dire una censura (che certo non è proprio bello per una bibliotecaria). E forse proprio per questo devo spiegare perché e come.
In pratica, oltre alle cose che vedete qui recensite, ce ne sono altre che leggo, vedo e cui partecipo, ma che non incontrano il mio interesse, la mia attenzione. Film che non mi sono piaciuti, libri che non mi hanno detto nulla, viaggi che non mi hanno regalato vere e profonde emozioni, e così via. E su questi non ho nessuna voglia di scrivere un post: a dire la verità, non saprei proprio cosa dire, se non vuote parole già lette mille volte.
Lo so che i veri recensori si valutano dalle loro stroncature piuttosto che da tutto il resto, ma io posso parlare di una cosa che non mi è piaciuta solo se mi ha colpito per qualche motivo. E se mi ha colpito vuol dire che in qualche modo ci ho trovato qualcosa di significativo per me. E, dunque, in fondo mi è piaciuta!
Insomma, lo so, sono un po' contorta. Però era solo - in conclusione - per dire che in questo blog non troverete cose che mi sono scivolate addosso, che mi hanno lasciato totalmente indifferente e che, dunque, non ho voglia di portare né alla vostra né alla mia attenzione. Esattamente quello che mi capita con la fotografia. Ciò che ho intorno mi deve ispirare in qualche modo, per la sua bellezza, o la sua bruttezza, o l'emozione che mi comunica.
E quindi, se decido di parlare di qualcosa, dovrà pur esserci qualcosa di significativo per me, qualcosa per cui valga la pena spendere qualche minuto del mio tempo e utilizzare queste consunte parole.
Perché, "tutto sommato", niente è ideale, ma è fondamentale cercare un valore in ogni cosa che si fa. E poi, se proprio non lo si trova, in fondo basta far finta di niente. Proprio come faccio io (almeno nel blog!).
lunedì 14 giugno 2010
La settima onda / Stella Duffy
La settima onda / Stella Duffy; trad. di Fabio Zucchella. Venezia, Marsilio, 2003.
Anche questa serie di gialli giaceva da anni sui miei scaffali romani - o forse prima ancora bolognesi - in parte come risultato di alcuni acquisti, in parte di regali ricevuti. Varie volte mi aveva incuriosita la lettura di questa giallista che ho ascoltato spesso nei programmi radio della BBC con il suo bell'accento inglese, ma alla fine - e sinceramente non so bene perché, ma con i libri mi capita - ho sempre desistito.
E invece questa volta, complici la necessità di fare una breve pausa da Carofiglio, la scarsa offerta della mia libreria personale di Bruxelles e una lunghissima attesa all'aeroporto di Charleroi, che non è esattamente un posto che offra molti svaghi, ho iniziato e finito in tre giorni il secondo romanzo della serie dell'investigatrice Saz Martin (eh, sì, perché mi sa che non possiedo il primo Calendar girl, oppure mi sbaglio e non possiedo il successivo Beneath the blonde. Che confusione mentale quando si hanno due case, nessuna delle quali realmente propria!!!).
Saz è decisamente un personaggio simpatico e interessante. Dichiaratamente gay e da tempo single, ma finalmente impegnata in una storia che ha tutta la parvenza di essere seria, quella con l'affascinante medico Molly. La sottotrama che racconta il rapporto tra le due, le loro gelosie, i piccoli romanticismi, il loro mondo di amicizie e così via è certamente divertente e sicuramente originale nel panorama del giallo. A dire la verità, non si tratta propriamente di gialli, visto che di fatto chi sia il cattivo in fondo lo si sa fin dal primo momento, sebbene la trama mescoli le carte in tavola e aggiunga elementi per rendere più interessante e avvincente il tutto.
La vicenda del dottor Max Northwell e del cosiddetto Processo da lui inventato per stimolare nei "pazienti" una forma di consapevolezza delle proprie problematiche psicologiche e superarle, la sua ossessione per il successo di questa impresa e tutte le conseguenze che questo scatenerà, l'ambientazione tra Londra e San Francisco, l'ironia di fondo che punteggia il racconto rendono certamente la lettura non solo scorrevole, ma del tutto gradevole.
Certo, non si tratta di un capolavoro e non apre dei mondi. Non ispira, come a volte è in grado di fare Carofiglio, non sorprende con una scrittura illuminante, ma si fa leggere e può certamente essere un'ottima lettura estiva capace di non sollevare sensi di colpa come quando l'abbrutimento vacanziero ci spinge alla lettura di squallide riviste o pessimi remainders rimediati chissà dove. Quantomeno Stella Duffy è garanzia di un buon livello qualitativo di letteratura, senza essere per questo noiosa.
Non escludo di continuare la lettura della saga di Saz Martin. Ma ora mi concederò una pausa dal giallo. Ho quasi finito di leggere un fumetto che mi e' stato regalato (presto la recensione!) e contemporaneamente sto leggendo un romanzo classico di Sandor Marai. Certo, non v'è dubbio che Bruxelles mi ispiri la lettura (chissà come mai ;-), un po' meno il cinema, sebbene abbia in sospeso due richieste di recensioni a film da parte di affezionati lettori che conto di soddisfare presto!
Voto: 3/5
Anche questa serie di gialli giaceva da anni sui miei scaffali romani - o forse prima ancora bolognesi - in parte come risultato di alcuni acquisti, in parte di regali ricevuti. Varie volte mi aveva incuriosita la lettura di questa giallista che ho ascoltato spesso nei programmi radio della BBC con il suo bell'accento inglese, ma alla fine - e sinceramente non so bene perché, ma con i libri mi capita - ho sempre desistito.
E invece questa volta, complici la necessità di fare una breve pausa da Carofiglio, la scarsa offerta della mia libreria personale di Bruxelles e una lunghissima attesa all'aeroporto di Charleroi, che non è esattamente un posto che offra molti svaghi, ho iniziato e finito in tre giorni il secondo romanzo della serie dell'investigatrice Saz Martin (eh, sì, perché mi sa che non possiedo il primo Calendar girl, oppure mi sbaglio e non possiedo il successivo Beneath the blonde. Che confusione mentale quando si hanno due case, nessuna delle quali realmente propria!!!).
Saz è decisamente un personaggio simpatico e interessante. Dichiaratamente gay e da tempo single, ma finalmente impegnata in una storia che ha tutta la parvenza di essere seria, quella con l'affascinante medico Molly. La sottotrama che racconta il rapporto tra le due, le loro gelosie, i piccoli romanticismi, il loro mondo di amicizie e così via è certamente divertente e sicuramente originale nel panorama del giallo. A dire la verità, non si tratta propriamente di gialli, visto che di fatto chi sia il cattivo in fondo lo si sa fin dal primo momento, sebbene la trama mescoli le carte in tavola e aggiunga elementi per rendere più interessante e avvincente il tutto.
La vicenda del dottor Max Northwell e del cosiddetto Processo da lui inventato per stimolare nei "pazienti" una forma di consapevolezza delle proprie problematiche psicologiche e superarle, la sua ossessione per il successo di questa impresa e tutte le conseguenze che questo scatenerà, l'ambientazione tra Londra e San Francisco, l'ironia di fondo che punteggia il racconto rendono certamente la lettura non solo scorrevole, ma del tutto gradevole.
Certo, non si tratta di un capolavoro e non apre dei mondi. Non ispira, come a volte è in grado di fare Carofiglio, non sorprende con una scrittura illuminante, ma si fa leggere e può certamente essere un'ottima lettura estiva capace di non sollevare sensi di colpa come quando l'abbrutimento vacanziero ci spinge alla lettura di squallide riviste o pessimi remainders rimediati chissà dove. Quantomeno Stella Duffy è garanzia di un buon livello qualitativo di letteratura, senza essere per questo noiosa.
Non escludo di continuare la lettura della saga di Saz Martin. Ma ora mi concederò una pausa dal giallo. Ho quasi finito di leggere un fumetto che mi e' stato regalato (presto la recensione!) e contemporaneamente sto leggendo un romanzo classico di Sandor Marai. Certo, non v'è dubbio che Bruxelles mi ispiri la lettura (chissà come mai ;-), un po' meno il cinema, sebbene abbia in sospeso due richieste di recensioni a film da parte di affezionati lettori che conto di soddisfare presto!
Voto: 3/5
sabato 5 giugno 2010
Ragionevoli dubbi / Gianrico Carofiglio
Ragionevoli dubbi / Gianrico Carofiglio. Palermo, Sellerio, 2006.
E tre! Dopo Testimone inconsapevole e Ad occhi chiusi non ho potuto fare a meno di leggere tutto d'un fiato anche questa terza avventura dell'avvocato Guido Guerrieri, personaggio che mi è ormai familiare e - per certi versi - caro. È per questo che mi ha fatto un po' impressione ritrovarmelo in questa veste un po' malinconica e triste, certo sempre dotato della sua graffiante ironia e sempre capace di alcune saggezze profonde, ma con un sottofondo di amarezza e di pessimismo, al quale allude a volte lui stesso attribuendolo all'età che avanza e alla crisi che ad essa è connessa:
«Ero stabilmente un disadattato, ormai. Mi ero garantito una stabile, mediocre infelicità, mi dissi. Immunizzato da una infelicità devastante in cambio di una insoddisfazione permanente e desideri inconfessabili. Poi pensai che facevo delle riflessioni banali, patetiche, e che mi autocommiseravo.» (p. 124-125)
«Mi dissi che ero un imbecille e un incosciente, che avevo quaranta anni passati - ampiamente passati - e che mi stavo comportando da irresponsabile e anche da stronzo.» (p. 99)
«Ma passati i quaranta gli stupidi pensieri si moltiplicano e fenomeni insignificanti diventano sintomi della vecchiaia che si avvicina.» (p. 18)
«E avevo voglia di scappare via, adesso. Via da quella inattesa fragilità, da quella disperazione, da quel senso di sconfitta.» (p. 145)
A me sembra fondamentalmente la conseguenza dell'assenza di Margherita, l'elemento di stabilità mancante in questo racconto, la donna che ha fatto intravedere a Guido la possibilità di una felicità serena e che ha fatto riemergere dal profondo desideri tenuti fino ad allora nel silenzio e sostanzialmente inconfessati:
«Confessare, anche a se stessi, i propri desideri - quelli veri - è pericoloso. Se sono realizzabili, e spesso lo sono, dichiararli ti mette di fronte alla paura di provarci. E dunque alla tua vigliaccheria. Allora preferisci non pensarci, o pensare che hai desideri impossibili, e che è da adulti non pensare alle cose impossibili.» (p. 106)
E così, in questo caso giudiziario, molte questioni - personali e non - si intrecciano. L'imputato Paolicelli è forse quel Fabio che, durante gli anni in cui a Bari in alcune zone si rischiava di essere pestati solo per il fatto di portare un eskimo, aveva partecipato al pestaggio di un ragazzo per il quale si era poi impiccato in carcere il presunto colpevole? E poi la moglie di questi, Natsu, e la bambina, che aprono a Guido uno squarcio sulla sua vita come avrebbe potuto essere e sulla famiglia che vorrebbe per sé...
A molti che hanno superato da un po' i quaranta e che hanno trascorso l'adolescenza a Bari questa storia richiamerà alla memoria un frammento di vita vissuta e ricordi impressi nella mente a fuoco. A me ancora una volta dice della capacità di Gianrico Carofiglio di raccontare delle storie, dei luoghi, delle persone, se stesso, delle età della vita:
«Le storie, a ben vedere, sono tutto quello che abbiamo. [...] La vita non funziona attraverso la selezione della storia più probabile, più verosimile o più ordinata. La vita non è ordinata e non risponde alle nostre regole di esperienza. Nella vita ci sono i colpi di fortuna e le disgrazie.» (p. 284-285)
E per dare senso alle storie ci vogliono le parole, quelle che a volte non abbiamo o abbiamo esaurito:
«Le nostre parole sono spesso prive di significato. Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare, dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle.» (p. 128)
Insomma, Guerrieri e Carofiglio continuano a piacermi. E anche quando ne riconosco alcuni modi di scrittura e di comportamento, che pure per certi versi tendono a ripetersi, l'effetto non è la noia o la stanchezza, ma un moto di amorevolezza. I ricordi dell'infanzia e le riflessioni sulle proprie piccole manie, candidamente confessate, i camei di personaggi indimenticabili (il libraio che apre la sua libreria-caffè solo di notte), gli intermezzi musicali, le metafore della boxe, i piatti della cucina pugliese rivisitata sono tappe non obbligate, bensì ricercate, della lettura.
Però, mi manca Margherita. Per favore: fatela tornare da New York!
Voto: 4/5
E tre! Dopo Testimone inconsapevole e Ad occhi chiusi non ho potuto fare a meno di leggere tutto d'un fiato anche questa terza avventura dell'avvocato Guido Guerrieri, personaggio che mi è ormai familiare e - per certi versi - caro. È per questo che mi ha fatto un po' impressione ritrovarmelo in questa veste un po' malinconica e triste, certo sempre dotato della sua graffiante ironia e sempre capace di alcune saggezze profonde, ma con un sottofondo di amarezza e di pessimismo, al quale allude a volte lui stesso attribuendolo all'età che avanza e alla crisi che ad essa è connessa:
«Ero stabilmente un disadattato, ormai. Mi ero garantito una stabile, mediocre infelicità, mi dissi. Immunizzato da una infelicità devastante in cambio di una insoddisfazione permanente e desideri inconfessabili. Poi pensai che facevo delle riflessioni banali, patetiche, e che mi autocommiseravo.» (p. 124-125)
«Mi dissi che ero un imbecille e un incosciente, che avevo quaranta anni passati - ampiamente passati - e che mi stavo comportando da irresponsabile e anche da stronzo.» (p. 99)
«Ma passati i quaranta gli stupidi pensieri si moltiplicano e fenomeni insignificanti diventano sintomi della vecchiaia che si avvicina.» (p. 18)
«E avevo voglia di scappare via, adesso. Via da quella inattesa fragilità, da quella disperazione, da quel senso di sconfitta.» (p. 145)
A me sembra fondamentalmente la conseguenza dell'assenza di Margherita, l'elemento di stabilità mancante in questo racconto, la donna che ha fatto intravedere a Guido la possibilità di una felicità serena e che ha fatto riemergere dal profondo desideri tenuti fino ad allora nel silenzio e sostanzialmente inconfessati:
«Confessare, anche a se stessi, i propri desideri - quelli veri - è pericoloso. Se sono realizzabili, e spesso lo sono, dichiararli ti mette di fronte alla paura di provarci. E dunque alla tua vigliaccheria. Allora preferisci non pensarci, o pensare che hai desideri impossibili, e che è da adulti non pensare alle cose impossibili.» (p. 106)
E così, in questo caso giudiziario, molte questioni - personali e non - si intrecciano. L'imputato Paolicelli è forse quel Fabio che, durante gli anni in cui a Bari in alcune zone si rischiava di essere pestati solo per il fatto di portare un eskimo, aveva partecipato al pestaggio di un ragazzo per il quale si era poi impiccato in carcere il presunto colpevole? E poi la moglie di questi, Natsu, e la bambina, che aprono a Guido uno squarcio sulla sua vita come avrebbe potuto essere e sulla famiglia che vorrebbe per sé...
A molti che hanno superato da un po' i quaranta e che hanno trascorso l'adolescenza a Bari questa storia richiamerà alla memoria un frammento di vita vissuta e ricordi impressi nella mente a fuoco. A me ancora una volta dice della capacità di Gianrico Carofiglio di raccontare delle storie, dei luoghi, delle persone, se stesso, delle età della vita:
«Le storie, a ben vedere, sono tutto quello che abbiamo. [...] La vita non funziona attraverso la selezione della storia più probabile, più verosimile o più ordinata. La vita non è ordinata e non risponde alle nostre regole di esperienza. Nella vita ci sono i colpi di fortuna e le disgrazie.» (p. 284-285)
E per dare senso alle storie ci vogliono le parole, quelle che a volte non abbiamo o abbiamo esaurito:
«Le nostre parole sono spesso prive di significato. Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare, dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle.» (p. 128)
Insomma, Guerrieri e Carofiglio continuano a piacermi. E anche quando ne riconosco alcuni modi di scrittura e di comportamento, che pure per certi versi tendono a ripetersi, l'effetto non è la noia o la stanchezza, ma un moto di amorevolezza. I ricordi dell'infanzia e le riflessioni sulle proprie piccole manie, candidamente confessate, i camei di personaggi indimenticabili (il libraio che apre la sua libreria-caffè solo di notte), gli intermezzi musicali, le metafore della boxe, i piatti della cucina pugliese rivisitata sono tappe non obbligate, bensì ricercate, della lettura.
Però, mi manca Margherita. Per favore: fatela tornare da New York!
Voto: 4/5
mercoledì 2 giugno 2010
Draquila. L'Italia che trema
Beh, come spesso mi accade, il contesto conta... Eccome se conta.
E Draquila non l'ho visto in un piccolo cinema romano indipendente, ma - udite udite! - in uno degli emicicli della sede del Parlamento europeo a Bruxelles, nel palazzo Paul-Henri Spaak. Con tanto di presenza della regista, Sabina Guzzanti in abito da sera scollato color porpora (nonché di alcuni parlamentari europei, tra cui l'organizzatrice - insieme a Rosario Crocetta - Sonia Alfano), e di dibattito alla fine della proiezione. Per di più ho avuto il privilegio di vederlo in compagnia di uno di quegli incontri speciali, che - chissà - magari ti cambiano la vita!
Insomma, non mi sarei persa questa proiezione per nulla al mondo, tanto che ho affrontato e lottato, a colpi di antibiotici, il mio streptococco alla gola che mi aveva abbattuto a letto nei due giorni precedenti.
Certo, va pure raccontata la premessa... Arriviamo circa un quarto d'ora prima dell'inizio. La sala è già piena, tutti i posti a sedere sono presi e i giovanotti della sicurezza alle porte non fanno entrare più nessuno, più o meno, perché anche qui vale la legge del più forte. Così, stiamo già pensando al piano B: un film al cinema sotto casa, cena fuori e una birretta in zona Saint-Boniface. Ma penso che in fondo l'iniziativa è italiana e la maggior parte della gente all'interno è italiana, così come quella all'esterno... e quindi nessuno demorderà e alla fine una soluzione/non soluzione alla maniera nostra si troverà.
E infatti - e proprio quando l'incontro speciale è andato ad una lussuosa toilette del Parlamento, ma ha sbagliato uscita e sembra non riuscire più a tornare indietro -, allo spegnersi delle luci per l'inizio del film, qualcuno dall'interno fa pressioni sugli uomini della sicurezza. Ed eccoci tutti dentro, seduti sui gradini, bivaccanti qua e là, ma felici! Ogni tanto essere italiani e sapere come siamo fatti aiuta... ;-))
Insomma, il film inizia, e questa platea composta prevalentemente di giovani italiani espatriati e un piccolo nugolo di stranieri incuriositi da questo italico fenomeno ascolta e guarda a tratti assorta e silenziosa, altre volte scoppia in fragorose risate. Alla fine però tutti quanti in qualche modo abbiamo l'impressione di aver assistito a un film dell'orrore. E Sabina porta a casa un lungo applauso con annessa standing ovation. Del resto, è lo stile della Sabina nazionale, donna dotata di un'intelligenza e di un senso dell'umorismo che formano un mix del tutto particolare ed affascinante, regista, comica e attrice capace di farci ridere fino alle lacrime, ma anche di farci riflettere in maniera mai superficiale.
Ovviamente anche qui il film e l'iniziativa di organizzarne la visione all'interno del Parlamento europeo hanno suscitato polemiche. La mattina è stata scandita da comunicati stampa e prese di posizione. La proiezione è disertata da tutta una parte politica. Insomma, le dinamiche interne, quelle a cui siamo abituati nella nostra Italietta, si ripetono anche qua, non appena si ricompongono gli schieramenti. E chissà se questo pubblico di giovani di belle speranze e - si spera - anche viva intelligenza rappresenta davvero una speranza di futuro, un'alternativa su cui è possibile puntare, oppure una generazione di disillusi e cinici, senza alcuna voglia di lottare!
Che dire del film? Certamente è ben fatto. A tratti meglio di Michael Moore, perché evita - di solito - di raggiungere i suoi scopi attraverso delle provocazioni. Per il resto, è chiaro che è un film di fronte al quale si finisce per schierarsi pro o contro, come nell'Italia di oggi. Spero solo che serva a qualcosa. A qualcuno.
Voto: 4/5
P.S. Comunque, la cena post-cinema nel quartiere Saint-Boniface non ce la si è fatta mancare, con tanto di frites, di piatti unici di carne e pesce con le immancabili salse e birra dal curioso palato di banana. E poi altro localino e digestivo per chiudere la serata in bellezza, dopo la fregatura che il destino mi aveva riservato per la sera del mio compleanno (abbattuta a letto con 39 di febbre!!)
E Draquila non l'ho visto in un piccolo cinema romano indipendente, ma - udite udite! - in uno degli emicicli della sede del Parlamento europeo a Bruxelles, nel palazzo Paul-Henri Spaak. Con tanto di presenza della regista, Sabina Guzzanti in abito da sera scollato color porpora (nonché di alcuni parlamentari europei, tra cui l'organizzatrice - insieme a Rosario Crocetta - Sonia Alfano), e di dibattito alla fine della proiezione. Per di più ho avuto il privilegio di vederlo in compagnia di uno di quegli incontri speciali, che - chissà - magari ti cambiano la vita!
Insomma, non mi sarei persa questa proiezione per nulla al mondo, tanto che ho affrontato e lottato, a colpi di antibiotici, il mio streptococco alla gola che mi aveva abbattuto a letto nei due giorni precedenti.
Certo, va pure raccontata la premessa... Arriviamo circa un quarto d'ora prima dell'inizio. La sala è già piena, tutti i posti a sedere sono presi e i giovanotti della sicurezza alle porte non fanno entrare più nessuno, più o meno, perché anche qui vale la legge del più forte. Così, stiamo già pensando al piano B: un film al cinema sotto casa, cena fuori e una birretta in zona Saint-Boniface. Ma penso che in fondo l'iniziativa è italiana e la maggior parte della gente all'interno è italiana, così come quella all'esterno... e quindi nessuno demorderà e alla fine una soluzione/non soluzione alla maniera nostra si troverà.
E infatti - e proprio quando l'incontro speciale è andato ad una lussuosa toilette del Parlamento, ma ha sbagliato uscita e sembra non riuscire più a tornare indietro -, allo spegnersi delle luci per l'inizio del film, qualcuno dall'interno fa pressioni sugli uomini della sicurezza. Ed eccoci tutti dentro, seduti sui gradini, bivaccanti qua e là, ma felici! Ogni tanto essere italiani e sapere come siamo fatti aiuta... ;-))
Insomma, il film inizia, e questa platea composta prevalentemente di giovani italiani espatriati e un piccolo nugolo di stranieri incuriositi da questo italico fenomeno ascolta e guarda a tratti assorta e silenziosa, altre volte scoppia in fragorose risate. Alla fine però tutti quanti in qualche modo abbiamo l'impressione di aver assistito a un film dell'orrore. E Sabina porta a casa un lungo applauso con annessa standing ovation. Del resto, è lo stile della Sabina nazionale, donna dotata di un'intelligenza e di un senso dell'umorismo che formano un mix del tutto particolare ed affascinante, regista, comica e attrice capace di farci ridere fino alle lacrime, ma anche di farci riflettere in maniera mai superficiale.
Ovviamente anche qui il film e l'iniziativa di organizzarne la visione all'interno del Parlamento europeo hanno suscitato polemiche. La mattina è stata scandita da comunicati stampa e prese di posizione. La proiezione è disertata da tutta una parte politica. Insomma, le dinamiche interne, quelle a cui siamo abituati nella nostra Italietta, si ripetono anche qua, non appena si ricompongono gli schieramenti. E chissà se questo pubblico di giovani di belle speranze e - si spera - anche viva intelligenza rappresenta davvero una speranza di futuro, un'alternativa su cui è possibile puntare, oppure una generazione di disillusi e cinici, senza alcuna voglia di lottare!
Che dire del film? Certamente è ben fatto. A tratti meglio di Michael Moore, perché evita - di solito - di raggiungere i suoi scopi attraverso delle provocazioni. Per il resto, è chiaro che è un film di fronte al quale si finisce per schierarsi pro o contro, come nell'Italia di oggi. Spero solo che serva a qualcosa. A qualcuno.
Voto: 4/5
P.S. Comunque, la cena post-cinema nel quartiere Saint-Boniface non ce la si è fatta mancare, con tanto di frites, di piatti unici di carne e pesce con le immancabili salse e birra dal curioso palato di banana. E poi altro localino e digestivo per chiudere la serata in bellezza, dopo la fregatura che il destino mi aveva riservato per la sera del mio compleanno (abbattuta a letto con 39 di febbre!!)
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