Il documentario di Adele Tulli si apre con le immagini subacquee di corpi femminili incinti che fanno acquagym in una piscina. I corpi senza volti, resi simili dall'uguale condizione nella quale si trovano, nonché isolati dal contesto, risultano buffi e suscitano il sorriso del pubblico.
Questa prima sequenza definisce il registro narrativo del film, che è infatti una successione di situazioni tratte dalla vita quotidiana, apparentemente scollegate le une dalle altre e isolate rispetto a un prima e un dopo, in modo tale da suscitare a seconda dei casi un sorriso divertito ovvero un presunto senso di superiorità o ancora un piccolo moto di indignazione: una bambina cui vengono fatti i buchi alle orecchie, delle ragazze dall'estetista, un raduno di motociclisti, dei ragazzi alle giostre e in particolare sul tagadà, delle mamme con bambini piccoli che fanno fitness nel parco, dei giovani a una festa sulla spiaggia, delle coppie a un corso prematrimoniale, una coppia di sposi impegnati nel servizio fotografico del loro matrimonio, un addio al nubilato, un bambino a una gara di minimoto, donne e uomini che lavorano in un'azienda di giocattoli ecc.
La domanda che sembra attraversare tutte queste sequenze è quanto delle differenze di genere tra maschi e femmine è intrinseco, strutturale, diciamo così "fisiologico", e quanto invece è il risultato di condizionamenti sociali e culturali. Una domanda che resta probabilmente senza risposta e a cui forse la regista non intende dare una risposta (sempre che la risposta esista), bensì piuttosto stimolare nello spettatore una riflessione in merito.
Insieme a questo tema, mi pare però che il film provi anche a suscitare una riflessione sulla forza della normalizzazione che le strutture sociali inevitabilmente producono, e che se da un lato è funzionale alla costruzione delle identità e delle comunità, dall'altro è il motore principale del conformismo e della forte spinta ad adeguarsi ai modelli e ai percorsi accettati e riconosciuti.
La sequenza finale del film che mostra un matrimonio gay con tanto di torta arcobaleno, bacio di rito e foto con i parenti sembra quasi comunicare che - anche superati i confini della rigida divisione di genere che così fortemente impregna la nostra società - resta invece la necessità delle "liturgie", dei "riti" e dei simboli che da un lato ci permettono di riconoscerci in un gruppo specifico, dall'altro ci fanno sentire parte di un sistema sociale più ampio che ha le sue regole e sembra non poter prescindere dalla definizione di una normalità che assorbe anche la differenza.
Un film tutto sommato semplice, che però - nella scelta di un punto di vista che è al contempo immersivo ed esterno - riesce a trasformare gli spettatori in osservatori delle proprie vite, perché - pur essendo alcune realtà osservate lontane se non lontanissime dalla propria vita - nessuno può dirsi estraneo alle regole del consesso sociale e ai suoi condizionamenti culturali sulle nostre scelte.
Voto: 3,5/5
mercoledì 29 maggio 2019
Normal
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lunedì 27 maggio 2019
I figli del fiume giallo
La Cina, come e più di tutti i mondi storicamente e culturalmente lontani dal nostro, mi affascina particolarmente. E tale fascino aumenta man mano che, nel tentativo di applicare alla sua storia e cultura la logica occidentale, la sua natura e identità continuano a sfuggirmi e a risultare per me incomprensibili.
Ultimamente la lettura di alcuni libri e graphic novel ha aperto degli squarci nella mia fitta ignoranza accendendo curiosità e desiderio di capire.
Per questo accetto la proposta di F. di andare a vedere al cinema I figli del fiume giallo, l'ultima fatica del cineasta cinese Jia Zhang-Ke, film d'autore da 142 minuti di quelli che piacciono molto ai critici e un po' meno al pubblico (anche se l'endorsement di Boille sull'Internazionale gioca molto a suo favore).
Ebbene non è certo un film di cassetta, il ritmo non è sicuramente scoppiettante e i riferimenti che contiene non sempre e non per tutti (compresa me) sono intellegibili. Molte delle cose che scrive Boille, e in particolare i richiami interni alla filmografia precedente del regista, non sono alla mia portata. Nonostante tutto ciò, ci si può abbandonare al fascino di questa narrazione e all'epica dell'amore di una donna, Qiao (interpretata da Zhao Tao, moglie e musa del regista), che attraversa innumerevoli peripezie ma resta fedele al suo uomo, Bin (Liao Fan) anche di fronte al suo abbandono.
La vicenda inizia - su uno schermo in 4:3 che inquadra facce vere e intense di operai che viaggiano in un piccolo autobus - nel 2001. Siamo in un piccolo paese minerario dove Qiao è la donna del piccolo boss locale che, per salvare lui durante una rissa con una banda rivale, usa la sua pistola e per questo finisce per 5 anni in prigione.
Nel 2006 Qiao esce dalla prigione cambiata, ma decisa a ritrovare il suo Bin, uscito di prigione prima di lei e legato ormai a un'altra donna. Qiao affronta una lotta per la sopravvivenza passando attraverso diversi incontri, alcuni anche poetici - come quello con il piccolo negoziante che si spaccia per ufologo - ma l'obiettivo resta quello di tornare a un passato, ormai trasformato dalla memoria e dalla nostalgia in qualcosa di mitico.
La caparbietà di Qiao non si arrenderà nemmeno di fronte al ritrovamento di Bin in una condizione molto diversa, un uomo fiaccato nell'animo e ridotto su una sedia a rotelle da un ictus.
Insieme a lui Qiao tornerà nel paese di origine di entrambi, nello Shianxi, dove i due sembrano ripartire dal principio.
Siamo però ormai nel 2018 e non solo sono cambiati loro, ma la Cina si è completamente trasformata, oggetto di un progresso che ha spazzato via il passato con le sue miserie ma anche con i suoi valori.
I figli del fiume giallo è una vera e propria epopea cinese, in cui nella figura di questa donna piena di contraddizioni, ma dalle mille risorse, si nasconde forse la metafora di un paese che di fronte a una trasformazione rapida e imperiosa fa fatica a ritrovare la propria identità, che non riconosce nel presente ma non trova più nemmeno nel passato.
Difficile per noi occidentali comprendere simboli, sfumature e allusioni che attraversano il film. Resta la percezione - grazie a Zhang-Ke - di poter gettare uno sguardo - certamente attonito - su un mondo che ci sfugge e che pure tanta importanza riveste rispetto agli equilibri geopolitici mondiali.
Un film che va visto riposati e armati di attenzione e pazienza, ma che a suo modo ripaga della fatica.
Voto: 3,5/5
Ultimamente la lettura di alcuni libri e graphic novel ha aperto degli squarci nella mia fitta ignoranza accendendo curiosità e desiderio di capire.
Per questo accetto la proposta di F. di andare a vedere al cinema I figli del fiume giallo, l'ultima fatica del cineasta cinese Jia Zhang-Ke, film d'autore da 142 minuti di quelli che piacciono molto ai critici e un po' meno al pubblico (anche se l'endorsement di Boille sull'Internazionale gioca molto a suo favore).
Ebbene non è certo un film di cassetta, il ritmo non è sicuramente scoppiettante e i riferimenti che contiene non sempre e non per tutti (compresa me) sono intellegibili. Molte delle cose che scrive Boille, e in particolare i richiami interni alla filmografia precedente del regista, non sono alla mia portata. Nonostante tutto ciò, ci si può abbandonare al fascino di questa narrazione e all'epica dell'amore di una donna, Qiao (interpretata da Zhao Tao, moglie e musa del regista), che attraversa innumerevoli peripezie ma resta fedele al suo uomo, Bin (Liao Fan) anche di fronte al suo abbandono.
La vicenda inizia - su uno schermo in 4:3 che inquadra facce vere e intense di operai che viaggiano in un piccolo autobus - nel 2001. Siamo in un piccolo paese minerario dove Qiao è la donna del piccolo boss locale che, per salvare lui durante una rissa con una banda rivale, usa la sua pistola e per questo finisce per 5 anni in prigione.
Nel 2006 Qiao esce dalla prigione cambiata, ma decisa a ritrovare il suo Bin, uscito di prigione prima di lei e legato ormai a un'altra donna. Qiao affronta una lotta per la sopravvivenza passando attraverso diversi incontri, alcuni anche poetici - come quello con il piccolo negoziante che si spaccia per ufologo - ma l'obiettivo resta quello di tornare a un passato, ormai trasformato dalla memoria e dalla nostalgia in qualcosa di mitico.
La caparbietà di Qiao non si arrenderà nemmeno di fronte al ritrovamento di Bin in una condizione molto diversa, un uomo fiaccato nell'animo e ridotto su una sedia a rotelle da un ictus.
Insieme a lui Qiao tornerà nel paese di origine di entrambi, nello Shianxi, dove i due sembrano ripartire dal principio.
Siamo però ormai nel 2018 e non solo sono cambiati loro, ma la Cina si è completamente trasformata, oggetto di un progresso che ha spazzato via il passato con le sue miserie ma anche con i suoi valori.
I figli del fiume giallo è una vera e propria epopea cinese, in cui nella figura di questa donna piena di contraddizioni, ma dalle mille risorse, si nasconde forse la metafora di un paese che di fronte a una trasformazione rapida e imperiosa fa fatica a ritrovare la propria identità, che non riconosce nel presente ma non trova più nemmeno nel passato.
Difficile per noi occidentali comprendere simboli, sfumature e allusioni che attraversano il film. Resta la percezione - grazie a Zhang-Ke - di poter gettare uno sguardo - certamente attonito - su un mondo che ci sfugge e che pure tanta importanza riveste rispetto agli equilibri geopolitici mondiali.
Un film che va visto riposati e armati di attenzione e pazienza, ma che a suo modo ripaga della fatica.
Voto: 3,5/5
venerdì 24 maggio 2019
Le regole per vivere. Teatro Ambra Jovinelli, 14 maggio 2019
La stagione teatrale purtroppo già volge al termine e si fa più rarefatta, così io e F. viviamo queste ultime occasioni di andare a teatro prima della pausa estiva come una circostanza quasi eccezionale. Vero è che questo maggio sembra quasi novembre e noi già stiamo cominciando a individuare date per alcuni spettacoli del prossimo autunno, ma resta il fatto che Le regole per vivere è l'ultimo spettacolo della stagione dell'Ambra Jovinelli, nonché la prima produzione realizzata dal teatro stesso.
Le regole per vivere è un testo della drammaturga inglese Sam Holcroft che in patria ha avuto molto successo e che ora viene proposto agli spettatori italiani nella traduzione e adattamento (invero perfetti) di Fausto Paravidino, per la regia di Antonio Zavatteri.
Il cuore della narrazione è un topos tra i più utilizzati, quello di una famiglia che si ritrova intorno a un tavolo per un pranzo di festa, pranzo che - iniziato con le migliori intenzioni - si trasforma in un incubo e nell'occasione per rivelare verità fin lì celate.
Lo spettacolo inizia con la proiezione su uno schermo di filmini familiari anni Settanta, quelli che tutti noi abbiamo negli archivi familiari e che mostrano le immagini di famiglie felici, feste, bambini, giochi e alberi di Natale. Lo schermo poi si solleva a scoprire un palco in cui ritroviamo la stessa famiglia molti anni dopo per un pranzo di Natale. I due figli sono ormai adulti, Adamo è sposato con Giovanna e ha una figlia che si chiama Emma, Matteo ha con sé la fidanzata Carola, e nel frattempo arriva mamma Elide, in attesa che il capofamiglia venga dimesso dall'ospedale e possa raggiungerli alla tavola natalizia.
La rimpatriata porta a galla le tensioni e le idiosincrasie familiari di ciascuno dei membri della famiglia (e di quelli aggiunti), e l'incontro tra queste idiosincrasie ben presto innesca una reazione a catena che scatenerà il caos, rivelando che niente è come sembra e che l'armonia familiare è solo un'apparenza.
Fin qui potrebbe trattarsi di una storia già vista e sentita mille volte; l'originalità della commedia della Halcroft sta però nel fatto che le idiosincrasie dei personaggi vengono esplicitate e rese visibili allo spettatore sotto forma di regole scritte sullo schermo che campeggia sul palcoscenico. Ad esempio, viene presto rivelato che Matteo ha bisogno di sedersi e di mangiare per mentire, ma questa regola viene disinnescata quando qualcuno gli fa un complimento, mentre Adamo fa le vocine e utilizza nomignoli per ironizzare sugli altri, acquietandosi solo quando la colpa viene data a qualcun altro. E così via.
Il fatto è che lo schermo con le "regole" segue l'andamento della narrazione e le regole compaiono o scompaiono di volta in volta a seconda che siano attive o disattivate, cosicché accade che lo spettatore si trova in una posizione di vantaggio, una specie di "spettatore onnisciente" che sa dei personaggi più di quello che ciascuno di loro sa degli altri e forse anche di sé stesso. Con l'inevitabile conseguenza dell'ingenerarsi di una serie di situazioni comiche e surreali, che danno alla commedia un ritmo indiavolato all'interno di un meccanismo quasi ad orologeria.
Perfetto per una serata grigia che aveva bisogno di un po' di divertimento.
Voto: 3/5
Le regole per vivere è un testo della drammaturga inglese Sam Holcroft che in patria ha avuto molto successo e che ora viene proposto agli spettatori italiani nella traduzione e adattamento (invero perfetti) di Fausto Paravidino, per la regia di Antonio Zavatteri.
Il cuore della narrazione è un topos tra i più utilizzati, quello di una famiglia che si ritrova intorno a un tavolo per un pranzo di festa, pranzo che - iniziato con le migliori intenzioni - si trasforma in un incubo e nell'occasione per rivelare verità fin lì celate.
Lo spettacolo inizia con la proiezione su uno schermo di filmini familiari anni Settanta, quelli che tutti noi abbiamo negli archivi familiari e che mostrano le immagini di famiglie felici, feste, bambini, giochi e alberi di Natale. Lo schermo poi si solleva a scoprire un palco in cui ritroviamo la stessa famiglia molti anni dopo per un pranzo di Natale. I due figli sono ormai adulti, Adamo è sposato con Giovanna e ha una figlia che si chiama Emma, Matteo ha con sé la fidanzata Carola, e nel frattempo arriva mamma Elide, in attesa che il capofamiglia venga dimesso dall'ospedale e possa raggiungerli alla tavola natalizia.
La rimpatriata porta a galla le tensioni e le idiosincrasie familiari di ciascuno dei membri della famiglia (e di quelli aggiunti), e l'incontro tra queste idiosincrasie ben presto innesca una reazione a catena che scatenerà il caos, rivelando che niente è come sembra e che l'armonia familiare è solo un'apparenza.
Fin qui potrebbe trattarsi di una storia già vista e sentita mille volte; l'originalità della commedia della Halcroft sta però nel fatto che le idiosincrasie dei personaggi vengono esplicitate e rese visibili allo spettatore sotto forma di regole scritte sullo schermo che campeggia sul palcoscenico. Ad esempio, viene presto rivelato che Matteo ha bisogno di sedersi e di mangiare per mentire, ma questa regola viene disinnescata quando qualcuno gli fa un complimento, mentre Adamo fa le vocine e utilizza nomignoli per ironizzare sugli altri, acquietandosi solo quando la colpa viene data a qualcun altro. E così via.
Il fatto è che lo schermo con le "regole" segue l'andamento della narrazione e le regole compaiono o scompaiono di volta in volta a seconda che siano attive o disattivate, cosicché accade che lo spettatore si trova in una posizione di vantaggio, una specie di "spettatore onnisciente" che sa dei personaggi più di quello che ciascuno di loro sa degli altri e forse anche di sé stesso. Con l'inevitabile conseguenza dell'ingenerarsi di una serie di situazioni comiche e surreali, che danno alla commedia un ritmo indiavolato all'interno di un meccanismo quasi ad orologeria.
Perfetto per una serata grigia che aveva bisogno di un po' di divertimento.
Voto: 3/5
mercoledì 22 maggio 2019
5 cm al secondo
È per me praticamente impossibile resistere alla tentazione dei cosiddetti film-evento - in particolare quando si tratta di anime giapponesi - che vengono proposti nei cinema a prezzi maggiorati solo per pochi giorni. In realtà, spesso sono film non certo recenti e che potrebbero essere recuperati diversamente, ma la possibilità di vederli sul grande schermo resta per me affascinante, anche quando si tratta magari di una pura operazione commerciale.
In questo caso, l'intento di Nexo Digital è quello di portare al cinema una delle prime opere di Makoto Shinkai, divenuto famoso negli ultimi anni con film quali Il giardino delle parole e Your name.
Rispetto alla preferenza che normalmente Makoto Shinkai esprime per le ambientazioni sci-fi, in 5 cm al secondo la narrazione si sviluppa in un'ambientazione realistica e si articola in tre episodi collegati l'uno all'altro dalla presenza di un medesimo personaggio, Takaki, in tre diverse fasi della vita.
Nel primo episodio dal titolo Fiori di ciliegio protagonisti sono Takaki e Araki, prima compagni di scuola e grandi amici, poi - allontanati a causa del trasferimento dei genitori di quest'ultima in un'altra città - continuano a scriversi lunghe lettere da cui nascerà un vero e proprio sentimento di amore. Quando Takaki saprà di doversi trasferire e di non poter frequentare il liceo a Tokyo deciderà di affrontare il viaggio per incontrare un'ultima volta Araki, viaggio che a causa della neve e di sfortunate coincidenze diventerà un vero e proprio viaggio della speranza, ma al termine del quale i due giovani finalmente si baceranno prima di essere divisi.
Nel secondo episodio, dal titolo The cosmonaut, protagonisti sono ancora Takaki, ormai al liceo, e Kanae, una sua compagna di scuola innamorata di lui, che non ha però il coraggio di dichiararsi e deciderà alla fine di non farlo capendo che il cuore di Takaki appartiene a un'altra.
Nel terzo episodio, dal titolo 5 centimetri al secondo, troviamo Takaki ormai adulto che vive e lavora a Tokyo, ma continua a inseguire il sogno di un incontro con Araki, in un'attesa infinita che si trasforma alfine in disillusione.
I tre episodi - come a volte accade negli anime giapponesi - si chiudono con una canzone pop che in qualche modo interpreta e riassume la storia raccontata, lasciando allo spettatore un momento di pacata riflessione.
5 cm al secondo è un film sul tempo e sull'attesa (del resto il titolo già anticipa questa tematica perché fa riferimento alla velocità con cui cadono i petali dei fiori di ciliegio), sul passaggio all'età adulta e la disillusione che porta con sé, sulla permanenza ma anche il cambiamento che il tempo determina sui sentimenti.
Un film visivamente bellissimo (disegni, riprese e montaggio sono davvero notevoli) e delicatamente malinconico, che pur parlando il linguaggio universale dei sentimenti, in particolare nell'adolescenza, molto dice sulla cultura giapponese e sulle sue specificità.
Voto: 3,5/5
In questo caso, l'intento di Nexo Digital è quello di portare al cinema una delle prime opere di Makoto Shinkai, divenuto famoso negli ultimi anni con film quali Il giardino delle parole e Your name.
Rispetto alla preferenza che normalmente Makoto Shinkai esprime per le ambientazioni sci-fi, in 5 cm al secondo la narrazione si sviluppa in un'ambientazione realistica e si articola in tre episodi collegati l'uno all'altro dalla presenza di un medesimo personaggio, Takaki, in tre diverse fasi della vita.
Nel primo episodio dal titolo Fiori di ciliegio protagonisti sono Takaki e Araki, prima compagni di scuola e grandi amici, poi - allontanati a causa del trasferimento dei genitori di quest'ultima in un'altra città - continuano a scriversi lunghe lettere da cui nascerà un vero e proprio sentimento di amore. Quando Takaki saprà di doversi trasferire e di non poter frequentare il liceo a Tokyo deciderà di affrontare il viaggio per incontrare un'ultima volta Araki, viaggio che a causa della neve e di sfortunate coincidenze diventerà un vero e proprio viaggio della speranza, ma al termine del quale i due giovani finalmente si baceranno prima di essere divisi.
Nel secondo episodio, dal titolo The cosmonaut, protagonisti sono ancora Takaki, ormai al liceo, e Kanae, una sua compagna di scuola innamorata di lui, che non ha però il coraggio di dichiararsi e deciderà alla fine di non farlo capendo che il cuore di Takaki appartiene a un'altra.
Nel terzo episodio, dal titolo 5 centimetri al secondo, troviamo Takaki ormai adulto che vive e lavora a Tokyo, ma continua a inseguire il sogno di un incontro con Araki, in un'attesa infinita che si trasforma alfine in disillusione.
I tre episodi - come a volte accade negli anime giapponesi - si chiudono con una canzone pop che in qualche modo interpreta e riassume la storia raccontata, lasciando allo spettatore un momento di pacata riflessione.
5 cm al secondo è un film sul tempo e sull'attesa (del resto il titolo già anticipa questa tematica perché fa riferimento alla velocità con cui cadono i petali dei fiori di ciliegio), sul passaggio all'età adulta e la disillusione che porta con sé, sulla permanenza ma anche il cambiamento che il tempo determina sui sentimenti.
Un film visivamente bellissimo (disegni, riprese e montaggio sono davvero notevoli) e delicatamente malinconico, che pur parlando il linguaggio universale dei sentimenti, in particolare nell'adolescenza, molto dice sulla cultura giapponese e sulle sue specificità.
Voto: 3,5/5
lunedì 20 maggio 2019
L'homme fidéle = L'uomo fedele
L'ultimo film di Louis Garrel, L'homme fidéle, è stato presentato in Italia in occasione del Rendez-Vous, il Festival del nuovo cinema francese, ma i posti disponibili al cinema Nuovo Sacher - dove era prevista anche la partecipazione del regista e interprete - sono andati esauriti in un battibaleno.
Così ho atteso che venisse proiettato in lingua originale nel circuito normale di distribuzione per recuperarlo, anche dopo aver sentito alcuni commenti positivi da amici e conoscenti.
Ebbene, il film di Garrel è un film decisamente particolare, di ambientazione moderna ma con un'atmosfera un po' retrò, che certamente si deve da un lato alla cultura cinematografica di cui è intrisa la vita stessa di Louis (non solo figlio del regista e attore Philippe Garrel, ma cresciuto in una famiglia tutta composta di cineasti e persone coinvolte nel mondo del cinema), dall'altro al tocco di Jean-Claude Carrière, storico sceneggiatore francese legato in particolare ai nomi di Luis Buñuel, ma anche di Marco Ferreri, Louis Malle e Jean-Luc Godard, noto per il suo sguardo surreale sul mondo borghese e sui relativi sentimenti.
E non v'è dubbio sul fatto che tutta la narrazione sia attraversata da una vena surreale e stralunata che rende questo thriller sentimentale - come è stato definito - una storia che appare al contempo profondamente vera al nocciolo dei sentimenti che racconta e totalmente irrealistica.
Protagonista è Abel (lo stesso Louis Garrel che decide di mantenere il nome di uno dei protagonisti della sua opera prima, Les deux amis), il quale convive con Marianne (Laetitia Casta) fino al giorno in cui quest'ultima gli rivela che è incinta, che il figlio non è suo ma del suo migliore amico Paul e che si sposa con quest'ultimo entro dieci giorni. Abel reagisce in maniera fin troppo composta, salvo poi cadere per le scale e trovare ad aspettarlo fuori dal portone con un fazzolettino per lui la giovane Ève (Lily-Rose Depp, la figlia somigliantissima di Johnny Depp), sorella di Paul e da sempre innamorata di Abel.
Passano nove anni, e ritroviamo Abel, Marianne ed Ève al funerale di Paul, morto all'improvviso nel sonno. Abel - che non ha mai dimenticato Marianne - decide di riprovarci ed effettivamente torna a vivere con lei e con suo figlio Joseph (Joseph Engel), mentre Ève è intenzionata a conquistarlo a qualunque costo.
Mentre Abel fa il ping pong tra Marianne ed Ève quasi non avesse una volontà proprio e potesse modellare i propri sentimenti secondo i desiderata degli altri, il vero deus ex machina della vicenda diventa Joseph, che - appassionato di gialli e investigazioni - insinua dubbi negli altri personaggi e in qualche modo ne condiziona le scelte e i sentimenti.
Alla fine tutto si ricomporrà in una parvenza di famiglia normale, sebbene di normale in questa storia ci sia ben poco, e questo ipotetico thriller dei sentimenti, che si sviluppa attraverso l'azione e le voci fuori campo dei tre protagonisti che commentano le azioni e rivelano i loro pensieri, sconfina in una commedia stralunata, in cui Abel, Marianne ed Ève sembrano fare a gara nel mantenere le distanze dalla realtà, in fondo in questo coadiuvate dalla fervida fantasia e dall'ingegnosità un po' inquietante di Joseph.
Un film che ha dentro molta nostalgia del cinema del passato, ma che a suo modo sa guardare in modo originale e attento anche al mondo attuale.
Voto: 3/5
Così ho atteso che venisse proiettato in lingua originale nel circuito normale di distribuzione per recuperarlo, anche dopo aver sentito alcuni commenti positivi da amici e conoscenti.
Ebbene, il film di Garrel è un film decisamente particolare, di ambientazione moderna ma con un'atmosfera un po' retrò, che certamente si deve da un lato alla cultura cinematografica di cui è intrisa la vita stessa di Louis (non solo figlio del regista e attore Philippe Garrel, ma cresciuto in una famiglia tutta composta di cineasti e persone coinvolte nel mondo del cinema), dall'altro al tocco di Jean-Claude Carrière, storico sceneggiatore francese legato in particolare ai nomi di Luis Buñuel, ma anche di Marco Ferreri, Louis Malle e Jean-Luc Godard, noto per il suo sguardo surreale sul mondo borghese e sui relativi sentimenti.
E non v'è dubbio sul fatto che tutta la narrazione sia attraversata da una vena surreale e stralunata che rende questo thriller sentimentale - come è stato definito - una storia che appare al contempo profondamente vera al nocciolo dei sentimenti che racconta e totalmente irrealistica.
Protagonista è Abel (lo stesso Louis Garrel che decide di mantenere il nome di uno dei protagonisti della sua opera prima, Les deux amis), il quale convive con Marianne (Laetitia Casta) fino al giorno in cui quest'ultima gli rivela che è incinta, che il figlio non è suo ma del suo migliore amico Paul e che si sposa con quest'ultimo entro dieci giorni. Abel reagisce in maniera fin troppo composta, salvo poi cadere per le scale e trovare ad aspettarlo fuori dal portone con un fazzolettino per lui la giovane Ève (Lily-Rose Depp, la figlia somigliantissima di Johnny Depp), sorella di Paul e da sempre innamorata di Abel.
Passano nove anni, e ritroviamo Abel, Marianne ed Ève al funerale di Paul, morto all'improvviso nel sonno. Abel - che non ha mai dimenticato Marianne - decide di riprovarci ed effettivamente torna a vivere con lei e con suo figlio Joseph (Joseph Engel), mentre Ève è intenzionata a conquistarlo a qualunque costo.
Mentre Abel fa il ping pong tra Marianne ed Ève quasi non avesse una volontà proprio e potesse modellare i propri sentimenti secondo i desiderata degli altri, il vero deus ex machina della vicenda diventa Joseph, che - appassionato di gialli e investigazioni - insinua dubbi negli altri personaggi e in qualche modo ne condiziona le scelte e i sentimenti.
Alla fine tutto si ricomporrà in una parvenza di famiglia normale, sebbene di normale in questa storia ci sia ben poco, e questo ipotetico thriller dei sentimenti, che si sviluppa attraverso l'azione e le voci fuori campo dei tre protagonisti che commentano le azioni e rivelano i loro pensieri, sconfina in una commedia stralunata, in cui Abel, Marianne ed Ève sembrano fare a gara nel mantenere le distanze dalla realtà, in fondo in questo coadiuvate dalla fervida fantasia e dall'ingegnosità un po' inquietante di Joseph.
Un film che ha dentro molta nostalgia del cinema del passato, ma che a suo modo sa guardare in modo originale e attento anche al mondo attuale.
Voto: 3/5
venerdì 17 maggio 2019
Le cure domestiche / Marilynne Robinson
Le cure domestiche / Marilynne Robinson; trad. di Delfina Vezzoli. Torino: Einaudi, 2016.
[Per chi non ha letto il libro premetto che nella recensione sono presenti SPOILER!]
Ruth e Lucylle sono sorelle, legatissime, quasi simbiotiche nel loro rapporto. Un giorno la loro madre, Helen, le porta - con la macchina di un'amica - nel Midwest, a Fingerbone, dove è nata, e dopo averle lasciate sulla soglia di casa della nonna con un pacco di crackers, si va a gettare nel grande lago vicino alla cittadina, dove molti anni prima è morto anche suo padre in seguito a un incidente ferroviario che è ancora nella memoria di tutti.
Delle due ragazzine si occuperà prima la nonna, una donna concreta che ha imparato a gestire da sola la vita dopo la morte del marito e l'abbandono quasi contemporaneo del tetto materno da parte delle figlie, poi le cognate di questa, che pur facendo il loro meglio si sentono e sono forse inadatte a crescere due bambine, infine Silvye, la sorella di Helen.
Nella prima metà del romanzo Marilynne Robinson tratteggia - con la sua scrittura poetica ed evocativa (facendo parlare in prima persona Ruth) - la storia familiare da cui provengono le due bambine, una storia fatta di figure decisamente poco convenzionali i cui pensieri profondi e le cui motivazioni individuali restano quasi sempre un mistero. Come lettori possiamo solo seguire Ruth nel suo percorso di scoperta e ricostruzione, in cui - com'è tipico della vita vera - non tutto è comprensibile e non tutto ha una spiegazione intellegibile.
Nella seconda parte il centro della narrazione viene occupato da Silvye, un personaggio complesso e sfuggente, naif e inafferrabile, certamente non estraneo alla storia familiare fin qui raccontata. Del passato di Silvye non sappiamo nulla, né lei vuole raccontarlo. L'eredità di questo passato è però una donna totalmente disallineata rispetto alle convenzioni sociali: veste e fa vestire Ruth e Lucylle con abiti inappropriati rispetto alla stagione, ogni tanto sparisce e non si sa dove sia andata, si incuriosisce ed entra in relazione con altri personaggi borderline come lei, accumula in casa oggetti senza un preciso scopo, lascia che la casa venga invasa dalla natura esterna e preferisce cenare al buio con le finestre aperte per non escludere il mondo esterno dalla vita all'interno delle mura domestiche.
Le sue stranezze, il suo stile di vita e il modo in cui cresce le bambine attirano presto l'attenzione e la riprovazione degli abitanti del villaggio. Di fronte a questo senso di non appartenenza si consumerà la separazione tra Lucylle e Ruth. La prima non sopporta di essere diversa e di non riuscire a integrarsi, e sceglierà a un certo punto di allontanarsi; l'altra sprofonderà ancora di più nel mondo di Silvye sposandolo emotivamente e infine scegliendo lo stile di vita erratico e solitario della zia.
Questa separazione si consumerà in seguito a un pericoloso ma salvifico attraversamento del ponte sul lago, lo stesso lago nel quale si sono inabissati senza salvezza il nonno e la madre di Ruth, e oltre il quale c'è la possibilità di scegliere di rispettare sé stessi e la propria natura.
In questo primo romanzo Marilynne Robinson ci accompagna - attraverso Ruth - in una specie di viaggio di formazione alla ricerca e alla scoperta dell'idea di famiglia e di casa nella quale ci riconosciamo e in cui ci sentiamo a nostro agio. Gli adulti - qui guardati con gli occhi di due bambine che possono solo affidarsi a loro - fanno quello che possono e, pur essendo tutti accomunati dall'affetto che hanno verso le bambine, rappresentano ognuno un diverso modello di cura inevitabilmente destinato a lasciare il segno su Lucylle e Ruth.
Nella crescita la scelta sarà poi sempre e soltanto individuale, perché non c'è storia familiare ed eredità che tolga forza alla responsabilità che ognuno di noi ha rispetto alla propria vita.
Voto: 4/5
[Per chi non ha letto il libro premetto che nella recensione sono presenti SPOILER!]
Ruth e Lucylle sono sorelle, legatissime, quasi simbiotiche nel loro rapporto. Un giorno la loro madre, Helen, le porta - con la macchina di un'amica - nel Midwest, a Fingerbone, dove è nata, e dopo averle lasciate sulla soglia di casa della nonna con un pacco di crackers, si va a gettare nel grande lago vicino alla cittadina, dove molti anni prima è morto anche suo padre in seguito a un incidente ferroviario che è ancora nella memoria di tutti.
Delle due ragazzine si occuperà prima la nonna, una donna concreta che ha imparato a gestire da sola la vita dopo la morte del marito e l'abbandono quasi contemporaneo del tetto materno da parte delle figlie, poi le cognate di questa, che pur facendo il loro meglio si sentono e sono forse inadatte a crescere due bambine, infine Silvye, la sorella di Helen.
Nella prima metà del romanzo Marilynne Robinson tratteggia - con la sua scrittura poetica ed evocativa (facendo parlare in prima persona Ruth) - la storia familiare da cui provengono le due bambine, una storia fatta di figure decisamente poco convenzionali i cui pensieri profondi e le cui motivazioni individuali restano quasi sempre un mistero. Come lettori possiamo solo seguire Ruth nel suo percorso di scoperta e ricostruzione, in cui - com'è tipico della vita vera - non tutto è comprensibile e non tutto ha una spiegazione intellegibile.
Nella seconda parte il centro della narrazione viene occupato da Silvye, un personaggio complesso e sfuggente, naif e inafferrabile, certamente non estraneo alla storia familiare fin qui raccontata. Del passato di Silvye non sappiamo nulla, né lei vuole raccontarlo. L'eredità di questo passato è però una donna totalmente disallineata rispetto alle convenzioni sociali: veste e fa vestire Ruth e Lucylle con abiti inappropriati rispetto alla stagione, ogni tanto sparisce e non si sa dove sia andata, si incuriosisce ed entra in relazione con altri personaggi borderline come lei, accumula in casa oggetti senza un preciso scopo, lascia che la casa venga invasa dalla natura esterna e preferisce cenare al buio con le finestre aperte per non escludere il mondo esterno dalla vita all'interno delle mura domestiche.
Le sue stranezze, il suo stile di vita e il modo in cui cresce le bambine attirano presto l'attenzione e la riprovazione degli abitanti del villaggio. Di fronte a questo senso di non appartenenza si consumerà la separazione tra Lucylle e Ruth. La prima non sopporta di essere diversa e di non riuscire a integrarsi, e sceglierà a un certo punto di allontanarsi; l'altra sprofonderà ancora di più nel mondo di Silvye sposandolo emotivamente e infine scegliendo lo stile di vita erratico e solitario della zia.
Questa separazione si consumerà in seguito a un pericoloso ma salvifico attraversamento del ponte sul lago, lo stesso lago nel quale si sono inabissati senza salvezza il nonno e la madre di Ruth, e oltre il quale c'è la possibilità di scegliere di rispettare sé stessi e la propria natura.
In questo primo romanzo Marilynne Robinson ci accompagna - attraverso Ruth - in una specie di viaggio di formazione alla ricerca e alla scoperta dell'idea di famiglia e di casa nella quale ci riconosciamo e in cui ci sentiamo a nostro agio. Gli adulti - qui guardati con gli occhi di due bambine che possono solo affidarsi a loro - fanno quello che possono e, pur essendo tutti accomunati dall'affetto che hanno verso le bambine, rappresentano ognuno un diverso modello di cura inevitabilmente destinato a lasciare il segno su Lucylle e Ruth.
Nella crescita la scelta sarà poi sempre e soltanto individuale, perché non c'è storia familiare ed eredità che tolga forza alla responsabilità che ognuno di noi ha rispetto alla propria vita.
Voto: 4/5
mercoledì 15 maggio 2019
El Reino
A Roma si è svolto all'inizio di maggio, come consuetudine, il Festival del cinema spagnolo, ospitato anche quest'anno dal Cinema Farnese. La mia assenza per vacanza (!) mi ha impedito di approfittarne come in altre circostanze, ma nell'ultima sera di programmazione sono riuscita a vedere El Reino, il film del giovane regista Rodrigo Sorogoyen che ha fatto incetta di Premi Goya in patria.
El Reino è la storia di Manuel López-Vidal (Antonio de la Torre, già visto ne La vendetta di un uomo tranquillo), un politico locale molto influente e ben inserito che a un certo punto si trova al centro di uno scandalo per corruzione, a seguito della pubblicazione da parte dei media di intercettazioni e filmati che lo riguardano e che ne confermano il ruolo attivo nell'appropriazione indebita di fondi europei e non solo.
Manuel si trova rapidamente solo all'interno del suo partito, dove tutti cercano di prendere le distanze e i vertici lo sconfessano nel tentativo di inaugurare una nuova linea di onestà e trasparenza incarnata dal leader emergente Alvarado.
A quel punto Manuel, di fronte alla prospettiva concreta di finire in prigione e pagare per tutti, nonché preoccupato delle conseguenze sulla sua famiglia, decide di giocarsi il tutto per tutto allo scopo di trovare le prove che dimostrino che il meccanismo corruttivo è ben più antico e più ampio di quanto si pensi e che coinvolge molti altri, all'interno e al di fuori dell'ambiente politico.
Il film di Sorogoyen è costruito come un vero e proprio thriller ad alto tasso adrenalinico, grazie a un protagonista molto efficace, a un montaggio nervoso e serrato, a una musica elettronica molto coinvolgente. La scommessa vinta dal regista è quella di un riuscito mix di generi, in cui al thriller si mescolano efficacemente la spy story, il ritratto sociale, il film di denuncia.
Dietro il personaggio di López-Vidal emerge così un sistema di potere, in cui non esistono lealtà e amicizia, ma solo manipolazione, ipocrisia, competizione dentro un meccanismo che è collaborativo solo fino a quando a ciascuno arriva il suo tornaconto, mentre si trasforma in una lotta per la sopravvivenza senza esclusione di colpi quando si tratta di tirarsene fuori.
Il ritratto che ne emerge è tristemente e inquietantemente impietoso, perché El Reino non è solo un atto di accusa verso la politica, il mondo degli affari e i media, bensì l'espressione di una consapevolezza la cui portata è ben più universale, ossia l'attrazione irresistibile degli esseri umani verso il denaro e la possibilità di poterne fare facilmente, anche in modo disonesto.
La sequenza in cui López-Vidal assiste alla scena in cui l'avventore di un bar intasca il resto palesemente sbagliato (e decisamente maggiorato) del pagamento di un caffè, pur essendosene accorto, è in qualche modo la chiave di lettura dell'intero film e rende la sua visione e la sua lettura meno pacificante e autoassolutoria di quanto di solito tendiamo a fare, convogliando tutta la rabbia e l'indignazione verso la politica come la causa di tutti i mali, senza interrogarci su quanto questi mali siano endemici nella nostra società o, forse meglio, nell'umanità in generale.
Il film di Sorogoyen non va interpretato come l'ennesimo film sulla corruzione della politica, buono solo a ingrossare le fila dei populisti e ad alimentare versioni semplificate della realtà, bensì un film che attraverso l'adesione a un genere di grande impatto emotivo è in grado di convogliare riflessioni molto più ampie e complesse.
Voto: 4/5
El Reino è la storia di Manuel López-Vidal (Antonio de la Torre, già visto ne La vendetta di un uomo tranquillo), un politico locale molto influente e ben inserito che a un certo punto si trova al centro di uno scandalo per corruzione, a seguito della pubblicazione da parte dei media di intercettazioni e filmati che lo riguardano e che ne confermano il ruolo attivo nell'appropriazione indebita di fondi europei e non solo.
Manuel si trova rapidamente solo all'interno del suo partito, dove tutti cercano di prendere le distanze e i vertici lo sconfessano nel tentativo di inaugurare una nuova linea di onestà e trasparenza incarnata dal leader emergente Alvarado.
A quel punto Manuel, di fronte alla prospettiva concreta di finire in prigione e pagare per tutti, nonché preoccupato delle conseguenze sulla sua famiglia, decide di giocarsi il tutto per tutto allo scopo di trovare le prove che dimostrino che il meccanismo corruttivo è ben più antico e più ampio di quanto si pensi e che coinvolge molti altri, all'interno e al di fuori dell'ambiente politico.
Il film di Sorogoyen è costruito come un vero e proprio thriller ad alto tasso adrenalinico, grazie a un protagonista molto efficace, a un montaggio nervoso e serrato, a una musica elettronica molto coinvolgente. La scommessa vinta dal regista è quella di un riuscito mix di generi, in cui al thriller si mescolano efficacemente la spy story, il ritratto sociale, il film di denuncia.
Dietro il personaggio di López-Vidal emerge così un sistema di potere, in cui non esistono lealtà e amicizia, ma solo manipolazione, ipocrisia, competizione dentro un meccanismo che è collaborativo solo fino a quando a ciascuno arriva il suo tornaconto, mentre si trasforma in una lotta per la sopravvivenza senza esclusione di colpi quando si tratta di tirarsene fuori.
Il ritratto che ne emerge è tristemente e inquietantemente impietoso, perché El Reino non è solo un atto di accusa verso la politica, il mondo degli affari e i media, bensì l'espressione di una consapevolezza la cui portata è ben più universale, ossia l'attrazione irresistibile degli esseri umani verso il denaro e la possibilità di poterne fare facilmente, anche in modo disonesto.
La sequenza in cui López-Vidal assiste alla scena in cui l'avventore di un bar intasca il resto palesemente sbagliato (e decisamente maggiorato) del pagamento di un caffè, pur essendosene accorto, è in qualche modo la chiave di lettura dell'intero film e rende la sua visione e la sua lettura meno pacificante e autoassolutoria di quanto di solito tendiamo a fare, convogliando tutta la rabbia e l'indignazione verso la politica come la causa di tutti i mali, senza interrogarci su quanto questi mali siano endemici nella nostra società o, forse meglio, nell'umanità in generale.
Il film di Sorogoyen non va interpretato come l'ennesimo film sulla corruzione della politica, buono solo a ingrossare le fila dei populisti e ad alimentare versioni semplificate della realtà, bensì un film che attraverso l'adesione a un genere di grande impatto emotivo è in grado di convogliare riflessioni molto più ampie e complesse.
Voto: 4/5
lunedì 13 maggio 2019
Surrealist Lee Miller. Palazzo Pallavicini, Bologna, 27 aprile 2019
Di passaggio a Bologna prima di partire per la mia vacanza canaria, accolgo molto volentieri l'invito ad andare a vedere la mostra della fotografa Lee Miller in corso fino al 7 giugno prossimo a Palazzo Pallavicini in via San Felice.
Quando arrivo alla mostra, della Miller non so praticamente nulla (né mi ricordo di aver già visto delle sue fotografie nella mostra a Roma Scatti di guerra). Ricordavo solo qualcosa di vago rispetto al fatto che è stata musa, ispiratrice e collaboratrice di Man Ray. Quindi sapevo di dovermi aspettare una mostra sulla fotografia dei primordi e sulle sperimentazioni dei surrealisti, che già avevo avuto modo di conoscere quando avevo visitato la mostra di Man Ray a Conversano.
Stante la mia ignoranza e la mia limitata memoria, la mostra di Palazzo Pallavicini mi consente - grazie alle oltre 100 fotografie esposte e ai tabelloni introduttivi (purtroppo funestati da numerosi refusi!) - di avvicinarmi a questo affascinante, tormentato e multiforme personaggio.
Lee Miller, segnata dal trauma di una violenza sessuale subita durante l'adolescenza, negli anni Venti - grazie alla conoscenza di Condé Nast - divenne una ricercata modella per le più importanti riviste di moda americane.
Ben presto però Lee manifestò il suo carattere irrequieto e insoddisfatto, sempre alla ricerca di sfide e ambienti nuovi, e così alla fine degli anni Venti si trasferì a Parigi per imparare la tecnica fotografica nello studio di Man Ray, arrivando ad aprire un proprio studio fotografico.
A questa fase appartengono le fotografie sperimentali e surrealiste, nonché i ritratti e gli scatti di moda.
Dopo qualche anno, la Miller torna a New York, ma è una breve parentesi, perché grazie al matrimonio con l'uomo d'affari egiziano Aziz Eloui Bey si trasferisce a Il Cairo e comincia a sperimentare la fotografia di reportage, genere che coltiva anche dopo la fine del matrimonio e l'avvicinamento a Roland Penrose, che diventerà il suo secondo marito e con cui viaggerà molto e scatterà anche molto.
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, Lee Miller persegue caparbiamente l'obiettivo di documentare la guerra diventando corrispondente accreditata presso le truppe americane. Questo consente alla fotografa di essere presente nei momenti cruciali del conflitto e di documentare situazioni molto significative. Di questo periodo è rimasto celebre il suo autoritratto nella vasca da bagno di Hitler.
Dopo la guerra, Lee Miller torna a New York con addosso le ferite e i traumi conseguenti, e a poco a poco si allontana dalla fotografia, rivolgendo progressivamente le sue energie alla cucina, che diventa la sua nuova passione e su cui pure ottiene numerosi riconoscimenti. In quest'ultima parte della sua vita le fotografie si fanno rare e documentano per lo più la presenza di famiglia e amici nella sua casa americana.
Al termine di questo percorso che impressiona - più che per le singole immagini (sebbene ce ne siano alcune particolarmente belle ed emozionanti) - per la varietà, la diversità e l'evoluzione dei suoi interessi e delle sue qualità fotografiche, resta di questa donna bellissima, vissuta al centro degli ambienti artistici europei e americani più significativi dagli anni Venti ai Cinquanta, la percezione di una donna fragile e forte al tempo stesso, tormentata e inquieta, desiderosa in ogni momento di vivere la vita al suo massimo grado, ma forse anche divorata da demoni interni difficili da interpretare.
Resta, su tutto, il segno delle sue fotografie che testimoniano uno sguardo lucido e attento, ma anche originale e obliquo rispetto a un mondo in profonda trasformazione come fu quello della prima metà del Novecento.
Voto: 3/5
Quando arrivo alla mostra, della Miller non so praticamente nulla (né mi ricordo di aver già visto delle sue fotografie nella mostra a Roma Scatti di guerra). Ricordavo solo qualcosa di vago rispetto al fatto che è stata musa, ispiratrice e collaboratrice di Man Ray. Quindi sapevo di dovermi aspettare una mostra sulla fotografia dei primordi e sulle sperimentazioni dei surrealisti, che già avevo avuto modo di conoscere quando avevo visitato la mostra di Man Ray a Conversano.
Stante la mia ignoranza e la mia limitata memoria, la mostra di Palazzo Pallavicini mi consente - grazie alle oltre 100 fotografie esposte e ai tabelloni introduttivi (purtroppo funestati da numerosi refusi!) - di avvicinarmi a questo affascinante, tormentato e multiforme personaggio.
Lee Miller, segnata dal trauma di una violenza sessuale subita durante l'adolescenza, negli anni Venti - grazie alla conoscenza di Condé Nast - divenne una ricercata modella per le più importanti riviste di moda americane.
Ben presto però Lee manifestò il suo carattere irrequieto e insoddisfatto, sempre alla ricerca di sfide e ambienti nuovi, e così alla fine degli anni Venti si trasferì a Parigi per imparare la tecnica fotografica nello studio di Man Ray, arrivando ad aprire un proprio studio fotografico.
A questa fase appartengono le fotografie sperimentali e surrealiste, nonché i ritratti e gli scatti di moda.
Dopo qualche anno, la Miller torna a New York, ma è una breve parentesi, perché grazie al matrimonio con l'uomo d'affari egiziano Aziz Eloui Bey si trasferisce a Il Cairo e comincia a sperimentare la fotografia di reportage, genere che coltiva anche dopo la fine del matrimonio e l'avvicinamento a Roland Penrose, che diventerà il suo secondo marito e con cui viaggerà molto e scatterà anche molto.
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, Lee Miller persegue caparbiamente l'obiettivo di documentare la guerra diventando corrispondente accreditata presso le truppe americane. Questo consente alla fotografa di essere presente nei momenti cruciali del conflitto e di documentare situazioni molto significative. Di questo periodo è rimasto celebre il suo autoritratto nella vasca da bagno di Hitler.
Dopo la guerra, Lee Miller torna a New York con addosso le ferite e i traumi conseguenti, e a poco a poco si allontana dalla fotografia, rivolgendo progressivamente le sue energie alla cucina, che diventa la sua nuova passione e su cui pure ottiene numerosi riconoscimenti. In quest'ultima parte della sua vita le fotografie si fanno rare e documentano per lo più la presenza di famiglia e amici nella sua casa americana.
Al termine di questo percorso che impressiona - più che per le singole immagini (sebbene ce ne siano alcune particolarmente belle ed emozionanti) - per la varietà, la diversità e l'evoluzione dei suoi interessi e delle sue qualità fotografiche, resta di questa donna bellissima, vissuta al centro degli ambienti artistici europei e americani più significativi dagli anni Venti ai Cinquanta, la percezione di una donna fragile e forte al tempo stesso, tormentata e inquieta, desiderosa in ogni momento di vivere la vita al suo massimo grado, ma forse anche divorata da demoni interni difficili da interpretare.
Resta, su tutto, il segno delle sue fotografie che testimoniano uno sguardo lucido e attento, ma anche originale e obliquo rispetto a un mondo in profonda trasformazione come fu quello della prima metà del Novecento.
Voto: 3/5
sabato 11 maggio 2019
Ancora un giorno
Quando la mia amica G. mi ha proposto di andare a vedere questo film non ne sapevo praticamente nulla, né mi era capitato di vederne il trailer. Così ho cominciato a cercare qualche informazione su Internet e ho capito immediatamente che si trattava di un'operazione cinematograficamente molto originale, in particolare per la commistione tra animazione e girato.
Le recensioni erano entusiastiche, nondimeno sono andata al cinema con qualche riserva, perché non sempre l'originalità è sinonimo di qualità e profondità. E invece il film mi ha conquistata.
Tratto dall'omonimo libro di Ryszard Kapuściński, il giornalista polacco che forse più di chiunque altro ha documentato e raccontato il terzo mondo dall'interno, Ancora un giorno è il racconto dell'esperienza del reporter in Angola nel 1975, subito dopo il crollo dell'impero coloniale portoghese e l'inizio della guerra civile tra il Movimento Popolare di Liberazione dell'Angola (MPLA) da una parte e il Fronte Nazionale di Liberazione dell'Angola (FNLA) e l'Unione Nazionale per l'Indipendenza Totale dell'Angola (UNITA) dall'altra.
Di fronte alla trasformazione dell'Angola in un terreno di scontro della guerra fredda, Kapuściński è animato dalla incrollabile volontà di comprendere dall'interno la situazione e le forze in campo e di andare nel sud del paese, dove il comandante Farrusco mantiene la posizione per il MPLA aiutato da un manipolo di guerriglieri contro l'avanzata dell'esercito sudafricano, che insieme agli Stati Uniti, sostiene il FNLA e l'UNITA.
Alla ricostruzione animata del viaggio di Kapuściński verso Sud si alternano le interviste ai protagonisti della storia ancora viventi: Artur, il giornalista che accompagna Kapuściński nel primo tratto di strada, Luis Alberto, un altro giornalista e cineoperatore che lo affianca in una seconda fase del viaggio, lo stesso comandante Farrusco. La memoria di coloro che invece hanno perso la vita durante questa orribile guerra civile che ha lasciato sul terreno migliaia e migliaia di morti e che è continuata fino al 2002 è infine affidata a immagini di repertorio, fotografie e video, come ad esempio nel caso della combattente del MPLA, Carlota, morta a due mesi dal compimento dei suoi vent'anni. Al suo ricordo e alla promessa fattale dopo che lei gli aveva salvato la vita, Kapuściński dedica la scrittura del libro sulla vicenda angolana, quasi fosse una vera e propria missione, nel tentativo di far conoscere al mondo storie, vicende e persone che altrimenti sarebbero rimaste completamente nell'ombra.
Dopo l'intervista a Farrusco e l'avanzata in Angola delle forze armate sudafricane, il film dà conto dell'Operación Carlota, ossia l'intervento delle forze armate rivoluzione di Cuba a sostegno del MPLA, contro Sudafrica e Stati Uniti, fino alla dichiarazione dell'indipendenza angolana, sebbene questo atto non costituì la fine delle ostilità.
Kapuściński appare invece consapevole che la vicenda angolana è rappresentativa di un processo in quel momento in corso a livello mondiale, a seguito della decolonizzazione, che avrebbe portato alla nascita del terzo mondo e a quella situazione di povertà, instabilità, guerra permanente che ancora oggi caratterizza molti di questi paesi.
Il film di Raúl de la Fuente e Damian Nenow ha lo straordinario appeal delle storie vere raccontate con passione e coinvolgimento emotivo e ha due meriti principali: innanzitutto quello di risvegliare l'attenzione e la curiosità sulla storia di paesi e realtà che noi occidentali conosciamo pochissimo e in cui si possono invece ricercare le radici di molti fenomeni del presente, in secondo luogo quello di farci conoscere meglio la figura di Kapuściński, la sua etica di giornalista, il suo senso di devozione al proprio lavoro, l'empatia con i mondi vissuti e raccontati e la sua continua battaglia contro la paura.
Un film assolutamente da vedere.
Voto: 4/5
Le recensioni erano entusiastiche, nondimeno sono andata al cinema con qualche riserva, perché non sempre l'originalità è sinonimo di qualità e profondità. E invece il film mi ha conquistata.
Tratto dall'omonimo libro di Ryszard Kapuściński, il giornalista polacco che forse più di chiunque altro ha documentato e raccontato il terzo mondo dall'interno, Ancora un giorno è il racconto dell'esperienza del reporter in Angola nel 1975, subito dopo il crollo dell'impero coloniale portoghese e l'inizio della guerra civile tra il Movimento Popolare di Liberazione dell'Angola (MPLA) da una parte e il Fronte Nazionale di Liberazione dell'Angola (FNLA) e l'Unione Nazionale per l'Indipendenza Totale dell'Angola (UNITA) dall'altra.
Di fronte alla trasformazione dell'Angola in un terreno di scontro della guerra fredda, Kapuściński è animato dalla incrollabile volontà di comprendere dall'interno la situazione e le forze in campo e di andare nel sud del paese, dove il comandante Farrusco mantiene la posizione per il MPLA aiutato da un manipolo di guerriglieri contro l'avanzata dell'esercito sudafricano, che insieme agli Stati Uniti, sostiene il FNLA e l'UNITA.
Alla ricostruzione animata del viaggio di Kapuściński verso Sud si alternano le interviste ai protagonisti della storia ancora viventi: Artur, il giornalista che accompagna Kapuściński nel primo tratto di strada, Luis Alberto, un altro giornalista e cineoperatore che lo affianca in una seconda fase del viaggio, lo stesso comandante Farrusco. La memoria di coloro che invece hanno perso la vita durante questa orribile guerra civile che ha lasciato sul terreno migliaia e migliaia di morti e che è continuata fino al 2002 è infine affidata a immagini di repertorio, fotografie e video, come ad esempio nel caso della combattente del MPLA, Carlota, morta a due mesi dal compimento dei suoi vent'anni. Al suo ricordo e alla promessa fattale dopo che lei gli aveva salvato la vita, Kapuściński dedica la scrittura del libro sulla vicenda angolana, quasi fosse una vera e propria missione, nel tentativo di far conoscere al mondo storie, vicende e persone che altrimenti sarebbero rimaste completamente nell'ombra.
Dopo l'intervista a Farrusco e l'avanzata in Angola delle forze armate sudafricane, il film dà conto dell'Operación Carlota, ossia l'intervento delle forze armate rivoluzione di Cuba a sostegno del MPLA, contro Sudafrica e Stati Uniti, fino alla dichiarazione dell'indipendenza angolana, sebbene questo atto non costituì la fine delle ostilità.
Kapuściński appare invece consapevole che la vicenda angolana è rappresentativa di un processo in quel momento in corso a livello mondiale, a seguito della decolonizzazione, che avrebbe portato alla nascita del terzo mondo e a quella situazione di povertà, instabilità, guerra permanente che ancora oggi caratterizza molti di questi paesi.
Il film di Raúl de la Fuente e Damian Nenow ha lo straordinario appeal delle storie vere raccontate con passione e coinvolgimento emotivo e ha due meriti principali: innanzitutto quello di risvegliare l'attenzione e la curiosità sulla storia di paesi e realtà che noi occidentali conosciamo pochissimo e in cui si possono invece ricercare le radici di molti fenomeni del presente, in secondo luogo quello di farci conoscere meglio la figura di Kapuściński, la sua etica di giornalista, il suo senso di devozione al proprio lavoro, l'empatia con i mondi vissuti e raccontati e la sua continua battaglia contro la paura.
Un film assolutamente da vedere.
Voto: 4/5
giovedì 9 maggio 2019
Edmond – Cyrano mon amour
Alexis Michalik è stato uno degli ospiti del Rendez-Vous, il festival del nuovo cinema francese che si è tenuto a Roma agli inizi di aprile. La sua presenza in Italia è collegata non solo all’inserimento del suo film Edmond nel programma del festival, ma anche alla sua uscita ufficiale nel nostro paese con il titolo di Cyrano mon amour.
Visto che al festival l’ho perso, ma ne ho sentito parlare un gran bene, durante le festività pasquali ho approfittato di una serata libera e della disponibilità e curiosità di mio nipote per recuperarlo, sebbene mi sia dovuta accontentare della versione doppiata.
Il film è la storia della genesi di uno dei più grandi capolavori della storia del teatro francese, Cyrano de Bergerac, che diede al suo autore ventinovenne, Edmond Rostand (qui interpretato da Thomas Solivérès), fino ad allora poco conosciuto e soprattutto poco amato a causa del suo manierismo, fama imperitura.
Il film inizia nel momento in cui l’opera di Rostand dal titolo La princesse lointaine è in scena a Parigi interpretata dalla sua amica nonché famosa attrice Sarah Bernhardt. Si tratta di un’opera in versi certamente di qualità, ma poco accattivante per il pubblico che infatti la diserta nonostante l’interpretazione della Bernhardt.
Intanto Edmond, che ha una moglie e due figli, fa fatica a trovare nuova ispirazione e deve fare i conti con la difficoltà economica di mandare avanti la sua famiglia. Un giorno l’attore Constant Coquelin (Olivier Gourmet) gli chiede di scrivere una commedia che lui possa interpretare e trova anche i finanziatori per la sua messa in scena al Théâtre de la Porte Saint Martin. Prima l’incontro con Coquelin e poi quello con la giovane Jeanne, la costumista amata dall’amico attore Léo, saranno la miccia capace di riaccendere la fantasia di Edmond e di sciogliere i suoi versi.
In un intreccio inscindibile tra vita e teatro, Edmond – circondato da una compagnia teatrale che è quasi una corte dei miracoli – darà vita alla figura indimenticabile dello spadaccino-poeta con il lunghissimo naso e l’amore per i giochi di parole, che – innamorato senza speranza di Rossana – accetta di aiutare il bel Cristiano a usare le parole giuste per conquistare la giovane. Dopo la morte in battaglia di Cristiano, Rossana si ritira in convento, mentre l’amicizia con Cyrano prosegue senza che lei abbia alcun sospetto dell’amore di quest’ultimo. Solo quando Cyrano starà per morire Rossana comprenderà la verità ma a quel punto sarà troppo tardi per cambiare il corso della loro vicenda umana.
Il film di Michalik (in cui il regista si ritaglia la parte del commediografo rivale di Edmond, George Feydeau) è un omaggio divertito e scoppiettante al genio un po’ imbranato di Edmond, ma anche al teatro in sé e alla magia ch’esso – nei suoi esiti migliori – è in grado di creare trasformando la vita delle persone, autori, attori e spettatori.
La prima rappresentazione di Cyrano nel 1897 – quando si cominciava a pensare che il cinema avrebbe soppiantato il teatro - ebbe un successo straordinario, con oltre 20 minuti di applausi e 40 chiamate in scena, e valse a Edmond Rostand la legion d’onore; ma la cosa veramente incredibile è che il Cyrano de Bergerac non ha mai smesso di essere rappresentato al teatro e al cinema, interpretato dai migliori attori del mondo, in francese e in moltissime altre lingue, e ha continuato a divertire, intrigare e commuovere gli spettatori di tutto il mondo.
Persino mio nipote diciassettenne che mai aveva sentito parlare di Edmond Rostand e di Cyrano de Bergerac si è fatto conquistare da questa storia fatta di amicizia, di amore e di lealtà, a conferma della sua straordinaria vitalità senza tempo e della capacità di raggiungere i pubblici più diversi, cui si aggiunge in questo caso il merito registico di Michalik.
Cyrano mon amour è uno di quei film che ti riconciliano con il cinema, con il teatro e con l’arte in generale, e ti fanno pensare e sperare ch’essi abbiano ancora una lunghissima vita davanti.
Voto: 3,5/5
Visto che al festival l’ho perso, ma ne ho sentito parlare un gran bene, durante le festività pasquali ho approfittato di una serata libera e della disponibilità e curiosità di mio nipote per recuperarlo, sebbene mi sia dovuta accontentare della versione doppiata.
Il film è la storia della genesi di uno dei più grandi capolavori della storia del teatro francese, Cyrano de Bergerac, che diede al suo autore ventinovenne, Edmond Rostand (qui interpretato da Thomas Solivérès), fino ad allora poco conosciuto e soprattutto poco amato a causa del suo manierismo, fama imperitura.
Il film inizia nel momento in cui l’opera di Rostand dal titolo La princesse lointaine è in scena a Parigi interpretata dalla sua amica nonché famosa attrice Sarah Bernhardt. Si tratta di un’opera in versi certamente di qualità, ma poco accattivante per il pubblico che infatti la diserta nonostante l’interpretazione della Bernhardt.
Intanto Edmond, che ha una moglie e due figli, fa fatica a trovare nuova ispirazione e deve fare i conti con la difficoltà economica di mandare avanti la sua famiglia. Un giorno l’attore Constant Coquelin (Olivier Gourmet) gli chiede di scrivere una commedia che lui possa interpretare e trova anche i finanziatori per la sua messa in scena al Théâtre de la Porte Saint Martin. Prima l’incontro con Coquelin e poi quello con la giovane Jeanne, la costumista amata dall’amico attore Léo, saranno la miccia capace di riaccendere la fantasia di Edmond e di sciogliere i suoi versi.
In un intreccio inscindibile tra vita e teatro, Edmond – circondato da una compagnia teatrale che è quasi una corte dei miracoli – darà vita alla figura indimenticabile dello spadaccino-poeta con il lunghissimo naso e l’amore per i giochi di parole, che – innamorato senza speranza di Rossana – accetta di aiutare il bel Cristiano a usare le parole giuste per conquistare la giovane. Dopo la morte in battaglia di Cristiano, Rossana si ritira in convento, mentre l’amicizia con Cyrano prosegue senza che lei abbia alcun sospetto dell’amore di quest’ultimo. Solo quando Cyrano starà per morire Rossana comprenderà la verità ma a quel punto sarà troppo tardi per cambiare il corso della loro vicenda umana.
Il film di Michalik (in cui il regista si ritaglia la parte del commediografo rivale di Edmond, George Feydeau) è un omaggio divertito e scoppiettante al genio un po’ imbranato di Edmond, ma anche al teatro in sé e alla magia ch’esso – nei suoi esiti migliori – è in grado di creare trasformando la vita delle persone, autori, attori e spettatori.
La prima rappresentazione di Cyrano nel 1897 – quando si cominciava a pensare che il cinema avrebbe soppiantato il teatro - ebbe un successo straordinario, con oltre 20 minuti di applausi e 40 chiamate in scena, e valse a Edmond Rostand la legion d’onore; ma la cosa veramente incredibile è che il Cyrano de Bergerac non ha mai smesso di essere rappresentato al teatro e al cinema, interpretato dai migliori attori del mondo, in francese e in moltissime altre lingue, e ha continuato a divertire, intrigare e commuovere gli spettatori di tutto il mondo.
Persino mio nipote diciassettenne che mai aveva sentito parlare di Edmond Rostand e di Cyrano de Bergerac si è fatto conquistare da questa storia fatta di amicizia, di amore e di lealtà, a conferma della sua straordinaria vitalità senza tempo e della capacità di raggiungere i pubblici più diversi, cui si aggiunge in questo caso il merito registico di Michalik.
Cyrano mon amour è uno di quei film che ti riconciliano con il cinema, con il teatro e con l’arte in generale, e ti fanno pensare e sperare ch’essi abbiano ancora una lunghissima vita davanti.
Voto: 3,5/5
martedì 7 maggio 2019
Rafiki. Immaginaria, Festival internazionale del cinema delle donne, Nuovo cinema Aquila
Quest'anno non riesco a garantire una presenza assidua ad Immaginaria, il Festival internazionale del cinema delle donne, pur avendolo sostenuto con una donazione che mi avrebbe consentito l'accesso a tutte le giornate. Complici altri impegni e un tempo veramente pazzo, con acquazzoni improvvisi di tipo monsonico, mi affaccio solo alla conclusione per la proiezione del lungometraggio vincitore di quest'anno.
Si tratta di Rafiki (Amica), il film diretto dal regista keniota Wanuri Kahiu, la cui sceneggiatura è basata sul libro Jambula Tree e altre storie di Monica Arac de Nyeko.
Il film di Kahiu racconta una storia che nell'universo LGBT è stata già vista e sentita in tutte le varianti possibili e immaginabili. Due ragazze adolescenti si innamorano più o meno per caso e scoprono la magia di questo sentimento. Quando però la loro relazione viene scoperta dalle famiglie e dalla società, essa viene fortemente ostacolata e le stesse ragazze - trovandosi a fronteggiare qualcosa di più grande di loro - si allontanano.
Sebbene dunque la storia raccontata in Rafiki non sia certo originale, risulta invece certamente originale il contesto nel quale è ambientata. Le protagoniste, Kena (Samantha Mugatsia) e Ziki (Sheila Munyiva), sono due ragazze che vivono alla periferia di Nairobi. La prima, i cui genitori sono separati, vive con la madre e aiuta il padre John - che è anche candidato alle elezioni locali - nella gestione di un negozio di alimentari. Trascorre le sue giornate in giro per il quartiere con il suo skateboard, ovvero chiacchierando al chiosco di Madam Atim con i suoi amici, tra cui Blacksta, che è innamorato di lei, o ancora partecipando alle loro partitelle di calcio. Ziki, il cui padre pure è candidato alle elezioni locali, trascorre invece le sue giornate improvvisando coreografie per strada con due amiche.
La prima è timida e un po' mascolina, l'altra ha un'acconciatura molto elaborata e colorata, le unghie laccate ed è molto femminile.
Nelle loro vite riconosciamo dunque quelle degli adolescenti di tutto il mondo, ma intorno a loro c'è molto di diverso: innanzitutto una città di cui si vede da lontano un centro moderno e tecnologico ma le cui periferie, anche quella dove vivono Kena e Ziki - che pure è una periferia da ceto medio - è caratterizzata da strade non asfaltate, pali della luce con fili pendenti e baracche che si alternano a case in muratura; in secondo luogo una vita del quartiere che ruota intorno alla chiesa e alle omelie del parroco e dove si respira un'atmosfera fortemente omofobica; in terzo luogo, un amore sconfinato per i colori e per le fantasie sgargianti che i protagonisti del film indossano ma di cui tappezzano anche gli interni delle case; infine, una comunicazione che oscilla continuamente tra l'uso della lingua locale, lo swahili, e l'inglese.
Rafiki diventa dunque l'occasione di gettare lo sguardo su una realtà, quella di una grande città africana com'è Nairobi, che conosciamo poco o che comunque conosciamo solo nel suo volto di povertà e disperazione. Qui invece ci troviamo in un mondo e in uno stile di vita che è riconoscibile per qualunque occidentale, che non farà dunque fatica a immedesimarsi nei sentimenti di Kena e Ziki o comunque a ricondurre loro e gli altri personaggi del film a figure vicine alla propria realtà.
Per questo fa ancora più male trovarsi di fronte a un certo punto del film, quando l'amore tra Kena e Ziki viene scoperto dalla comunità, a un vero e proprio linciaggio pubblico e all'arresto delle due ragazze, accusate di quello che in Kenia è ancora un reato punibile con 14 anni di carcere.
Qui il regista ha voluto regalare alla storia un possibile lieto fine (tra l'altro - pare - fortemente contestato in patria), ma è indubbio che la tematica omosessuale rappresenta ancora un tema bandito da questa società. Non a caso lo stesso film ha dovuto combattere una lunga battaglia prima per poter essere realizzato (cosa che è stata possibile solo grazie a finanziamenti arrivati dall'Europa e dagli Stati Uniti) e poi per poter essere distribuito, in particolare in patria, dove era stato inizialmente messo al bando.
Ben vengano dunque film come Rafiki che con il loro tocco leggero e la delicatezza con cui affrontano temi scomodi in patria permettono di gettare luce su realtà che non conosciamo e di sensibilizzare connazionali e pubblico straniero su contesti in cui c'è ancora tanta strada da fare per garantire il diritto alle persone di amare chi desiderano.
Voto: 3,5/5
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Si tratta di Rafiki (Amica), il film diretto dal regista keniota Wanuri Kahiu, la cui sceneggiatura è basata sul libro Jambula Tree e altre storie di Monica Arac de Nyeko.
Il film di Kahiu racconta una storia che nell'universo LGBT è stata già vista e sentita in tutte le varianti possibili e immaginabili. Due ragazze adolescenti si innamorano più o meno per caso e scoprono la magia di questo sentimento. Quando però la loro relazione viene scoperta dalle famiglie e dalla società, essa viene fortemente ostacolata e le stesse ragazze - trovandosi a fronteggiare qualcosa di più grande di loro - si allontanano.
Sebbene dunque la storia raccontata in Rafiki non sia certo originale, risulta invece certamente originale il contesto nel quale è ambientata. Le protagoniste, Kena (Samantha Mugatsia) e Ziki (Sheila Munyiva), sono due ragazze che vivono alla periferia di Nairobi. La prima, i cui genitori sono separati, vive con la madre e aiuta il padre John - che è anche candidato alle elezioni locali - nella gestione di un negozio di alimentari. Trascorre le sue giornate in giro per il quartiere con il suo skateboard, ovvero chiacchierando al chiosco di Madam Atim con i suoi amici, tra cui Blacksta, che è innamorato di lei, o ancora partecipando alle loro partitelle di calcio. Ziki, il cui padre pure è candidato alle elezioni locali, trascorre invece le sue giornate improvvisando coreografie per strada con due amiche.
La prima è timida e un po' mascolina, l'altra ha un'acconciatura molto elaborata e colorata, le unghie laccate ed è molto femminile.
Nelle loro vite riconosciamo dunque quelle degli adolescenti di tutto il mondo, ma intorno a loro c'è molto di diverso: innanzitutto una città di cui si vede da lontano un centro moderno e tecnologico ma le cui periferie, anche quella dove vivono Kena e Ziki - che pure è una periferia da ceto medio - è caratterizzata da strade non asfaltate, pali della luce con fili pendenti e baracche che si alternano a case in muratura; in secondo luogo una vita del quartiere che ruota intorno alla chiesa e alle omelie del parroco e dove si respira un'atmosfera fortemente omofobica; in terzo luogo, un amore sconfinato per i colori e per le fantasie sgargianti che i protagonisti del film indossano ma di cui tappezzano anche gli interni delle case; infine, una comunicazione che oscilla continuamente tra l'uso della lingua locale, lo swahili, e l'inglese.
Rafiki diventa dunque l'occasione di gettare lo sguardo su una realtà, quella di una grande città africana com'è Nairobi, che conosciamo poco o che comunque conosciamo solo nel suo volto di povertà e disperazione. Qui invece ci troviamo in un mondo e in uno stile di vita che è riconoscibile per qualunque occidentale, che non farà dunque fatica a immedesimarsi nei sentimenti di Kena e Ziki o comunque a ricondurre loro e gli altri personaggi del film a figure vicine alla propria realtà.
Per questo fa ancora più male trovarsi di fronte a un certo punto del film, quando l'amore tra Kena e Ziki viene scoperto dalla comunità, a un vero e proprio linciaggio pubblico e all'arresto delle due ragazze, accusate di quello che in Kenia è ancora un reato punibile con 14 anni di carcere.
Qui il regista ha voluto regalare alla storia un possibile lieto fine (tra l'altro - pare - fortemente contestato in patria), ma è indubbio che la tematica omosessuale rappresenta ancora un tema bandito da questa società. Non a caso lo stesso film ha dovuto combattere una lunga battaglia prima per poter essere realizzato (cosa che è stata possibile solo grazie a finanziamenti arrivati dall'Europa e dagli Stati Uniti) e poi per poter essere distribuito, in particolare in patria, dove era stato inizialmente messo al bando.
Ben vengano dunque film come Rafiki che con il loro tocco leggero e la delicatezza con cui affrontano temi scomodi in patria permettono di gettare luce su realtà che non conosciamo e di sensibilizzare connazionali e pubblico straniero su contesti in cui c'è ancora tanta strada da fare per garantire il diritto alle persone di amare chi desiderano.
Voto: 3,5/5
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