Il corso dell’amore / Alain de Botton; trad. di Elisa Banfi. Milano: Guanda, 2016.
Probabilmente molti conoscono de Botton per la serie di video School of life che vengono pubblicati periodicamente sul sito dell'Internazionale. Se siete dei fedelissimi di questi video, probabilmente anche molti dei contenuti e delle riflessioni presenti in questo libro non vi sorprenderanno.
Diciamo che la differenza in questo caso sta nel fatto che ci troviamo di fronte a un romanzo.
Il corso dell'amore è infatti la storia di Rabih e Kirsten, raccontata prevalentemente dal punto di vista di Rabih; in particolare de Botton ci dice come la loro storia d'amore è nata, è cresciuta, li ha portati al matrimonio e a fare dei figli. L'obiettivo esplicito fin dal principio è mostrare - cosa che di solito la letteratura e le arti non fanno - il "corso" dell'amore e non solo il suo inizio, che spesso viene confuso o volutamente presentato come l'amore tout court. È infatti solo mostrando questo "corso" che - secondo l'autore - si capirà quanto una relazione duratura e monogamica tra due persone sia complicata e molto meno "naturale" e "istintiva" di quanto siamo portati a pensare.
A dire la verità, quello di de Botton è un romanzo sui generis, visto che è evidente fin dal principio che la fiction è puramente funzionale a una riflessione psicologica e sociologica. Probabilmente questo è l'aspetto più fastidioso del libro, dal momento che le vicende della vita di Rabih e Kirsten sono evidentemente una scusa per riflettere su temi più generali e universali e i due protagonisti sono al contempo straordinariamente veri ma anche profondamente falsi, in quanto piegati - sul piano evenemenziale più che su quello dei sentimenti - alle necessità dell'arringa di de Botton.
Questo aspetto potrebbe essere - per i lettori di romanzi "veri" - talmente irritante da far abbandonare la lettura; ma se si riesce ad entrare nelle intenzioni dello scrittore e nello spirito del libro, allora se ne potrà cogliere il vero potenziale per il lettore, ossia quello di riconoscersi - a volte parzialmente a volte totalmente - nei pensieri, nelle contraddizioni, nelle difficoltà affettive dei protagonisti.
Il corso dell'amore ci mette a nudo, sottraendo l'amore (non solo quello di coppia, bensì anche quello tra genitori e figli) a quel velo di superficiale romanticismo che soprattutto nell'ultimo secolo lo ha ricoperto, nonché a quell'aspettativa di connessione di anime, di complementarità automatica, di promessa di felicità "per sempre" che soprattutto negli ultimi decenni ha profondamente inquinato il nostro modo di vivere i sentimenti.
Siamo esseri complicati, in cui l'evoluzione biologica non è perfettamente allineata con quella sociale e in alcuni casi i bisogni del nostro sentire (e dunque del nostro cervello) sono in contraddizione gli uni con gli altri. L'amore, secondo de Botton, ha un corso che tende a ripetersi entro certi limiti sempre e per tutti, indipendentemente dalle persone coinvolte. Cosa che potrebbe destabilizzarci al punto da farci rifiutare questa idea o, in fondo, rasserenarci nell'idea che non siamo sbagliati, o se siamo sbagliati, allora siamo tutti sbagliati e tutti un po' folli.
Dunque l'amore è una scelta, sempre, e come tutte le scelte talvolta è dolorosa, talvolta è liberatoria, talvolta è piacevole, ma comporta sempre di lasciare da parte - almeno temporaneamente - ciò che non abbiamo scelto.
Voto: 3,5/5
mercoledì 26 aprile 2017
venerdì 21 aprile 2017
La vendetta di un uomo tranquillo
Già da qualche settimana volevo andare a vedere questo film, ma a Roma non era mai arrivato il momento giusto. E così durante la mia breve vacanza pasquale in Puglia scopro con mia grande sorpresa che il film è in programmazione nel cinema del mio paese e, quando manifesto la mia intenzione di andare a vederlo, i miei due nipoti più piccoli, F. e G., aderiscono entusiasticamente anche se l'orario non è affatto dei più comodi.
Così ci ritroviamo in sei in tutto in sala e io tra un nipote con popcorn da un lato e l'altro nipote con patatine e coca cola dall'altro. Sono un po' preoccupata perché non so se il film sarà adatto a loro oppure se si scocceranno e, invece, incredibilmente La vendetta di un uomo tranquillo conquista anche loro.
Il film è una specie di thriller in salsa spagnola, quindi pur avendo tutte le caratteristiche tipiche del genere, mantiene una profonda identità geografica e culturale, sia per i paesaggi e le ambientazioni, sia per la struttura e la modalità narrativa.
Come spesso accade, il titolo in italiano – pur non essendo orribile – è un tentativo mal riuscito, perché in qualche modo rivela passaggi della trama che sarebbe stato meglio tenere sotto silenzio, errore certamente non imputabile al titolo spagnolo, Tarde para la ira.
Della storia del film, per evitare appunto di togliere il piacere della scoperta durante la visione, possiamo dire che tutto comincia con una rapina a una gioielleria, in cui Curro (Luis Callejo), che fa il piantone per i complici, finisce catturato dalla polizia e dunque in carcere per otto anni. Questo però è solo il prologo. Perché il film si svolge otto anni dopo quando Curro sta per uscire di prigione e la sua compagna Ana (Ruth Díaz) e suo figlio lo aspettano. Ana gestisce un bar insieme a suo fratello Juanco, dove uno dei clienti abituali è Josè (Antonio de la Torre), un uomo taciturno e tranquillo che sembra attratto particolarmente da Ana e prova a sedurla.
Il resto è il cuore del film e quindi vi consiglio di andarlo a vedere, anche solo per apprezzare il modo allo stesso tempo classico e moderno, sobrio e sfacciato, con cui una storia di questo genere (certamente basata anche sull'azione, ma anche e soprattutto sulla complessità delle dinamiche psicologiche individuali) viene trattata dall'attore e cineasta spagnolo Raul Arèvalo.
La vendetta di un uomo tranquillo è uno di quei film che vanno visti per contribuire alla propria individuale “filmodiversità”, cioè l'essere esposti a film di tipi diversi e con provenienze e linguaggi diversi per non inaridire il proprio gusto cinematografico. E da questo punto di vista sono contenta di averci portato i nipoti, primariamente attratti da film d'azione, di guerra e di fantascienza (com'è normale che sia eh...)
Voto: 3,5/5
Così ci ritroviamo in sei in tutto in sala e io tra un nipote con popcorn da un lato e l'altro nipote con patatine e coca cola dall'altro. Sono un po' preoccupata perché non so se il film sarà adatto a loro oppure se si scocceranno e, invece, incredibilmente La vendetta di un uomo tranquillo conquista anche loro.
Il film è una specie di thriller in salsa spagnola, quindi pur avendo tutte le caratteristiche tipiche del genere, mantiene una profonda identità geografica e culturale, sia per i paesaggi e le ambientazioni, sia per la struttura e la modalità narrativa.
Come spesso accade, il titolo in italiano – pur non essendo orribile – è un tentativo mal riuscito, perché in qualche modo rivela passaggi della trama che sarebbe stato meglio tenere sotto silenzio, errore certamente non imputabile al titolo spagnolo, Tarde para la ira.
Della storia del film, per evitare appunto di togliere il piacere della scoperta durante la visione, possiamo dire che tutto comincia con una rapina a una gioielleria, in cui Curro (Luis Callejo), che fa il piantone per i complici, finisce catturato dalla polizia e dunque in carcere per otto anni. Questo però è solo il prologo. Perché il film si svolge otto anni dopo quando Curro sta per uscire di prigione e la sua compagna Ana (Ruth Díaz) e suo figlio lo aspettano. Ana gestisce un bar insieme a suo fratello Juanco, dove uno dei clienti abituali è Josè (Antonio de la Torre), un uomo taciturno e tranquillo che sembra attratto particolarmente da Ana e prova a sedurla.
Il resto è il cuore del film e quindi vi consiglio di andarlo a vedere, anche solo per apprezzare il modo allo stesso tempo classico e moderno, sobrio e sfacciato, con cui una storia di questo genere (certamente basata anche sull'azione, ma anche e soprattutto sulla complessità delle dinamiche psicologiche individuali) viene trattata dall'attore e cineasta spagnolo Raul Arèvalo.
La vendetta di un uomo tranquillo è uno di quei film che vanno visti per contribuire alla propria individuale “filmodiversità”, cioè l'essere esposti a film di tipi diversi e con provenienze e linguaggi diversi per non inaridire il proprio gusto cinematografico. E da questo punto di vista sono contenta di averci portato i nipoti, primariamente attratti da film d'azione, di guerra e di fantascienza (com'è normale che sia eh...)
Voto: 3,5/5
mercoledì 19 aprile 2017
Les habitants
Ed eccomi all’ultimo film del mio personale Rendez Vous con il nuovo cinema francese.
È una luminosissima domenica pomeriggio di aprile e io sono ancora una volta al Fiamma per vedere in questo caso un documentario di Raymond Depardon, non solo regista cinematografico, ma anche fotoreporter (e si vede! Poi vi dirò in che senso).
La sua voce fuori campo ci spiega, sulle prime immagini del film, che questo lavoro nasce dalla sua decisione di risistemare una vecchia roulotte e attrezzarla con telecamera e microfoni e di andare in giro per la Francia, da Nord a Sud, da Est a Ovest, fermandosi nelle piazze, nei giardini e nelle strade dei paesi e delle città, per raccontare la Francia e i francesi in presa diretta.
In pratica la sfida di Depardon è far continuare le conversazioni che avvengono per strada intorno a un tavolo all’interno della roulotte, senza interferire con domande o altro, ma solamente lasciando che le persone si facciano trasportare dal dialogo tra di loro.
Una specie di esperimento sociologico, che ovviamente per la sua non scientificità e per il metodo prescelto non è rappresentativo di nulla se non di quello che mostra sullo schermo, ma che certamente getta uno sguardo realistico su dinamiche e rapporti declinati in vari modi (amiche, amici, mariti e mogli, fidanzati, padri e figli, madri e figli, giovani, ragazzini, adulti, anziani, bianchi, neri, mediorientali). La situazione potrà sembrare artificiosa, ma come accade per il fotografo che più sta in un luogo più diventa invisibile e dunque riesce a coglierne lo spirito, così – nel caso di Les habitants – queste conversazioni, che a volte iniziano imbarazzate, progressivamente si sciolgono e diventano davvero spontanee e realistiche.
In queste conversazioni a due si parla di tutto: della difficoltà dei rapporti di coppia, della religione, degli immigrati, del sesso, delle paure, delle aspirazioni, della guerra tra i sessi, delle difficoltà della vita, della solitudine, dell’amore, dell’amicizia, della società. Cosicché ne viene fuori sì un ritratto della società francese di oggi, ma forse più in generale un ritratto della società occidentale contemporanea, perché non facciamo fatica a riconoscere in questi frammenti di dialoghi situazioni che avremmo potuto vivere o ascoltare anche da noi.
Dal punto di vista strettamente cinematografico la scelta di Depardon è molto rigorosa e in un certo senso rispecchia il suo approccio da fotoreporter. Si alternano infatti tre tipi di immagini: il girato della roulotte vista alle spalle che attraversa le strade e i paesi, l’immagine fissa della roulotte vista di fianco parcheggiata nel paese in questione, il girato delle due persone sedute al tavolo della roulotte vicino al finestrino che parlano tra di loro. Tendenzialmente, salvo pochissime eccezioni (che devo dire un po’ interrompono il flusso ordinato del documentario) il frammento di conversazione che ci viene mostrato non ha montaggio, bensì è uno scambio continuo tra i protagonisti che il regista decide di proporci per intero.
Un’operazione quella di Depardon decisamente bizzarra, ma che - devo ammettere - su di me ha esercitato un certo fascino, al punto tale che al nero dello schermo dopo l’ultima conversazione a due sono rimasta quasi interdetta perché a quel punto ne avrei ascoltate molte di più!
Voto: 3/5
È una luminosissima domenica pomeriggio di aprile e io sono ancora una volta al Fiamma per vedere in questo caso un documentario di Raymond Depardon, non solo regista cinematografico, ma anche fotoreporter (e si vede! Poi vi dirò in che senso).
La sua voce fuori campo ci spiega, sulle prime immagini del film, che questo lavoro nasce dalla sua decisione di risistemare una vecchia roulotte e attrezzarla con telecamera e microfoni e di andare in giro per la Francia, da Nord a Sud, da Est a Ovest, fermandosi nelle piazze, nei giardini e nelle strade dei paesi e delle città, per raccontare la Francia e i francesi in presa diretta.
In pratica la sfida di Depardon è far continuare le conversazioni che avvengono per strada intorno a un tavolo all’interno della roulotte, senza interferire con domande o altro, ma solamente lasciando che le persone si facciano trasportare dal dialogo tra di loro.
Una specie di esperimento sociologico, che ovviamente per la sua non scientificità e per il metodo prescelto non è rappresentativo di nulla se non di quello che mostra sullo schermo, ma che certamente getta uno sguardo realistico su dinamiche e rapporti declinati in vari modi (amiche, amici, mariti e mogli, fidanzati, padri e figli, madri e figli, giovani, ragazzini, adulti, anziani, bianchi, neri, mediorientali). La situazione potrà sembrare artificiosa, ma come accade per il fotografo che più sta in un luogo più diventa invisibile e dunque riesce a coglierne lo spirito, così – nel caso di Les habitants – queste conversazioni, che a volte iniziano imbarazzate, progressivamente si sciolgono e diventano davvero spontanee e realistiche.
In queste conversazioni a due si parla di tutto: della difficoltà dei rapporti di coppia, della religione, degli immigrati, del sesso, delle paure, delle aspirazioni, della guerra tra i sessi, delle difficoltà della vita, della solitudine, dell’amore, dell’amicizia, della società. Cosicché ne viene fuori sì un ritratto della società francese di oggi, ma forse più in generale un ritratto della società occidentale contemporanea, perché non facciamo fatica a riconoscere in questi frammenti di dialoghi situazioni che avremmo potuto vivere o ascoltare anche da noi.
Dal punto di vista strettamente cinematografico la scelta di Depardon è molto rigorosa e in un certo senso rispecchia il suo approccio da fotoreporter. Si alternano infatti tre tipi di immagini: il girato della roulotte vista alle spalle che attraversa le strade e i paesi, l’immagine fissa della roulotte vista di fianco parcheggiata nel paese in questione, il girato delle due persone sedute al tavolo della roulotte vicino al finestrino che parlano tra di loro. Tendenzialmente, salvo pochissime eccezioni (che devo dire un po’ interrompono il flusso ordinato del documentario) il frammento di conversazione che ci viene mostrato non ha montaggio, bensì è uno scambio continuo tra i protagonisti che il regista decide di proporci per intero.
Un’operazione quella di Depardon decisamente bizzarra, ma che - devo ammettere - su di me ha esercitato un certo fascino, al punto tale che al nero dello schermo dopo l’ultima conversazione a due sono rimasta quasi interdetta perché a quel punto ne avrei ascoltate molte di più!
Voto: 3/5
lunedì 17 aprile 2017
Personal shopper
Secondo appuntamento con Rendez vous, il festival del cinema francese, per vedere il nuovo film di Olivier Assayas, il regista francese di origine greca di cui pensavo di aver visto solo Sils Maria e, invece, grazie al blog, scopro di aver visto anche Qualcosa nell’aria – Après Mai.
A rileggere le recensioni che avevo scritto a suo tempo appare evidente che io e il caro Assayas difficilmente siamo sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda. Per dirla meglio, alcune caratteristiche della sua poetica cinematografica mi affascinano, in particolare l’ambiguità narrativa che è capace di conferire alle sue storie, storie che però alla fine mi appaiono eccessivamente artefatte per risultare davvero interessanti e coinvolgenti.
Un po’ la stessa cosa mi è successo con Personal shopper. Ancora una volta Assayas lavora con Kristen Stewart, che da quanto lo stesso regista ci racconta in sala alla fine del film, è evidente che sia diventata la sua nuova musa ispiratrice. Assayas ha parole estremamente lusinghiere verso la Stewart che non solo considera una grande attrice, al punto che, dopo averci lavorato in Sils Maria, le offre un ruolo da protagonista, ma anche una donna dotata di grandi qualità e capacità ancora non del tutto espresse.
Va detto che la Stewart è perfetta nel ruolo che le viene assegnato e interpreta appieno quel senso di ambiguità e mistero che il film di Assayas vuole trasmetterci.
La protagonista del film, Maureen, vive a Parigi e fa appunto la personal shopper per una celebrità nel settore della moda, però è anche una medium che da qualche mese ha perso il fratello gemello Lewis, morto per una malformazione cardiaca.
Il film si sviluppa sostanzialmente su due assi narrativi. Da un lato il tentativo di Maureen di mettersi in contatto con il fratello morto, che ha sempre sostenuto esserci un aldilà rispetto al quale la sorella invece è scettica; dall’altro la fascinazione un po’ morbosa e inspiegabile di Maureen verso la donna di cui fa l’assistente e che in qualche modo rappresenta tutto quello che lei non è, a partire dai vestiti che indossa.
Questi due assi narrativi sono destinati a incontrarsi e in qualche modo a scontrarsi nel momento in cui la realtà e il soprannaturale si mescolano fino a diventare indistinguibili, costringendo Maureen a fare i conti con l’inspiegabile e a prendere delle decisioni.
A dire la verità, è piuttosto difficile spiegare la trama di Personal shopper, che a me è sembrata nel complesso piuttosto sconclusionata, infarcita di dettagli didascalici certamente interessanti ma piuttosto fastidiosi (per esempio le parentesi dedicate alla fascinazione di Victor Hugo per lo spiritismo e la figura dell’artista Hilma af Klint che anticipò l’astrattismo probabilmente grazie ai suoi contatti con le correnti esoteriche), nonché caratterizzata dal mescolarsi di riferimenti a generi cinematografici diversi, dall’horror al ghost movie tradizionale, al thriller, al giallo psicologico ecc.
Il risultato è fin troppo compiaciuto, ma - dal mio personale punto di vista - incapace di portare a sintesi i numerosi filoni narrativi e gli spunti cinematografici di cui la pellicola è infarcita, al punto da risultare privo di identità e deludente - almeno per me - alla visione.
Voto: 2,5/5
A rileggere le recensioni che avevo scritto a suo tempo appare evidente che io e il caro Assayas difficilmente siamo sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda. Per dirla meglio, alcune caratteristiche della sua poetica cinematografica mi affascinano, in particolare l’ambiguità narrativa che è capace di conferire alle sue storie, storie che però alla fine mi appaiono eccessivamente artefatte per risultare davvero interessanti e coinvolgenti.
Un po’ la stessa cosa mi è successo con Personal shopper. Ancora una volta Assayas lavora con Kristen Stewart, che da quanto lo stesso regista ci racconta in sala alla fine del film, è evidente che sia diventata la sua nuova musa ispiratrice. Assayas ha parole estremamente lusinghiere verso la Stewart che non solo considera una grande attrice, al punto che, dopo averci lavorato in Sils Maria, le offre un ruolo da protagonista, ma anche una donna dotata di grandi qualità e capacità ancora non del tutto espresse.
Va detto che la Stewart è perfetta nel ruolo che le viene assegnato e interpreta appieno quel senso di ambiguità e mistero che il film di Assayas vuole trasmetterci.
La protagonista del film, Maureen, vive a Parigi e fa appunto la personal shopper per una celebrità nel settore della moda, però è anche una medium che da qualche mese ha perso il fratello gemello Lewis, morto per una malformazione cardiaca.
Il film si sviluppa sostanzialmente su due assi narrativi. Da un lato il tentativo di Maureen di mettersi in contatto con il fratello morto, che ha sempre sostenuto esserci un aldilà rispetto al quale la sorella invece è scettica; dall’altro la fascinazione un po’ morbosa e inspiegabile di Maureen verso la donna di cui fa l’assistente e che in qualche modo rappresenta tutto quello che lei non è, a partire dai vestiti che indossa.
Questi due assi narrativi sono destinati a incontrarsi e in qualche modo a scontrarsi nel momento in cui la realtà e il soprannaturale si mescolano fino a diventare indistinguibili, costringendo Maureen a fare i conti con l’inspiegabile e a prendere delle decisioni.
A dire la verità, è piuttosto difficile spiegare la trama di Personal shopper, che a me è sembrata nel complesso piuttosto sconclusionata, infarcita di dettagli didascalici certamente interessanti ma piuttosto fastidiosi (per esempio le parentesi dedicate alla fascinazione di Victor Hugo per lo spiritismo e la figura dell’artista Hilma af Klint che anticipò l’astrattismo probabilmente grazie ai suoi contatti con le correnti esoteriche), nonché caratterizzata dal mescolarsi di riferimenti a generi cinematografici diversi, dall’horror al ghost movie tradizionale, al thriller, al giallo psicologico ecc.
Il risultato è fin troppo compiaciuto, ma - dal mio personale punto di vista - incapace di portare a sintesi i numerosi filoni narrativi e gli spunti cinematografici di cui la pellicola è infarcita, al punto da risultare privo di identità e deludente - almeno per me - alla visione.
Voto: 2,5/5
sabato 15 aprile 2017
Libere disobbedienti innamorate – In between
Leila (Mouna Hawa) e Salma (Sana Jammelieh) sono due ragazze arabe che vivono a Tel Aviv. La loro vita in città scorre tra il lavoro (la prima fa l’avvocato e la seconda lavora come aiuto-cuoca in un ristorante e fa la dj) e le serate con gli amici, tra alcol, musica, droghe e chiacchiere. Leila e Salma sono due donne libere e indipendenti, ma – come tutte – cercano l’amore.
Un giorno nel loro appartamento arriva come nuova coinquilina Noor (Shaden Kanboura), una ragazza musulmana praticante che indossa il velo e ha un fidanzato altrettanto religioso.
La convivenza inizialmente non sarà facile, ma ben presto sarà chiaro a tutt’e tre che la distanza tra di loro è molto meno di quanto non appaia in un mondo in cui la donna si trova in una posizione di svantaggio, sia che decida di seguire le regole sociali come Noor, sia che decida di fregarsene come Leila e Salma.
Noor sperimenterà l’ipocrisia e la violenza dell’ortodossia religiosa, Salma il rifiuto della famiglia quando scopre che è lesbica, Leila l’impossibilità di rimanere se stessa se vuole avere un marito e una famiglia.
Tre donne bellissime, ognuna a suo modo, a cui si vuole bene durante tutto il film e per cui si fa il tifo, consapevoli fin dal principio che la sconfitta sociale sarà inevitabile perché queste donne hanno solo se stesse e la loro amicizia, che però sono il loro tesoro più grande.
L’opera prima di Maysaloun Hamoud è evidentemente un manifesto politico, un film a tesi, che vuole raccontare la forza dei condizionamenti sociali di cui le donne arabe sono vittime persino in una città con uno stile di vita fortemente moderno e occidentale come è Tel Aviv.
Il film non è un capolavoro di originalità e, dopo che avrete visto il trailer, saprete perfettamente cosa aspettarvi sia dal punto di vista dei contenuti, sia dal punto di vista del linguaggio narrativo (che si muove tra dramma e commedia). Però il film certamente contribuisce a gettare uno sguardo sincero e partecipe su una realtà che probabilmente intuiamo ma che non conosciamo davvero.
A me personalmente poi piace molto vedere questi film (che forse sarebbe ancora meglio vedere in lingua originale e magari senza questi titoli italiani davvero un po' ridicoli), anche perché trovo interessante il confronto tra lo stile narrativo della cinematografia mediorientale e il nostro, un confronto che probabilmente riflette i modi della costruzione linguistica e dunque concettuale di questi due mondi culturali. Forse è una mia fantasia, ma la mia sensazione è che, rispetto alla nostra narrazione molto fluida, consequenziale e fortemente esplicativa, in questi film prevalga un andamento più discontinuo, sintetico, quasi sincopato, il che non ha niente a che fare con un giudizio di valore, bensì semplicemente di differenza. E le differenze a me incuriosiscono ed entusiasmano.
Voto: 3,5/5
Un giorno nel loro appartamento arriva come nuova coinquilina Noor (Shaden Kanboura), una ragazza musulmana praticante che indossa il velo e ha un fidanzato altrettanto religioso.
La convivenza inizialmente non sarà facile, ma ben presto sarà chiaro a tutt’e tre che la distanza tra di loro è molto meno di quanto non appaia in un mondo in cui la donna si trova in una posizione di svantaggio, sia che decida di seguire le regole sociali come Noor, sia che decida di fregarsene come Leila e Salma.
Noor sperimenterà l’ipocrisia e la violenza dell’ortodossia religiosa, Salma il rifiuto della famiglia quando scopre che è lesbica, Leila l’impossibilità di rimanere se stessa se vuole avere un marito e una famiglia.
Tre donne bellissime, ognuna a suo modo, a cui si vuole bene durante tutto il film e per cui si fa il tifo, consapevoli fin dal principio che la sconfitta sociale sarà inevitabile perché queste donne hanno solo se stesse e la loro amicizia, che però sono il loro tesoro più grande.
L’opera prima di Maysaloun Hamoud è evidentemente un manifesto politico, un film a tesi, che vuole raccontare la forza dei condizionamenti sociali di cui le donne arabe sono vittime persino in una città con uno stile di vita fortemente moderno e occidentale come è Tel Aviv.
Il film non è un capolavoro di originalità e, dopo che avrete visto il trailer, saprete perfettamente cosa aspettarvi sia dal punto di vista dei contenuti, sia dal punto di vista del linguaggio narrativo (che si muove tra dramma e commedia). Però il film certamente contribuisce a gettare uno sguardo sincero e partecipe su una realtà che probabilmente intuiamo ma che non conosciamo davvero.
A me personalmente poi piace molto vedere questi film (che forse sarebbe ancora meglio vedere in lingua originale e magari senza questi titoli italiani davvero un po' ridicoli), anche perché trovo interessante il confronto tra lo stile narrativo della cinematografia mediorientale e il nostro, un confronto che probabilmente riflette i modi della costruzione linguistica e dunque concettuale di questi due mondi culturali. Forse è una mia fantasia, ma la mia sensazione è che, rispetto alla nostra narrazione molto fluida, consequenziale e fortemente esplicativa, in questi film prevalga un andamento più discontinuo, sintetico, quasi sincopato, il che non ha niente a che fare con un giudizio di valore, bensì semplicemente di differenza. E le differenze a me incuriosiscono ed entusiasmano.
Voto: 3,5/5
giovedì 13 aprile 2017
Pina Bausch a Roma
Sold-out al Teatro Argentina per l'anteprima del documentario di Graziano Graziani Pina Bausch a Roma, in attesa che sia distribuito nelle sale italiane.
Il documentario, nato da un'idea di Simone Bruscia e Andrés Neumann, racconta come Pina Bausch sia entrata in contatto con Roma nel momento in cui stava preparando due spettacoli sulla città, Viktor (1986) e O Dido (1999). Frammenti video degli spettacoli si alternano alle testimonianze di coloro che l'hanno conosciuta (Mario Martone, Andrés Neumann), studiata (Loretta Bentivoglio), incontrata in quell'occasione (Vladimir Luxuria, Matteo Garrone) o ci hanno lavorato insieme (Cristiana Morganti). Il tutto nella cornice di due spezzoni di intervista con una famiglia rom che abitava nel campo nomadi dove Pina si era fatta portare in quella circostanza per conoscere la città in tutte le sue sfaccettature.
Ne viene fuori il ritratto di un'artista e di una donna in perenne ascolto del mondo circostante per coglierne lo spirito, silenziosa e attenta, a suo agio negli ambienti più diversi, da quelli ufficiali a quelli marginali e underground, e nelle situazioni le più varie, da quelle impegnate a quelle ludiche (viene ad esempio ricordato dei panini con la mortadella che mangiava insieme a Federico Fellini sul set di E la nave va).
Molto interessante conoscere il metodo di lavoro della Bausch che consisteva nella piena immersione nell'ambiente e nell'avvio di un processo creativo attraverso lo scambio relazionale con le persone che lo abitano e con i suoi ballerini, cui assegnava - come ci racconta la Morganti - dei temi, diciamo così delle suggestioni, su cui esprimersi creativamente per poi arrivare alla costruzione collettiva dello spettacolo come fosse un puzzle.
Certamente un personaggio che ha segnato la storia della danza e del teatro della seconda metà del Novecento e che in qualche modo ha cambiato i modi dell'espressione artistica con il suo Tanztheater .
Il documentario di Graziani è anche un modo alternativo per guardare attraverso gli occhi di Pina Bausch la città di Roma e l'Italia e vederne insieme a lei la ricchezza e la complessità, al di là dell'immagine stereotipata.
Una bella serata conclusa con un breve spezzone inedito delle prove di uno spettacolo al Teatro Biondo di Palermo inviato da Mario Martone e con le testimonianze dal vivo di alcuni dei protagonisti del film, in particolare un racconto intenso e divertito della bravissima Cristiana Morganti.
Voto: 3,5/5
Il documentario, nato da un'idea di Simone Bruscia e Andrés Neumann, racconta come Pina Bausch sia entrata in contatto con Roma nel momento in cui stava preparando due spettacoli sulla città, Viktor (1986) e O Dido (1999). Frammenti video degli spettacoli si alternano alle testimonianze di coloro che l'hanno conosciuta (Mario Martone, Andrés Neumann), studiata (Loretta Bentivoglio), incontrata in quell'occasione (Vladimir Luxuria, Matteo Garrone) o ci hanno lavorato insieme (Cristiana Morganti). Il tutto nella cornice di due spezzoni di intervista con una famiglia rom che abitava nel campo nomadi dove Pina si era fatta portare in quella circostanza per conoscere la città in tutte le sue sfaccettature.
Ne viene fuori il ritratto di un'artista e di una donna in perenne ascolto del mondo circostante per coglierne lo spirito, silenziosa e attenta, a suo agio negli ambienti più diversi, da quelli ufficiali a quelli marginali e underground, e nelle situazioni le più varie, da quelle impegnate a quelle ludiche (viene ad esempio ricordato dei panini con la mortadella che mangiava insieme a Federico Fellini sul set di E la nave va).
Molto interessante conoscere il metodo di lavoro della Bausch che consisteva nella piena immersione nell'ambiente e nell'avvio di un processo creativo attraverso lo scambio relazionale con le persone che lo abitano e con i suoi ballerini, cui assegnava - come ci racconta la Morganti - dei temi, diciamo così delle suggestioni, su cui esprimersi creativamente per poi arrivare alla costruzione collettiva dello spettacolo come fosse un puzzle.
Certamente un personaggio che ha segnato la storia della danza e del teatro della seconda metà del Novecento e che in qualche modo ha cambiato i modi dell'espressione artistica con il suo Tanztheater .
Il documentario di Graziani è anche un modo alternativo per guardare attraverso gli occhi di Pina Bausch la città di Roma e l'Italia e vederne insieme a lei la ricchezza e la complessità, al di là dell'immagine stereotipata.
Una bella serata conclusa con un breve spezzone inedito delle prove di uno spettacolo al Teatro Biondo di Palermo inviato da Mario Martone e con le testimonianze dal vivo di alcuni dei protagonisti del film, in particolare un racconto intenso e divertito della bravissima Cristiana Morganti.
Voto: 3,5/5
martedì 11 aprile 2017
L'avenir - Le cose che verranno
L'ormai tradizionale appuntamento annuale con il Festival Rendez vous - Nuovo cinema francese è un'occasione bella per vedere film che arriveranno solo più avanti o non arriveranno mai nelle sale italiane, e per vederli in lingua originale e commentarli con i protagonisti (registi e attori).
Quest'anno il mio primo film del festival (dopo aver mancato la visione di Planétarium perché quando sono arrivata in cassa i posti erano appena finiti) è stato L'avenir - Le cose che verranno, il film della giovane regista Mia Hansen-Løve, che alla fine dello spettacolo ha risposto alle domande dell'intervistatrice e del pubblico con grazia, attenzione e rispetto.
L'avenir è la storia di Nathalie (una Isabelle Huppert che incontro spesso ultimamente nelle mie escursioni cinematografiche), una donna di mezza età che insegna filosofia in un liceo, è sposata da 25 anni con Heinz, ha due figli, una madre depressa che la vuole fare finita con la vita, e un ex allievo brillante che ha scelto la strada del rifiuto del modello borghese e si è rifugiato a vivere con alcuni compagni in un isolato casale in montagna.
La vita di Nathalie scorre serena, tra riflessioni filosofiche a casa e con i suoi studenti, e gestione quotidiana dei problemi familiari dentro un appartamento pieno di libri. Il mondo di Nathalie sembra rovesciarsi e crollare quando suo marito le confessa di amare un'altra e che la lascia per andare a vivere con lei, sua madre muore e la casa editrice per cui scrive e cui fa da consulente decide di tagliare la collana di filosofia perché poco redditizia.
Nathalie si ritrova in poco tempo in una casa in cui metà dei libri sono stati portati via dal marito e a gestire il gatto della madre che talvolta sparisce nei posti più impensati.
A quel punto dovrà fare i conti con una realtà che non è quella cui si era aggrappata per tanti anni e in cui le cose sono diverse da come aveva sempre voluto credere che fossero; dovrà fronteggiare il fallimento delle aspettative, le sue nei confronti degli altri e quelle degli altri nei suoi confronti.
La vita però, nella sua straordinaria e sorprendente inerzia, va avanti e l'inarrestabile ciclo degli eventi è in fondo una garanzia che qualunque disequilibrio si riassesterà in un nuovo equilibrio e che attraversare la sofferenza non preclude mai la possibilità di ritrovare piccoli piaceri quotidiani e grandi gioie.
Il film di Mia Hansen-Løve - come spesso accade per i film francesi - è un film suonato in sordina, in cui niente è urlato e dirompente, e gli eventi - persino quelli più sconvolgenti - fluiscono nella corrente, anche quando ne increspano la superficie.
Un film che - come la vita - a volte strappa il sorriso, altre volte stringe il cuore, altre volte ha un sapore amaro, e altre volte ancora è un balsamo che massaggia l'anima, donandoci quel conforto che la regista traduce in immagine attraverso l'ultimo fotogramma con cui si chiude L'avenir.
Se vi piacciono i film agrodolci e sussurrati, quelli in cui non tutto viene esplicitato, e le cose non sempre avvengono seguendo una traccia coerente, dove non ci sono buoni né cattivi, ma solo persone che fanno i conti con le proprie emozioni e i propri stati d'animo, L'avenir è un film che vi consiglio di andare a vedere.
Voto: 3,5/5
Quest'anno il mio primo film del festival (dopo aver mancato la visione di Planétarium perché quando sono arrivata in cassa i posti erano appena finiti) è stato L'avenir - Le cose che verranno, il film della giovane regista Mia Hansen-Løve, che alla fine dello spettacolo ha risposto alle domande dell'intervistatrice e del pubblico con grazia, attenzione e rispetto.
L'avenir è la storia di Nathalie (una Isabelle Huppert che incontro spesso ultimamente nelle mie escursioni cinematografiche), una donna di mezza età che insegna filosofia in un liceo, è sposata da 25 anni con Heinz, ha due figli, una madre depressa che la vuole fare finita con la vita, e un ex allievo brillante che ha scelto la strada del rifiuto del modello borghese e si è rifugiato a vivere con alcuni compagni in un isolato casale in montagna.
La vita di Nathalie scorre serena, tra riflessioni filosofiche a casa e con i suoi studenti, e gestione quotidiana dei problemi familiari dentro un appartamento pieno di libri. Il mondo di Nathalie sembra rovesciarsi e crollare quando suo marito le confessa di amare un'altra e che la lascia per andare a vivere con lei, sua madre muore e la casa editrice per cui scrive e cui fa da consulente decide di tagliare la collana di filosofia perché poco redditizia.
Nathalie si ritrova in poco tempo in una casa in cui metà dei libri sono stati portati via dal marito e a gestire il gatto della madre che talvolta sparisce nei posti più impensati.
A quel punto dovrà fare i conti con una realtà che non è quella cui si era aggrappata per tanti anni e in cui le cose sono diverse da come aveva sempre voluto credere che fossero; dovrà fronteggiare il fallimento delle aspettative, le sue nei confronti degli altri e quelle degli altri nei suoi confronti.
La vita però, nella sua straordinaria e sorprendente inerzia, va avanti e l'inarrestabile ciclo degli eventi è in fondo una garanzia che qualunque disequilibrio si riassesterà in un nuovo equilibrio e che attraversare la sofferenza non preclude mai la possibilità di ritrovare piccoli piaceri quotidiani e grandi gioie.
Il film di Mia Hansen-Løve - come spesso accade per i film francesi - è un film suonato in sordina, in cui niente è urlato e dirompente, e gli eventi - persino quelli più sconvolgenti - fluiscono nella corrente, anche quando ne increspano la superficie.
Un film che - come la vita - a volte strappa il sorriso, altre volte stringe il cuore, altre volte ha un sapore amaro, e altre volte ancora è un balsamo che massaggia l'anima, donandoci quel conforto che la regista traduce in immagine attraverso l'ultimo fotogramma con cui si chiude L'avenir.
Se vi piacciono i film agrodolci e sussurrati, quelli in cui non tutto viene esplicitato, e le cose non sempre avvengono seguendo una traccia coerente, dove non ci sono buoni né cattivi, ma solo persone che fanno i conti con le proprie emozioni e i propri stati d'animo, L'avenir è un film che vi consiglio di andare a vedere.
Voto: 3,5/5
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