giovedì 30 dicembre 2021
Sull’isola di Bergman
lunedì 27 dicembre 2021
Tavola tavola chiodo chiodo / di e con Lino Musella. Teatro Vascello, 30 novembre 2021
Ma Musella è talento a tutto tondo, e lo dimostra come regista e attore di questo spettacolo che prende in prestito il titolo, Tavola tavola chiodo chiodo, dalla lapide eretta in memoria dello storico macchinista del Teatro San Ferdinando, Peppino Mercurio.
Avvalendosi della raffinata e attenta ricerca storica e archivistica realizzata da Maria Procino e accompagnato sul palco dalla chitarra di Marco Vidino, Lino Musella ci racconta e a tratti interpreta il grande Eduardo De Filippo, utilizzando le sue lettere, i discorsi istituzionali, i documenti, che gettano luce su aspetti privati e pubblici della sua vita.
Al centro c’è l’impegno di Eduardo per la ristrutturazione e la riapertura del Teatro San Ferdinando di Napoli, e non a caso all’apertura del sipario, al centro c’è una specie di modellino del teatro che il protagonista sta realizzando e durante tutto lo spettacolo Lino/Eduardo è impegnato in un lavorio continuo mediante il quale fa e disfa, evocando scenari.
Ne emergono cenni alla vita privata, il rapporto con i membri della sua famiglia, la morte della figlia, ma soprattutto il suo amore per il teatro e il suo impegno sociale (ad esempio per i ragazzi incarcerati a Poggioreale o al centro Filangieri), due cose che lo portano spesso alla polemica e all’invettiva politica. Eduardo resta un uomo libero e coerente con le sue idee anche quando entra in Senato dopo essere stato nominato Senatore a vita.
Lino Musella non imita Eduardo, ogni tanto ne accenna qualche movenza e qualche espressione, ne riprende la parlata napoletana, ma nel complesso sceglie di entrare e uscire dal personaggio per non banalizzarlo e proporlo al pubblico in tutta la sua complessità.
Per me che Eduardo lo conosco molto poco, tanti riferimenti e suggerimenti finiscono nel vuoto e probabilmente anche parte della bravura di Musella diventa difficile da cogliere. Ma, nonostante questo, ne colgo e apprezzo il suo modo di tenere il palco, la capacità di combinare il lavoro manuale con la recitazione, quasi che le due cose si rafforzino a vicenda, la bravura nel rendere affascinanti testi che in buona parte non erano nati per essere recitati, e nemmeno in alcuni casi per diventare pubblici.
Al termine dello spettacolo, quando il modellino del teatro crolla su sé stesso e Lino/Eduardo annuncia che dovrà rifare per l’ennesima volta “o presepio”, il pubblico prorompe in un applauso fragoroso e prolungato che sancisce l’apprezzamento per il suo regista e interprete, nonché per un personaggio immortale e insuperato come Eduardo De Filippo.
Voto: 3,5/5
giovedì 23 dicembre 2021
È stata la mano di dio
Nel film non mancano i marchi di fabbrica che ormai rendono i film di Sorrentino riconoscibili anche a livello internazionale: da un lato un gusto estetico e una ricerca dell’inquadratura che a me che ho la passione della fotografia affascinano moltissimo, ma che capisco possano risultare stucchevoli quando troppo insistiti, dall’altro la passione profonda per i personaggi estremi e le situazioni iperboliche, spesso ai confini del fantastico (con una strizzatina d'occhio, anzi qualcosa di più a Fellini).
Nelle prime scene del film le riprese di una Napoli notturna e misteriosa e la comparsa del “monaciello” fanno pensare che ci si trovi di fronte al solito Sorrentino. E però non è esattamente così. Perché subito dopo si entra prepotentemente nella vita di questo ragazzo introverso e solitario, Fabietto, che osserva la sua famiglia e il mondo circostante con occhi curiosi e indagatori, cogliendone le profonde contraddizioni, la straordinaria ricchezza nonché il lato oscuro.
Suo padre e sua madre (Toni Servillo e Teresa Saponangelo) sono due personaggi complessi e stratificati: buontemponi, sognatori, innamorati e romantici, nascondono però dolori profondi, segreti di coppia (che tanto segreti non sono), paure e frustrazioni. Intorno a loro famiglie che agli occhi di Fabietto sembrano vere e proprie corti dei miracoli: la zia grassa con il fidanzato vecchio che parla grazie a un sintetizzatore, uno zio che prende mazzette e finisce in galera, una zia bellissima ma considerata pazza che viene malmenata dal marito ecc.
Fabio si guarda intorno con curiosità e attenzione, agitato dai primi turbamenti sessuali e dall’ansia del futuro che si sta affacciando alle porte della sua vita. È stata la mano di dio è un vero e proprio romanzo di formazione, che come tutti i coming of age prevede che il protagonista attraversi una grande prova dalla quale uscirà trasformato e pronto a fare il passo decisivo verso l’età adulta.
Nell’estate in cui Maradona arriva al Napoli contro ogni pronostico, riempiendo di una gioia incontenibile l’animo dei tifosi napoletani, Fabio deve fare i conti con una serie di verità che non conosceva e di novità inattese: suo padre – nonostante l’amore che lo lega a sua madre e l’atmosfera scanzonata delle loro dinamiche di coppia - ha da anni un’altra donna e anche un altro figlio, suo fratello non riesce a intraprendere come vorrebbe la carriera di attore e intanto incontra una ragazza di cui si innamora, nelle famiglie di origine dei suoi genitori vari eventi infrangono i fragili equilibri esistenti. Tutto questo culmina con l’incidente domestico che uccide i suoi genitori e che lascia Fabio solo di fronte al mondo e al futuro.
È con questo dolore irrimediabile che il ragazzo dovrà fare i conti e gli incontri più o meno assurdi che ne seguiranno saranno il motore della scelta che lo traghetterà verso il futuro.
Nel film di Sorrentino si ride molto: la famiglia allargata da cui proviene Fabietto incarna la napoletanità all’ennesima potenza e offre in continuazione situazioni esilaranti, sebbene venate di quella malinconia che è in fondo tipica dell’ironia napoletana. Però la storia di Fabio è capace anche di commuovere attraverso l’identificazione empatica con questo ragazzo spaurito e ingenuo, la cui risposta a quasi tutto è mettere le cuffie sulle orecchie e perdersi nel proprio mondo, da cui noi spettatori siamo completamente esclusi, visto che mai sentiamo quello che lui ascolta, tranne nella scena finale in treno in cui la bellissima Napul’è di Pino Daniele da canzone riprodotta sul walkman diventa colonna sonora dei titoli di coda.
Resta nel film di Sorrentino una componente di artificiosità e una ricerca della soluzione a effetto studiata quasi sempre a tavolino che risultano a tratti un po’ indigesti, però fare la conoscenza con la storia di Fabio e il suo modo di guardare il mondo aiuta a capire meglio il cinema di Sorrentino e a dare un senso a delle scelte che decontestualizzate potrebbero apparire solo un vezzo da regista, e invece molto probabilmente sono la naturale evoluzione di uno sguardo.
Voto: 3,5/5
martedì 21 dicembre 2021
Scompartimento n. 6
In realtà il viaggio avrebbe dovuto essere proprio con Irina, ma quest’ultima non parte a causa di impegni lavorativi, e dunque Laura si ritrova a condividere gli spazi ristretti dello scompartimento della Transiberiana con Ljoha (Yuriy Borisov), un giovane anche lui diretto a Murmansk per un lavoro stagionale in miniera. La convivenza tra i due appare difficile: Ljoha, oltre a bere come una spugna, non nasconde in alcun modo il suo maschilismo e sciovinismo, in buona parte frutto di ignoranza e di un’estrazione sociale bassa, quanto di più lontano da Laura e dal suo mondo. Per la ragazza lo scompartimento diventa dunque quasi una prigione da cui tenta più volte di scappare.
Le lunghe ore trascorse negli spazi angusti del treno, il paesaggio naturale e umano sempre più estremo che scorre oltre i finestrini e le lunghe soste che il treno impone ai suoi passeggeri in posti a volte assurdi trasformano a poco a poco il rapporto tra queste due persone apparentemente incompatibili in una forma di complicità, di amicizia, di fiducia reciproca, che a un certo punto sembra addirittura sfociare in amore. Questo confine non viene però mai realmente superato, in una sorta di pudore reciproco per cui Laura e Ljoha sanno benissimo che il loro è un incontro destinato a durare il tempo di un viaggio.
Per Laura questo viaggio dai risvolti inaspettati diventa un percorso interiore alla scoperta di sé stessa, da un lato attraverso la solitudine (e la consapevolezza della distanza e della distrazione di Irina nei suoi confronti) e dall’altro attraverso il confronto con un mondo e un’umanità molto diversi da sé, ma con cui è possibile stabilire una forma di vicinanza altrettanto importante e profonda di quella che si instaura con le persone che sono a noi più simili o con cui abbiamo relazioni più durature.
Tutto questo avviene dentro un contesto che ha un sapore vintage, dal momento che siamo in pieni anni Novanta, non ci sono i cellulari, mentre i walkman, le telecamere, le polaroid, la musica con sonorità elettronica fanno parte della quotidianità di tutti e invadono le scene (nel caso della musica, essa transita, in un andirivieni continuo, tra dimensione diegetica ed extradiegetica).
Juho Kuosmanen ci porta dunque in un tempo e in uno spazio che sono decisamente ai confini, se non fuori dai confini della nostra esperienza, eppure – ancora una volta, grazie al potere magico dei film ben riusciti – tutto quello che accade su questo schermo (che tra l’altro è un riversamento in digitale di un girato su pellicola) lo sentiamo come nostro, ci si appiccica alla pelle. E non perché siamo stati sulla Transiberiana, o perché abbiamo fatto a palle di neve in un posto sperduto a ridosso del circolo polare artico, ma perché questa sorta di coming of age tardivo (quello che io chiamo la seconda nascita, il momento in cui scopriamo davvero chi siamo e lo facciamo solo quando ci troviamo di fronte all’ignoto fuori e dentro di noi) ci appartiene fortemente come esseri umani ed è qualcosa che resta vivido e impresso a chi ci è passato attraverso. Se poi quel momento è avvenuto – come nel mio caso – proprio negli anni Novanta e ha avuto nei treni notturni una delle prime occasioni di confronto con il mondo l’effetto del film di Kuosmanen non può che essere amplificato.
I due attori - a cui il regista sta attaccato addosso con la sua telecamera - sono bravissimi nell’esprimere attraverso i loro volti, prima ancora che con le parole, i loro pensieri e a far passare - attraverso gli sguardi - sentimenti senza nome e difficili da categorizzare. Il sorriso di Laura nell’auto che la riporta indietro è il sigillo di un incontro speciale che, costringendoci a uscire dalla nostra comfort zone e a mettere da parte le nostre impalcature mentali, ci apre alla vita e al futuro.
Voto: 4/5
venerdì 17 dicembre 2021
La strada che va in città / Natalia Ginzburg; regia di Iaia Forte; con Valentina Cervi. Teatro Palladium, 27 novembre 2021
Si tratta, come prevedibile, di un monologo, nel quale la Cervi interpreta innanzitutto la protagonista del racconto, ma anche gli altri personaggi che le ruotano intorno.
Al centro della narrazione Delia, una giovane di 17 anni, che oltre a una sorella già sposata, Azalea, e altri tre fratelli, è cresciuta con Nini, figlio di un cugino del padre rimasto orfano.
In casa sono in troppi, e troppo poveri, per cui Delia, così come i suoi fratelli, non appena può scappa verso la città per chiacchierare con le amiche, incontrare persone, guardare le vetrine, e soprattutto per non pensare alla sua famiglia. Delia sogna una vita migliore e soprattutto lontana dalla casa di origine, ma l'unico esempio che ha è quello della sorella che si è sposata a 17 anni, vive in città e conduce una vita oziosa (sta a letto tutto il giorno, litiga con il marito e l'amante, non si occupa dei figli, e affida tutte le incombenze alla cameriera).
Anche a Delia sembra dunque che l'unica vera occasione di sfuggire al suo destino sia quella di sposarsi presto, cosicché cede al corteggiamento di Giulio, un giovane che studia medicina, e finisce incinta, sebbene i suoi sentimenti vadano nella direzione di Nini.
Il desiderio spasmodico di sfuggire alla povertà da un lato e la condizione di minorità determinata da una società fortemente patriarcale dall'altro conducono la ragazza verso una vita che certamente le garantisce un maggior benessere materiale, ma che sarà costellata da rimpianti e da una strisciante, se non palese, infelicità.
L'impossibilità di scegliere la propria vita liberamente e di autodeterminarsi, nonché le limitatissime opportunità a propria disposizione, anche e soprattutto perché donna, costituiscono per Delia un fardello insostenibile e una condanna cui è impossibile sottrarsi.
A livello di spettacolo teatrale, ho apprezzato molto la compostezza e la qualità interpretativa di Valentina Cervi, mentre la messa in scena e le scelte musicali mi sono sembrate piuttosto superflue, o comunque poco capaci di valorizzare il testo. Nel complesso però l'ho trovata un'operazione interessante, e sono contenta di essere tornata al Palladium dopo tanto tempo e di aver scoperto questo testo della Ginzburg che non conoscevo.
Voto: 3,5/5
mercoledì 15 dicembre 2021
Strappare lungo i bordi
Zerocalcare, aka Michele Rech, è un grande disegnatore e un grande narratore di storie, e questo gli ha permesso di passare con grande facilità dalle strisce alle narrazioni brevi per arrivare al romanzo grafico e infine alla serie animata. Tutte queste espressioni del suo mondo creativo hanno una coerenza di fondo che si può sintetizzare nella perfetta fusione tra una profondità di riflessione invidiabile su temi di grande respiro e la capacità di analizzare con grande arguzia e con un effetto esilarante le piccole cose della vita, che spesso sono sue personali ma in cui è facile riconoscersi.
Ebbene, per me che di Zerocalcare ho letto praticamente tutto, Strappare lungo i bordi è stata "semplicemente" una conferma. O meglio, Zero dimostra di avere un gusto e una capacità non indifferenti nel trasformare le sue storie, prima fissate sulle pagine, in racconti animati, rimanendo fedele a sé stesso e senza perdere mordente. Cosa questa che non era affatto scontata.
A livello invece di contenuti mi pare che Strappare lungo i bordi parli soprattutto a quelli a cui mancano le puntate precedenti, a chi non lo conosceva o lo aveva sempre snobbato. E in questo senso è un po’ una sintesi del mondo di Zerocalcare, del suo passato, del contesto e della sua filosofia di vita. Ma molte di queste cose noi lettori dei suoi fumetti le sapevamo già. Poi certo qua e là sbuca un’invenzione inattesa, che ci fa ridere a crepapelle o ci fa commuovere, e il fil rouge che tiene insieme il racconto ci dice qualcosa di nuovo, mescola le carte di indizi che Zero aveva lasciato qua e là nei suoi fumetti.
Però, se dovessi dire, mi sembra che a livello di “poetica” individuale e generazionale, i suoi ultimi graphic novel, Macerie prime e Scheletri, rappresentano un passo successivo rispetto a quanto espresso nella serie.
In Strappare lungo i bordi siamo ancora ai trentenni che hanno scoperto di non avere alcun percorso tracciato e spesso su questo cammino tortuoso si perdono o si fermano. In Macerie prime e Scheletri siamo invece agli stessi trentenni (ormai quasi quarantenni) che hanno cominciato a fare i conti con la vita adulta, a tirare qualche somma, a fare qualche bilancio e anche qualche valutazione, in cui ognuno deve cercare la propria quadra.
Ovviamente c’è ampio spazio per stagioni successive della serie che possono riagguantare i traguardi intimi di Macerie prime e Scheletri, e probabilmente andare anche oltre. Il fatto stesso che nell’ultima puntata i suoi amici, prima tutti doppiati da lui, acquistino una voce propria, è in un certo senso il segnale che anticipa un’evoluzione, e in questo caso lo fa sfruttando una caratteristica specifica della serie animata, una voce propria dei personaggi (non più l'unica presente nella testa del lettore).
E però inin questa prima stagione era giusto che si ripartisse dall’inizio, una scelta che ha dato ragione ancora una volta a Zerocalcare, visto il successo straordinario.
Tutte le altre polemiche, la romanità, Biella ecc., sono tutti inutili divertissement da social.
lunedì 13 dicembre 2021
Il potere del cane = The power of the dog
Siamo in Montana nel 1925 (per la verità siamo in Nuova Zelanda, ma la Campion riesce benissimo a creare l’illusione delle praterie americane). Due fratelli, Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons), gestiscono il ranch di famiglia, mentre i loro genitori vivono in città.
Phil è un cowboy “vero”, totalmente dedito agli animali e ai lavori della fattoria, e impegnato costantemente - nel ricordo del suo mentore Bronco Henry - a dimostrare la propria mascolinità, anche attraverso l’umiliazione degli altri, per primo suo fratello George, che chiama “fatso” (per il fatto di essere in carne). Quest’ultimo invece è un uomo mite, moderato, veste sempre elegante e fa lunghi bagni in vasca.
Durante lo spostamento delle mandrie, i due fratelli con l’intero personale della fattoria si fermano in un diner gestito da Rose (Kirsten Dunst), con l’aiuto di suo figlio Peter (Kodi Smit-McPhee), un ragazzo delicato e un po’ femmineo che crea fiori di carta.
Phil non si lascerà sfuggire l’occasione di umiliare lui e sua madre. Questo episodio avvicinerà George a Rose, fino a fargli scegliere la strada del matrimonio, cui segue il trasferimento di Rose presso la fattoria.
La presenza di Rose e successivamente di suo figlio Peter innescherà una reazione vieppiù ostile e sadica da parte di Phil, con un effetto tossico sulle vite di tutti.
In realtà a poco a poco la verità che sta sotto la superficie degli eventi comincia a venire a galla e la percezione univoca e netta che lo spettatore ha coltivato fino a un certo momento viene progressivamente messa in discussione rivelando tratti individuali inattesi, producendo dinamiche impreviste e capovolgendo l’interpretazione della realtà, fino al colpo di scena finale.
Il film della Campion, come è tipico della sua cinematografia, si muove con grande agio nei territori del non detto, del torbido e del morboso. Molti elementi narrativi rimangono ignoti allo spettatore, alcuni sono solo accennati, cosicché non è semplice collocare ogni cosa al suo posto e vedere chiaramente il disegno, esattamente come solo Phil e Peter riescono a vedere l’ombra del cane che, con certe condizioni di luce, si staglia sulle colline di fronte alla fattoria.
Quello che è certo è che colui che ci appare certamente come un personaggio odioso e tossico, ossia Phil, è molto più sfaccettato di quello che sembra, e i confini tra buoni e cattivi, e tra bene e male, sono molto più sfumati di quanto appaia a prima vista, perché anche dietro i silenzi si possono nascondere molti orrori.
Il potere del cane, titolo che si richiama a un versetto del salmo 21, è un thriller psicologico che intriga, ma non si concede del tutto; che preferisce l’involuzione alla spiegazione, e dunque che – pur sviluppando appieno la trama – lascia spazio nel suo insieme a interpretazioni diverse e di segno opposto. Phil è un sadico che riversa sugli altri la propria sofferenza e l’impossibilità di essere sé stesso, oppure Phil è solo più intelligente e più sensibile degli altri, e non nasconde il suo malessere, e proprio per questo suo modo di essere diventa il capro espiatorio di tutti i limiti e le colpe altrui, che in realtà sono solo e soltanto le loro.
Non so cosa aveva in mente la regista, e ancora prima lo scrittore, ma a me piace pensare che quella giusta sia la seconda interpretazione.
Voto: 3,5/5
giovedì 9 dicembre 2021
Foto/Industria. V biennale di fotografia dell’industria e del lavoro. Bologna, Fondazione MAST, 14 novembre 2021
La biennale si articola in 11 mostre che si sviluppano su 11 luoghi della città, tutte gratuite per il pubblico. Alcune di esse sono anche l'occasione per scoprire angoli e architetture di Bologna poco conosciute. Nel mio weekend bolognese, in una giornata piovosissima e grigia, sono riuscita a vederne ben quattro. Eccole.
La nebbia di Bologna |
Favignana / Herbert List. Palazzo Fava
La prima delle due mostre ospitate a Palazzo Fava è quella di Herbert List intitolata Favignana, che è uno dei tanti lavori del fotografo tedesco per l'agenzia Magnum. List era innamorato dell'Italia e nel nostro paese produsse molti dei suoi reportage; quello in mostra venne realizzato nel 1951 durante uno dei viaggi a Sud e racconta attraverso 41 fotografie il rito della pesca del tonno e della mattanza intorno al famoso stabilimento Florio (ora in via di restauro e di trasformazione in centro culturale, come raccontato nel mio post sul viaggio a Favignana).
Le foto vengono presentate su un espositore disposto a ferro di cavallo in cui il visitatore segue il percorso immaginato da List in maniera lineare. In questo percorso ci sono immagini dei pescatori, delle barche, dei tonni, dello stabilimento, il prima, il durante e il dopo della pesca, un insieme coerente di immagini che inquadra l'evento in un più ampio contesto socio-industriale. A parte singole foto di grande impatto visivo, la cosa per me interessante del reportage di List è la varietà delle sue scelte, anche a livello compositivo e di formati, a conferma ulteriore - se mai ce ne fosse stato bisogno - che le regole in fotografia sono fatte per essere infrante e liberamente interpretate.
Padiglione dell'Esprit Nouveau |
Factory of original desires / Bernard Plossu. Palazzo Fava
Sempre a Palazzo Fava è ospitata anche la mostra di Bernard Plossu, fotografo francese vivente e attivo da più di 50 anni. A differenza della mostra di List, quella di Plossu, intitolata Factory of original desires, non è un lavoro specifico del fotografo, ma una "verticale" all'interno del suo archivio fotografico alla ricerca di quel fil rouge legato al tema della biennale, il cibo e quanto gli ruota intorno. In questo percorso, che dunque risulta meno coerente ma altrettanto interessante, ci sono fotografie scattate in luoghi molto diversi e lontani, e anche in momenti completamenti diversi, che possono andare dagli anni Settanta fino ai giorni nostri. Anche in questo caso ci sono fotografie molto interessanti o che suscitano curiosità, anche se la sezione che mi è parsa nel suo complesso più coerente e godibile, almeno per quanto mi riguarda, è quella dedicata ai diner americani.
Padiglione dell'Esprit Nouveau |
M + Trails / Takashi Homma. Padiglione dell'Esprit Nouveau
La mostra di Takashi Homma è la somma di due suoi progetti, M (dedicato ai McDonald fotografati in giro per il mondo) e Trails (che utilizza disegni, foto e video per parlare della caccia al cervo in Hokkaido attraverso le tracce di sangue lasciati dagli animali). Entrambi i progetti sono stati appositamente pensati per lo spazio espositivo del padiglione dell'Esprit Nouveau, un edificio pensato da Le Corbusier nel 1925, di cui quella bolognese è una replica fedele dell'originale realizzata nel 1977.
La progettazione dell'edificio nasceva all'interno della riflessione teorica di Le Corbusier finalizzata a trovare un equilibrio tra la densità abitativa delle grandi città e la qualità dell'unità abitativa. Si trattava di un modulo abitativo standardizzato a titolo appunto espositivo, all'interno del quale si possono ammirare anche due diorami che illustrano le proposte di Le Corbusier per lo sviluppo della città di Parigi.
Takeshi Homma, Videoinstallazione |
Tra l'altro si tratta di strutture estremamente fotogeniche: forse inabitabili ma certo bellissime da fotografare.
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Fototeca / Ando Gilardi. Fondazione MAST
L'ultima tappa del nostro percorso a Foto/Industria è la grande mostra ospitata dal MAST e dedicata ad Ando Gilardi, un intellettuale di grande eclettismo (per me sconosciuto) che ha realizzato la Fototeca Storica Nazionale, un archivio di oltre 500.000 immagini, una specie di tesoro cui attingere per documentare attraverso le immagini aspetti i più vari della storia e della società.
Fondazione MAST |
Una mostra affascinante e coinvolgente come spesso sono quelle del MAST. Peccato per le didascalie delle foto, davvero troppo piccole anche per persone con la vista perfetta (ho visto signore accostarsi al muro e stare piegate a metà per leggere, e starci un bel po' visto che le didascalie sono anche piuttosto lunghe).
Voto: 4/5
lunedì 6 dicembre 2021
The French Dispatch
In questo suo ultimo film il regista statunitense omaggia - in maniera neppure tanto nascosta - una grande rivista americana, The New Yorker, ma lo fa trasferendo la vicenda in Europa, più precisamente in Francia, nel paese immaginario di Ennui-sur-Blasé, creando in questo modo una corrispondenza d'amorosi sensi tra il vecchio e il nuovo mondo, che evidentemente occupano entrambi uno spazio importante nel suo cuore.
Nel film di Anderson il New Yorker diventa The French Dispatch, una rivista nata dall'iniziativa del suo geniale direttore Arthur Howitzer Jr. (l'attore feticcio di Anderson, Bill Murray) e destinata a terminare le sue pubblicazioni con la morte di quest'ultimo, come da testamento.
Ed è proprio dalla morte di Howitzer che prende le mosse la narrazione multipla di Anderson. La redazione della rivista, prima e dopo la morte del direttore, fa da cornice a quattro racconti visivi, che illustrano altrettanti articoli contenuti nell'ultimo numero pubblicato e realizzati - anche attraverso la loro partecipazione attiva - dagli stessi giornalisti della rivista. Il primo è una specie di racconto della città di Ennui, realizzato da un giornalista in bicicletta (interpretato da Owen Wilson), il secondo è la storia, raccontata dalla giornalista J.K.L. Berensen (Tilda Swinton), di un artista galeotto e psicotico (Benicio Del Toro) che è innamorato della sua secondina (Léa Seydoux), il terzo è la cronaca di una contestazione studentesca capeggiata da Timothée Chalamet realizzata dalla giornalista Lucinda Krementz (Frances McDormand) che se ne lascia coinvolgere sentimentalmente, il quarto infine racconta - ad opera di Roebuck Wright (Jeffrey Wright) - dello chef-poliziotto Nescoffier che lavora in un commissariato dove è in corso un'indagine condotta dal commissario (Mathieu Amalric) per ritrovare il figlio rapito.
La narrazione di Anderson è una girandola di situazioni, parole, stili, personaggi, e attori (c'è una carrellata di nomi famosi a volte chiamati solo per un cameo) rispetto alla quale è molto difficile mantenersi sintonizzati. Il ritmo di Anderson è troppo veloce, ci si sente in balia di una montagna russa che non guidiamo noi e che non possiamo né rallentare né tanto meno frenare.
I dialoghi - in parte in inglese, in parte in francese - si rincorrono senza soluzione di continuità; i quadri disegnati sullo schermo dal regista non durano un tempo nemmeno lontanamente sufficiente ad apprezzarne i dettagli e la qualità pittorica, il bianco e nero e il colore si inseguono e si mescolano senza dare allo spettatore la possibilità di capire esattamente con che criterio, il girato con attori in carne e ossa si alterna a un certo punto con la narrazione animata, lo schermo si divide in parti per accogliere più immagini in modalità parallela. Tutto questo perché Anderson fa fatica a stare dentro qualunque tipo di confine, è strabordante e ipertrofico, fino al punto di diventare autoreferenziale anche nel suo ipercitazionismo.
La sua maniacale attenzione per il dettaglio, la sua incontenibile genialità e il suo universo immaginifico che si autoriproduce mi pare che, film dopo film, finiscano per essere messi al servizio del proprio divertissement più che di quello dello spettatore, a meno che quest'ultimo non abbia il desiderio e la volontà di rivedere il film più e più volte, magari anche usando le funzioni di rallentamento delle immagini.
In conclusione, a differenza di alcuni dei suoi film più datati - tra i quali il mio preferito resta Moonrise Kingdom - mi pare che nel tempo Anderson vada sempre di più nella direzione del rifiuto di qualunque finalità esterna alla pellicola, in un dialogo via via più serrato con il proprio mondo interiore (costruito sull'insieme delle esperienze visive che fanno parte del suo bagaglio individuale) e in un disinteresse sempre più accentuato verso la realtà circostante.
Voto: 3/5
venerdì 3 dicembre 2021
La persona peggiore del mondo
La persona peggiore del mondo parla della vita di Julie e lo fa in 12 capitoli più un prologo e un epilogo, con il supporto di una voce femminile narrante che nel prologo riassume le puntate precedenti e poi ricompare nei momenti topici, senza però risultare eccessivamente invadente.
Julie è una quasi trentenne e vive una condizione che possiamo considerare tipica di questa generazione: ha tutta la vita e tutte le possibilità davanti a sé, partecipa di una libertà di scelta e di un’ampiezza di vedute individuale e sociale che sulla carta potrebbero garantirle un percorso verso una vita soddisfacente. E invece Julie sembra non sapere cosa vuole. O forse, sarebbe meglio dire che non si accontenta mai, o meglio ancora che si scontenta facilmente. Fondamentalmente vive con irrequietezza la necessità di scegliere in via più o meno definitiva qualcosa, che porta con sé l'inevitabile corollario di dover rinunciare a qualcos'altro.
Bombardata da mille stimoli e informazioni, consapevole in maniera anche eccessiva di tutto quello che le accade intorno, Julie oscilla tra confusione e decisionismo, tra cinismo e leggerezza, tra indipendenza e narcisismo. Il condizionamento sociale che un tempo segnava la vita degli individui, in modo particolare delle donne, lascia il posto a un non meno faticoso riconoscimento della propria identità, indipendentemente dallo sguardo altrui, e a un frequente autosabotaggio di fronte alla complessità e alla banalità del reale.
Nel mondo della letteratura, questo sguardo generazionale nei confronti della vita è ampiamente rappresentato da un sempre più folto gruppo di scrittori: penso per esempio a Sally Rooney o a Naoise Dolan. Come sa chi legge questo mio blog, è un tipo di approccio che a me quarantottenne un po’ irrita e un po’ suscita compassione.
In questo caso, invece, il film mi conquista favorendo un senso di empatia che funziona sia nei momenti di leggerezza che in quelli drammatici. Questo perché Julie è sì una donna del suo tempo (quello del post-femminismo e del #metoo), ma prima ancora è una persona nel suo farsi e in quel processo di crescita personale e sentimentale che tutt* abbiamo attraversato o attraversiamo più o meno faticosamente, indipendentemente dalla generazione a cui apparteniamo.
Non a caso il film di Trier oscilla tra ispirazioni molto lontane cronologicamente, da Woody Allen alla Greta Gerwig di Frances Ha. In più Trier ha il merito – pur mettendo al centro della narrazione Julie – di non trascurare i comprimari, che si svelano sullo schermo altrettanto vividi e umanamente intensi (penso ad Aksel, il personaggio in cui forse mi sono riconosciuta di più, e anche a Eivind).
A parte il titolo secondo me poco appropriato (ma per il quale non possiamo nemmeno dare la colpa alla distribuzione italiana visto che è la traduzione esatta di quello originale), che - combinato alla locandina - fa pensare a una commedia leggera e divertita, e a parte qualche scelta musicale un po’ troppo banale, il film di Trier non sbaglia quasi un colpo, riuscendo anche nella difficilissima impresa di dribblare tutti i tentativi di incasellamento in un genere: non è propriamente una commedia, né un film drammatico, bensì mescola insieme ironia, leggerezza, commozione, sentimenti, dramma, questioni sociali, realismo e surrealismo onirico o fantastico, riuscendo a risultare sempre credibile.
Un’occasione preziosa per innamorarsi del cinema ancora una volta.
Voto: 4/5
mercoledì 1 dicembre 2021
Chi ha ucciso mio padre. Teatro India, 6 novembre 2021
Siamo in un garage o uno scantinato: in un angolo c'è un cumulo di sacchi neri della spazzatura. Un ragazzo li calcia rabbiosamente. Così comincia questo dialogo (che in realtà è un monologo) tra un figlio e un padre, in cui viene ripercorsa tutta la storia o quanto meno la memoria soggettiva di una relazione, fatta di molti momenti di conflitto esplicito o sotterraneo, ma anche di tenerezza e di affetto.
All'interno di una famiglia di ceto sociale basso e governata dai principi del patriarcato e da un'idea molto conservatrice della mascolinità, questo figlio un po' femmineo e certamente lontano dallo stereotipo maschile suscita imbarazzo se non vera e proprio vergogna. I condizionamenti sociali e le dinamiche familiari disfunzionali alimentano nel tempo l'incomprensione tra padre e figlio e l'impossibilità di una vera comunicazione, trascinando con sé anche gli altri rapporti familiari.
I sacchi neri aperti e tagliati in modi più o meno violenti porteranno alla luce tutte le tracce di questo passato, gli oggetti di una memoria a volte commovente, a volte dolorosa.
Ora che il figlio, andato da tempo a vivere a Parigi - dove non solo ha potuto esprimere sé stesso ma ha anche avuto successo come scrittore -, rincontra suo padre ormai anziano e quasi impossibilitato a camminare, i sentimenti che gli si animano dentro sono molteplici e contraddittori. Se da un lato la compassione verso di lui è macchiata dall'ombra dei ricordi e non riesce dunque a esplicarsi in pieno, dall'altro la constatazione dello stato di minorità del padre diventa motivo di invettiva violenta nei confronti dei governi francesi che si sono succeduti nel tempo, con tanto di nomi e cognomi, considerati - con le loro leggi ingiuste che hanno colpito soprattutto le persone socialmente più in difficoltà - la causa di questa sua condizione.
Francesco Alberici è molto bravo: intenso e commovente, credibile sia nella rabbia che nella tenerezza, capace di tenere da solo il palco e di comunicare non solo con le parole ma anche con i gesti e le azioni.
Il testo, sicuramente molto forte, sebbene non del tutto originale per i temi trattati, dal mio punto di vista ha un unico, grosso neo, ossia la convivenza tra il tema intimistico e sentimentale della relazione padre/figlio e quello dell'invettiva socio-politica. Comprendo come le due cose si parlino, ma io personalmente ho sentito un salto molto forte, al punto da pensare di stare assistendo a un altro spettacolo. È vero che i francesi sono molto attenti alle ricadute sociali anche delle questioni private e viceversa e da questo punto di vista non è sorprendente che un dramma privato venga ricondotto a un problema politico e sociale almeno di portata nazionale (e questa è anche una cosa molto positiva e interessante), però - per quello che ho visto - mi è sembrato che le due cose restassero un po' più separate del dovuto.
Voto: 3,5/5