Brothers è il remake americano del film della danese Susanne Bier che in Italia uscì a suo tempo (nel 2004) con il titolo Non desiderare la donna d'altri, ma il cui titolo originale era Brodre, termine danese che significa appunto "fratelli".
Jim Sheridan, il regista di questo remake, non è esattamente l'ultimo arrivato. Ricordiamo in particolare i film Il mio piede sinistro, Nel nome del padre e l'ultimo In America. Anche la scelta degli attori non è stata fatta con leggerezza visto che nei tre ruoli principali, quello di Sam, Tommy e Grace troviamo rispettivamente Tobey Maguire, Jake Gyllenhaal e Natalie Portman (una menzione speciale all'interpretazione ancora una volta - secondo me - eccellente di Gyllenhaal).
La qualità della sceneggiatura del film originale sommata a un regista e un cast di attori di prim'ordine non poteva che produrre un ottimo risultato. La storia dei fratelli Sam e Tommy, il primo marine in missione in Afghanistan, sposato con Grace e padre di due bimbe, il secondo sempre ubriaco e appena uscito di prigione, resta intensa. C'è però qualcosa che non mi convince.
Del film della Bier - di cui non ricordo i dettagli ma la sensazione complessiva (e che mi è venuta voglia di rivedere)- mi avevano colpito la capacità di rappresentare con misura l'intensità del dramma e di aver ricondotto una tragedia dell'umanità, la guerra con i suoi strascichi impietosi sulla psiche umana, ad una tragedia tutta interiore, familiare ed intima. E la forza di quel film consisteva proprio nella scelta di non spettacolarizzare la dinamica di contesto, per concentrarsi sull'essenziale e, al contempo, sulla complessità del quotidiano (seppure in una situazione di eccezionalità). La vicenda acquisiva dunque quel respiro universale, che è esattamente ciò che - a mio parere - conferisce grandezza a una storia. Nei sentimenti contrastanti dei due fratelli, vei loro sensi di colpa e nei loro dissidi interiori, nella difficoltà di muoversi nel labirinto di sentimenti forti, ma divergenti, e di tracciare contorni certi al bene e al male, riuscivamo a trovare una parte della nostra fragile umanità.
E invece in questo caso quanto è genuinamente americana la storia di Sam e Tommy, quanto è preponderante la presenza della guerra in Afghanistan e il ricordo del Vietnam, quanto è insistita la commemorazione dei soldati americani caduti, quanto sono trasferite al di fuori dei personaggi le cause dei drammi che via via emergono fino quasi a sfociare in tragedia!
Così, quella che sentiamo alla fine è certamente commozione scaturita da pietà umana, ma non certo empatia vera, perché è troppo facile in questo film riconoscere la linea di demarcazione tra giusto e sbagliato e - purtroppo - non è questo che sperimentiamo nella vita di tutti i giorni.
Voto: 3/5
sabato 26 dicembre 2009
giovedì 24 dicembre 2009
L'uomo dei cerchi azzurri / Fred Vargas
L'uomo dei cerchi azzurri / Fred Vargas; trad. di Yasmina Melaouah. Torino, Einaudi, 2007.
Sto leggendo la saga del commissario Jean-Baptiste Adamsberg in ordine sparso, cosicché mi trovo ne L'uomo dei cerchi azzurri di fronte all'arrivo del commissionario al 5e arrondissement di Parigi, all'incontro con quello che diventerà il fedele Danglard, al delinearsi della contrapposizione caratteriale dei due, ai primordi della storia con Camille. E il tutto funziona come uno straordinario flashback, in cui la conoscenza degli sviluppi futuri illumina e colora di significati inediti ciò che viene cronologicamente prima.
Il giallo di questo libro è - come sempre accade per la Vargas - quasi un pretesto per raccontare la psicologia umana. In questo caso, devo dire che anche la costruzione narrativa è piuttosto affascinante e per niente scontata, forse addirittura troppo arzigogolata rispetto agli standard della scrittrice francese.
Come al solito (si vedano le altre mie recensioni ai suoi libri), però, personalmente vengo conquistata da altro e il numero delle orecchie che ho fatto a questo libro la dice lunga sull'empatia che mi ha suscitato. Mai come in questo libro - forse proprio perché siamo agli inizi della vicenda di Adamsberg - viene fuori la qualità del suo personaggio svagato e profondo, il cui approccio apparentemente inerte e certamente irrazionale mette in crisi l'illuminismo di Danglard, e anche il mio. Ma al contempo Adamsberg esercita un'attrazione senza precedenti per la sua originalità da un lato, e per l'universalità dei suoi sentimenti dall'altro.
E così quando il commissario vien fuori con frasi come: "A volte prego che le persone mi stupiscano, e invece già dall'inizio comincio a scorgere la fine. (p. 20)" e l'autrice aggiunge che "[...] a Adamsberg le certezze che gli altri gli mettevano addosso, lo uccidevano. Gli facevano venire una voglia insopprimibile di deludere (p. 68), non riesco a non provare un'istintiva sintonia con il suo personaggio.
Tant'è che Danglard "avrebbe voluto rubare questo ad Adamsberg: l'imprecisione, l'approssimazione, e gli scorci in cui il suo sguardo pareva ora agonizzare, ora ardere, facendo venire voglia di allontanarsi da lui o di avvicinarsi. Pensava che con lo sguardo di Adamsberg avrebbe potuto vedere le cose oscillare e perdere i loro contorni ragionevoli, come fanno gli alberi d'estate nelle vibrazioni del calore. E allora il mondo gli sarebbe parso meno implacabile, e lui avrebbe smesso di volerlo capire fino ai suoi confini più remoti, e fino ai punti che non si potevano neppure vedere nel cielo. E sarebbe stato meno stanco" (p. 116). Ed io pure.
Poi scopri che anche Adamsberg non è immune dal faticoso confronto con se stesso. "[...] aveva sentito che lui non si osservava, ma si «percepiva», [...] tanto da averne talora «male di consapevolezza». Sapeva che questa percezione dell'esistenza prendeva talvolta sentieri speleologici, dove gli stivali si incollavano nel fango, dove non si trovava alcuna risposta, e che ci voleva del coraggio fisico per non cacciar via tutto molto lontano. Ma quando accadeva, lui non cacciava via niente, perché allora aveva la certezza che un simile gesto lo avrebbe condannato a non essere più nulla." (p 124).
"Danglard pensò che Adamsberg aveva una maniera diversa della sua di rovinarsi la vita. Gli pareva che nonostante il suo atteggiamento indolente, Adamsberg trovasse efficacemente il modo di non darsi mai pare." (p. 196).
Si capisce così anche il suo rapporto con Camille, l'unica donna che nonostante il suo scarso interesse per il sentimento dell'amore gli sia rimasta incollata sulla pelle. Forse perché è l'unica capace di dirgli frasi come questa: «Ti amo. Lasciami andare, adesso.» (p. 234).
Chiamarli gialli è un po' un insulto.
Voto: 4/5
Sto leggendo la saga del commissario Jean-Baptiste Adamsberg in ordine sparso, cosicché mi trovo ne L'uomo dei cerchi azzurri di fronte all'arrivo del commissionario al 5e arrondissement di Parigi, all'incontro con quello che diventerà il fedele Danglard, al delinearsi della contrapposizione caratteriale dei due, ai primordi della storia con Camille. E il tutto funziona come uno straordinario flashback, in cui la conoscenza degli sviluppi futuri illumina e colora di significati inediti ciò che viene cronologicamente prima.
Il giallo di questo libro è - come sempre accade per la Vargas - quasi un pretesto per raccontare la psicologia umana. In questo caso, devo dire che anche la costruzione narrativa è piuttosto affascinante e per niente scontata, forse addirittura troppo arzigogolata rispetto agli standard della scrittrice francese.
Come al solito (si vedano le altre mie recensioni ai suoi libri), però, personalmente vengo conquistata da altro e il numero delle orecchie che ho fatto a questo libro la dice lunga sull'empatia che mi ha suscitato. Mai come in questo libro - forse proprio perché siamo agli inizi della vicenda di Adamsberg - viene fuori la qualità del suo personaggio svagato e profondo, il cui approccio apparentemente inerte e certamente irrazionale mette in crisi l'illuminismo di Danglard, e anche il mio. Ma al contempo Adamsberg esercita un'attrazione senza precedenti per la sua originalità da un lato, e per l'universalità dei suoi sentimenti dall'altro.
E così quando il commissario vien fuori con frasi come: "A volte prego che le persone mi stupiscano, e invece già dall'inizio comincio a scorgere la fine. (p. 20)" e l'autrice aggiunge che "[...] a Adamsberg le certezze che gli altri gli mettevano addosso, lo uccidevano. Gli facevano venire una voglia insopprimibile di deludere (p. 68), non riesco a non provare un'istintiva sintonia con il suo personaggio.
Tant'è che Danglard "avrebbe voluto rubare questo ad Adamsberg: l'imprecisione, l'approssimazione, e gli scorci in cui il suo sguardo pareva ora agonizzare, ora ardere, facendo venire voglia di allontanarsi da lui o di avvicinarsi. Pensava che con lo sguardo di Adamsberg avrebbe potuto vedere le cose oscillare e perdere i loro contorni ragionevoli, come fanno gli alberi d'estate nelle vibrazioni del calore. E allora il mondo gli sarebbe parso meno implacabile, e lui avrebbe smesso di volerlo capire fino ai suoi confini più remoti, e fino ai punti che non si potevano neppure vedere nel cielo. E sarebbe stato meno stanco" (p. 116). Ed io pure.
Poi scopri che anche Adamsberg non è immune dal faticoso confronto con se stesso. "[...] aveva sentito che lui non si osservava, ma si «percepiva», [...] tanto da averne talora «male di consapevolezza». Sapeva che questa percezione dell'esistenza prendeva talvolta sentieri speleologici, dove gli stivali si incollavano nel fango, dove non si trovava alcuna risposta, e che ci voleva del coraggio fisico per non cacciar via tutto molto lontano. Ma quando accadeva, lui non cacciava via niente, perché allora aveva la certezza che un simile gesto lo avrebbe condannato a non essere più nulla." (p 124).
"Danglard pensò che Adamsberg aveva una maniera diversa della sua di rovinarsi la vita. Gli pareva che nonostante il suo atteggiamento indolente, Adamsberg trovasse efficacemente il modo di non darsi mai pare." (p. 196).
Si capisce così anche il suo rapporto con Camille, l'unica donna che nonostante il suo scarso interesse per il sentimento dell'amore gli sia rimasta incollata sulla pelle. Forse perché è l'unica capace di dirgli frasi come questa: «Ti amo. Lasciami andare, adesso.» (p. 234).
Chiamarli gialli è un po' un insulto.
Voto: 4/5
lunedì 21 dicembre 2009
A serious man
Mah, che dire? Ancora una volta mi ritrovo a dover scrivere riflessioni in controtendenza... e vi assicuro che non lo faccio apposta.
Devo premettere che i fratelli Coen (Joel ed Ethan), di cui pure riconosco dei tratti di genialità e soprattutto una straordinaria tecnica cinematografica nel realizzare film completamente diversi l'uno dall'altro, quasi mai riescono davvero a conquistarmi. Il loro precedente film, Non è un paese per vecchi, mi aveva lasciata profondamente perplessa, sebbene devo dire che è venuto fuori alla distanza ed oggi riconosco che è certamente uno dei film che più mi ha colpito nella passata stagione cinematografica.
Chissà, magari rivaluterò anche A serious man nelle prossime settimane, ma devo dire che al momento attuale non riesco a coglierne gli elementi di presunta eccezionalità.
L'attore Michael Stuhlbarg che interpreta il protagonista, Larry Gopnick, ha la capacità di conferire al personaggio quel candore e quell'ingenuità tipici degli antieroi.
La critica socio-religiosa della comunità ebraico-americana è acuta e corrosiva.
Lo humour è nerissimo e alcuni scambi della sceneggiatura sono eccellenti.
I personaggi secondari sono grotteschi ai limiti del farsesco.
La rappresentazione della provincia americana anni '60 è a dir poco inquietante.
Eppure, l'insistenza di un film costruito tutto sopra le righe finisce - a mio modo di vedere - per diventare noioso e ci si ritrova, alla fine del film, a pensare: "ma perché tutto quello che esce dalla penna e dalla regia dei Coen dovrebbe essere considerato un capolavoro?".
Voto: 2,5/5
Devo premettere che i fratelli Coen (Joel ed Ethan), di cui pure riconosco dei tratti di genialità e soprattutto una straordinaria tecnica cinematografica nel realizzare film completamente diversi l'uno dall'altro, quasi mai riescono davvero a conquistarmi. Il loro precedente film, Non è un paese per vecchi, mi aveva lasciata profondamente perplessa, sebbene devo dire che è venuto fuori alla distanza ed oggi riconosco che è certamente uno dei film che più mi ha colpito nella passata stagione cinematografica.
Chissà, magari rivaluterò anche A serious man nelle prossime settimane, ma devo dire che al momento attuale non riesco a coglierne gli elementi di presunta eccezionalità.
L'attore Michael Stuhlbarg che interpreta il protagonista, Larry Gopnick, ha la capacità di conferire al personaggio quel candore e quell'ingenuità tipici degli antieroi.
La critica socio-religiosa della comunità ebraico-americana è acuta e corrosiva.
Lo humour è nerissimo e alcuni scambi della sceneggiatura sono eccellenti.
I personaggi secondari sono grotteschi ai limiti del farsesco.
La rappresentazione della provincia americana anni '60 è a dir poco inquietante.
Eppure, l'insistenza di un film costruito tutto sopra le righe finisce - a mio modo di vedere - per diventare noioso e ci si ritrova, alla fine del film, a pensare: "ma perché tutto quello che esce dalla penna e dalla regia dei Coen dovrebbe essere considerato un capolavoro?".
Voto: 2,5/5
martedì 15 dicembre 2009
Dieci inverni
Semplicemente dieci anni della storia di Camilla (Isabella Ragonese) e Silvestro (Michele Riondino), amici, nemici, conoscenti, estranei e solo alla fine - forse - amanti.
In questi dieci anni succede tutto (storie d'amore, lauree, amicizie, figli) e, allo stesso tempo, niente. Certo non tutto ci viene raccontato - com'è giusto che sia -, solo frammenti delle vite dei due protagonisti, quelli che li fanno incontrare volontariamente o casualmente, nella bruma veneziana o tra la neve di Mosca.
Camilla e Silvestro inevitabilmente ci riportano alla mente la storia di Sara (Lorenza Indovina) e Marco (Fabrizio Gifuni), protagonisti del film Un amore, di Gianluca Maria Tavarelli, anche loro legati da un filo che non si spezza, ma nemmeno intreccia, sospesi in un rapporto cui dare un nome sarebbe delittuoso.
Nel suo minimalismo narrativo, Dieci inverni mi ha fatto però anche pensare in certi momenti a un altro film che ho molto amato, Un cuore in inverno, di Claude Sautet. Anche lì si riflette sul mistero dell'amore, quel sentimento che respingiamo per paura e poi dolorosamente e disperatamente cerchiamo.
Camilla e Silvestro sono in fondo anche loro due cuori in inverno che non si incontrano mai; ed è bellissima la scena in cui dall'alto li vediamo in un "campo" veneziano, separati da una chiesa, entrambi scorgono un prete al centro della piazza che trasporta un alberello, ma tra loro non si vedono e ognuno prosegue per la sua strada.
In fondo, è proprio questa in sintesi la loro storia: non si vedono o fanno finta di non vedersi, ciascuno trattenuto a terra dalla morsa di gelo che soffoca i sentimenti e che di volta in volta si manifesta sotto forma di egoismo, di orgoglio, di infantilismo, di paura, di superficialità, di meschinità.
E anche quando si incontrano chissà se poi si incontrano davvero...
Un gioiello la canzone di Capossela, Parla piano, che contribuisce a trasmettere al film di Mieli quella malinconia dell'incompiutezza e della solitudine da cui le nostre piccole vite umane sono inevitabilmente affette.
Se Lo spazio bianco era una riflessione sulla dilatazione del tempo che per quanto breve sembra interminabile se vissuto nell'attesa, Dieci inverni ci fa riflettere sul fatto che il tempo può avere percorsi lunghissimi e tortuosi, ma dieci anni possono essere come dieci giorni nella percezione di chi insegue qualcosa senza mai afferrarla.
Alla fine, resta anch'esso sospeso l'interrogativo: viviamo in balìa dell'intrinseca imperfezione dell'esistenza o della nostra incapacità soggettiva di placare i tumulti dell'animo e di riempire la nostra solitudine?
"Quando ami qualcuno
meglio amarlo davvero e del tutto
o non prenderlo affatto [...]
Che ti dà che mi dà
affidarsi a te non fidandomi di me"
(qui il testo completo della canzone di Capossela)
Voto: 4/5
In questi dieci anni succede tutto (storie d'amore, lauree, amicizie, figli) e, allo stesso tempo, niente. Certo non tutto ci viene raccontato - com'è giusto che sia -, solo frammenti delle vite dei due protagonisti, quelli che li fanno incontrare volontariamente o casualmente, nella bruma veneziana o tra la neve di Mosca.
Camilla e Silvestro inevitabilmente ci riportano alla mente la storia di Sara (Lorenza Indovina) e Marco (Fabrizio Gifuni), protagonisti del film Un amore, di Gianluca Maria Tavarelli, anche loro legati da un filo che non si spezza, ma nemmeno intreccia, sospesi in un rapporto cui dare un nome sarebbe delittuoso.
Nel suo minimalismo narrativo, Dieci inverni mi ha fatto però anche pensare in certi momenti a un altro film che ho molto amato, Un cuore in inverno, di Claude Sautet. Anche lì si riflette sul mistero dell'amore, quel sentimento che respingiamo per paura e poi dolorosamente e disperatamente cerchiamo.
Camilla e Silvestro sono in fondo anche loro due cuori in inverno che non si incontrano mai; ed è bellissima la scena in cui dall'alto li vediamo in un "campo" veneziano, separati da una chiesa, entrambi scorgono un prete al centro della piazza che trasporta un alberello, ma tra loro non si vedono e ognuno prosegue per la sua strada.
In fondo, è proprio questa in sintesi la loro storia: non si vedono o fanno finta di non vedersi, ciascuno trattenuto a terra dalla morsa di gelo che soffoca i sentimenti e che di volta in volta si manifesta sotto forma di egoismo, di orgoglio, di infantilismo, di paura, di superficialità, di meschinità.
E anche quando si incontrano chissà se poi si incontrano davvero...
Un gioiello la canzone di Capossela, Parla piano, che contribuisce a trasmettere al film di Mieli quella malinconia dell'incompiutezza e della solitudine da cui le nostre piccole vite umane sono inevitabilmente affette.
Se Lo spazio bianco era una riflessione sulla dilatazione del tempo che per quanto breve sembra interminabile se vissuto nell'attesa, Dieci inverni ci fa riflettere sul fatto che il tempo può avere percorsi lunghissimi e tortuosi, ma dieci anni possono essere come dieci giorni nella percezione di chi insegue qualcosa senza mai afferrarla.
Alla fine, resta anch'esso sospeso l'interrogativo: viviamo in balìa dell'intrinseca imperfezione dell'esistenza o della nostra incapacità soggettiva di placare i tumulti dell'animo e di riempire la nostra solitudine?
"Quando ami qualcuno
meglio amarlo davvero e del tutto
o non prenderlo affatto [...]
Che ti dà che mi dà
affidarsi a te non fidandomi di me"
(qui il testo completo della canzone di Capossela)
Voto: 4/5
lunedì 14 dicembre 2009
Welcome
Calais, luogo dove gli immigrati provenienti da ogni parte del mondo si riversano al porto con la speranza di trovare un modo di attraversare la Manica e raggiungere il suolo inglese. Tra masse di gente disperata e bloccata per mesi in questa terra di nessuno c'è Bilal (Firat Ayverdi), un diciassettenne curdo che vuole raggiungere la sua fidanzata che abita a Londra con la famiglia. Frequentando la piscina locale dove spera di allenarsi per attraversare la Manica a nuoto, Bilal incontra Simon (Vincent Lindon), che diventerà per lui quasi un padre in un rapporto dagli esiti non del tutto scontati.
Il regista, Philippe Lioret, sceglie il piano dei sentimenti per raccontare il tema dell'immigrazione in termini meno stereotipati di quanto la stampa di solito non faccia. E in parte ci riesce, trasmettendoci la complessità della questione, i cui protagonisti hanno ciascuno proprie colpe e responsabilità, ma sono al contempo vittime di un sistema che ha raggiunto un insuperabile cortocirtuito.
Peccato che il film non riesca a mantenersi in quel difficilissimo equilibrio capace di descrivere le persone per quello che sono: anime fragili, difettose, capaci di grandi slanci e, al contempo, di terribili meschinità.
Peccato che a un certo punto del film si cominci a delineare una chiara linea di demarcazione tra i buoni e i cattivi e che i personaggi principali ne escano un po' troppo santificati come in una bella favola. Ma forse il regista non aveva intenzione di realizzare un film intimo, bensì un racconto dotato di una morale più o meno evidente.
Personalmente, avrei preferito che il regista continuasse a scavare nelle pieghe dell'animo umano e a scovarne i motivi non sempre edificanti che a volte ci spingono anche a fare gesti di generosità. E infatti, dal mio punto di vista, trovo che la cosa più interessante del film sia il delicato triangolo di sentimenti che si crea tra Vincent, sua moglie (da cui si è appena separato ma ancora ama) e Bilal.
Quando però la storia prende la china del melò e chiama alla lacrima, pur restando efficace e realizzando perfettamente il suo scopo, a mio avviso risulta più debole.
Sinceramente, mi lasciano un po' perplessa alcune critiche entusiastiche che ho letto in giro; ne capisco e condivido la motivazione ideale, ma la valutazione del piano cinematografico non può essere solo di questo tipo.
Certo il tocco del regista è delicato, la recitazione di Vincent Lindon è straordinaria, e forse lo stesso film fatto in Italia non avrebbe avuto lo stesso appeal e la stessa sensibilità di fondo, ma a me che tendenzialmente apprezzo il cinema francese per la sua discrezione e il suo minimalismo questo film è sembrato in qualche modo eccessivo.
In ogni caso, andatelo a vedere, perché è pur sempre una eccellente occasione per riflettere sullo svuotamento di significato che il concetto di accoglienza (Welcome!) sta subendo in tutto questo nostro "povero" mondo occidentale.
Voto: 3/5
Il regista, Philippe Lioret, sceglie il piano dei sentimenti per raccontare il tema dell'immigrazione in termini meno stereotipati di quanto la stampa di solito non faccia. E in parte ci riesce, trasmettendoci la complessità della questione, i cui protagonisti hanno ciascuno proprie colpe e responsabilità, ma sono al contempo vittime di un sistema che ha raggiunto un insuperabile cortocirtuito.
Peccato che il film non riesca a mantenersi in quel difficilissimo equilibrio capace di descrivere le persone per quello che sono: anime fragili, difettose, capaci di grandi slanci e, al contempo, di terribili meschinità.
Peccato che a un certo punto del film si cominci a delineare una chiara linea di demarcazione tra i buoni e i cattivi e che i personaggi principali ne escano un po' troppo santificati come in una bella favola. Ma forse il regista non aveva intenzione di realizzare un film intimo, bensì un racconto dotato di una morale più o meno evidente.
Personalmente, avrei preferito che il regista continuasse a scavare nelle pieghe dell'animo umano e a scovarne i motivi non sempre edificanti che a volte ci spingono anche a fare gesti di generosità. E infatti, dal mio punto di vista, trovo che la cosa più interessante del film sia il delicato triangolo di sentimenti che si crea tra Vincent, sua moglie (da cui si è appena separato ma ancora ama) e Bilal.
Quando però la storia prende la china del melò e chiama alla lacrima, pur restando efficace e realizzando perfettamente il suo scopo, a mio avviso risulta più debole.
Sinceramente, mi lasciano un po' perplessa alcune critiche entusiastiche che ho letto in giro; ne capisco e condivido la motivazione ideale, ma la valutazione del piano cinematografico non può essere solo di questo tipo.
Certo il tocco del regista è delicato, la recitazione di Vincent Lindon è straordinaria, e forse lo stesso film fatto in Italia non avrebbe avuto lo stesso appeal e la stessa sensibilità di fondo, ma a me che tendenzialmente apprezzo il cinema francese per la sua discrezione e il suo minimalismo questo film è sembrato in qualche modo eccessivo.
In ogni caso, andatelo a vedere, perché è pur sempre una eccellente occasione per riflettere sullo svuotamento di significato che il concetto di accoglienza (Welcome!) sta subendo in tutto questo nostro "povero" mondo occidentale.
Voto: 3/5
mercoledì 9 dicembre 2009
Gli abbracci spezzati
Ed eccomi qui ancora una volta di fronte ad Almodovar... Ci deve essere qualcosa nei film del regista spagnolo che mi spinge ad andare a vederli, nonostante il fatto che di pochissimi suoi film (in particolare Parla con lei e in parte Volver) io possa dire apertamente che mi sono piaciuti. Ed è forse proprio questa la forza del regista, la capacità di rapire lo spettatore al di là della sua vigilanza razionale, bussando alla porta del reame dell'inconscio.
È esattamente ciò che mi è capitato di fronte a quest'ultimo film Gli abbracci spezzati.
Razionalmente non mi è piaciuto; l'ho trovato - come spesso i film di Almodovar - rigido nella narrazione e, al contempo, inutilmente appesantito da parentesi narrative poco funzionali, surreale, ma non abbastanza da togliere la sensazione di un realismo incompiuto, grondante di una drammaticità priva di emozione...
Insomma, un film che non risponde a quello che di solito io cerco nel cinema.
Eppure, ne sono stata in qualche maniera catturata.
Certamente dai colori, firma inconfondibile del regista, il rosso sopra tutti; dai dettagli delle scene, le fantasie fiorate dei tendaggi, i crocifissi colorati alle pareti, gli arredi kitsch; dal simbolismo delle immagini; dal citazionismo e dall'autocitazionismo spinto; dal gusto della meta-narrazione; dalla musa Penelope (Cruz) che si lascia plasmare dalle mani del regista visibile e di quello invisibile.
E alla fine forse ho capito cosa mi cattura di Almodovar e cosa inconsciamente ho finito per amare di questo film: l'amore per il cinema che trasuda da ogni dettaglio.
Quella telecamera che è la vera protagonista della storia, intorno alla quale tutti i personaggi si muovono, è il deus ex machina capace di infondere vita (di celluloide, e quindi non propriamente vera) nelle persone e nei paesaggi spagnoli (quelli che Pedro ama almeno quanto le persone, come in questo caso l'isola di Lanzarote).
Nel gioco di scatole cinesi che il regista ci propone (e in cui vediamo una storia che ci racconta un'altra storia per immagini e che a sua volta ne contiene un'altra), ci rendiamo conto che anche ciascuno di noi in fondo recita la propria vita su quell'enorme set cinematografico - solo apparentemente più realistico - che è il mondo nel quale viviamo, e che il confine tra realtà e finzione è molto più labile di quello che pensiamo.
Voto: 3/5
È esattamente ciò che mi è capitato di fronte a quest'ultimo film Gli abbracci spezzati.
Razionalmente non mi è piaciuto; l'ho trovato - come spesso i film di Almodovar - rigido nella narrazione e, al contempo, inutilmente appesantito da parentesi narrative poco funzionali, surreale, ma non abbastanza da togliere la sensazione di un realismo incompiuto, grondante di una drammaticità priva di emozione...
Insomma, un film che non risponde a quello che di solito io cerco nel cinema.
Eppure, ne sono stata in qualche maniera catturata.
Certamente dai colori, firma inconfondibile del regista, il rosso sopra tutti; dai dettagli delle scene, le fantasie fiorate dei tendaggi, i crocifissi colorati alle pareti, gli arredi kitsch; dal simbolismo delle immagini; dal citazionismo e dall'autocitazionismo spinto; dal gusto della meta-narrazione; dalla musa Penelope (Cruz) che si lascia plasmare dalle mani del regista visibile e di quello invisibile.
E alla fine forse ho capito cosa mi cattura di Almodovar e cosa inconsciamente ho finito per amare di questo film: l'amore per il cinema che trasuda da ogni dettaglio.
Quella telecamera che è la vera protagonista della storia, intorno alla quale tutti i personaggi si muovono, è il deus ex machina capace di infondere vita (di celluloide, e quindi non propriamente vera) nelle persone e nei paesaggi spagnoli (quelli che Pedro ama almeno quanto le persone, come in questo caso l'isola di Lanzarote).
Nel gioco di scatole cinesi che il regista ci propone (e in cui vediamo una storia che ci racconta un'altra storia per immagini e che a sua volta ne contiene un'altra), ci rendiamo conto che anche ciascuno di noi in fondo recita la propria vita su quell'enorme set cinematografico - solo apparentemente più realistico - che è il mondo nel quale viviamo, e che il confine tra realtà e finzione è molto più labile di quello che pensiamo.
Voto: 3/5
mercoledì 2 dicembre 2009
La malattia della famiglia M.
Storia di un'ordinaria famiglia disfunzionale. Siamo in un piccolo paese piemontese di provincia, dove il dottor Cristofolini ci racconta la storia della famiglia M.: un padre che si avvia alla vecchiaia e soffre di una indecifrabile e forse inesistente malattia, e i tre figli, le sorelle che evangelicamente si chiamano Marta, la maggiore e la più dedita alla cura della casa e del padre, e Maria, incapace di uscire da una sostanziale confusione dei sentimenti, e il fratello minore Gianni (Fausto Paravidino, autore, regista e interprete), in bilico tra giocosità e fuga. La mamma è morta in circostanze misteriose e di cui si conoscerà qualche dettaglio nel corso del racconto. Intorno a loro altri due personaggi, Fulvio e Fabrizio, rispettivamente fidanzato e pretendente di Maria.
Bravi gli attori, tutti molto credibili, bella la messa in scena, originale la struttura narrativa (a tratti cinematografica più che teatrale).
Il racconto della famiglia M. riserva numerose sorprese che, ovviamente, non svelerò. Vi basti sapere che questo dramma, sapientemente intessuto di un umorismo che consente di sorridere anche delle tragedie e delle piccolezze umane, costituisce una piacevole sorpresa che sinceramente non mi aspettavo.
Avevo già avuto modo di apprezzare Fausto Paravidino e la sua capacità di raccontare storie molto vere in Texas, prodotto cinematografico dotato di una maturità che la giovanissima età dell'autore non faceva certo presagire.
E anche in questo caso Paravidino, che ha scritto questo testo teatrale a soli 24 anni, dimostra la propria sensibilità e profondità nel rappresentare le pieghe dell'animo umano.
Bella la figura del medico di base, narratore quasi involontario perché inevitabilmente destinato per professione ad ascoltare i racconti della gente e a mettere in connessione le malattie fisiche (vere o immaginarie) con le debolezze dell'anima, ma anche lui alla fine coinvolto nella vicenda da protagonista capace di modificare il corso degli eventi.
Ma cos'è esattamente che ci cattura di questo dramma? Personalmente, credo il rapporto tra parole, comportamenti e sentimenti e la particolare configurazione che tali relazioni assumono nella struttura familiare.
Certo la tipizzazione dei profili psicologici è un po' troppo rigida, ma quanto è efficace la sensazione complessiva di un cortocircuito dei sentimenti e delle emozioni che sfocia in varie forme di infantilismo e/o di aggressività!
Paravidino sembra confermare l'idea che la famiglia è in qualche modo il luogo di massima espressione delle patologie individuali e sociali e che queste finiscono per riflettersi nelle dinamiche sociali complessive e ci portiamo dietro anche nel nostro essere adulti.
Nel partecipare allo spettacolo mi è tornata in mente una frase letta chissà dove che credo opportunamente esprime il senso di questa storia: "La nostra vita è una continua navigazione a vista tra l'eccesso di un'attenzione altrui che non desideriamo e la crudeltà della loro indifferenza, tra il disprezzo che nutriamo per essi e il folle bisogno dell'amore di quei pochi di cui non possiamo fare a meno".
Il racconto di Paravidino ne esce al contempo come una rappresentazione universale della rigidità di quella particolare struttura sociale che è la famiglia, che si mantiene in piedi grazie a un equilibrio tanto precario quanto necessario, e come un quadro postmoderno di un'umanità malata di solitudine e di incomunicabilità e incapace di sollevarsi a un più maturo rapporto con i sentimenti.
Forse avrei tagliato solo l'epilogo finale, quella specie di morale della favola, affidata al narratore Cristofolini, che a mio modo di vedere banalizza un po' il racconto; ma nel complesso l'opera mi è sembrata molto misurata, moderna e finemente evocativa per qualunque spettatore.
Dal 25 novembre al 13 dicembre 2009 al Teatro Piccolo Eliseo di Roma.
Voto: 4/5
Bravi gli attori, tutti molto credibili, bella la messa in scena, originale la struttura narrativa (a tratti cinematografica più che teatrale).
Il racconto della famiglia M. riserva numerose sorprese che, ovviamente, non svelerò. Vi basti sapere che questo dramma, sapientemente intessuto di un umorismo che consente di sorridere anche delle tragedie e delle piccolezze umane, costituisce una piacevole sorpresa che sinceramente non mi aspettavo.
Avevo già avuto modo di apprezzare Fausto Paravidino e la sua capacità di raccontare storie molto vere in Texas, prodotto cinematografico dotato di una maturità che la giovanissima età dell'autore non faceva certo presagire.
E anche in questo caso Paravidino, che ha scritto questo testo teatrale a soli 24 anni, dimostra la propria sensibilità e profondità nel rappresentare le pieghe dell'animo umano.
Bella la figura del medico di base, narratore quasi involontario perché inevitabilmente destinato per professione ad ascoltare i racconti della gente e a mettere in connessione le malattie fisiche (vere o immaginarie) con le debolezze dell'anima, ma anche lui alla fine coinvolto nella vicenda da protagonista capace di modificare il corso degli eventi.
Ma cos'è esattamente che ci cattura di questo dramma? Personalmente, credo il rapporto tra parole, comportamenti e sentimenti e la particolare configurazione che tali relazioni assumono nella struttura familiare.
Certo la tipizzazione dei profili psicologici è un po' troppo rigida, ma quanto è efficace la sensazione complessiva di un cortocircuito dei sentimenti e delle emozioni che sfocia in varie forme di infantilismo e/o di aggressività!
Paravidino sembra confermare l'idea che la famiglia è in qualche modo il luogo di massima espressione delle patologie individuali e sociali e che queste finiscono per riflettersi nelle dinamiche sociali complessive e ci portiamo dietro anche nel nostro essere adulti.
Nel partecipare allo spettacolo mi è tornata in mente una frase letta chissà dove che credo opportunamente esprime il senso di questa storia: "La nostra vita è una continua navigazione a vista tra l'eccesso di un'attenzione altrui che non desideriamo e la crudeltà della loro indifferenza, tra il disprezzo che nutriamo per essi e il folle bisogno dell'amore di quei pochi di cui non possiamo fare a meno".
Il racconto di Paravidino ne esce al contempo come una rappresentazione universale della rigidità di quella particolare struttura sociale che è la famiglia, che si mantiene in piedi grazie a un equilibrio tanto precario quanto necessario, e come un quadro postmoderno di un'umanità malata di solitudine e di incomunicabilità e incapace di sollevarsi a un più maturo rapporto con i sentimenti.
Forse avrei tagliato solo l'epilogo finale, quella specie di morale della favola, affidata al narratore Cristofolini, che a mio modo di vedere banalizza un po' il racconto; ma nel complesso l'opera mi è sembrata molto misurata, moderna e finemente evocativa per qualunque spettatore.
Dal 25 novembre al 13 dicembre 2009 al Teatro Piccolo Eliseo di Roma.
Voto: 4/5
domenica 22 novembre 2009
Up
Sarà che in questo periodo ho la lacrima facile e il cuore un po' troppo intenerito dalla necessità di compensare la rabbia, la tristezza e la fatica di ogni giorno, ma questo film della Disney Pixar mi ha commosso... O forse la sua morale semplice e per certi versi banale mi ha allargato il cuore.
Soprattutto ho trovato deliziosa e toccante la prima silenziosa mezz'ora, il racconto della storia di Carl ed Elie, dal loro incontro di bambini affascinati dall'esplorazione del mondo, al loro matrimonio tenero e felice, per quanto segnato da rinunce e sofferenze, alla vecchiaia vissuta continuando a portare i propri sogni nel cuore e cercandoli nella vita di tutti i giorni per farne una meravigliosa avventura.
L'incontro di Carl (rimasto solo dopo la morte di Elie) con il piccolo Russell, il viaggio nella casa trascinata da migliaia di palloncini, l'avventura alle Cascate Paradiso (durante la quale si perdonano al film alcuni elementi un po' eccessivi e ripetitivi) sono un meraviglioso viaggio interiore, quello che ognuno di noi, quando rischia di inaridirsi nella propria capacità di aprirsi ai sentimenti, deve fare per riscoprire quanto può essere sorprendente la vita: basta darsi un'altra possibilità!
E mi ha ricordato un po' Miyazaki la sensibilità verso i temi della vecchiaia, del ricordo, del rapporto tra bambini e anziani, della minaccia umana alla natura.
Il film piace ai bambini per gli effetti visivi tridimensionali, per gli animali che lo popolano, per i palloncini colorati, per la comicità di alcune scene, ma piace anche agli adulti perché, come sempre più spesso accade con i film di animazione, riesce a parlare con intelligenza e semplicità di cose complesse cui film ben più strutturati e pretenziosi non sono in grado di aspirare.
Davvero un piccolo capolavoro il corto Pixar che precede il film, dal titolo Parzialmente nuvoloso, storia dell'amicizia tra una cicogna e una nuvola, apparentementi due perdenti rispetto al mondo che li circonda, in realtà graziati dallo straordinario dono di un affetto reciproco capace di farli sentire ricchi e fortunati. Dovete assolutamente vederlo! Ed eccolo qui (ma come vedete è stato rimosso per motivi di copyright, ora - gennaio 2010 - sono disponibili solo estratti da 30 sec).
Insomma, lasciamoci trasportare tra le nuvole dai palloncini di Carl Fredricksen, sperando di incontrare quella povera nuvoletta grigia cui a volte mi sento tanto tanto simile... E magari un giorno - chissà - arriverà anche una cicogna disposta a volerci bene, nonostante tutto!
Voto: 4/5
P.S. Mi dicono che più che alla nuvoletta grigia assomiglio alla piccola cicogna che non si tira indietro a costo di indossare un'armaturina... ;-) Che bello!
Soprattutto ho trovato deliziosa e toccante la prima silenziosa mezz'ora, il racconto della storia di Carl ed Elie, dal loro incontro di bambini affascinati dall'esplorazione del mondo, al loro matrimonio tenero e felice, per quanto segnato da rinunce e sofferenze, alla vecchiaia vissuta continuando a portare i propri sogni nel cuore e cercandoli nella vita di tutti i giorni per farne una meravigliosa avventura.
L'incontro di Carl (rimasto solo dopo la morte di Elie) con il piccolo Russell, il viaggio nella casa trascinata da migliaia di palloncini, l'avventura alle Cascate Paradiso (durante la quale si perdonano al film alcuni elementi un po' eccessivi e ripetitivi) sono un meraviglioso viaggio interiore, quello che ognuno di noi, quando rischia di inaridirsi nella propria capacità di aprirsi ai sentimenti, deve fare per riscoprire quanto può essere sorprendente la vita: basta darsi un'altra possibilità!
E mi ha ricordato un po' Miyazaki la sensibilità verso i temi della vecchiaia, del ricordo, del rapporto tra bambini e anziani, della minaccia umana alla natura.
Il film piace ai bambini per gli effetti visivi tridimensionali, per gli animali che lo popolano, per i palloncini colorati, per la comicità di alcune scene, ma piace anche agli adulti perché, come sempre più spesso accade con i film di animazione, riesce a parlare con intelligenza e semplicità di cose complesse cui film ben più strutturati e pretenziosi non sono in grado di aspirare.
Davvero un piccolo capolavoro il corto Pixar che precede il film, dal titolo Parzialmente nuvoloso, storia dell'amicizia tra una cicogna e una nuvola, apparentementi due perdenti rispetto al mondo che li circonda, in realtà graziati dallo straordinario dono di un affetto reciproco capace di farli sentire ricchi e fortunati. Dovete assolutamente vederlo! Ed eccolo qui (ma come vedete è stato rimosso per motivi di copyright, ora - gennaio 2010 - sono disponibili solo estratti da 30 sec).
Insomma, lasciamoci trasportare tra le nuvole dai palloncini di Carl Fredricksen, sperando di incontrare quella povera nuvoletta grigia cui a volte mi sento tanto tanto simile... E magari un giorno - chissà - arriverà anche una cicogna disposta a volerci bene, nonostante tutto!
Voto: 4/5
P.S. Mi dicono che più che alla nuvoletta grigia assomiglio alla piccola cicogna che non si tira indietro a costo di indossare un'armaturina... ;-) Che bello!
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mercoledì 11 novembre 2009
Mamma mia! Il musical
Durante la mia vacanza newyorkese (che città affascinante!), una sera sono andata a vedere con i miei amici al teatro Winter Garden di Broadway il musical Mamma mia!
Avevo visto il film al cinema e già conoscevo e amavo le canzoni degli Abba che ne costituiscono l'ossatura principale!
Ma che dire? Lo spettacolo di Broadway mi ha letteralmente conquistata, sia per la bravura dei protagonisti (attori, cantanti e ballerini allo stesso tempo), sia per la cura di coreografie e scenografie, e soprattutto per l'energia che il cast nel suo complesso trasmetteva al pubblico (affollato di gente con la medaglia della Maratona di New York al collo). O forse, chissà, perché l'emozione di vedere un musical a Broadway è un'altra cosa...
È stato così praticamente inevitabile battere le mani a tempo e, durante l'epilogo, alzarsi in piedi e ballare sulle note della fantastica Dancing Queen!
Una menzione speciale per la protagonista, Beth Leavel, che interpreta Donna Sheridan e che mi ha ricordato a tratti Liza Minnelli. Eccellente il corpo di ballo, tanto che non mi sono lasciata sfuggire l'occasione (anche grazie alla complicità dei miei amici) di fare una foto con una delle ballerine, Halle Morse, che intepreta Lisa, l'amica della futura sposa.
Lo spettacolo mette allegria e buonumore e direi che se ne sente davvero il bisogno di questi tempi... E ora, a distanza di più di una settimana, non riesco a togliermi dalla testa le canzoni degli Abba, che trovo davvero intramontabili... e il mio telefonino adesso squilla con le note di Take a chance on me!
Voto: 4/5
Avevo visto il film al cinema e già conoscevo e amavo le canzoni degli Abba che ne costituiscono l'ossatura principale!
Ma che dire? Lo spettacolo di Broadway mi ha letteralmente conquistata, sia per la bravura dei protagonisti (attori, cantanti e ballerini allo stesso tempo), sia per la cura di coreografie e scenografie, e soprattutto per l'energia che il cast nel suo complesso trasmetteva al pubblico (affollato di gente con la medaglia della Maratona di New York al collo). O forse, chissà, perché l'emozione di vedere un musical a Broadway è un'altra cosa...
È stato così praticamente inevitabile battere le mani a tempo e, durante l'epilogo, alzarsi in piedi e ballare sulle note della fantastica Dancing Queen!
Una menzione speciale per la protagonista, Beth Leavel, che interpreta Donna Sheridan e che mi ha ricordato a tratti Liza Minnelli. Eccellente il corpo di ballo, tanto che non mi sono lasciata sfuggire l'occasione (anche grazie alla complicità dei miei amici) di fare una foto con una delle ballerine, Halle Morse, che intepreta Lisa, l'amica della futura sposa.
Lo spettacolo mette allegria e buonumore e direi che se ne sente davvero il bisogno di questi tempi... E ora, a distanza di più di una settimana, non riesco a togliermi dalla testa le canzoni degli Abba, che trovo davvero intramontabili... e il mio telefonino adesso squilla con le note di Take a chance on me!
Voto: 4/5
mercoledì 28 ottobre 2009
La doppia ora
Particolare questo film di Giuseppe Capotondi e capace di suscitare interesse sia dal punto di vista cinematografico che dei contenuti.
Sul piano cinematografico, sorprende la capacità di mescolare generi diversi: la prima metà del film è quasi una ghost story, un "piccolo film di paura", che crea ansia, tensione e fa stare lo spettatore in una condizione di inquietante angoscia; la seconda parte è insieme una storia d'amore, un piccolo giallo, un dramma psicologico.
Ksenia Rappoport, che già avevo enormemente apprezzato ne La sconosciuta di Giuseppe Tornatore, conferma la sua straordinaria capacità di dare spessore ai personaggi e una complessità che è propria della vita reale. Filippo Timi, sempre bravo, gli fa degnamente da spalla.
Ma, dal mio punto di vista, l'aspetto più interessante del film è la capacità del regista di rendere per immagini il dialogo interiore tra conscio e inconscio e la riflessione che guardare sullo schermo il fluire dell'inconscio suggerisce. Ho trovato entusiasmante il racconto di sintesi dell'inconscio, capace di chiamare a raccolta passato, presente e futuro, di mescolare eventi e persone, di trasfigurare i nostri sensi di colpa e le speranze più recondite. E ancora più entusiasmante è poi il confronto con la realtà e il processo di razionalizzazione e selezione che la nostra mente conscia inevitabilmente fa, e non sempre per il meglio.
In questa fase della vita forse avrei voluto che il film riuscisse a suggerire una via d'uscita, ad aprire una speranza, a forgiare una forma di felicità. Purtroppo, invece, non si può fare a meno di sentire e condividere il blocco interiore dei personaggi, cui neppure essere messi faccia a faccia con le pieghe più profonde del proprio io dà la forza di conferire una reale svolta alla propria esistenza.
E alla fine del film resta sospeso e incombente l'interrogativo sul senso della nostra vita.
Voto: 3,5/5
Sul piano cinematografico, sorprende la capacità di mescolare generi diversi: la prima metà del film è quasi una ghost story, un "piccolo film di paura", che crea ansia, tensione e fa stare lo spettatore in una condizione di inquietante angoscia; la seconda parte è insieme una storia d'amore, un piccolo giallo, un dramma psicologico.
Ksenia Rappoport, che già avevo enormemente apprezzato ne La sconosciuta di Giuseppe Tornatore, conferma la sua straordinaria capacità di dare spessore ai personaggi e una complessità che è propria della vita reale. Filippo Timi, sempre bravo, gli fa degnamente da spalla.
Ma, dal mio punto di vista, l'aspetto più interessante del film è la capacità del regista di rendere per immagini il dialogo interiore tra conscio e inconscio e la riflessione che guardare sullo schermo il fluire dell'inconscio suggerisce. Ho trovato entusiasmante il racconto di sintesi dell'inconscio, capace di chiamare a raccolta passato, presente e futuro, di mescolare eventi e persone, di trasfigurare i nostri sensi di colpa e le speranze più recondite. E ancora più entusiasmante è poi il confronto con la realtà e il processo di razionalizzazione e selezione che la nostra mente conscia inevitabilmente fa, e non sempre per il meglio.
In questa fase della vita forse avrei voluto che il film riuscisse a suggerire una via d'uscita, ad aprire una speranza, a forgiare una forma di felicità. Purtroppo, invece, non si può fare a meno di sentire e condividere il blocco interiore dei personaggi, cui neppure essere messi faccia a faccia con le pieghe più profonde del proprio io dà la forza di conferire una reale svolta alla propria esistenza.
E alla fine del film resta sospeso e incombente l'interrogativo sul senso della nostra vita.
Voto: 3,5/5
giovedì 22 ottobre 2009
Lo spazio bianco
Quando ho letto la trama de Lo spazio bianco di Francesca Comencini mi sono detta che era un film che dovevo assolutamente vedere. Io, come la protagonista, Maria, ho un rapporto conflittuale con il tempo e ho passato buona parte della vita a tentare di addomesticarlo ai miei voleri. Sono impaziente, impulsiva, incapace di accettare la sola idea del passare del tempo. Mi sembra che il tempo a nostra disposizione sia così poco che non ci possiamo permettere il lusso di lasciarlo passare nell'attesa.
Anche Maria è un po' così, forse per motivi diversi dai miei, ma anche lei aggredisce la vita e, in questa ansia, ha finito per asservire la vita a sé piuttosto che mettersi a disposizione del suo sorprendente scorrere, con la conseguenza di una sostanziale insoddisfazione, solitudine e infelicità.
Ma, per fortuna, a volte è la vita stessa che ci mette di fronte a quello che siamo. Nel caso di Maria una gravidanza gestita in solitudine e finita troppo presto con la nascita di una bimba prematura, che solo dopo tre mesi di incubatrice forse potrà essere pronta a vivere veramente.
Che fare di fronte a questo evento? Fermare il tempo, interrompere ogni attività vitale, spaccare tutto, o semplicemente accettare un'attesa impotente, ma partecipe? Maria imparerà sulla sua pelle che lo spazio bianco non si può sempre riempire di quello che vogliamo noi, ma di quello che la vita ci impone.
Più volte Maria, riferendosi alla piccola nell'incubatrice, dice: "Non so se sto aspettando che nasca o che muoia". Mi è sembrata una straordinaria metafora degli spazi bianchi della nostra vita, le crisi, i momenti di transizione, quelli da cui possiamo rinascere o uscire sconfitti.
Margherita Buy è straordinaria nel ruolo di Maria, che forse le è particolarmente congeniale.
Bella l'ambientazione napoletana e i personaggi di contorno che fanno fa contrappunto al personaggio centrale con quell'innata propensione a una certa dose di fatalismo attivo.
Bella la fotografia, il montaggio, i flashback che riempiono l'attesa, azzeccata la colonna sonora. Riuscita la sceneggiatura, rispetto alla quale è opportuno ricordare l'ascendenza dall'omonimo libro di Valeria Parrella, che non ho letto ma a cui va certamente ascritta almeno una parte del merito.
Personalmente avrei però chiuso il film cinque minuti prima della sua vera conclusione, alla fine della lunga camminata di Maria verso l'ospedale. La sequenza finale fa virare infatti il film verso un sentimentalismo e una retorica che non gli appartengono e sposta l'attenzione sull'esito dell'attesa, anziché sul valore del tempo, tema dell'intero film.
Sono uscita dal cinema pensando a quanto scriveva Rob Breszny nell'oroscopo dei Gemelli (il mio segno) di qualche settimana fa: "Nel 2012 accadrà un evento straordinario, ma nel frattempo cosa farete, Gemelli? Trovate almeno tre buoni motivi per fare pace col tempo".
Ebbene, li sto cercando...
Voto: 4/5
Anche Maria è un po' così, forse per motivi diversi dai miei, ma anche lei aggredisce la vita e, in questa ansia, ha finito per asservire la vita a sé piuttosto che mettersi a disposizione del suo sorprendente scorrere, con la conseguenza di una sostanziale insoddisfazione, solitudine e infelicità.
Ma, per fortuna, a volte è la vita stessa che ci mette di fronte a quello che siamo. Nel caso di Maria una gravidanza gestita in solitudine e finita troppo presto con la nascita di una bimba prematura, che solo dopo tre mesi di incubatrice forse potrà essere pronta a vivere veramente.
Che fare di fronte a questo evento? Fermare il tempo, interrompere ogni attività vitale, spaccare tutto, o semplicemente accettare un'attesa impotente, ma partecipe? Maria imparerà sulla sua pelle che lo spazio bianco non si può sempre riempire di quello che vogliamo noi, ma di quello che la vita ci impone.
Più volte Maria, riferendosi alla piccola nell'incubatrice, dice: "Non so se sto aspettando che nasca o che muoia". Mi è sembrata una straordinaria metafora degli spazi bianchi della nostra vita, le crisi, i momenti di transizione, quelli da cui possiamo rinascere o uscire sconfitti.
Margherita Buy è straordinaria nel ruolo di Maria, che forse le è particolarmente congeniale.
Bella l'ambientazione napoletana e i personaggi di contorno che fanno fa contrappunto al personaggio centrale con quell'innata propensione a una certa dose di fatalismo attivo.
Bella la fotografia, il montaggio, i flashback che riempiono l'attesa, azzeccata la colonna sonora. Riuscita la sceneggiatura, rispetto alla quale è opportuno ricordare l'ascendenza dall'omonimo libro di Valeria Parrella, che non ho letto ma a cui va certamente ascritta almeno una parte del merito.
Personalmente avrei però chiuso il film cinque minuti prima della sua vera conclusione, alla fine della lunga camminata di Maria verso l'ospedale. La sequenza finale fa virare infatti il film verso un sentimentalismo e una retorica che non gli appartengono e sposta l'attenzione sull'esito dell'attesa, anziché sul valore del tempo, tema dell'intero film.
Sono uscita dal cinema pensando a quanto scriveva Rob Breszny nell'oroscopo dei Gemelli (il mio segno) di qualche settimana fa: "Nel 2012 accadrà un evento straordinario, ma nel frattempo cosa farete, Gemelli? Trovate almeno tre buoni motivi per fare pace col tempo".
Ebbene, li sto cercando...
Voto: 4/5
martedì 20 ottobre 2009
Viola di mare
Comincerò da quello che mi è piaciuto per non fare troppo torto a un film che è apprezzabile per il coraggio di raccontare una storia scomoda e per le lodevoli intenzioni. Certamente mi è piaciuta la storia raccontata, quella di Angela e Sara nella Favignana della metà dell'Ottocento, una storia incredibile, eppure assolutamente plausibile per chi conosce i meccanismi di ipocrisia e di apparenza che caratterizzano le società più chiuse e retrograde. È infatti proprio in questi contesti che le vicende umane più controverse trovano una loro più o meno assurda composizione che consenta una superficiale pace alla coscienza dei singoli. E per aver riportato in superficie questa storia bisogna rendere merito a Giacomo Pilati e al suo libro Minchia di re, cui il film è liberamente ispirato.
Gli attori sono bravi (anche se le bambine della prima parte del film sono "da dimenticare"), le due protagoniste (Valeria Solarino e Isabella Ragonese) ce la mettono sicuramente tutta e riescono a tratti a coinvolgere e a dare spessore al racconto, ma nondimeno la sensazione di avere a che fare con un prodotto cinematografico un po' ingessato e a tratti anacronistico difficilmente ci abbandona.
Capisco che probabilmente era nelle intenzioni della regista (Donatella Maiorca) conferire modernità a questa storia, grazie alla colonna sonora (di Gianna Nannini), ad alcune scene e al modo di essere delle due attrici, ma alla fine tutto questo produce un inevitabile effetto straniante che personalmente non ho molto gradito...
Ho poi trovato poco convincente la sceneggiatura (a tratti i dialoghi sono davvero poco credibili, e del resto anche il libro mi aveva in parte fatto la stessa impressione di parziale superficialità) e il montaggio (in alcuni casi piuttosto ingenuo dal mio punto di vista).
In definitiva, mi sarei aspettata un film più emozionante, ma non nel senso moderno di questo termine, bensì come conseguenza di un'operazione un po' più profonda e raffinata.
In definitiva, mi è sembrata un'occasione in parte mancata dal punto di vista cinematografico o forse ci ero andata con troppe aspettative!
Voto: 2,5/5
Gli attori sono bravi (anche se le bambine della prima parte del film sono "da dimenticare"), le due protagoniste (Valeria Solarino e Isabella Ragonese) ce la mettono sicuramente tutta e riescono a tratti a coinvolgere e a dare spessore al racconto, ma nondimeno la sensazione di avere a che fare con un prodotto cinematografico un po' ingessato e a tratti anacronistico difficilmente ci abbandona.
Capisco che probabilmente era nelle intenzioni della regista (Donatella Maiorca) conferire modernità a questa storia, grazie alla colonna sonora (di Gianna Nannini), ad alcune scene e al modo di essere delle due attrici, ma alla fine tutto questo produce un inevitabile effetto straniante che personalmente non ho molto gradito...
Ho poi trovato poco convincente la sceneggiatura (a tratti i dialoghi sono davvero poco credibili, e del resto anche il libro mi aveva in parte fatto la stessa impressione di parziale superficialità) e il montaggio (in alcuni casi piuttosto ingenuo dal mio punto di vista).
In definitiva, mi sarei aspettata un film più emozionante, ma non nel senso moderno di questo termine, bensì come conseguenza di un'operazione un po' più profonda e raffinata.
In definitiva, mi è sembrata un'occasione in parte mancata dal punto di vista cinematografico o forse ci ero andata con troppe aspettative!
Voto: 2,5/5
martedì 13 ottobre 2009
Cyrano de Bergerac
Sono andata a vedere al Teatro Argentina di Roma la versione di Cyrano recitata da Massimo Popolizio. Come spesso accade per generazioni ibride come la mia, la curiosità me l'aveva suscitata non tanto la conoscenza del testo teatrale originario, bensì la memoria del film con Gérard Depardieu che avevo trovato a dir poco adorabile. Inoltre, la storia di Cyrano mi piace molto, e a lungo mi sono identificata con questo personaggio per il quale l'aspetto fisico e i fantasmi interiori diventano una barriera quasi invalicabile all'espressione aperta dei propri sentimenti.
L'allestimento teatrale è interessante e devo dire che - da profana quale sono - Massimo Popolizio mi è piaciuto molto nel ruolo di Cyrano, perché è riuscito a conferire al personaggio una vena triste e ironica allo stesso tempo. La recitazione in versi, le coloriture dialettali, l'animo di perdente sono note di merito di un'interpretazione davvero di qualità, molto diversa da quella cinematografica che calcava l'accento su altri toni e sfumature. Qui Cyrano non ci indispone, bensì ci fa tenerezza; non troneggia nei duelli fisici e verbali, bensì ci arriva quasi in sordina.
Personalmente, non ho invece del tutto apprezzato la scelta dei comprimari, personaggi importanti, come l'amata Rossana (Viola Pornaro) e il giovane Cristiano (Luca Bastianello), che ho trovato sia fisicamente che teatralmente non del tutto all'altezza del personaggio centrale. Ma forse l'inevitabile destino di una storia come quella di Cyrano è proprio quello di far emergere la solitudine del suo eroe/antieroe. Del resto, altrettanto accadeva nel film, in cui - se proprio devo dire la verità - non ricordo nemmeno il volto degli altri attori, oscurati da "cotanta magnificenza"!
Voto: 3,5/5
L'allestimento teatrale è interessante e devo dire che - da profana quale sono - Massimo Popolizio mi è piaciuto molto nel ruolo di Cyrano, perché è riuscito a conferire al personaggio una vena triste e ironica allo stesso tempo. La recitazione in versi, le coloriture dialettali, l'animo di perdente sono note di merito di un'interpretazione davvero di qualità, molto diversa da quella cinematografica che calcava l'accento su altri toni e sfumature. Qui Cyrano non ci indispone, bensì ci fa tenerezza; non troneggia nei duelli fisici e verbali, bensì ci arriva quasi in sordina.
Personalmente, non ho invece del tutto apprezzato la scelta dei comprimari, personaggi importanti, come l'amata Rossana (Viola Pornaro) e il giovane Cristiano (Luca Bastianello), che ho trovato sia fisicamente che teatralmente non del tutto all'altezza del personaggio centrale. Ma forse l'inevitabile destino di una storia come quella di Cyrano è proprio quello di far emergere la solitudine del suo eroe/antieroe. Del resto, altrettanto accadeva nel film, in cui - se proprio devo dire la verità - non ricordo nemmeno il volto degli altri attori, oscurati da "cotanta magnificenza"!
Voto: 3,5/5
domenica 4 ottobre 2009
Basta che funzioni
Sono andata a vedere l’ultimo film di Woody Allen (Whatever works), animata da belle speranze perché le recensioni ne parlano in termini estremamente positivi e la maggior parte degli amici che l’avevano già visto me l’avevano caldamente consigliato, dicendomi che si tratta di un ritorno di Allen alle origini e quindi al meglio delle sue capacità espressive.
Ebbene, dopo aver visto il film, ho avuto la conferma che il Woody Allen classico non mi entusiasma, tanto che avevo invece decisamente apprezzato un film completamente estraneo (nelle atmosfere e nei toni) alla sua vena più tradizionale, Matchpoint. Da un punto di vista concettuale, mi pare che continui la riflessione di un Woody Allen ormai incamminatosi sulla strada della vecchiaia in merito al ruolo del caso e della fortuna rispetto al corso della nostra vita. Non importa quanto possiamo analizzare le nostre esistenze e capire di noi stessi, alla fine è la fatalità che determina gli eventi più importanti e il loro andamento.
Certo, questo film si caratterizza per un approccio che – per quanto possibile in riferimento a Woody Allen – appare più ottimista e quasi buonista, in quanto il messaggio del film è pienamente racchiuso nel suo titolo. Visto che per quanto possiamo affidarci nelle nostre scelte alla razionalità questo non ci garantisce la felicità, allora lasciamoci andare alla casualità e cerchiamo di vivere positivamente tutto quello che funziona. Il messaggio è affidato al suo alter ego nel film, Boris Yelnikoff (Larry David), personaggio inevitabilmente caratterizzato da un cinismo e da un sarcasmo che solo Allen può concepire. Purtroppo, personalmente non riesco a superare il fastidio quasi fisico che un personaggio ipocondriaco, logorroico e intollerante come questo mi suscita. Indubbiamente la sceneggiatura è brillante e in diversi momenti riesce a strappare una risata, e gli altri personaggi, la giovane moglie del protagonista (la brava Evan Rachel Wood) e soprattutto i due genitori di questa, sono azzeccati e giustamente essenziali al quadro d'insieme.
L’ambientazione newyorkese è gradevole, la trovata – non proprio nuova – di rivolgersi agli spettatori attraverso la macchina da presa certamente movimenta l'azione, ma al contempo accentua la componente didascalica del film. All'uscita dalla sala non mi ha abbandonato la sensazione che si tratti dell’ennesimo compitino a casa di Allen, con una tesi tutto sommato semplice e semplicistica da dimostrare, e senza veri guizzi di genialità.
In fondo lo dice sempre anche una mia amica che trovare la persona con cui si sta bene è per gran parte questione di fortuna (lei usa un termine diverso!!), combinazione di una serie di coincidenze che al calcolo delle probabilità farebbe venire il panico. Ma lo stesso Allen aggiunge che tutto è transitorio e che, appunto, finché funziona, meglio godersi quello che si sta vivendo e non farsi ingabbiare dalle sovrastrutture che la nostra educazione e società spesso ci impongono.
Insomma, bella scoperta! Sono migliaia di anni che filosofi e pensatori lo ripetono… E poi, mi chiedo, non sarà che a volte il caso non è così casuale, come dice Robert H. Hopcke nel suo ultimo libro Nulla succede per caso?
In conclusione, film gradevole da vedere, ma senza menzioni speciali.
Voto: 2,5/5
Ebbene, dopo aver visto il film, ho avuto la conferma che il Woody Allen classico non mi entusiasma, tanto che avevo invece decisamente apprezzato un film completamente estraneo (nelle atmosfere e nei toni) alla sua vena più tradizionale, Matchpoint. Da un punto di vista concettuale, mi pare che continui la riflessione di un Woody Allen ormai incamminatosi sulla strada della vecchiaia in merito al ruolo del caso e della fortuna rispetto al corso della nostra vita. Non importa quanto possiamo analizzare le nostre esistenze e capire di noi stessi, alla fine è la fatalità che determina gli eventi più importanti e il loro andamento.
Certo, questo film si caratterizza per un approccio che – per quanto possibile in riferimento a Woody Allen – appare più ottimista e quasi buonista, in quanto il messaggio del film è pienamente racchiuso nel suo titolo. Visto che per quanto possiamo affidarci nelle nostre scelte alla razionalità questo non ci garantisce la felicità, allora lasciamoci andare alla casualità e cerchiamo di vivere positivamente tutto quello che funziona. Il messaggio è affidato al suo alter ego nel film, Boris Yelnikoff (Larry David), personaggio inevitabilmente caratterizzato da un cinismo e da un sarcasmo che solo Allen può concepire. Purtroppo, personalmente non riesco a superare il fastidio quasi fisico che un personaggio ipocondriaco, logorroico e intollerante come questo mi suscita. Indubbiamente la sceneggiatura è brillante e in diversi momenti riesce a strappare una risata, e gli altri personaggi, la giovane moglie del protagonista (la brava Evan Rachel Wood) e soprattutto i due genitori di questa, sono azzeccati e giustamente essenziali al quadro d'insieme.
L’ambientazione newyorkese è gradevole, la trovata – non proprio nuova – di rivolgersi agli spettatori attraverso la macchina da presa certamente movimenta l'azione, ma al contempo accentua la componente didascalica del film. All'uscita dalla sala non mi ha abbandonato la sensazione che si tratti dell’ennesimo compitino a casa di Allen, con una tesi tutto sommato semplice e semplicistica da dimostrare, e senza veri guizzi di genialità.
In fondo lo dice sempre anche una mia amica che trovare la persona con cui si sta bene è per gran parte questione di fortuna (lei usa un termine diverso!!), combinazione di una serie di coincidenze che al calcolo delle probabilità farebbe venire il panico. Ma lo stesso Allen aggiunge che tutto è transitorio e che, appunto, finché funziona, meglio godersi quello che si sta vivendo e non farsi ingabbiare dalle sovrastrutture che la nostra educazione e società spesso ci impongono.
Insomma, bella scoperta! Sono migliaia di anni che filosofi e pensatori lo ripetono… E poi, mi chiedo, non sarà che a volte il caso non è così casuale, come dice Robert H. Hopcke nel suo ultimo libro Nulla succede per caso?
In conclusione, film gradevole da vedere, ma senza menzioni speciali.
Voto: 2,5/5
lunedì 21 settembre 2009
Il mio vicino Totoro
Ecco chi è quel buffo animaletto che Miyazaki ha scelto come simbolo della sua casa di produzione, lo Studio Ghibli! È Totoro, pronunciato nel film con l'accento sulla prima "o", ma nella canzoncina - che non riesce più ad uscirmi dalla testa - con l'accento sulla seconda "o".
Il mio vicino Totoro è, in realtà, un vecchio film del grande maestro dell'animazione giapponese - risale al 1988 - che non era mai stato portato nelle sale italiane. Visto però il successo delle ultime sue opere, Il castello errante di Howl e Ponyo sulla scogliera (di cui trovate qui la mia breve recensione), finalmente vediamo al cinema anche questo film.
Certo, si vede che si tratta di un film di un Miyazaki più giovane, più fiducioso, meno cinico e conservatore. I temi a lui cari ci sono tutti: il rapporto tra uomo e natura, lo sguardo pulito dei bambini, la saggezza degli anziani, la famiglia, il sogno.
Mentre però in alcuni degli ultimi film, in particolare La città incantata e Il castello errante di Howl, c'è uno sguardo triste sul disastro ecologico che gli umani hanno provocato e uno disincantato sulla miopia dell'età adulta, qui mi pare che prevalga un maggiore ottimismo, in cui anche gli adulti sono - seppur con difficoltà - in sintonia con la purezza del mondo.
Invece, questo film mi è sembrato - sia dal punto di vista dei contenuti che dei disegni - più vicino al suo ultimo, Ponyo sulla scogliera, in cui effettivamente Miyazaki sembra tornare appunto alle sue origini.
Il film è un godimento per gli occhi e per la mente, con le sue belle e fantasiose invenzioni: i buffi animaletti che lo abitano, il gattobus che sfreccia per le colline giapponesi, le sorelline Satsuki e Mei, la casa in legno diroccata, il grande albero di canfora!
In definitiva, non posso fare a meno di adorare questi film e questo sguardo bambino che li caratterizza... I film di Miyazaki mi aprono il cuore e mi ricordano la necessità di apprezzare la bellezza della vita, dei sentimenti, della natura.
Grazie, Miyazaki.
Voto: 4/5
Il mio vicino Totoro è, in realtà, un vecchio film del grande maestro dell'animazione giapponese - risale al 1988 - che non era mai stato portato nelle sale italiane. Visto però il successo delle ultime sue opere, Il castello errante di Howl e Ponyo sulla scogliera (di cui trovate qui la mia breve recensione), finalmente vediamo al cinema anche questo film.
Certo, si vede che si tratta di un film di un Miyazaki più giovane, più fiducioso, meno cinico e conservatore. I temi a lui cari ci sono tutti: il rapporto tra uomo e natura, lo sguardo pulito dei bambini, la saggezza degli anziani, la famiglia, il sogno.
Mentre però in alcuni degli ultimi film, in particolare La città incantata e Il castello errante di Howl, c'è uno sguardo triste sul disastro ecologico che gli umani hanno provocato e uno disincantato sulla miopia dell'età adulta, qui mi pare che prevalga un maggiore ottimismo, in cui anche gli adulti sono - seppur con difficoltà - in sintonia con la purezza del mondo.
Invece, questo film mi è sembrato - sia dal punto di vista dei contenuti che dei disegni - più vicino al suo ultimo, Ponyo sulla scogliera, in cui effettivamente Miyazaki sembra tornare appunto alle sue origini.
Il film è un godimento per gli occhi e per la mente, con le sue belle e fantasiose invenzioni: i buffi animaletti che lo abitano, il gattobus che sfreccia per le colline giapponesi, le sorelline Satsuki e Mei, la casa in legno diroccata, il grande albero di canfora!
In definitiva, non posso fare a meno di adorare questi film e questo sguardo bambino che li caratterizza... I film di Miyazaki mi aprono il cuore e mi ricordano la necessità di apprezzare la bellezza della vita, dei sentimenti, della natura.
Grazie, Miyazaki.
Voto: 4/5
domenica 20 settembre 2009
Il ristorante Pasha (Conversano)
Che bello - per una volta - poter parlare bene di qualcosa che ha a che fare con le proprie radici... Eh sì, perché quest'estate ho deciso di approfittare della presenza della mia amica Agnese (appassionata di cucina) per sperimentare quello che è ormai considerato il migliore ristorante non solo di Conversano (il mio paese di origine), ma di tutta la Puglia! E così volentieri ospito la recensione che Agnese ha scritto per il mio blog.
«Al ristorante Pasha, con sottostante bar, si accede salendo alcuni gradini di un palazzo storico della Piazza Castello di Conversano (BA); l’ambiente è elegante senza essere formale, con un’atmosfera molto calda, parquet a terra e note di colore alle pareti, un salottino per i distillati e un tavolino da due su un terrazzino sul quale si sta letteralmente sospesi sulla piazza.
La prenotazione, nella quale avevamo dato preferenza al terrazzino salvo pioggia, è stata “dirottata” sulla salottino, soluzione che poi si è rivelata ottimale: privacy (saletta solo per noi) e vista sul castello garantite!
Due persone al servizio, il professionale e sorridente patron Antonello Magistà e un giovanissimo ma impeccabile cameriere. Abbiamo optato per i due menù presenti in carta ai quali si può affiancare anche i rispettivi percorsi enologici.
Menù Tradizione e semplicità (Terrina calda di melanzana e mozzarella di bufala pugliese con passatina di pomodoro al basilico, Minestra sciuscetta di uovo, piselli e tartufo nero irpino, Tagliolini all’uovo con ragù bianco di capretto, verdurine novelle e caciocavallo podolico, Cartoccio di agnello al forno con patate e lampascioni, Vellutata di mandorle con granita di caffè e crumble alle nocciole) e Menù Mamma Maria (Carpaccio di baccalà, burrata, piselli novelli e pomodoro fresco all'arancia, Fagiolini occhipinti e favette al profumo di mentuccia, Gnocchetti di pane alle olive con scorfano, pomodorini, piselli e peperoncino, Trasparenza di mare servita con cous-cous di verdure, Cialda di pistacchi con ricotta e visciole).
Oltre al menù Taralli e piccoli panini caldi fatti in casa, appetizer offerto dalla casa (piccola frisella con stracciatella, pomodoro secco e basilico) e predessert (mousse di caffè).
Oltre alle belle e anche divertenti presentazioni dei piatti (la sciuscetta stava in un barattolo di vetro con il tappo a molla che una volta aperto esalava tutto il profumo preservato al suo interno), e alle eccellenti materie prime (tutte del territorio e stagionali), il livello dei piatti era alto con alcuni assolutamente esaltanti e altri meno felici. Tra gli esaltanti da citare nuovamente la sciuscetta con il tartufo buonissimo ed equilibrato che si sovrapponeva senza cancellarli ai sapori delle uova e dei piselli. Ma anche il cartoccio di agnello carne tenerissima e squisita con l’amaro dei lampascioni a smorzare la grassa dolcezza della carne. Da citare anche il carpaccio di baccalà e la terrina di melanzana (una sorta di fagottino ripieno).
Tra i dolci molto buona la semplicissima cialda, merito della squisita ricotta, ma meno convincente la vellutata di mandorle con sapori poco distinti e quindi non ben apprezzabili.
Perdonate la mancanza della lista dei vini degustati (bei bicchieri colmi) ma… non si può avere tutto dalla vita, no?!!
In conclusione: se volete coccolarvi e viziarvi vivendo un’esperienza gastronomica molto interessante e siete in giro tra Bari e Brindisi, prenotate un bel tavolo e salite dal mare verso il castello di Conversano. Il Pasha è sicuramente l’ideale per una cena a due! Un legame, di qualsiasi tipo, si consolida condividendo il cibo.»
«Al ristorante Pasha, con sottostante bar, si accede salendo alcuni gradini di un palazzo storico della Piazza Castello di Conversano (BA); l’ambiente è elegante senza essere formale, con un’atmosfera molto calda, parquet a terra e note di colore alle pareti, un salottino per i distillati e un tavolino da due su un terrazzino sul quale si sta letteralmente sospesi sulla piazza.
La prenotazione, nella quale avevamo dato preferenza al terrazzino salvo pioggia, è stata “dirottata” sulla salottino, soluzione che poi si è rivelata ottimale: privacy (saletta solo per noi) e vista sul castello garantite!
Due persone al servizio, il professionale e sorridente patron Antonello Magistà e un giovanissimo ma impeccabile cameriere. Abbiamo optato per i due menù presenti in carta ai quali si può affiancare anche i rispettivi percorsi enologici.
Menù Tradizione e semplicità (Terrina calda di melanzana e mozzarella di bufala pugliese con passatina di pomodoro al basilico, Minestra sciuscetta di uovo, piselli e tartufo nero irpino, Tagliolini all’uovo con ragù bianco di capretto, verdurine novelle e caciocavallo podolico, Cartoccio di agnello al forno con patate e lampascioni, Vellutata di mandorle con granita di caffè e crumble alle nocciole) e Menù Mamma Maria (Carpaccio di baccalà, burrata, piselli novelli e pomodoro fresco all'arancia, Fagiolini occhipinti e favette al profumo di mentuccia, Gnocchetti di pane alle olive con scorfano, pomodorini, piselli e peperoncino, Trasparenza di mare servita con cous-cous di verdure, Cialda di pistacchi con ricotta e visciole).
Oltre al menù Taralli e piccoli panini caldi fatti in casa, appetizer offerto dalla casa (piccola frisella con stracciatella, pomodoro secco e basilico) e predessert (mousse di caffè).
Oltre alle belle e anche divertenti presentazioni dei piatti (la sciuscetta stava in un barattolo di vetro con il tappo a molla che una volta aperto esalava tutto il profumo preservato al suo interno), e alle eccellenti materie prime (tutte del territorio e stagionali), il livello dei piatti era alto con alcuni assolutamente esaltanti e altri meno felici. Tra gli esaltanti da citare nuovamente la sciuscetta con il tartufo buonissimo ed equilibrato che si sovrapponeva senza cancellarli ai sapori delle uova e dei piselli. Ma anche il cartoccio di agnello carne tenerissima e squisita con l’amaro dei lampascioni a smorzare la grassa dolcezza della carne. Da citare anche il carpaccio di baccalà e la terrina di melanzana (una sorta di fagottino ripieno).
Tra i dolci molto buona la semplicissima cialda, merito della squisita ricotta, ma meno convincente la vellutata di mandorle con sapori poco distinti e quindi non ben apprezzabili.
Perdonate la mancanza della lista dei vini degustati (bei bicchieri colmi) ma… non si può avere tutto dalla vita, no?!!
In conclusione: se volete coccolarvi e viziarvi vivendo un’esperienza gastronomica molto interessante e siete in giro tra Bari e Brindisi, prenotate un bel tavolo e salite dal mare verso il castello di Conversano. Il Pasha è sicuramente l’ideale per una cena a due! Un legame, di qualsiasi tipo, si consolida condividendo il cibo.»
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venerdì 11 settembre 2009
L'amore e basta
L'amore e basta è un piccolo film documentario di Stefano Consiglio che racconta, attraverso nove interviste, le storie di altrettante coppie omosessuali, donne e uomini, di diversa provenienza (Italia, Francia, Spagna, Germania).
Il film è impreziosito da una piccola intro recitata da Luca Zingaretti e dai disegni "animati" di Ursula Ferrara, oltre che da una bella colonna sonora originale.
Certamente, è un film pulito, ben fatto e godibile, che punta evidentemente a sottolineare l'universalità del sentimento di amore e la ricerca di normalità della vita di queste coppie, che fanno i conti semmai con maggiori ostacoli e difficoltà per difendere il loro amore e consentirgli di svilupparsi nel tempo.
Mi ha colpito però l'insistenza sul concetto di famiglia che sembra fare da filo conduttore a tutte queste interviste, che personalmente non riesce a togliermi l'impressione di un'idea di fondo che fa passare l'accettazione e il riconoscimento dei gay attraverso un loro pieno inserimento nel modello di famiglia borghese.
Probabilmente non è questo l'intento del regista, che invece vuole dar voce a tutti coloro che - di fronte ad anni ed anni di battaglia politica improntata sul principio della specificità - rivendicano la propria normalità. E non v'è dubbio che si tratta di una rivendicazione assolutamente condivisibile, purché il concetto di normalità non faccia a tutti i costi rima con famiglia.
La democrazia per me è l'accettazione delle scelte altrui, anche quando non le si capiscono e anche quando sono lontane dai modelli a noi più familiari. La democrazia in tutti i campi dovrebbe passare non per l'omologazione e la ripetizione di modelli (a volte già in crisi), ma per la libera ricerca di una propria strada di benessere e di felicità, nel rispetto della libertà degli altri.
Comunque, ben vengano i film come quello di Consiglio, ma credo che siamo ancora molto lontani (e forse ce ne allontaniamo ogni giorno di più) da un processo di rinnovamento sociale e culturale che è l'unica strada per ritrovare un reale senso di civiltà e di umanità.
Voto: 3/5
Il film è impreziosito da una piccola intro recitata da Luca Zingaretti e dai disegni "animati" di Ursula Ferrara, oltre che da una bella colonna sonora originale.
Certamente, è un film pulito, ben fatto e godibile, che punta evidentemente a sottolineare l'universalità del sentimento di amore e la ricerca di normalità della vita di queste coppie, che fanno i conti semmai con maggiori ostacoli e difficoltà per difendere il loro amore e consentirgli di svilupparsi nel tempo.
Mi ha colpito però l'insistenza sul concetto di famiglia che sembra fare da filo conduttore a tutte queste interviste, che personalmente non riesce a togliermi l'impressione di un'idea di fondo che fa passare l'accettazione e il riconoscimento dei gay attraverso un loro pieno inserimento nel modello di famiglia borghese.
Probabilmente non è questo l'intento del regista, che invece vuole dar voce a tutti coloro che - di fronte ad anni ed anni di battaglia politica improntata sul principio della specificità - rivendicano la propria normalità. E non v'è dubbio che si tratta di una rivendicazione assolutamente condivisibile, purché il concetto di normalità non faccia a tutti i costi rima con famiglia.
La democrazia per me è l'accettazione delle scelte altrui, anche quando non le si capiscono e anche quando sono lontane dai modelli a noi più familiari. La democrazia in tutti i campi dovrebbe passare non per l'omologazione e la ripetizione di modelli (a volte già in crisi), ma per la libera ricerca di una propria strada di benessere e di felicità, nel rispetto della libertà degli altri.
Comunque, ben vengano i film come quello di Consiglio, ma credo che siamo ancora molto lontani (e forse ce ne allontaniamo ogni giorno di più) da un processo di rinnovamento sociale e culturale che è l'unica strada per ritrovare un reale senso di civiltà e di umanità.
Voto: 3/5
giovedì 10 settembre 2009
Videocracy
Questo è il film-documentario dell'italo-svedese Erik Gandini di cui non vedremo il trailer sulle televisioni nazionali di Rai e Mediaset e, d'altra parte, non poteva essere diversamente per un film che parla proprio di come la televisione sia stata in grado - negli ultimi trent'anni - di modificare il tessuto sociale e i valori culturali del nostro paese.
A noi italiani il film non dice niente di veramente nuovo e, da certi punti di vista, appare anche un po' disequilibrato (ad esempio per lo spazio un po' eccessivo che dedica a Fabrizio Corona, comunque superba esemplificazione del processo di sgretolamente umano in corso). Certo, in altri paesi - che pure in parte condividono con noi alcuni di questi temi - il film potrà aiutare a chiarire la specificità italiana e la proporzione che da noi hanno assunto certi fenomeni.
A me è piaciuto in particolare il taglio che Erik Gandini ha dato al film. Avevo letto in una sua intervista che il regista si proponeva di far capire - soprattutto ai non italiani - che su questo fenomeno non c'è niente da ridere e che piuttosto stiamo assistendo a un film dell'orrore. Ed effettivamente il film - musiche, montaggio, immagini - è costruito quasi come un horror movie, sebbene tocchi paure e corde ben diverse.
Ho trovato inoltre commovente, e al contempo disturbante, la scelta di seguire il "sogno televisivo" di Ricky, che da 12 anni studia karate e impara a ballare per smettere di fare l'operaio e sfondare sul piccolo schermo, allo scopo di avere finalmente soldi, macchina e donne. E, per quanto più di una volta ci si chieda - e in fondo si speri - che Ricky sia un'invenzione del regista, è triste dover ripetersi e constatare che non è così.
Insomma, non c'è dubbio che non è un film da cui si esce di buonumore, ma val la pena di vederlo!
Voto: 3,5/5
A noi italiani il film non dice niente di veramente nuovo e, da certi punti di vista, appare anche un po' disequilibrato (ad esempio per lo spazio un po' eccessivo che dedica a Fabrizio Corona, comunque superba esemplificazione del processo di sgretolamente umano in corso). Certo, in altri paesi - che pure in parte condividono con noi alcuni di questi temi - il film potrà aiutare a chiarire la specificità italiana e la proporzione che da noi hanno assunto certi fenomeni.
A me è piaciuto in particolare il taglio che Erik Gandini ha dato al film. Avevo letto in una sua intervista che il regista si proponeva di far capire - soprattutto ai non italiani - che su questo fenomeno non c'è niente da ridere e che piuttosto stiamo assistendo a un film dell'orrore. Ed effettivamente il film - musiche, montaggio, immagini - è costruito quasi come un horror movie, sebbene tocchi paure e corde ben diverse.
Ho trovato inoltre commovente, e al contempo disturbante, la scelta di seguire il "sogno televisivo" di Ricky, che da 12 anni studia karate e impara a ballare per smettere di fare l'operaio e sfondare sul piccolo schermo, allo scopo di avere finalmente soldi, macchina e donne. E, per quanto più di una volta ci si chieda - e in fondo si speri - che Ricky sia un'invenzione del regista, è triste dover ripetersi e constatare che non è così.
Insomma, non c'è dubbio che non è un film da cui si esce di buonumore, ma val la pena di vederlo!
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venerdì 28 agosto 2009
Sabotaggio d'amore / Amélie Nothomb
Sabotaggio d'amore / Amélie Nothomb; trad. di A. Galli. Parma, Guanda, 2001.
Amélie Nothomb è una scrittrice nei confronti della quale nutro uno strano sentimento di amore/odio che a volte mi tiene lontana dai suoi libri, altre volte me li fa amare follemente (d'altra parte basta leggere le recensioni dei lettori ai suoi libri per capire che non sono l'unica...).
Il suo cinismo senza mezzi termini, il suo spirito corrosivo della realtà, la sua sensibilità sarcastica a volte mi risultano disturbanti rispetto al tentativo di preservare un piccolo spazio di ingenuità nella mia mente.
In questo caso, però, il racconto e la scrittura mi hanno completamente conquistata. Storia e riflessioni sono di una profondità e, al contempo, di una semplicità sconvolgente. Leggere questo libro è come incontrare delle verità che abbiamo sempre avuto dentro, ma che solo in alcune circostanze, come ad esempio quando uno scrittore le fa emergere dal profondo, ci risultano lampanti e a quel punto quasi banali.
La piccola protagonista di questa storia, che si svolge nel quartiere abitato dai diplomatici occidentali a Pechino nei primi anni Settanta, è un viaggio alla scoperta della Cina, del rapporto Oriente/Occidente, della dinamica adulto/bambino, del senso della guerra e della pace, della natura - a volte malata - dell'amore.
Entrare nella testa e nel corpo di questa bimba di sette anni, dotata di straordinaria creatività e intelligenza, alle prese con le prime sconvolgenti esperienze affettive, è una vera e propria seduta psicanalitica, durante la quale si soffre, si capisce, si ride, si impara, si sente. E così sentiamo la protagonista dire cose tipo:
"Il solo modo per smettere di soffrire è avere la testa completamente vuota. Il solo modo di vuotarsi completamente la testa è andare più velocemente possibile [...]" (p. 44)
"[...] penso che la bella Elena se ne fregasse della guerra di Troia, a un punto difficilmente concepibile. Non penso che ne ricavasse motivo di orgoglio: sarebbe stato fare troppo onore agli eserciti umani.
Penso che lei restasse infinitamente al di sopra di quella storia e che continuasse a guardarsi negli specchi.
Penso che avesse bisogno di essere guardata - e poco le importava che fossero sguardi di guerrieri o di pacificatori: dagli sguardi lei si aspettava che parlassero di lei, solo di lei, e non di quelli che glieli rivolgevano.
Penso che avesse bisogno di essere amata. Di amare no: non era nella sua natura. A ciascuno la sua specialità." (p. 11)
"[...] ogni eroe trova nel campo avverso il suo nemico designato, mitico, quello che lo tallonerà finché non l'abbia distrutto. E viceversa. Ma questa non è la guerra: è l'amore, con tutto l'orgoglio e l'individualismo che presuppone." (p. 113)
"Gli errori sono come l'alcol: ci si rende conto subito di aver ecceduto, ma piuttosto che avere l'accortezza di smettere per limitare i danni, una sorta di rabbia la cui origine è estranea all'ubriachezza obbliga a continuare. Questo furore, per quanto strano possa sembrare, potrebbe definirsi orgoglio: orgoglio di reclamare che, contro ogni logica, si aveva ragione a bere e a sbagliarsi. Persistere nell'errore o nell'alcol acquista allora il valore di argomento, di sfida alla logica: se mi ostino, vuol dire che ho ragione, checché se ne possa pensare. E mi ostinerò fino a che gli elementi non mi daranno ragione: diventerò alcolizzata, prenderò la tessera del partito del mio errore, nell'attesa di scivolare sotto il tavolo o di essere ignorata da tutti, con la vaga speranza aggressiva di far ridere il mondo intero, convinta che fra dieci anni, dieci secoli, il tempo, la Storia o la Leggenda finiranno per darmi ragione, il che del resto non avrà più alcun senso, visto che il tempo riscatta tutto, visto che ogni errore e ogni difetto ha il suo momento d'oro, visto che sbagliare è comunque sempre una questione di epoca." (p. 119)
Nella guerra d'amore che lei combatte, ignara delle motivazioni e delle conseguenze, vediamo quanto possano essere accecanti i sentimenti al punto da occultarci anche l'ovvio e l'evidente. Soffriamo, e al contempo ridiamo, di un esito scontato fin dal principio e riconosciamo dinamiche affettive che ci sono familiari.
Alla fine, ci intristisce il fatto che il passaggio all'età adulta si configuri come lo svelamento di una natura maligna (ma a quel punto priva di poesia) che forse da sempre ci portiamo dentro.
È questo pessimismo che ci scuote dentro e che non vogliamo accettare.
Si può essere cinici senza essere pessimisti? Si può essere realisti continuando a credere in qualcosa? Si può amare ancora dopo aver svelato la natura profondamente egoistica e individualistica di certi rapporti amorosi?
Voto: 4,5/5
Amélie Nothomb è una scrittrice nei confronti della quale nutro uno strano sentimento di amore/odio che a volte mi tiene lontana dai suoi libri, altre volte me li fa amare follemente (d'altra parte basta leggere le recensioni dei lettori ai suoi libri per capire che non sono l'unica...).
Il suo cinismo senza mezzi termini, il suo spirito corrosivo della realtà, la sua sensibilità sarcastica a volte mi risultano disturbanti rispetto al tentativo di preservare un piccolo spazio di ingenuità nella mia mente.
In questo caso, però, il racconto e la scrittura mi hanno completamente conquistata. Storia e riflessioni sono di una profondità e, al contempo, di una semplicità sconvolgente. Leggere questo libro è come incontrare delle verità che abbiamo sempre avuto dentro, ma che solo in alcune circostanze, come ad esempio quando uno scrittore le fa emergere dal profondo, ci risultano lampanti e a quel punto quasi banali.
La piccola protagonista di questa storia, che si svolge nel quartiere abitato dai diplomatici occidentali a Pechino nei primi anni Settanta, è un viaggio alla scoperta della Cina, del rapporto Oriente/Occidente, della dinamica adulto/bambino, del senso della guerra e della pace, della natura - a volte malata - dell'amore.
Entrare nella testa e nel corpo di questa bimba di sette anni, dotata di straordinaria creatività e intelligenza, alle prese con le prime sconvolgenti esperienze affettive, è una vera e propria seduta psicanalitica, durante la quale si soffre, si capisce, si ride, si impara, si sente. E così sentiamo la protagonista dire cose tipo:
"Il solo modo per smettere di soffrire è avere la testa completamente vuota. Il solo modo di vuotarsi completamente la testa è andare più velocemente possibile [...]" (p. 44)
"[...] penso che la bella Elena se ne fregasse della guerra di Troia, a un punto difficilmente concepibile. Non penso che ne ricavasse motivo di orgoglio: sarebbe stato fare troppo onore agli eserciti umani.
Penso che lei restasse infinitamente al di sopra di quella storia e che continuasse a guardarsi negli specchi.
Penso che avesse bisogno di essere guardata - e poco le importava che fossero sguardi di guerrieri o di pacificatori: dagli sguardi lei si aspettava che parlassero di lei, solo di lei, e non di quelli che glieli rivolgevano.
Penso che avesse bisogno di essere amata. Di amare no: non era nella sua natura. A ciascuno la sua specialità." (p. 11)
"[...] ogni eroe trova nel campo avverso il suo nemico designato, mitico, quello che lo tallonerà finché non l'abbia distrutto. E viceversa. Ma questa non è la guerra: è l'amore, con tutto l'orgoglio e l'individualismo che presuppone." (p. 113)
"Gli errori sono come l'alcol: ci si rende conto subito di aver ecceduto, ma piuttosto che avere l'accortezza di smettere per limitare i danni, una sorta di rabbia la cui origine è estranea all'ubriachezza obbliga a continuare. Questo furore, per quanto strano possa sembrare, potrebbe definirsi orgoglio: orgoglio di reclamare che, contro ogni logica, si aveva ragione a bere e a sbagliarsi. Persistere nell'errore o nell'alcol acquista allora il valore di argomento, di sfida alla logica: se mi ostino, vuol dire che ho ragione, checché se ne possa pensare. E mi ostinerò fino a che gli elementi non mi daranno ragione: diventerò alcolizzata, prenderò la tessera del partito del mio errore, nell'attesa di scivolare sotto il tavolo o di essere ignorata da tutti, con la vaga speranza aggressiva di far ridere il mondo intero, convinta che fra dieci anni, dieci secoli, il tempo, la Storia o la Leggenda finiranno per darmi ragione, il che del resto non avrà più alcun senso, visto che il tempo riscatta tutto, visto che ogni errore e ogni difetto ha il suo momento d'oro, visto che sbagliare è comunque sempre una questione di epoca." (p. 119)
Nella guerra d'amore che lei combatte, ignara delle motivazioni e delle conseguenze, vediamo quanto possano essere accecanti i sentimenti al punto da occultarci anche l'ovvio e l'evidente. Soffriamo, e al contempo ridiamo, di un esito scontato fin dal principio e riconosciamo dinamiche affettive che ci sono familiari.
Alla fine, ci intristisce il fatto che il passaggio all'età adulta si configuri come lo svelamento di una natura maligna (ma a quel punto priva di poesia) che forse da sempre ci portiamo dentro.
È questo pessimismo che ci scuote dentro e che non vogliamo accettare.
Si può essere cinici senza essere pessimisti? Si può essere realisti continuando a credere in qualcosa? Si può amare ancora dopo aver svelato la natura profondamente egoistica e individualistica di certi rapporti amorosi?
Voto: 4,5/5
martedì 18 agosto 2009
Il buio oltre la siepe / Harper Lee
Il buio oltre la siepe / Harper Lee; trad. di A. D'Agostino Schanzer. Milano, Feltrinelli, 2002.
Innanzitutto, è un libro che va contestualizzato. Scritto da Harper Lee (amica di Truman Capote, cui alcuni attribuiscono l'effettiva scrittura del romanzo), fu pubblicato la prima volta nel 1960 (il suo titolo originale è To Kill A Mockingbird) e vinse il Premio Pulitzer. Dal libro è stato tratto anche un film con Gregory Peck, che però ancora non ho visto e che mi si dice focalizzato sull'episodio centrale del romanzo, piuttosto che sul complessivo affresco della comunità di Maycomb.
Il contesto ci aiuta a capire la portata di un romanzo che parla di una famiglia che vive in Alabama formata da un padre avvocato, Atticus Finch, e due figli, un ragazzino di nome Jem e una bimba un po' maschiaccio che tutti chiamano Scout, e che pone al centro del racconto il processo contro il nero Tom Robinson accusato ingiustamente di violenza sessuale e difeso invano da Atticus.
Il fil rouge è dunque il tema della diversità, nelle sue diverse manifestazioni, quella più eclatante del razzismo dell'America di quegli anni, ma anche quella più strisciante nei confronti di tutto ciò che non si conforma ai modelli condivisi e dominanti in una comunità. E già solo questo basterebbe a fare del libro un classico da leggere a qualunque età.
Ma di più mi ha colpito un approccio alla scrittura che definirei di altri tempi, nella modalità con cui la forza delle idee - anche quelle piccole - si fa discretamente spazio nel libro squarciando le pagine con la potenza delle parole.
Sono una che fa le orecchie alle pagine (e non dovrei dirlo, visto che faccio la bibliotecaria!! Ma in questo caso il libro è di mia proprietà) e in questo caso basta dare un'occhiata alle sue condizioni per capire quante volte la scrittura mi ha colpito in profondità.
Giusto per avere un'idea, ecco alcune brevi citazioni che ho trovato particolamente significative:
"Se c'è una cosa che tuo padre possiede, è la grandezza d'animo. Una mira eccellente è un dono di Dio, un talento... oh, intendiamoci, bisogna esercitarsi per arrivare alla perfezione. Ma sparare non è come suonare il piano o cose del genere. Può darsi che egli abbia messo giù il fucile e non abbia più voluto sparare quando ha capito che Dio gli aveva dato un vantaggio eccessivo, direi quasi ingiusto sulla maggior parte degli esseri viventi." (p. 111)
"Avere coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare fino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma qualche volta si vince." (p. 127)
"Quasi tutti son simpatici, Scout, quando finalmente si riescono a capire." (p. 315)
Un libro che a distanza di quasi 50 anni continua a essere capace di far sorridere, riflettere, commuovere, indignare - anche nella sua apparente semplicità, che non è affatto semplificazione - è indubbiamente un gran libro.
Un libro che ci fa guardare al mondo con gli occhi della piccola Scout e davvero ci fa vedere gli adulti con le loro piccolezze e contraddizioni, ma anche con le loro grandezze, merita un'attenzione particolare.
Voto: 4/5
Innanzitutto, è un libro che va contestualizzato. Scritto da Harper Lee (amica di Truman Capote, cui alcuni attribuiscono l'effettiva scrittura del romanzo), fu pubblicato la prima volta nel 1960 (il suo titolo originale è To Kill A Mockingbird) e vinse il Premio Pulitzer. Dal libro è stato tratto anche un film con Gregory Peck, che però ancora non ho visto e che mi si dice focalizzato sull'episodio centrale del romanzo, piuttosto che sul complessivo affresco della comunità di Maycomb.
Il contesto ci aiuta a capire la portata di un romanzo che parla di una famiglia che vive in Alabama formata da un padre avvocato, Atticus Finch, e due figli, un ragazzino di nome Jem e una bimba un po' maschiaccio che tutti chiamano Scout, e che pone al centro del racconto il processo contro il nero Tom Robinson accusato ingiustamente di violenza sessuale e difeso invano da Atticus.
Il fil rouge è dunque il tema della diversità, nelle sue diverse manifestazioni, quella più eclatante del razzismo dell'America di quegli anni, ma anche quella più strisciante nei confronti di tutto ciò che non si conforma ai modelli condivisi e dominanti in una comunità. E già solo questo basterebbe a fare del libro un classico da leggere a qualunque età.
Ma di più mi ha colpito un approccio alla scrittura che definirei di altri tempi, nella modalità con cui la forza delle idee - anche quelle piccole - si fa discretamente spazio nel libro squarciando le pagine con la potenza delle parole.
Sono una che fa le orecchie alle pagine (e non dovrei dirlo, visto che faccio la bibliotecaria!! Ma in questo caso il libro è di mia proprietà) e in questo caso basta dare un'occhiata alle sue condizioni per capire quante volte la scrittura mi ha colpito in profondità.
Giusto per avere un'idea, ecco alcune brevi citazioni che ho trovato particolamente significative:
"Se c'è una cosa che tuo padre possiede, è la grandezza d'animo. Una mira eccellente è un dono di Dio, un talento... oh, intendiamoci, bisogna esercitarsi per arrivare alla perfezione. Ma sparare non è come suonare il piano o cose del genere. Può darsi che egli abbia messo giù il fucile e non abbia più voluto sparare quando ha capito che Dio gli aveva dato un vantaggio eccessivo, direi quasi ingiusto sulla maggior parte degli esseri viventi." (p. 111)
"Avere coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare fino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma qualche volta si vince." (p. 127)
"Quasi tutti son simpatici, Scout, quando finalmente si riescono a capire." (p. 315)
Un libro che a distanza di quasi 50 anni continua a essere capace di far sorridere, riflettere, commuovere, indignare - anche nella sua apparente semplicità, che non è affatto semplificazione - è indubbiamente un gran libro.
Un libro che ci fa guardare al mondo con gli occhi della piccola Scout e davvero ci fa vedere gli adulti con le loro piccolezze e contraddizioni, ma anche con le loro grandezze, merita un'attenzione particolare.
Voto: 4/5
mercoledì 5 agosto 2009
La Grecia e le sue isole
Non ero mai stata in un'isola della Grecia... Numerosi anni fa avevo fatto il giro archeologico, di cui ricordo l'entusiasmo per le vestigia del passato e il grande caldo.
E invece, quest'anno, al seguito di un amico, ho avuto un primo assaggio delle mille isole greche. Prima tappa: Koufonissi, seconda tappa, Naxos.
Che dire? Basta guardare le foto per capire che in questi posti è ancora possibile (ma forse per poco!) ritrovare un angolo di paradiso. Certo Naxos è più adatto a chi cerca la movida e una maggiore varietà di stimoli, ma forse è per questo che noi "animali metropolitani" non l'abbiamo molto amata: di gente, confusione e stimoli ne abbiamo già troppi durante l'anno.
E invece Koufonissi, anzi per l'esattezza Pano Koufonissi (visto che c'è anche Kato, praticamente disabitata) è stata una vera scoperta. Un paesino piccolo piccolo, bianco e blu, quattro taverne, due supermercati, tre negozi di artigianato e di souvenir, e poi quattro spiagge meravigliose: quella del porto, Finikas, Fanos, Atlantida e Pori.
Mare cristallino, caraibico praticamente ovunque, calmo nonostante un vento che spira giorno e notte.
Una luce straordinaria che cattura l'occhio e l'obiettivo fotografico ad ogni angolo. Cucina non esattamente leggera, ma certamente gustosa.
Ovunque non troppa gente (a luglio però!), forse un po' troppi italiani per i miei gusti, ma anche moltissimi turisti locali e molti dal Nord Europa. Presenza di hippie del passato riconvertiti e di nuovi hippie innocui e folckloristici.
Certo, il turismo avanza anche qui e la nostra albergatrice ci dice che ci sono amanti dell'isola che non vengono più perché ormai è troppo urbanizzata e c'è troppa gente (figuriamo cosa doveva essere qualche anno fa!).
Le tipiche casette greche spuntano in ogni dove e nascono strutture ricettive poco adatte a un'isola che dovrebbe secondo me mantenere uno stile rustico e poco modaiolo.
Ma è inutile recriminare, sono gli inevitabili effetti collaterali della globalizzazione.
E certamente questo mio post (che presunzione!) non farà altro che contribuire alla perdita di verginità di questo luogo, attirando altri turisti ed altre curiosità.
Eppure, conservo la speranza che chi cerca certi posti ci vada non per cannibalizzarli e per farli diventare come casa sua, ma per respirarne l'aria e per vivere un momento di sospensione rispetto alla propria vita quotidiana.
Io una mia dimensione in questa vacanza l'ho trovata... e ho anche imparato a stare in silenzio, a guardare il mare, ad assorbire i colori, a non pensare al caos della vita e alle tempeste interiori.
Peccato che il ritorno abbia fatalmente interrotto la magia. Forse la cura greca dovrebbe continuare più a lungo per poter diventare stile di vita e naturale disposizione d'animo.
Ecco perché, con un po' di amici coltiviamo il sogno - non troppo segreto - di ritirarci insieme in un'isola greca e di poter cantare insieme Dancing queen dall'alto di una scogliera come questa! ;-))
E invece, quest'anno, al seguito di un amico, ho avuto un primo assaggio delle mille isole greche. Prima tappa: Koufonissi, seconda tappa, Naxos.
Che dire? Basta guardare le foto per capire che in questi posti è ancora possibile (ma forse per poco!) ritrovare un angolo di paradiso. Certo Naxos è più adatto a chi cerca la movida e una maggiore varietà di stimoli, ma forse è per questo che noi "animali metropolitani" non l'abbiamo molto amata: di gente, confusione e stimoli ne abbiamo già troppi durante l'anno.
E invece Koufonissi, anzi per l'esattezza Pano Koufonissi (visto che c'è anche Kato, praticamente disabitata) è stata una vera scoperta. Un paesino piccolo piccolo, bianco e blu, quattro taverne, due supermercati, tre negozi di artigianato e di souvenir, e poi quattro spiagge meravigliose: quella del porto, Finikas, Fanos, Atlantida e Pori.
Mare cristallino, caraibico praticamente ovunque, calmo nonostante un vento che spira giorno e notte.
Una luce straordinaria che cattura l'occhio e l'obiettivo fotografico ad ogni angolo. Cucina non esattamente leggera, ma certamente gustosa.
Ovunque non troppa gente (a luglio però!), forse un po' troppi italiani per i miei gusti, ma anche moltissimi turisti locali e molti dal Nord Europa. Presenza di hippie del passato riconvertiti e di nuovi hippie innocui e folckloristici.
Certo, il turismo avanza anche qui e la nostra albergatrice ci dice che ci sono amanti dell'isola che non vengono più perché ormai è troppo urbanizzata e c'è troppa gente (figuriamo cosa doveva essere qualche anno fa!).
Le tipiche casette greche spuntano in ogni dove e nascono strutture ricettive poco adatte a un'isola che dovrebbe secondo me mantenere uno stile rustico e poco modaiolo.
Ma è inutile recriminare, sono gli inevitabili effetti collaterali della globalizzazione.
E certamente questo mio post (che presunzione!) non farà altro che contribuire alla perdita di verginità di questo luogo, attirando altri turisti ed altre curiosità.
Eppure, conservo la speranza che chi cerca certi posti ci vada non per cannibalizzarli e per farli diventare come casa sua, ma per respirarne l'aria e per vivere un momento di sospensione rispetto alla propria vita quotidiana.
Io una mia dimensione in questa vacanza l'ho trovata... e ho anche imparato a stare in silenzio, a guardare il mare, ad assorbire i colori, a non pensare al caos della vita e alle tempeste interiori.
Peccato che il ritorno abbia fatalmente interrotto la magia. Forse la cura greca dovrebbe continuare più a lungo per poter diventare stile di vita e naturale disposizione d'animo.
Ecco perché, con un po' di amici coltiviamo il sogno - non troppo segreto - di ritirarci insieme in un'isola greca e di poter cantare insieme Dancing queen dall'alto di una scogliera come questa! ;-))
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martedì 4 agosto 2009
Scatti di guerra / Scuderie del Quirinale
Approfittando di un sonnacchioso pomeriggio agostano mi sono finalmente decisa ad andare a vedere la mostra di fotografia attualmente in corso alle Scuderie del Quirinale (aperta fino al 30 agosto).
La mostra Scatti di guerra, a cura di Marco Delogu e Umberto Gentiloni, è dedicata a due fotografi molto diversi, Tony Vaccaro e Lee Miller, accomunati dal fatto di aver documentato con le loro fotografie quella fase della seconda guerra mondiale che comincia con lo sbarco in Normandia.
Lo sguardo dei due è profondamente difforme.
Tony Vaccaro è un giovane soldato italo-americano che partecipa allo sbarco e che racconta poeticità e prosaicità della guerra, cercando - anche attraverso la sperimentazione di una nuova tecnica fotografica - di cogliere l'istante dell'espressione.
Elizabeth "Lee" Miller inizia la sua carriera come modella, diventando musa e compagna del grande artista e fotografo Man Ray e frequentando gli ambienti culturali più significativi dell'Europa dell'epoca. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, riesce a partecipare, come corrispondente di guerra per conto dell'esercito americano, alle azioni militari che vanno dallo sbarco in Normandia alla scoperta dei campi di concentramento.
La mostra è ben allestita, collocando le foto dei due fotografi su due pareti affrontate, perché sia più evidente il confronto, sebbene in alcuni punti non sia del tutto chiaro a chi attribuire le fotografie.
Personalmente ho trovato il percorso interessante, sebbene una più approfondita contestualizzazione delle singole foto avrebbe certamente aiutato la lettura.
Da un lato ho scoperto la straordinaria figura di Lee Miller che non conoscevo, personaggio affascinante e che merita certamente qualche approfondimento.
Sul piano fotografico, mi hanno però emozionato soprattutto le foto di Vaccaro, di cui mi ha colpito lo sguardo giovane e ingenuo. Alla nitidezza ed estrema professionalità delle foto della Miller (pur interessanti) ho preferito la sgranatura e lo sfocato che caratterizzano molte foto di Vaccaro. Ma - è chiaro - sono gusti del tutto personali.
Consiglio dunque certamente la mostra sia a chi ama la fotografia (visto che di mostre fotografiche classiche e di buon livello non se ne vedono molte in giro) sia a chi ha un gusto più documentaristico e vuole leggere da un altro punto di vista questo importante pezzo di storia.
Solo un appunto finale: qualcuno dovrebbe dire ai responsabili delle Scuderie del Quirinale (ma la stessa cosa vale per il Palazzo delle Esposizioni, dove ero andata a vedere il - a mio parere - poco convincente Festival internazionale della fotografia), che non è possibile sottoporre i visitatori alla tortura di un'aria condizionata che richiederebbe una bella giacchetta pesante in piena estate ;-))
Impossibile godersi con calma foto (o installazioni) in queste condizioni!
Voto: 3/5
La mostra Scatti di guerra, a cura di Marco Delogu e Umberto Gentiloni, è dedicata a due fotografi molto diversi, Tony Vaccaro e Lee Miller, accomunati dal fatto di aver documentato con le loro fotografie quella fase della seconda guerra mondiale che comincia con lo sbarco in Normandia.
Lo sguardo dei due è profondamente difforme.
Tony Vaccaro è un giovane soldato italo-americano che partecipa allo sbarco e che racconta poeticità e prosaicità della guerra, cercando - anche attraverso la sperimentazione di una nuova tecnica fotografica - di cogliere l'istante dell'espressione.
Elizabeth "Lee" Miller inizia la sua carriera come modella, diventando musa e compagna del grande artista e fotografo Man Ray e frequentando gli ambienti culturali più significativi dell'Europa dell'epoca. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, riesce a partecipare, come corrispondente di guerra per conto dell'esercito americano, alle azioni militari che vanno dallo sbarco in Normandia alla scoperta dei campi di concentramento.
La mostra è ben allestita, collocando le foto dei due fotografi su due pareti affrontate, perché sia più evidente il confronto, sebbene in alcuni punti non sia del tutto chiaro a chi attribuire le fotografie.
Personalmente ho trovato il percorso interessante, sebbene una più approfondita contestualizzazione delle singole foto avrebbe certamente aiutato la lettura.
Da un lato ho scoperto la straordinaria figura di Lee Miller che non conoscevo, personaggio affascinante e che merita certamente qualche approfondimento.
Sul piano fotografico, mi hanno però emozionato soprattutto le foto di Vaccaro, di cui mi ha colpito lo sguardo giovane e ingenuo. Alla nitidezza ed estrema professionalità delle foto della Miller (pur interessanti) ho preferito la sgranatura e lo sfocato che caratterizzano molte foto di Vaccaro. Ma - è chiaro - sono gusti del tutto personali.
Consiglio dunque certamente la mostra sia a chi ama la fotografia (visto che di mostre fotografiche classiche e di buon livello non se ne vedono molte in giro) sia a chi ha un gusto più documentaristico e vuole leggere da un altro punto di vista questo importante pezzo di storia.
Solo un appunto finale: qualcuno dovrebbe dire ai responsabili delle Scuderie del Quirinale (ma la stessa cosa vale per il Palazzo delle Esposizioni, dove ero andata a vedere il - a mio parere - poco convincente Festival internazionale della fotografia), che non è possibile sottoporre i visitatori alla tortura di un'aria condizionata che richiederebbe una bella giacchetta pesante in piena estate ;-))
Impossibile godersi con calma foto (o installazioni) in queste condizioni!
Voto: 3/5
domenica 2 agosto 2009
La famiglia Winshaw / Jonathan Coe
La famiglia Winshaw / Jonathan Coe; trad. di Alberto Rollo. Milano, Feltrinelli, 1996.
Approfittando della mia ultima vacanza ho ripreso in mano un libro che mi è stato regalato circa una decina di anni fa, ma che non avevo mai avuto voglia di cominciare a leggere, nonostante Jonathan Coe mi piaccia e abbia adorato il suo libro La casa del sonno.
Mi ha convinto il sentore che si trattasse di una saga familiare e invece nel libro ci ho trovato molto molto di più.
In realtà, La famiglia Winshaw è, infatti, il ritratto di un paese, la Gran Bretagna, durante il periodo thatcheriano, e del suo processo di decadimento sociale e morale, ritratto che non riconosciamo come desueto, ma assolutamente e tristemente attuale.
Sul piano letterario, il romanzo riesce a tenere il lettore incollato alle pagine, grazie a una struttura narrativa in cui si intersecano passato e presente, e in cui i ritratti dei personaggi e gli eventi sono messi in connessione da indizi che l'autore lascia qua e là consentendo al lettore di riallacciare i pezzi della storia. Anche dal punto di vista dei generi, il romanzo ne propone diversi, presentandosi a tratti come romanzo biografico, a tratti storico, nonché thriller, horror e saga di costume.
Numerosissime le citazioni letterarie e cinematografiche: è la scena di un film a fare da filo conduttore alla storia e il titolo originale What a carve up! non è altro che il titolo di quel film (in italiano Sette allegri cadaveri).
Le invenzioni non mancano e il quadro complessivo tiene fino in fondo.
E Coe riesce a rappresentare, attraverso i Winshaw, che nel giro di un paio di generazioni conquistano tutte le posizioni di potere (politica, economia, media, sistema bancario ecc.), la degradazione di ogni valore, l'avidità e la ricerca del successo senza alcun tipo di scrupolo, la cui follia sarà il germe dell'autodistruzione.
Durante la lettura del romanzo si ride (e anche molto!), ci si commuove, ci si indigna e, infine, si teme - condotti per mano dall'autore - che non ci sia salvezza né riscatto per alcuno.
Non c'è ottimismo nel libro di Coe, solo catarsi senza gioia. Del resto, il libro non è solo il ritratto dell'epoca thatcheriana, ma quello di una generazione disillusa e disorientata e di un'età, l'età adulta (Coe aveva 34 anni quando pubblicò il romanzo), che segna la fine degli ideali, dei facili entusiasmi e della speranza di futuro.
Peccato che questo libro abbia avuto poco successo in Italia. Credo potrebbe essere ora di riscoprirlo e di riconoscerlo a tutti gli effetti come un grande romanzo.
Voto: 4/5
Approfittando della mia ultima vacanza ho ripreso in mano un libro che mi è stato regalato circa una decina di anni fa, ma che non avevo mai avuto voglia di cominciare a leggere, nonostante Jonathan Coe mi piaccia e abbia adorato il suo libro La casa del sonno.
Mi ha convinto il sentore che si trattasse di una saga familiare e invece nel libro ci ho trovato molto molto di più.
In realtà, La famiglia Winshaw è, infatti, il ritratto di un paese, la Gran Bretagna, durante il periodo thatcheriano, e del suo processo di decadimento sociale e morale, ritratto che non riconosciamo come desueto, ma assolutamente e tristemente attuale.
Sul piano letterario, il romanzo riesce a tenere il lettore incollato alle pagine, grazie a una struttura narrativa in cui si intersecano passato e presente, e in cui i ritratti dei personaggi e gli eventi sono messi in connessione da indizi che l'autore lascia qua e là consentendo al lettore di riallacciare i pezzi della storia. Anche dal punto di vista dei generi, il romanzo ne propone diversi, presentandosi a tratti come romanzo biografico, a tratti storico, nonché thriller, horror e saga di costume.
Numerosissime le citazioni letterarie e cinematografiche: è la scena di un film a fare da filo conduttore alla storia e il titolo originale What a carve up! non è altro che il titolo di quel film (in italiano Sette allegri cadaveri).
Le invenzioni non mancano e il quadro complessivo tiene fino in fondo.
E Coe riesce a rappresentare, attraverso i Winshaw, che nel giro di un paio di generazioni conquistano tutte le posizioni di potere (politica, economia, media, sistema bancario ecc.), la degradazione di ogni valore, l'avidità e la ricerca del successo senza alcun tipo di scrupolo, la cui follia sarà il germe dell'autodistruzione.
Durante la lettura del romanzo si ride (e anche molto!), ci si commuove, ci si indigna e, infine, si teme - condotti per mano dall'autore - che non ci sia salvezza né riscatto per alcuno.
Non c'è ottimismo nel libro di Coe, solo catarsi senza gioia. Del resto, il libro non è solo il ritratto dell'epoca thatcheriana, ma quello di una generazione disillusa e disorientata e di un'età, l'età adulta (Coe aveva 34 anni quando pubblicò il romanzo), che segna la fine degli ideali, dei facili entusiasmi e della speranza di futuro.
Peccato che questo libro abbia avuto poco successo in Italia. Credo potrebbe essere ora di riscoprirlo e di riconoscerlo a tutti gli effetti come un grande romanzo.
Voto: 4/5
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