Non sapevo niente di Powered by Ref, la call organizzata dal Romaeuropa Festival, nell’ambito di "Anni luce / osservatorio di futuri possibili", rivolto ad artisti nati tra il 1995 e il 2004 che operino nell'ambito della ricerca teatrale e della performance.
Vado a vedere questi tre spettacoli che sono stati selezionati a seguito della call di quest'anno un po' per caso e senza saperne molto, solo perché mi era arrivata una mail con la possibilità di comprare un mini-abbonamento con cui poter partecipare nello stesso pomeriggio a tutti e tre. Avevo dato un'occhiata rapida ai temi trattati, e un paio di questi mi avevano attirato, così avevo deciso di prendere l'abbonamento.
Solo quando sono seduta nella Sala 1 della Pelanda, uno degli edifici del Macro al Mattatoio, capisco di cosa si tratta, anche grazie alle parole della persona dell'organizzazione che introduce gli spettacoli, la quale ci dice che si tratta di progetti vincitori della call che - attraverso una residenza artistica - sono stati affinati e sviluppati per essere portati in scena. Non si tratta però di spettacoli compiuti, ma di lavori in corso, primi abbozzi di spettacoli che per diventare veramente tali hanno ancora bisogno di lavoro, ma che da questo punto di vista possono fare tesoro di un iniziale confronto con il pubblico.
Il primo, dal titolo Pezzo a due con dieci piante, è portato in scena da Conferenza Balaam, e vede protagonisti un ragazzo con un difficile rapporto con le piante, una biologa, e appunto dieci piante, mentre un musicista/tecnico del suono sembra dare voce, grazie alla sua consolle, ai suoni delle piante. Di questo spettacolo non saprei direi molto di più: a tratti mi ha fatto sorridere, a tratti mi ha annoiata. Non ne ho colto tanto il senso, e quindi faccio fatica anche a darne una valutazione.
Il secondo, Transenne, è il lavoro di Dimore creative dedicato alla storia di Giuseppe Uva, l'uomo di 43 anni che nella notte tra il 13 e 14 giugno 2008 fu fermato dai carabinieri perché, insieme al suo amico Alberto Biggioggero, era stato autore, forse perché ubriaco, di alcuni atti vandalici. Dopo essere stato portato in caserma, Uva fu poi ricoverato in ospedale e trovato morto la mattina seguente. Il processo si è concluso in Cassazione nel 2019 senza alcun colpevole. Lo spettacolo - utilizzando musica, video e parole e mescolando ricordi e altri spunti di riflessione - riesce a risultare molto efficace, forse anche grazie a una tematica di grande impatto (purtroppo non isolata), e strappa un lungo applauso al pubblico in sala.
Il terzo e ultimo spettacolo è qualcosa di veramente strano. Sofia Naglieri in Devozioni per occasioni di emergenza si presenta sul palco da sola con una tuta color carne parzialmente strappata, mentre intorno a lei sono sparsi strani oggetti e pezzi di stoffa imbottiti, e sullo sfondo viene proiettato il video di quello che sembra un esame endoscopico. Una musica "popolare" a basso volume sembra arrivare dalla stanza accanto. Nel tempo dello spettacolo comprendiamo che l'argomento di riflessione è il corpo in relazione alla malattia, non solo alla propria ma a tutte quelle che incrociamo nella nostra vita, anche attraverso la nostra famiglia e le persone con cui veniamo in contatto. A poco a poco il corpo della protagonista prende su di sé tutti gli oggetti che sono sul palco, che rappresentano parti interne ed esterne di corpi, modificate o trasformate dalla malattia, e tutti questi oggetti diventano parte del suo corpo fino a trasformare la protagonista in un essere mostruoso e incredibile che si muove - danza direi - sul palco, producendo un effetto quasi ipnotico sul pubblico. Uno spettacolo che, seppure indefinibile, ho trovato però molto originale e interessante.
Nel complesso sono molto contenta dell'esperienza fatta e soprattutto di aver visto che ci sono ancora giovani appassionati del linguaggio teatrale, sebbene trasformato dall'ibridazione tra strumenti e modalità espressive differenti. Forse il teatro ha un futuro, e ce l'ha in una direzione che è molto lontana da alcuni paludatissimi prodotti teatrali che i teatri più famosi e i nomi già affermati continuano a proporre anno dopo anno sempre allo stesso pubblico.
mercoledì 30 ottobre 2024
lunedì 28 ottobre 2024
House / Amos Gitai. Teatro Argentina, 9 ottobre 2024
Amos Gitai è un regista israeliano che, dopo un dottorato in architettura (anche suo padre era un architetto), ha deciso di dedicarsi al cinema, ponendo spesso al centro della sua narrazione le città (come nella trilogia L'inventario, Giorno per giorno e Kadosh) e gli spazi e le architetture che le caratterizzano. Si chiamava House il suo primo lungometraggio documentario che riguardava la costruzione di una casa a Gerusalemme Ovest e che fu oggetto della censura israeliana. Da allora i rapporti tra Gitai e Israele non sono sempre stati idilliaci e il regista ha più volte espresso posizioni critiche nei confronti delle politiche israeliane.
House si chiama anche questo lavoro teatrale realizzato da Gitai in collaborazione con La Colline, théâtre national di Parigi, diretto dal libanese Wajdi Mouawad.
Lo spettacolo torna sul tema della casa in costruzione a Gerusalemme Ovest per ripercorrerne la storia attraverso le voci di chi ci ha abitato e/o interagito con i suoi abitanti, ed è significativo che le lingue in cui è recitato siano numerose, francese, arabo, inglese, ebraico, yiddish, tedesco.
Il racconto diventa dunque quasi un lavoro di scavo archeologico che passa non solo attraverso le testimonianze di palestinesi e israeliani, ma anche attraverso le fotografie d'epoca, alcuni brevi video e le musiche suonate e cantate dal vivo.
La casa di cui parla questo spettacolo diventa inevitabilmente simbolo e metafora di un intero paese dove nel tempo si sono succedute e sovrapposte storie diverse, e rispetto al quale popoli e gruppi religiosi diversi accampano diritti e a volte pretese.
In tempi come questi, House da un lato aiuta a conferire un volto umano e a ricondurre a vicende di persone singole quanto ascoltiamo e leggiamo sui mezzi di comunicazione (notizie che hanno spesso on un approccio disumano e disumanizzato), dall'altro sbatte in faccia allo spettatore la difficoltà di trovare una quadra rendendo plausibili e comprensibile umanamente le ragioni di tutti. Che è comunque qualcosa di importante.
Personalmente, di fronte a due ore e mezza di spettacolo, riempite sostanzialmente di una sequenza di monologhi intervallati da momenti musicali o "quasi coreografati", mentre sul palco ingombro di ponteggi gli operai vanno avanti a lavorare pietre e tirare su muri, faccio un po' fatica a dire che lo sforzo di restare attenti (soprattutto nella prima parte, piuttosto monocorde) valga la pena e ci regali qualcosa di veramente nuovo e aggiuntivo.
Sicuramente ci porta in una dimensione più umana del conflitto israelo-palestinese, ma - per quanto mi riguarda - continuo a capire solo in parte, mi sfuggono elementi conoscitivi, e forse mi manca la capacità reale di immedesimarmi in una situazione così particolare.
In definitiva, pur avendo apprezzato la recitazione di alcuni attori (c'è anche la famosa Irène Jacob, interprete per Kiekslowski, Antonioni e Wenders) e alcuni passaggi dello spettacolo (bellissimo l'intermezzo musicale in cui tutti gli attori con dei bastoni in mano cominciano a battere sui ponteggi a ritmi diversi creando una specie di arrangiamento/melodia), non posso dire di essere rimasta folgorata da questa esperienza.
Voto: 3/5
House si chiama anche questo lavoro teatrale realizzato da Gitai in collaborazione con La Colline, théâtre national di Parigi, diretto dal libanese Wajdi Mouawad.
Lo spettacolo torna sul tema della casa in costruzione a Gerusalemme Ovest per ripercorrerne la storia attraverso le voci di chi ci ha abitato e/o interagito con i suoi abitanti, ed è significativo che le lingue in cui è recitato siano numerose, francese, arabo, inglese, ebraico, yiddish, tedesco.
Il racconto diventa dunque quasi un lavoro di scavo archeologico che passa non solo attraverso le testimonianze di palestinesi e israeliani, ma anche attraverso le fotografie d'epoca, alcuni brevi video e le musiche suonate e cantate dal vivo.
La casa di cui parla questo spettacolo diventa inevitabilmente simbolo e metafora di un intero paese dove nel tempo si sono succedute e sovrapposte storie diverse, e rispetto al quale popoli e gruppi religiosi diversi accampano diritti e a volte pretese.
In tempi come questi, House da un lato aiuta a conferire un volto umano e a ricondurre a vicende di persone singole quanto ascoltiamo e leggiamo sui mezzi di comunicazione (notizie che hanno spesso on un approccio disumano e disumanizzato), dall'altro sbatte in faccia allo spettatore la difficoltà di trovare una quadra rendendo plausibili e comprensibile umanamente le ragioni di tutti. Che è comunque qualcosa di importante.
Personalmente, di fronte a due ore e mezza di spettacolo, riempite sostanzialmente di una sequenza di monologhi intervallati da momenti musicali o "quasi coreografati", mentre sul palco ingombro di ponteggi gli operai vanno avanti a lavorare pietre e tirare su muri, faccio un po' fatica a dire che lo sforzo di restare attenti (soprattutto nella prima parte, piuttosto monocorde) valga la pena e ci regali qualcosa di veramente nuovo e aggiuntivo.
Sicuramente ci porta in una dimensione più umana del conflitto israelo-palestinese, ma - per quanto mi riguarda - continuo a capire solo in parte, mi sfuggono elementi conoscitivi, e forse mi manca la capacità reale di immedesimarmi in una situazione così particolare.
In definitiva, pur avendo apprezzato la recitazione di alcuni attori (c'è anche la famosa Irène Jacob, interprete per Kiekslowski, Antonioni e Wenders) e alcuni passaggi dello spettacolo (bellissimo l'intermezzo musicale in cui tutti gli attori con dei bastoni in mano cominciano a battere sui ponteggi a ritmi diversi creando una specie di arrangiamento/melodia), non posso dire di essere rimasta folgorata da questa esperienza.
Voto: 3/5
venerdì 25 ottobre 2024
Joker - Folie à deux
E ci risiamo! Esattamente come era successo quando era uscito il primo Joker – e come ormai succede in molte altre circostanze – di fronte al sequel Folie à deux, realizzato sempre da Todd Phillips, le posizioni dei sostenitori e dei detrattori tendono a polarizzarsi, in un’alternanza tra chi grida al capolavoro e chi al totale fallimento. In questo caso, visti anche i risultati al botteghino, mi pare che sia prevalente il partito dei detrattori, ma questo fa sì che i sostenitori si esprimano con toni ancora più accesi.
Come sanno quei pochi che leggono questo blog, le polarizzazioni non mi piacciono e tendenzialmente sono tra quelle persone che cercano sempre di vedere il bello in ciò che non mi è piaciuto e di riconoscere i difetti in quello che ho amato. E così – esattamente come mi era successo con il primo Joker – non riesco a schierarmi in maniera così netta. Ma ripartiamo dal principio.
Joker - Folie à deux comincia dove era finito il primo film, con Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) in carcere in attesa di processo. Però Todd Phillips ha scelto di sparigliare le carte, facendo un film molto diverso dal primo sul piano della confezione e anche su quello emotivo.
Innanzitutto, il film comincia con un cartone animato stile Looney Tunes, realizzato dal grande Sylvain Chomet, che ha come protagonisti Joker e la sua ombra, e che in qualche modo anticipa in maniera alquanto originale i temi di questo film e lo colloca già in una dimensione metacinematografica.
Arthur Fleck è in carcere, ma la sua fama e la sua storia sono conosciute grazie al film che è stato realizzato su di lui. Proprio in conseguenza della popolarità acquisita dal suo personaggio e dalla sua vicenda, Arthur viene avvicinato da Lee Quinzel (Lady Gaga), una giovane donna che esprime fin da subito non solo la sua ammirazione per Joker, ma la sua comprensione della vicenda umana di Arthur in virtù di una situazione personale simile. Tra i due inizia una relazione che accompagnerà Arthur fino al processo e che sarà costellata di situazioni reali e immaginate, spesso cantate e coreografate come fossimo in un musical.
Di fronte a questa scelta così dirompente rispetto alle atmosfere e al tono del primo film è evidente che molti ne risulteranno spiazzati. E il senso di straniamento si amplificherà nel trovarsi di fronte un personaggio la cui rabbia si è trasformata in un dolore profondo e in una solitudine che si riveleranno senza speranza. Arthur Fleck è diventato un personaggio, santo o mostro che sia, e tutti vogliono quel personaggio, che Arthur deve continuare a interpretare fino in fondo per essere amato. Nessuno ha davvero interesse per l’uomo, spezzato, solo, desideroso di comprensione, e quell'uomo è destinato a essere spazzato via da qualche altro personaggio che più di lui è in grado di muovere i sentimenti delle masse.
Joaquin Phoenix conferma la sua straordinarietà ed è ancora una volta capace di conferire ad Arthur Fleck una complessità e una tridimensionalità assolutamente non scontati. Lady Gaga canta da dio e fa bene il suo compito di attrice.
Il film riesce ad essere emotivamente violentissimo e dolorosissimo, nonostante le scene di violenza siano per lo più immaginate e non reali e le canzoni apparentemente interrompano la tensione emotiva.
Dal mio punto di vista Todd Phillips ha fatto una scelta coraggiosa, non sedendosi sugli allori del primo film, ma rischiando e dimostrando di non accontentarsi di fare un sequel di pura continuità, sebbene i numeri non gli abbiano dato ragione.
Voto: 3,5/5
Come sanno quei pochi che leggono questo blog, le polarizzazioni non mi piacciono e tendenzialmente sono tra quelle persone che cercano sempre di vedere il bello in ciò che non mi è piaciuto e di riconoscere i difetti in quello che ho amato. E così – esattamente come mi era successo con il primo Joker – non riesco a schierarmi in maniera così netta. Ma ripartiamo dal principio.
Joker - Folie à deux comincia dove era finito il primo film, con Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) in carcere in attesa di processo. Però Todd Phillips ha scelto di sparigliare le carte, facendo un film molto diverso dal primo sul piano della confezione e anche su quello emotivo.
Innanzitutto, il film comincia con un cartone animato stile Looney Tunes, realizzato dal grande Sylvain Chomet, che ha come protagonisti Joker e la sua ombra, e che in qualche modo anticipa in maniera alquanto originale i temi di questo film e lo colloca già in una dimensione metacinematografica.
Arthur Fleck è in carcere, ma la sua fama e la sua storia sono conosciute grazie al film che è stato realizzato su di lui. Proprio in conseguenza della popolarità acquisita dal suo personaggio e dalla sua vicenda, Arthur viene avvicinato da Lee Quinzel (Lady Gaga), una giovane donna che esprime fin da subito non solo la sua ammirazione per Joker, ma la sua comprensione della vicenda umana di Arthur in virtù di una situazione personale simile. Tra i due inizia una relazione che accompagnerà Arthur fino al processo e che sarà costellata di situazioni reali e immaginate, spesso cantate e coreografate come fossimo in un musical.
Di fronte a questa scelta così dirompente rispetto alle atmosfere e al tono del primo film è evidente che molti ne risulteranno spiazzati. E il senso di straniamento si amplificherà nel trovarsi di fronte un personaggio la cui rabbia si è trasformata in un dolore profondo e in una solitudine che si riveleranno senza speranza. Arthur Fleck è diventato un personaggio, santo o mostro che sia, e tutti vogliono quel personaggio, che Arthur deve continuare a interpretare fino in fondo per essere amato. Nessuno ha davvero interesse per l’uomo, spezzato, solo, desideroso di comprensione, e quell'uomo è destinato a essere spazzato via da qualche altro personaggio che più di lui è in grado di muovere i sentimenti delle masse.
Joaquin Phoenix conferma la sua straordinarietà ed è ancora una volta capace di conferire ad Arthur Fleck una complessità e una tridimensionalità assolutamente non scontati. Lady Gaga canta da dio e fa bene il suo compito di attrice.
Il film riesce ad essere emotivamente violentissimo e dolorosissimo, nonostante le scene di violenza siano per lo più immaginate e non reali e le canzoni apparentemente interrompano la tensione emotiva.
Dal mio punto di vista Todd Phillips ha fatto una scelta coraggiosa, non sedendosi sugli allori del primo film, ma rischiando e dimostrando di non accontentarsi di fare un sequel di pura continuità, sebbene i numeri non gli abbiano dato ragione.
Voto: 3,5/5
mercoledì 23 ottobre 2024
Delitto a Tokyo / Keigo Higashino
Delitto a Tokyo / Keigo Higashino; trad. di Stefano Lo Cigno. Milano: Mondadori: 2023.
Ricevo in regalo per Natale 2023 questo romanzo giallo di un autore giapponese che non conoscevo e che invece scopro essere piuttosto noto. Da parecchio ormai sono affascinata dal mondo e dalla cultura giapponese, tanto più nel momento in cui si profilava all'orizzonte un viaggio in Giappone (poi sfumato).
Delitto a Tokyo (che nella versione originale si intitola Il cigno e il pipistrello) si apre con il ritrovamento del corpo di un noto avvocato. Dopo brevi indagini, un uomo proveniente da un'altra provincia, ma che periodicamente si reca a Tokyo a trovare suo figlio, si dichiara colpevole dell'omicidio, e nel confessare il movente si dichiara responsabile di un altro omicidio avvenuto molti anni, per cui era stato accusato un altro uomo che si era poi suicidato in carcere.
Accade così che dopo una ottantina di pagine di lettura sembra che tutti i nodi siano sciolti, ma è proprio qui che inizia davvero la narrazione, di cui sono primariamente protagonisti due giovani, Mirei, figlia della vittima, e Kazuma, figlio del reo confesso.
I due giovani - che hanno molti dubbi sulla dinamica dell'omicidio e sulle dichiarazioni dell'omicida - cominciano, ognuno per proprio conto, a indagare su alcune tracce che la polizia e gli avvocati di ciascuna parte hanno deciso di non seguire, trovandosi di fronte a una confessione apparentemente inappuntabile.
In queste indagini private, le strade di Mirei e Kazuma finiranno per incrociarsi e i due giovani, pur trovandosi su due fronti opposti, convergeranno sulla necessità di far luce sulla vicenda e scopriranno anche una reciproca empatia e comunanza di approccio.
Sarà la loro caparbietà e la disponibilità di un investigatore della polizia a non lasciar cadere le loro intuizioni e scoperte a portare alla soluzione del caso, anche attraverso uno scavo nel passato dei protagonisti che nemmeno i loro figli conoscevano.
Non avendo mai letto nulla di Keigo Higashino prima di questo romanzo, non sono in grado di dire quali caratteristiche sono specifiche di questo giallo, e quali invece appartengono allo stile dello scrittore.
Ho avuto la sensazione di una narrazione che alterna momenti in cui preme il piede sull'acceleratore e altri in cui la marcia viene scalata e si procede a ritmi più blandi. Certamente nella prima parte si procede in maniera piuttosto concitata verso un presunto finale (la confessione dell'omicidio) che verrà poi rimesso in discussione a poco a poco, attraverso scoperte prima piccole e poco significative, fino all'accelerazione finale che rimette a posto tutti i tasselli e spiega la vera dinamica della vicenda, cui segue un epilogo che torna a concentrarsi sui due protagonisti veri della storia, Mirei e Kazuma, e sul prosieguo delle loro vite.
Pur essendo consapevole che il cuore del racconto è proprio il rapporto tra Mirei e Kazuma, che passa anche attraverso l'approfondimento dei modi di essere di entrambi, ho trovato la parte centrale del racconto un po' lenta e faticosa, mentre sono stata risucchiata nell'intreccio nella parte iniziale e finale del romanzo. Penso c'entri non solo la scrittura di Keigo, bensì anche il modo tutto giapponese di trattare i sentimenti e le emozioni delle persone, che non è mai dirompente e diretto, ma invece sempre accennato e sotto traccia. E questa è una cosa che, da occidentali poco abituati alle sfumature sottili, facciamo un po' fatica non tanto ad accettare quanto a comprenderne la ricchezza e la complessità fino in fondo.
Tutto ciò detto, l'esperienza non mi è dispiaciuta, e nel mio desiderio di conoscere meglio il mondo giapponese che sembra così vicino e invece a ogni occasione si scopre tanto differente sul piano individuale e sociale, non escludo di riavvicinarmi in futuro a qualche altro romanzo dell'autore.
Voto: 3,5/5
Ricevo in regalo per Natale 2023 questo romanzo giallo di un autore giapponese che non conoscevo e che invece scopro essere piuttosto noto. Da parecchio ormai sono affascinata dal mondo e dalla cultura giapponese, tanto più nel momento in cui si profilava all'orizzonte un viaggio in Giappone (poi sfumato).
Delitto a Tokyo (che nella versione originale si intitola Il cigno e il pipistrello) si apre con il ritrovamento del corpo di un noto avvocato. Dopo brevi indagini, un uomo proveniente da un'altra provincia, ma che periodicamente si reca a Tokyo a trovare suo figlio, si dichiara colpevole dell'omicidio, e nel confessare il movente si dichiara responsabile di un altro omicidio avvenuto molti anni, per cui era stato accusato un altro uomo che si era poi suicidato in carcere.
Accade così che dopo una ottantina di pagine di lettura sembra che tutti i nodi siano sciolti, ma è proprio qui che inizia davvero la narrazione, di cui sono primariamente protagonisti due giovani, Mirei, figlia della vittima, e Kazuma, figlio del reo confesso.
I due giovani - che hanno molti dubbi sulla dinamica dell'omicidio e sulle dichiarazioni dell'omicida - cominciano, ognuno per proprio conto, a indagare su alcune tracce che la polizia e gli avvocati di ciascuna parte hanno deciso di non seguire, trovandosi di fronte a una confessione apparentemente inappuntabile.
In queste indagini private, le strade di Mirei e Kazuma finiranno per incrociarsi e i due giovani, pur trovandosi su due fronti opposti, convergeranno sulla necessità di far luce sulla vicenda e scopriranno anche una reciproca empatia e comunanza di approccio.
Sarà la loro caparbietà e la disponibilità di un investigatore della polizia a non lasciar cadere le loro intuizioni e scoperte a portare alla soluzione del caso, anche attraverso uno scavo nel passato dei protagonisti che nemmeno i loro figli conoscevano.
Non avendo mai letto nulla di Keigo Higashino prima di questo romanzo, non sono in grado di dire quali caratteristiche sono specifiche di questo giallo, e quali invece appartengono allo stile dello scrittore.
Ho avuto la sensazione di una narrazione che alterna momenti in cui preme il piede sull'acceleratore e altri in cui la marcia viene scalata e si procede a ritmi più blandi. Certamente nella prima parte si procede in maniera piuttosto concitata verso un presunto finale (la confessione dell'omicidio) che verrà poi rimesso in discussione a poco a poco, attraverso scoperte prima piccole e poco significative, fino all'accelerazione finale che rimette a posto tutti i tasselli e spiega la vera dinamica della vicenda, cui segue un epilogo che torna a concentrarsi sui due protagonisti veri della storia, Mirei e Kazuma, e sul prosieguo delle loro vite.
Pur essendo consapevole che il cuore del racconto è proprio il rapporto tra Mirei e Kazuma, che passa anche attraverso l'approfondimento dei modi di essere di entrambi, ho trovato la parte centrale del racconto un po' lenta e faticosa, mentre sono stata risucchiata nell'intreccio nella parte iniziale e finale del romanzo. Penso c'entri non solo la scrittura di Keigo, bensì anche il modo tutto giapponese di trattare i sentimenti e le emozioni delle persone, che non è mai dirompente e diretto, ma invece sempre accennato e sotto traccia. E questa è una cosa che, da occidentali poco abituati alle sfumature sottili, facciamo un po' fatica non tanto ad accettare quanto a comprenderne la ricchezza e la complessità fino in fondo.
Tutto ciò detto, l'esperienza non mi è dispiaciuta, e nel mio desiderio di conoscere meglio il mondo giapponese che sembra così vicino e invece a ogni occasione si scopre tanto differente sul piano individuale e sociale, non escludo di riavvicinarmi in futuro a qualche altro romanzo dell'autore.
Voto: 3,5/5
lunedì 21 ottobre 2024
Iddu - L'ultimo padrino
Al Greenwich c’è l’anteprima del nuovo film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, registi siciliani al loro terzo lungometraggio dopo Salvo e Sicilian ghost story. La loro cinematografia si conferma fortemente radicata nella loro terra di origine, e infatti anche in questo film i due portano sullo schermo una storia fortemente siciliana, che però ha avuto un’eco nazionale importante, ossia la storia di Matteo Messina Denaro.
Al termine del film, durante il Q&A a cui partecipano oltre ai due registi anche gli attori Toni Servillo, Barbora Bobulova, Daniela Marra, Betty Pedrazzi e Pino Tumino, nonché Colapesce che è autore della colonna sonora, Grassadonia e Piazza raccontano di aver iniziato a lavorare a questo film prima che Messina Denaro venisse arrestato, studiando la documentazione esistente e in particolare alcuni pizzini di cui si conosceva il contenuto, e cercando di ricostruire la personalità del boss. Fin da allora avevano deciso di calcare la mano sul ridicolo per evitare qualunque mitizzazione del protagonista e anche per mettere meglio in evidenza una serie di dinamiche che ruotavano intorno al boss e che più in generale sono tipiche della realtà siciliana e dell’Italia tutta. Quando poi Denaro è stato arrestato, dopo trent'anni di latitanza, e si è scoperto che per tutto il tempo o quasi il boss aveva vissuto a pochi metri da una caserma dei carabinieri, la storia ha in un certo senso dato ragione e confermato – qualora ce ne fosse stato bisogno – l’approccio scelto dai registi.
Iddu racconta la storia dell’ultimo padrino (interpretato da Elio Germano) in maniera parzialmente indiretta, ossia attraverso la figura di Catello Palumbo (Toni Servillo), ex preside, ma anche ex sindaco del paese, che è un maneggione locale, molto legato al sistema mafioso e in particolare al padre di Matteo e che si è fatto sei anni di carcere proprio per questo.
Dopo essere tornato a casa e aver preso consapevolezza che tutte le sue fortune sono sfumate, Catello accetta di collaborare con i servizi segreti e la polizia per arrivare al boss.
Ma in questo mondo nessuno è esattamente quello che sembra, e tutti in qualche modo giocano su più tavoli, tentando di ottenere un proprio tornaconto personale. Chi è troppo onesto, o troppo ingenuo, finisce per soccombere e avere la peggio.
Iddu è un film ben sceneggiato e ben fatto: si lascia seguire con interesse e attenzione e riesce ad alternare con grande naturalezza momenti di grande tensione e momenti di leggerezza, così come malvagità e umanità. La colonna sonora di Colapesce fa bene il suo dovere a supporto di questo impianto.
Gli attori si calano adeguatamente nei loro ruoli e tutti riescono a risultare credibili anche come siciliani trapanesi, aspetto al quale i registi tenevano moltissimo. Devo però dire che i singoli personaggi li ho trovati tutti un po’ monocordi, abbastanza riconoscibili nella loro macchietta, fors'anche perché - in quello che è rappresentato volutamente come un teatrino - inevitabilmente ci sono delle maschere, ma anche perché alcuni di loro (vedi Servillo, ma ormai sempre di più anche Germano) tendono a fare sempre lo stesso personaggio, e paiono portarselo dietro di film in film al punto che, persino quando sono sé stessi (vedi Servillo nel dibattito finale), sembrano i loro personaggi.
Comunque un film di tutto rispetto, e non si può che concludere dicendo "Ce ne fossero di film italiani così!".
Voto: 3/5
Al termine del film, durante il Q&A a cui partecipano oltre ai due registi anche gli attori Toni Servillo, Barbora Bobulova, Daniela Marra, Betty Pedrazzi e Pino Tumino, nonché Colapesce che è autore della colonna sonora, Grassadonia e Piazza raccontano di aver iniziato a lavorare a questo film prima che Messina Denaro venisse arrestato, studiando la documentazione esistente e in particolare alcuni pizzini di cui si conosceva il contenuto, e cercando di ricostruire la personalità del boss. Fin da allora avevano deciso di calcare la mano sul ridicolo per evitare qualunque mitizzazione del protagonista e anche per mettere meglio in evidenza una serie di dinamiche che ruotavano intorno al boss e che più in generale sono tipiche della realtà siciliana e dell’Italia tutta. Quando poi Denaro è stato arrestato, dopo trent'anni di latitanza, e si è scoperto che per tutto il tempo o quasi il boss aveva vissuto a pochi metri da una caserma dei carabinieri, la storia ha in un certo senso dato ragione e confermato – qualora ce ne fosse stato bisogno – l’approccio scelto dai registi.
Iddu racconta la storia dell’ultimo padrino (interpretato da Elio Germano) in maniera parzialmente indiretta, ossia attraverso la figura di Catello Palumbo (Toni Servillo), ex preside, ma anche ex sindaco del paese, che è un maneggione locale, molto legato al sistema mafioso e in particolare al padre di Matteo e che si è fatto sei anni di carcere proprio per questo.
Dopo essere tornato a casa e aver preso consapevolezza che tutte le sue fortune sono sfumate, Catello accetta di collaborare con i servizi segreti e la polizia per arrivare al boss.
Ma in questo mondo nessuno è esattamente quello che sembra, e tutti in qualche modo giocano su più tavoli, tentando di ottenere un proprio tornaconto personale. Chi è troppo onesto, o troppo ingenuo, finisce per soccombere e avere la peggio.
Iddu è un film ben sceneggiato e ben fatto: si lascia seguire con interesse e attenzione e riesce ad alternare con grande naturalezza momenti di grande tensione e momenti di leggerezza, così come malvagità e umanità. La colonna sonora di Colapesce fa bene il suo dovere a supporto di questo impianto.
Gli attori si calano adeguatamente nei loro ruoli e tutti riescono a risultare credibili anche come siciliani trapanesi, aspetto al quale i registi tenevano moltissimo. Devo però dire che i singoli personaggi li ho trovati tutti un po’ monocordi, abbastanza riconoscibili nella loro macchietta, fors'anche perché - in quello che è rappresentato volutamente come un teatrino - inevitabilmente ci sono delle maschere, ma anche perché alcuni di loro (vedi Servillo, ma ormai sempre di più anche Germano) tendono a fare sempre lo stesso personaggio, e paiono portarselo dietro di film in film al punto che, persino quando sono sé stessi (vedi Servillo nel dibattito finale), sembrano i loro personaggi.
Comunque un film di tutto rispetto, e non si può che concludere dicendo "Ce ne fossero di film italiani così!".
Voto: 3/5
venerdì 18 ottobre 2024
La ferocia / dal romanzo di Nicola Lagioia. Teatro Argentina, 3 ottobre 2024
La stagione teatrale di quest'anno inizia all'Argentina con questo adattamento teatrale ad opera di Linda Dalisi del romanzo di Nicola Lagioia a suo tempo vincitore del Premio Strega.
Del romanzo ricordavo poco, se non che mi era piaciuto, ed ero curiosa di capire come sarebbe stato reso su un palcoscenico.
La scenografia vede una tripartizione degli spazi: la cabina nella quale un giornalista radiofonico fa la sua trasmissione, l'interno di una casa con una parete a vetri, l'esterno che diventa molti luoghi a seconda delle esigenze sceniche.
Lo spettacolo parte in maniera molto poco narrativa, e infatti faccio fatica a seguire e anche a ritrovare la storia che avevo letto. Poi a un certo punto la trama si dipana e a poco a poco si va delineando la storia della famiglia Salvemini, il padre immobiliarista senza scrupoli Vittorio (Leonardo Capuano), la moglie Annamaria (Francesca Mazza), e i figli Ruggero (Michele Altamura), Clara e Michele (Gabriele Paolocà) (manca un'ultima figlia non presente nell'adattamento teatrale).
Al centro della trama la morte di Clara, apparentemente suicida, e un intrigo che riguarda il complesso turistico di Porto Allegro, fatto costruire da Vittorio sul Gargano.
A latere altre figure minori, tra cui il conduttore radiofonico (Gaetano Colella) che è anche in parte narratore della storia, nonché protagonista a un certo punto di un dialogo con Michele.
Complessivamente lo spettacolo riesce a veicolare abbastanza fedelmente sia il senso di angoscia che attraversa le pagine del libro di Lagioia, sia l'ambiguità dei rapporti che intercorrono tra i personaggi, e alla fine lo sviluppo narrativo appare sufficientemente chiaro.
Non mi sembra però che lo spettacolo aggiunga qualcosa alla lettura del romanzo, anzi semmai toglie qualche aspetto di complessità che la parola scritta certamente veicola meglio.
Tra l'altro lo spettacolo soffre nel tentativo di trasformare un romanzo pochissimo dialogico in qualcosa di maggiormente teatrale, e l'impressione che se ne ricava è che - a parte pochi momenti - il tutto finisce per sembrare come una somma di monologhi giustapposti, monologhi che risentono tra l'altro di uno stile letterario e che dunque - solo in alcuni passaggi e anche grazie alla bravura degli attori (per esempio quando Michele parla degli animali impazziti) - risultano davvero dirompenti.
Un ultimo appunto linguistico: a parte il figlio Ruggero e il personaggio della rana (che forse è lo stesso che fa il conduttore radiofonico?), tutti gli altri attori non hanno nemmeno un'inflessione barese, il che produce - almeno per me che da quel contesto provengo - un effetto piuttosto straniante e toglie forza alla verosimiglianza.
Voto: 3/5
Del romanzo ricordavo poco, se non che mi era piaciuto, ed ero curiosa di capire come sarebbe stato reso su un palcoscenico.
La scenografia vede una tripartizione degli spazi: la cabina nella quale un giornalista radiofonico fa la sua trasmissione, l'interno di una casa con una parete a vetri, l'esterno che diventa molti luoghi a seconda delle esigenze sceniche.
Lo spettacolo parte in maniera molto poco narrativa, e infatti faccio fatica a seguire e anche a ritrovare la storia che avevo letto. Poi a un certo punto la trama si dipana e a poco a poco si va delineando la storia della famiglia Salvemini, il padre immobiliarista senza scrupoli Vittorio (Leonardo Capuano), la moglie Annamaria (Francesca Mazza), e i figli Ruggero (Michele Altamura), Clara e Michele (Gabriele Paolocà) (manca un'ultima figlia non presente nell'adattamento teatrale).
Al centro della trama la morte di Clara, apparentemente suicida, e un intrigo che riguarda il complesso turistico di Porto Allegro, fatto costruire da Vittorio sul Gargano.
A latere altre figure minori, tra cui il conduttore radiofonico (Gaetano Colella) che è anche in parte narratore della storia, nonché protagonista a un certo punto di un dialogo con Michele.
Complessivamente lo spettacolo riesce a veicolare abbastanza fedelmente sia il senso di angoscia che attraversa le pagine del libro di Lagioia, sia l'ambiguità dei rapporti che intercorrono tra i personaggi, e alla fine lo sviluppo narrativo appare sufficientemente chiaro.
Non mi sembra però che lo spettacolo aggiunga qualcosa alla lettura del romanzo, anzi semmai toglie qualche aspetto di complessità che la parola scritta certamente veicola meglio.
Tra l'altro lo spettacolo soffre nel tentativo di trasformare un romanzo pochissimo dialogico in qualcosa di maggiormente teatrale, e l'impressione che se ne ricava è che - a parte pochi momenti - il tutto finisce per sembrare come una somma di monologhi giustapposti, monologhi che risentono tra l'altro di uno stile letterario e che dunque - solo in alcuni passaggi e anche grazie alla bravura degli attori (per esempio quando Michele parla degli animali impazziti) - risultano davvero dirompenti.
Un ultimo appunto linguistico: a parte il figlio Ruggero e il personaggio della rana (che forse è lo stesso che fa il conduttore radiofonico?), tutti gli altri attori non hanno nemmeno un'inflessione barese, il che produce - almeno per me che da quel contesto provengo - un effetto piuttosto straniante e toglie forza alla verosimiglianza.
Voto: 3/5
martedì 15 ottobre 2024
Un piano B di tutto rispetto: la Scania, con sosta a Copenhagen (Seconda parte)
Riserva presso il lago di Ivö |
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La zona orientale: Kivik, riserva di Haväng, Yngsjö, Åhus, lago di Ivö e Kristianstad
Il nostro primo approccio con la parte orientale della Scania è una festa svedese a Furuboda, in un casotto sulla spiaggia. Si festeggia la bimba di un'amica svedese, che vive in Italia, e per un’incredibile coincidenza noi siamo a dormire a pochi chilometri da lì (tra Åhus e Yngsjö) proprio nel giorno in cui è previsto il festeggiamento. Lo scopriamo quando siamo già in Scania e l’esperienza è davvero molto bella, con tanto di momento 'fika'(la pausa caffè e dolci che è una vera e propria istituzione per gli svedesi) e di momento “dopp” (calata nelle gelide acque del Baltico) che solo io e uno svedesone ci attentiamo a fare.
Il nostro primo approccio con la parte orientale della Scania è una festa svedese a Furuboda, in un casotto sulla spiaggia. Si festeggia la bimba di un'amica svedese, che vive in Italia, e per un’incredibile coincidenza noi siamo a dormire a pochi chilometri da lì (tra Åhus e Yngsjö) proprio nel giorno in cui è previsto il festeggiamento. Lo scopriamo quando siamo già in Scania e l’esperienza è davvero molto bella, con tanto di momento 'fika'(la pausa caffè e dolci che è una vera e propria istituzione per gli svedesi) e di momento “dopp” (calata nelle gelide acque del Baltico) che solo io e uno svedesone ci attentiamo a fare.
Nella pineta a sud di Åhus |
La prima verso il lago di Ivö, a nord di Kristianstad, che al suo interno ha un'isola che si raggiunge con un battellino che trasporta auto e persone. Nell'isoletta all'interno del lago c’è una riserva e una bella chiesetta, la più antica in pietra della Scania. Sulla terraferma, poco lontano dal lago, merita una visita il castello di Bäckaskog: se fate una passeggiata nel parco potrete arrivare a una propaggine dove dondolare su un'altalena che guarda verso l’acqua.
Nel paesino di Kivik |
Molti ci hanno consigliato una gita a Kivik, il paese delle mele. I dintorni sono effettivamente molto belli, e le campagne sono piene di meleti e bellissime case; il paese in sé non ci ha fatto una grande impressione; infatti ci limitiamo a una puntatina al porto e dopo ci dirigiamo verso la riserva di Haväng.
Nella riserva di Haväng |
Una giornata intera la dedichiamo a una gita in bicicletta a Åhus. Nel cottage nella pineta dove siamo a dormire (e dove una mattina facciamo scattare l’allarme del rilevatore antifumo facendo bruciare le brioche nel tostapane!) sono a disposizione degli ospiti due biciclette e così imbocchiamo la bella pista ciclabile che, attraverso la pineta e in circa un’oretta, ci porta nella cittadina di Åhus, dominata dalla grande fabbrica di Absolute vodka.
Il gelato da Otto & GlassFabriken |
Sempre in bici ci allunghiamo fino alla spiaggia a nord del paese, Täppet, con una bella pineta alle spalle, le casette colorate e un grande pontile, cosa a cui ormai la Svezia ci ha abituate.
Spiaggia di Täppet |
Al cottage dove dormiamo faremo il nostro ormai classico esperimento vacanziero di accendere un barbecue, e come al solito finirà con innervosimenti generali, gran dispendio di energia e tanta fatica per cuocere due filetti e due fette di halloumi (buoni eh!).
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Verso la penisola di Bjäre |
La nostra ultima sistemazione prima della breve sosta a Copenhagen è in una bella casetta – con tanto di giardino d’inverno – nella campagna vicino Grieve, al centro della penisola di Bjäre. Il nostro appartamento è parte di una ex fattoria dove vivono anche i proprietari che si sono trasferiti qui da un’altra zona della Svezia più a nord. Lei, Linda, ha adibito la vecchia stalla ad atelier dove vende i quadri che realizza, ma anche numerosi prodotti di design svedese, tra cui degli splendidi tessili di Ekelund di cui faremo man bassa (anche perché ci sono i saldi e dunque il costo è abbordabile).
Rössjön |
Quando arriviamo nel nostro appartamentino il sole ha fatto capolino tra le nubi e dunque decidiamo di cominciare l'esplorazione della penisola, che si rivelerà davvero bella, forse ancora di più di quella più a sud, dove c’è la riserva naturale di Kullaberg.
Lungo le strade della penisola di Bjäre |
Tramonto a Torekov |
Il giorno successivo è dedicato alla penisola di Kulla. La sosta a Höganäs si può anche evitare a meno che non vogliate andare a fare un giro all'outlet delle ceramiche nella zona industriale della città (cosa che noi faremo successivamente); sulla strada per Kullaberg ci fermiamo prima al castello di Krapperup - che però vediamo solo dall'esterno - e poi a Mölle, dove facciamo una passeggiata sul porto.
Faro di Kullaberg |
Sulla strada del ritorno sostiamo brevemente nei paesi di Skaret e Arild, caratteristici luoghi di villeggiatura per gli svedesi, che però – complice il tempo quasi autunnale – sembrano deserti.
Nella zona di Kullaberg facciamo una sosta gourmet al bistrot Havsveranda di Randsvik, un ristorantino che si sviluppa sul fianco della collina e scende fino ad una spiaggia privata, e dove si mangia in una veranda a vetri che si affaccia direttamente sul mare. Il cibo è particolare, ma buono, un po’ caro: d’altra parte è inevitabile pagare in questo caso anche la location.
L’ultima tappa del nostro giro in Scania è Helsingborg, dove – dopo una passeggiata alla torre di quello che resta del castello e al porto – facciamo una bella visita guidata della biblioteca (grazie a un’amica svedese), dove c’è un progetto di rinnovamento della sede e di ampliamento con la costruzione di una nuova ala che si svilupperà nel parco verso il mare. Insieme a lei andremo a prendere un aperitivo nella zona del porto e poi a mangiare in un pub.
Helsinborg |
L’ultima tappa del nostro giro in Scania è Helsingborg, dove – dopo una passeggiata alla torre di quello che resta del castello e al porto – facciamo una bella visita guidata della biblioteca (grazie a un’amica svedese), dove c’è un progetto di rinnovamento della sede e di ampliamento con la costruzione di una nuova ala che si svilupperà nel parco verso il mare. Insieme a lei andremo a prendere un aperitivo nella zona del porto e poi a mangiare in un pub.
Castello di Kronborg |
Danimarca: Helsingør e Copenhagen
A Helsingborg ci imbarchiamo sul traghetto per Helsingør. Dopo una ventina di minuti siamo in Danimarca e andiamo al castello di Kronborg (quello dove è ambientato l’Amleto di Shakespeare e infatti non mancheremo di comprare souvenir a tema shakesperiano), che però visitiamo solo dall'esterno perché non abbiamo molto tempo.
Imboccando la strada lungo la costa andiamo al Louisiana Museum, che avevo visto nel mio primo viaggio danese e mi era piaciuto moltissimo. Quando arriviamo capiamo subito che c’è qualcosa di strano: il parcheggio è esaurito e le macchine sono parcheggiate ovunque. Inoltre vediamo scendere da una macchina elegante una donna di mezza età con tanto di chauffeur. Parcheggiare è impossibile e decidiamo di procedere oltre.
A Copenhagen |
A Copenhagen restituiamo la macchina in aeroporto perché dall'esperienza precedente so che parcheggiare in città è molto caro e comunque i mezzi di trasporto pubblici sono efficientissimi. Il nostro b&b è a 5 minuti a piedi dalla fermata della metro di Amagerbro, zona a 15 minuti di metro dal centro e a 15 minuti di metro dall'aeroporto. Strategico, oltre che davvero molto carino. In questo quartiere, oltre a passeggiare e perdervi nelle strade, consigliamo due ottimi posti dove mangiare: Th. Sørensen Dinér Transportable, un posticino specializzato in smørrebrød dove andremo a mangiare per ben due volte, e la Meyers Bageri, un panificio/caffetteria un po’ hipster, ma con prodotti e caffè davvero molto buoni.
La Water Culture House in costruzione sulla paper island |
Nordhavn |
La metro verso Ørestad |
Tornando in centro con la metro, ci fermiamo per un ultimo giro nella zona di Nørreport, dove ci affacciamo al mercato di Torvehallerne che, rispetto a come lo ricordavo, si è turisticizzato tantissimo e ha perso moltissimo del fascino che ricordavo.
Ancora Ørestad |
In questo senso devo dire che la Scania è molto più rilassante e accogliente: noi ci siamo sentite davvero a nostro agio.
Note finali - in ordine sparso - sul viaggio
Tramonto a Copenhagen |
- Mai vista così tanta gente in accappatoio per strada come in Svezia.
- I contanti qui non servono praticamente a nulla, anzi molti negozi non li accettano proprio.
- Dopo le sigarette vere e quelle elettroniche, mi aspetto che anche da noi arrivi la nicotina da bocca, in Svezia diffusissima.
- Di alci – nonostante i numerosi cartelli per strada che invitavano a prestare attenzione – non ne abbiamo incontrato nemmeno uno, e un po’ mi dispiace, ma forse non era stagione.
La campagna della Scania |
- Amici svedesi, che caspita di asfalto usate per le strade cosicché appena piove andarci in macchina diventa un incubo e sorpassare i camion è quasi impossibile perché si viene investiti da un pericolosissimo getto d’acqua?
Infine: grazie Scania, perché ci hai salvato dalla depressione di un viaggio saltato, e ci hai comunque regalato un viaggio bellissimo, fresco e caloroso al tempo stesso.
*********************Infine: grazie Scania, perché ci hai salvato dalla depressione di un viaggio saltato, e ci hai comunque regalato un viaggio bellissimo, fresco e caloroso al tempo stesso.
Per una selezione più ampia di foto del viaggio in Scania si veda qui sul mio profilo Behance.
domenica 13 ottobre 2024
Martin Parr. Short & Sweet. Bologna, Museo Civico Archeologico, 29 settembre 2024
Il nome di Martin Parr è comparso nel mio percorso fotografico più e più volte, ma è solo di recente - grazie al mio avvicinamento alla street photography - che ho cominciato a guardare al suo lavoro con maggiore attenzione.
Volevo già andare a Milano dove la mostra ha iniziato il suo tour italiano, ma non ce l'ho fatta, e dunque quando ho saputo che la mostra sarebbe stata visitabile a Bologna fino a gennaio non mi sono fatta sfuggire l'occasione in una delle mie puntate bolognesi.
Short & sweet è una mostra curata dallo stesso Parr - che tra l'altro ha anche girato un po' per la penisola per questa occasione - in cui lo spettatore ha la possibilità di percorrere la sua intera carriera, a partire dai primi progetti in bianco e nero degli anni Settanta fino ad arrivare ai lavori più recenti, come quelli nel settore del fashion.
La mostra si compone di 60 fotografie a cui si aggiungono le 250 che vanno a formare l'installazione Common sense, in cui le foto sono stampate su carta formato A3 con stampante a getto di inchiostro (cosa che produce colori ancora più saturi di quanto non siano normalmente le foto di Parr) e sono combinate a formare quattro pareti fotografiche. L'effetto è potente e permette di venire a contatto con alcune delle tematiche più tipiche della poetica di Parr: il kitsch, il consumismo, il capitalismo, l'ironia e molto altro.
Io però devo dire che ho apprezzato particolarmente la prima parte della mostra, quella delle foto degli anni Settanta in bianco e nero - che sono quelle che meno conoscevo - e poi l'intervista che viene proposta al visitatore a metà percorso, in cui - attraverso le domande dell'intervistatrice, la storica e critica della fotografia Roberta Valtorta - viene fuori la personalità semplice, ironica e autoironica di Martin Parr, e si ha inoltre la possibilità di capire meglio il suo approccio documentaristico e antropologico alla fotografia e al mondo. Parr dice che il suo interesse è sempre stato focalizzato sul modo in cui le persone trascorrono e occupano il tempo libero, perché secondo lui tanto dice della società quello che la gente sceglie o pensa di scegliere al di fuori dei doveri familiari e lavorativi.
È in questa ottica che va guardata e interpretata l'intera mostra che comprende anche una sezione dedicata agli aspetti più grotteschi del turismo di massa, un'altra alle foto scattate nelle spiagge inglesi ma anche nel resto del mondo durante l'intera carriera di Parr, un'altra dedicata al ballo, nonché le sue più recenti foto di moda (che Parr tratta sempre in modo originale e divertente). Da molti dei lavori esposti emerge il suo rapporto ambivalente con gli inglesi, il popolo a cui appartiene e di cui conosce le grandi virtù ma anche le tante caratteristiche oggetto della sua bonaria ironia.
Proprio sulle opere fotografiche focalizzate su Gran Bretagna e Irlanda si concentra anche il lavoro della Martin Parr Foundation di Bristol, che - come lui stesso ci dice nell'intervista - non ha solo lo scopo di preservare la sua collezione e la sua eredità fotografica, bensì anche di dare spazio al lavoro di altri fotografi più o meno conosciuti che, con i loro lavori, permettono di costruire un grande affresco per immagini della società inglese nel corso del tempo.
Vi consiglio di non perdere questa occasione.
Voto: 3,5/5
Volevo già andare a Milano dove la mostra ha iniziato il suo tour italiano, ma non ce l'ho fatta, e dunque quando ho saputo che la mostra sarebbe stata visitabile a Bologna fino a gennaio non mi sono fatta sfuggire l'occasione in una delle mie puntate bolognesi.
Short & sweet è una mostra curata dallo stesso Parr - che tra l'altro ha anche girato un po' per la penisola per questa occasione - in cui lo spettatore ha la possibilità di percorrere la sua intera carriera, a partire dai primi progetti in bianco e nero degli anni Settanta fino ad arrivare ai lavori più recenti, come quelli nel settore del fashion.
La mostra si compone di 60 fotografie a cui si aggiungono le 250 che vanno a formare l'installazione Common sense, in cui le foto sono stampate su carta formato A3 con stampante a getto di inchiostro (cosa che produce colori ancora più saturi di quanto non siano normalmente le foto di Parr) e sono combinate a formare quattro pareti fotografiche. L'effetto è potente e permette di venire a contatto con alcune delle tematiche più tipiche della poetica di Parr: il kitsch, il consumismo, il capitalismo, l'ironia e molto altro.
Io però devo dire che ho apprezzato particolarmente la prima parte della mostra, quella delle foto degli anni Settanta in bianco e nero - che sono quelle che meno conoscevo - e poi l'intervista che viene proposta al visitatore a metà percorso, in cui - attraverso le domande dell'intervistatrice, la storica e critica della fotografia Roberta Valtorta - viene fuori la personalità semplice, ironica e autoironica di Martin Parr, e si ha inoltre la possibilità di capire meglio il suo approccio documentaristico e antropologico alla fotografia e al mondo. Parr dice che il suo interesse è sempre stato focalizzato sul modo in cui le persone trascorrono e occupano il tempo libero, perché secondo lui tanto dice della società quello che la gente sceglie o pensa di scegliere al di fuori dei doveri familiari e lavorativi.
È in questa ottica che va guardata e interpretata l'intera mostra che comprende anche una sezione dedicata agli aspetti più grotteschi del turismo di massa, un'altra alle foto scattate nelle spiagge inglesi ma anche nel resto del mondo durante l'intera carriera di Parr, un'altra dedicata al ballo, nonché le sue più recenti foto di moda (che Parr tratta sempre in modo originale e divertente). Da molti dei lavori esposti emerge il suo rapporto ambivalente con gli inglesi, il popolo a cui appartiene e di cui conosce le grandi virtù ma anche le tante caratteristiche oggetto della sua bonaria ironia.
Proprio sulle opere fotografiche focalizzate su Gran Bretagna e Irlanda si concentra anche il lavoro della Martin Parr Foundation di Bristol, che - come lui stesso ci dice nell'intervista - non ha solo lo scopo di preservare la sua collezione e la sua eredità fotografica, bensì anche di dare spazio al lavoro di altri fotografi più o meno conosciuti che, con i loro lavori, permettono di costruire un grande affresco per immagini della società inglese nel corso del tempo.
Vi consiglio di non perdere questa occasione.
Voto: 3,5/5
giovedì 10 ottobre 2024
Quando muori resta a me / Zerocalcare
Quando muori resta a me / Zerocalcare; con i toni di grigio di Alberto Madrigal. Milano: Bao Publishing, 2024.
Ed eccomi alla lettura dell'ultimo albo di Zerocalcare, quello che tante preoccupazioni aveva suscitato nella personalità nevrotica di Michele Rech convinto che il suo tempo stia passando o sia addirittura passato (se volete farvene un'idea ascoltate il podcast del Post in cui Luca Sofri lo intervista).
Quando muori resta a me appartiene al filone sicuramente più ricco della produzione di Zerocalcare, ossia quello delle storie personali e familiari, che talvolta incrociano storie più ampie ma fondamentalmente appartengono all'universo affettivo di Zero.
La vera novità rispetto agli albi precedenti è il fatto che al centro di questo racconto per la prima volta c'è la figura del padre di Zerocalcare e della famiglia di lui. L'occasione per indagare nel complesso rapporto tra Zero e suo padre è data da un viaggio che i due fanno insieme in un paesino delle Dolomiti dove c'è una piccola casa di famiglia, ereditata dal padre, e a cui è legata una storia che risale ai tempi della prima guerra mondiale, ma che c'entra anche con vicende che invece appartengono al periodo compreso tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta e che vedono coinvolta una donna misteriosa con un occhio bendato.
Come sempre, Zerocalcare è straordinario nel tenerci incollati alle pagine e alla storia, e in questo caso - oltre ad avere ritrovato le sue caratteristiche più tipiche, che si sostanziano in alcune uscite geniali e divertenti, nonché in alcune riflessioni per nulla scontate - ho apprezzato l'affinamento dell'impianto narrativo (forse anche grazie all'esperienza nella realizzazione della serie TV) che produce un'aspettativa e una suspence crescente nel corso della lettura.
Io l'ho divorato in qualche ora di ozio sul divano, in una situazione che con qualunque altra lettura sarebbe probabilmente finita in una 'pennica' pomeridiana. E invece Zerocalcare mi ha tenuto sveglissima fino all'ultima pagina.
Se un difetto devo trovare in questo nuovo albo è forse la sproporzione tra l'aspettativa suscitata dalle linee narrative del racconto e lo scioglimento finale che - anche forse inevitabilmente in quanto ha a che fare con la vita reale delle persone - è molto meno eclatante di quello che ci si potrebbe immaginare.
Alla fine si può dire che la forza di questo racconto sta nello svolgimento, e - come sempre - nelle chicche autoironiche, ironiche, riflessive, paranoiche, esilaranti, commoventi con cui Zerocalcare condisce qualunque narrazione, mettendo sempre davanti a tutto una pietas profonda verso qualunque essere umano, di cui si sforza sempre di comprendere fragilità e debolezze.
Voto: 3,5/5
Ed eccomi alla lettura dell'ultimo albo di Zerocalcare, quello che tante preoccupazioni aveva suscitato nella personalità nevrotica di Michele Rech convinto che il suo tempo stia passando o sia addirittura passato (se volete farvene un'idea ascoltate il podcast del Post in cui Luca Sofri lo intervista).
Quando muori resta a me appartiene al filone sicuramente più ricco della produzione di Zerocalcare, ossia quello delle storie personali e familiari, che talvolta incrociano storie più ampie ma fondamentalmente appartengono all'universo affettivo di Zero.
La vera novità rispetto agli albi precedenti è il fatto che al centro di questo racconto per la prima volta c'è la figura del padre di Zerocalcare e della famiglia di lui. L'occasione per indagare nel complesso rapporto tra Zero e suo padre è data da un viaggio che i due fanno insieme in un paesino delle Dolomiti dove c'è una piccola casa di famiglia, ereditata dal padre, e a cui è legata una storia che risale ai tempi della prima guerra mondiale, ma che c'entra anche con vicende che invece appartengono al periodo compreso tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta e che vedono coinvolta una donna misteriosa con un occhio bendato.
Come sempre, Zerocalcare è straordinario nel tenerci incollati alle pagine e alla storia, e in questo caso - oltre ad avere ritrovato le sue caratteristiche più tipiche, che si sostanziano in alcune uscite geniali e divertenti, nonché in alcune riflessioni per nulla scontate - ho apprezzato l'affinamento dell'impianto narrativo (forse anche grazie all'esperienza nella realizzazione della serie TV) che produce un'aspettativa e una suspence crescente nel corso della lettura.
Io l'ho divorato in qualche ora di ozio sul divano, in una situazione che con qualunque altra lettura sarebbe probabilmente finita in una 'pennica' pomeridiana. E invece Zerocalcare mi ha tenuto sveglissima fino all'ultima pagina.
Se un difetto devo trovare in questo nuovo albo è forse la sproporzione tra l'aspettativa suscitata dalle linee narrative del racconto e lo scioglimento finale che - anche forse inevitabilmente in quanto ha a che fare con la vita reale delle persone - è molto meno eclatante di quello che ci si potrebbe immaginare.
Alla fine si può dire che la forza di questo racconto sta nello svolgimento, e - come sempre - nelle chicche autoironiche, ironiche, riflessive, paranoiche, esilaranti, commoventi con cui Zerocalcare condisce qualunque narrazione, mettendo sempre davanti a tutto una pietas profonda verso qualunque essere umano, di cui si sforza sempre di comprendere fragilità e debolezze.
Voto: 3,5/5
martedì 8 ottobre 2024
Un piano B di tutto rispetto: la Scania, con sosta a Copenhagen (Prima parte)
La spiaggia di Skanör |
Nel centro di Malmö |
Aspetti organizzativi e pratici
Organizzare una vacanza in Scania è quanto di più facile si possa fare, tanto che noi lo abbiamo fatto in poche ore e a due giorni dalla partenza. Abbiamo scelto di volare su Copenhagen perché in quel momento il volo era più economico che per Stoccolma e anche per la maggiore vicinanza alla Scania. All'aeroporto di Copenhagen abbiamo preso a noleggio un'auto (e abbiamo trovato un'ottima offerta) e da lì in poi ci siamo sempre mosse in macchina con grande semplicità. Guidare in Svezia è super rilassante, state solo attenti ai limiti di velocità e agli autovelox (ce ne sono tantissimi!). All'arrivo - come già detto, siamo andate da Copenhagen alla nostra prima destinazione passando per il ponte, al ritorno abbiamo invece deciso di prendere il traghetto – imbarcando la macchina - a Helsingborg, in modo da andare a vedere il castello di Amleto sulla costa danese.
La spiaggia di Malmö |
Nelle prime tre notti eravamo in una specie di bungalow/cottage nella zona di Falsterbo, nelle seconde tre notti in un altro bel bungalow (più grande) in una specie di villaggio di case di legno (penso per gran parte seconde case) in una pineta a ridosso della spiaggia a sud di Åhus (vicino Yngsjö), nelle ultime tre notti infine in un vero e proprio appartamento (confinante con quello dei proprietari) nella campagna vicino a Grevie, nella penisola di Bjäre. Poi l'ultima notte l'abbiamo prenotata a Copenhagen per darci la possibilità anche di una piccola visita della città, e abbiamo scelto un b&b nell'isola di Amager, vicino la fermata della metropolitana AmagerBro, a metà strada tra l’aeroporto e il centro della città, zona che non conoscevamo e che invece ci ha conquistate.
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Riserva naturale di Falsterbo e faro |
La penisola dove si trovano Falsterbo e Skanör è la prima area che esploriamo ed è una lingua di terra che si protende sullo stretto di Øresund, nel mar Baltico. Luogo di vacanze e di spiagge molto belle: e io faccio subito il bagno nell'acqua gelida calandomi dal pontile in legno, insieme alle ragazzine svedesi dall'aspetto vichingo. In particolare, la zona della spiaggia di Skanör, oltre a offrire bei posticini dove mangiare e ovviamente una sauna sul mare e un pontile vicino da cui tuffarsi (com'è tipico di molti posti della Svezia), ha un mare pulitissimo e una spiaggia di sabbia bianchissima, su cui si affacciano tante casettine di legno colorate molto fotogeniche, usate come spogliatoi e punti di appoggio per i vacanzieri e i bagnanti, e alle sue spalle ha un’area umida molto bella, dove è possibile osservare la tipica fauna di questi ambienti.
Skanör |
Sull'estremità della penisola, lì dove inizia una bellissima riserva naturale, è possibile fare una visita al faro (salendo su di esso per ammirare il panorama) e una passeggiata attraverso i sentieri che costeggiano la laguna e il mare fino al punto di osservazione, dove molte persone vanno a fare birdwatching (mentre dall'altra parte si estende un grande campo da golf, sport in Svezia molto diffuso).
Al Foteviken Museum |
Sempre in quest'area della Scania è possibile anche fare tour a tema vichingo: noi siamo andate al Fotevikens museum, un villaggio vichingo ricostruito dove non so se vi consigliamo la visita guidata (il signore vestito da vichingo è troppo verboso) ma sicuramente vale la pena indossare i vestiti vichinghi all'ingresso e farsi le foto nell'angolo apposito! Il tour vichingo prosegue poi verso Trelleborg dove c'è la ricostruzione di una parte della fortezza vichinga.
Malmö |
Le due città più grandi: Malmö e Lund
Andando verso nord da Falsterbo, sicuramente merita dedicare una giornata intera alla città più grande della Scania, Malmö. Parcheggiate non proprio in centro perché altrimenti il parcheggio per l’intera giornata vi costerà un botto.
Il nostro giro della città comincia con una passeggiata attraverso lo Slottsparken fino ad arrivare alla City library, che si compone dell’edificio storico e di un ampliamento contemporaneo a vetri, molto grande e luminoso, occupato da una sala di lettura a tutta altezza intorno alla quale si sviluppano ballatoi che permettono di consultare le collezioni a scaffale aperto e di gettare lo sguardo sia fuori sia sulla sala di lettura sottostante.
Nella biblioteca di Malmö |
Nella zona centrale vale la pena fare una sosta al
Lilla Kafferosteriet, una caffetteria di specialty coffee (cosa che in Svezia è la normalità), dove mangiamo un bun al cardamomo eccezionale, e fare un giro di shopping al Formargruppen, che vende prodotti di design svedese realizzati da artisti locali (non economico, ma molto molto bello).
Malmö |
Poi con l’autobus andiamo al Turning Torso, il grattacielo di Calatrava costruito nel quartiere che si sviluppa sul mare che è ormai diventato molto caratteristico dello skyline di Malmö. In generale, il quartiere nel quale si trova il grattacielo merita una passeggiata tra gli edifici di architettura contemporanea, alcuni dei quali molto affascinanti. Ci fermiamo a un certo punto su un pontile a gradoni sul mare per riposarci prima di arrivare alla spiaggia e durante il tempo che stiamo qua, mentre il cielo è ancora grigio dopo la pioggia e non fanno più di 19°, arrivano uno dopo l’altro un sacco di svedesi (molti dei quali in accappatoio) per quello che scopriremo chiamarsi “dopp”, in pratica un breve bagno, dopo il quale si rivestono e tornano a casa, mentre noi li osserviamo con le nostre maglie, pantaloni lunghi e giacche a vento e antipioggia.
Lilla Kafferosteriet di Malmö |
Tornando verso il centro scendiamo alla fermata Triangeln (dove c’è un grande centro commerciale) e da qui ci dirigiamo verso Davidhalltorg, una piazza bella e piena di vita e di locali, vicino la quale si trova il posto dove mangeremo, ossia Riket, osteria trendy nella quale veniamo accolti da un cameriere pugliese-marchigiano. La cucina è una rivisitazione fusion dei sapori svedesi: noi mangiamo patate novelle con aneto e panna acida, tartare con chimichurri e insalata, spiedino di pancetta con corn flakes e cavolo, e infine cetriolo grigliato con funghi e nocciole. Il tutto accompagnato da un ottimo rosso portoghese. Tutto buono e conto assolutamente onesto.
Lund |
Ancora più a nord, ma verso l’interno, merita certamente una visita la cittadina di Lund, dall'anima fortemente universitaria. Tutto qui ruota intorno agli edifici universitari medievali (tra le più antiche università della Svezia) che si sviluppano accanto alla famosa cattedrale. In realtà non riusciamo a vedere granché se non dall'esterno, perché arriviamo in città verso le 17 e a quell'ora in Svezia chiude praticamente tutto. L’unica cosa che possiamo apprezzare pienamente di Lund è la caffetteria Love coffee sulla Klostergatan. Per il resto riusciamo a fare solo una passeggiata tra le belle strade della città che però, forse anche per il periodo e il giorno della settimana (sabato pomeriggio), ci appare un po’ sonnacchiosa.
Ales stenar |
La costa meridionale: Ystad e le Ales stenar
Chiunque sia appassionato di gialli svedesi non può non conoscere almeno di nome Ystad, la città dove vive e lavora il commissario Kurt Wallander, il personaggio creato dalla penna di Henning Mankell. Che siate o meno lettori di Mankell, una visita alla cittadina di Ystad vale la pena. Noi ci trascorriamo un’oretta passeggiando un po’ a caso tra le strade del centro medievale su cui si affacciano sequenze di case colorate e a graticcio, davanti alle quali crescono piante e fiori colorate e alle cui grandi finestre si affacciano oggetti di vario design con cui gli svedesi amano ornare i davanzali. È domenica e in questa cittadina – pur essendoci un minimo di movimento turistico – è tutto chiuso, e prevalentemente si incontrano abitanti che fanno sport oppure la loro passeggiatina domenicale.
Ystad |
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