Giuseppe Fiorello fa il suo esordio dietro la macchina da presa con un film ispirato a una vicenda che personalmente non conoscevo, ma che poi documentandomi ho scoperto essere uno dei capisaldi della storia del movimento LGBT in Sicilia, e più in generale in Italia, ossia il delitto di Giarre, il duplice omicidio che nel 1980 stroncò la vita di due ragazzi siciliani che si amavano in una società profondamente omofoba, patriarcale e maschilista.
Fiorello sceglie di spostare la vicenda due anni più avanti, facendola coincidere con l’estate della vittoria dell’Italia ai mondiali spagnoli del 1982, e di cambiare un po' di elementi (alcuni non secondari). I protagonisti del film sono due adolescenti: Gianni (Samuele Segreto), un ragazzo appena uscito dal riformatorio e ben noto in paese per la sua omosessualità, per la quale viene bullizzato dai ragazzi del paese, e Nino (Gabriele Pizzurro), proveniente da una famiglia che si occupa di fuochi di artificio.
La famiglia di Nino è a suo modo una famiglia allargata (oltre al padre e alla madre, nella masseria di campagna dove vivono ci sono anche la giovane figlia incinta, il figlio settenne di quest’ultima, e un non meglio identificato giovane che vive in una roulotte parcheggiata non lontano). Si tratta di una famiglia che, nonostante e forse proprio per la sua originalità, è molto unita e Nino è un ragazzo amato e sereno.
Gianni vive insieme alla madre nella casa del compagno di lei e lavora nell’officina di quest’ultimo, ma è mal sopportato dal patrigno, che sua madre non può inimicarsi senza correre il rischio di trovarsi in mezzo a una strada senza arte né parte.
I due giovani si incontrano a causa di un piccolo incidente in motorino, e da questo episodio nasce tra loro una bella amicizia e presto anche qualcosa di più, nella diffidenza e ostilità crescente del mondo intorno, che ben presto travolge anche le rispettive famiglie, costringendo i due giovani a fare i conti con la violenza della società circostante.
Bene ha fatto Giuseppe Fiorello a portare sullo schermo questa storia che fa riflettere sul fatto che poco più di 40 anni fa si poteva essere ammazzati per il fatto di amare una persona del proprio stesso sesso, perché i diritti e le libertà individuali non devono mai essere dati per scontati e necessitano di una vigilanza attiva sempre.
Fiorello ci trasmette questo messaggio semplice e potente con delicatezza e senza melodrammi forzati ed eccessivi, facendo leva sulla freschezza emotiva dei due giovani protagonisti, che – ognuno a suo modo – sanno cogliere e comunicare le fragilità e la forza di un’età della vita e al contempo la paura e la sfrontatezza di un sentimento scomodo.
Da un punto di vista cinematografico il film è semplice ma ben costruito: forse è un po’ troppo leccato (tutto è in un certo senso troppo bello e pulito), ma rende abbastanza bene l’idea di un ambiente e di un’epoca, oggi in pieno recupero sul grande schermo.
A me che ho vissuto infanzia e adolescenza negli anni Ottanta devo dire che tutto questo parlare di quegli anni con un piglio quasi di storicizzazione fa un po’ impressione e dà la percezione, invero un po’ sgradevole, del tanto tempo che è passato.
Voto: 3,5/5
venerdì 28 aprile 2023
mercoledì 26 aprile 2023
L’ultima notte di Amore
Andrea Di Stefano è un attore e regista italiano che da ormai molti anni si muove all’interno di un contesto cinematografico internazionale. Non a caso il suo primo lungometraggio da regista è stato il film dedicato alla figura del narcotrafficante Pablo Escobar, interpretato da Benicio Del Toro.
Con questo secondo film Di Stefano torna pienamente al contesto italiano con un poliziesco ambientato nel sottobosco milanese della criminalità organizzata, nella quale convergono mafia cinese, ‘ndrangheta e settori corrotti delle forze dell’ordine.
Il protagonista del racconto è Franco Amore (un ormai onnipresente Pierfrancesco Favino), un tenente della polizia che è alle soglie della pensione (anticipata!) per la quale sta preparando il discorso di saluto da fare ai colleghi. Lo incontriamo mentre torna da una corsetta e la sua giovane compagna (la brava Linda Caridi) e un gruppo di amici lo attendono in casa per una festa a sorpresa. Ma questo è quasi l’epilogo della narrazione. Scopriremo infatti nel corso del film cosa è successo ad Amore negli ultimi 10 giorni e come il suo destino potrebbe cambiare.
Trattandosi di un film che fa dell’intreccio e della suspence i suoi punti di forza non è giusto rivelare nient’altro della trama del film, lasciando agli spettatori il piacere della scoperta.
Quello che invece certamente si può dire è che Andrea Di Stefano si muove con grande agio e padronanza negli stilemi del genere poliziesco, richiamando a più riprese alcuni capisaldi degli anni Settanta, ma al contempo adottando uno stile di regia moderno e di grande impatto visivo.
Sul piano narrativo, pur essendo evidente che in fase di scrittura c’è stato un grande lavoro di documentazione per comprendere al meglio il mondo della criminalità organizzata, in particolare nei suoi contatti con le forze dell’ordine, non tutto mi è sembrato pienamente credibile, e forse alcune scelte sono state dettate più da esigenze formali, estetiche e di intreccio che dalla stretta ricerca del realismo descrittivo, cosa che evidentemente non è una esigenza imprescindibile di un film.
A conti fatti, pur avendo visto gradevolmente il film, non posso che confermare che si tratta di un genere lontano dai miei gusti e che non riesco davvero ad apprezzare fino in fondo, sebbene il piano sequenza iniziale sui lunghi titoli di testa - con le immagini notturne di Milano realizzate da un drone che attraversa le varie zone della città fino ad avvicinarsi a un palazzo e a una grande vetrata illuminata dove sono in corso i preparativi per la festa a sorpresa - vale da sola l’intero film e riesce nel compito non semplice di dare a un film come questo un respiro fortemente internazionale.
Del resto anche i temi trattati – il confine tra bene e male, l’amicizia e la colleganza, il concetto di onestà, e molti altri – pur declinati nello specifico contesto prescelto sono certamente temi universali che possono travalicare i confini nazionali ed essere apprezzati da un pubblico non italiano, a cui probabilmente questo film in parte si rivolge già nelle intenzioni.
Voto: 3/5
Con questo secondo film Di Stefano torna pienamente al contesto italiano con un poliziesco ambientato nel sottobosco milanese della criminalità organizzata, nella quale convergono mafia cinese, ‘ndrangheta e settori corrotti delle forze dell’ordine.
Il protagonista del racconto è Franco Amore (un ormai onnipresente Pierfrancesco Favino), un tenente della polizia che è alle soglie della pensione (anticipata!) per la quale sta preparando il discorso di saluto da fare ai colleghi. Lo incontriamo mentre torna da una corsetta e la sua giovane compagna (la brava Linda Caridi) e un gruppo di amici lo attendono in casa per una festa a sorpresa. Ma questo è quasi l’epilogo della narrazione. Scopriremo infatti nel corso del film cosa è successo ad Amore negli ultimi 10 giorni e come il suo destino potrebbe cambiare.
Trattandosi di un film che fa dell’intreccio e della suspence i suoi punti di forza non è giusto rivelare nient’altro della trama del film, lasciando agli spettatori il piacere della scoperta.
Quello che invece certamente si può dire è che Andrea Di Stefano si muove con grande agio e padronanza negli stilemi del genere poliziesco, richiamando a più riprese alcuni capisaldi degli anni Settanta, ma al contempo adottando uno stile di regia moderno e di grande impatto visivo.
Sul piano narrativo, pur essendo evidente che in fase di scrittura c’è stato un grande lavoro di documentazione per comprendere al meglio il mondo della criminalità organizzata, in particolare nei suoi contatti con le forze dell’ordine, non tutto mi è sembrato pienamente credibile, e forse alcune scelte sono state dettate più da esigenze formali, estetiche e di intreccio che dalla stretta ricerca del realismo descrittivo, cosa che evidentemente non è una esigenza imprescindibile di un film.
A conti fatti, pur avendo visto gradevolmente il film, non posso che confermare che si tratta di un genere lontano dai miei gusti e che non riesco davvero ad apprezzare fino in fondo, sebbene il piano sequenza iniziale sui lunghi titoli di testa - con le immagini notturne di Milano realizzate da un drone che attraversa le varie zone della città fino ad avvicinarsi a un palazzo e a una grande vetrata illuminata dove sono in corso i preparativi per la festa a sorpresa - vale da sola l’intero film e riesce nel compito non semplice di dare a un film come questo un respiro fortemente internazionale.
Del resto anche i temi trattati – il confine tra bene e male, l’amicizia e la colleganza, il concetto di onestà, e molti altri – pur declinati nello specifico contesto prescelto sono certamente temi universali che possono travalicare i confini nazionali ed essere apprezzati da un pubblico non italiano, a cui probabilmente questo film in parte si rivolge già nelle intenzioni.
Voto: 3/5
venerdì 21 aprile 2023
I parassiti. Un diario nei giorni del Covid-19 / Ascanio Celestini. Auditorium Parco della Musica, 2 aprile 2023
Ascanio Celestini torna al teatro, accompagnato dalla fisarmonica di Gianluca Casadei, con un reading di tre “racconti” che nell’introduzione ci dice di aver scritto durante la pandemia, anzi più esattamente durante il primo lockdown, con l’idea di scrivere un diario, ma finendo – come è più nelle sue corde – per raccontare storie di persone, di luoghi e di sentimenti.
Poiché questi racconti sono stati scritti in un periodo di riduzione forzata degli spostamenti, il contesto dal quale prendono ispirazione e nel quale si muovono i personaggi dei tre racconti è Morena, una borgata nella zona sud-est di Roma dove Celestini vive e che – come spesso accade nelle borgate romane – funziona sostanzialmente come una piccola comunità.
I racconti che Celestini ci legge sono intitolati Il camminatore, Le margherite e Lungomare, e sono stati scritti uno di seguito all’altro tra marzo e maggio del 2020.
Il fil rouge è il racconto di vite ordinarie in un momento straordinario della vita collettiva: all’interno di ognuno di essi – com’è tipico della scrittura di Celestini – si mescolano dramma e tenerezza, producendo quell’effetto agrodolce che ci culla e ci scuote al contempo.
All’interno dello scenario apocalittico del primo lockdown, che oggi ci appare – per fortuna – lontano anni luce, ma che attraverso le parole di Celestini in parte riviviamo, con la sensazione di angoscia crescente alimentata dalle statistiche giornaliere dei contagi e dei morti, Celestini racconta storie in fondo piccole e ordinarie, intrise di malinconia, dolore, piccoli piaceri e traumi.
Celestini si conferma dunque, anche in questo caso, il cantastorie sensibile che già in passato ha più volte dimostrato di essere. Personalmente, pur apprezzando la delicatezza dei racconti, l’ho trovato in questa circostanza meno incisivo, o – per qualche motivo a me ignoto – mi è arrivato meno che in passato. Il che non toglie che di autori e attori come lui continuiamo, tanto più oggi, ad averne un gran bisogno.
Per chi avesse perso lo spettacolo, ricordo che I parassiti è anche un libro che è uscito nel 2021 per Einaudi.
Voto: 3/5
Poiché questi racconti sono stati scritti in un periodo di riduzione forzata degli spostamenti, il contesto dal quale prendono ispirazione e nel quale si muovono i personaggi dei tre racconti è Morena, una borgata nella zona sud-est di Roma dove Celestini vive e che – come spesso accade nelle borgate romane – funziona sostanzialmente come una piccola comunità.
I racconti che Celestini ci legge sono intitolati Il camminatore, Le margherite e Lungomare, e sono stati scritti uno di seguito all’altro tra marzo e maggio del 2020.
Il fil rouge è il racconto di vite ordinarie in un momento straordinario della vita collettiva: all’interno di ognuno di essi – com’è tipico della scrittura di Celestini – si mescolano dramma e tenerezza, producendo quell’effetto agrodolce che ci culla e ci scuote al contempo.
All’interno dello scenario apocalittico del primo lockdown, che oggi ci appare – per fortuna – lontano anni luce, ma che attraverso le parole di Celestini in parte riviviamo, con la sensazione di angoscia crescente alimentata dalle statistiche giornaliere dei contagi e dei morti, Celestini racconta storie in fondo piccole e ordinarie, intrise di malinconia, dolore, piccoli piaceri e traumi.
Celestini si conferma dunque, anche in questo caso, il cantastorie sensibile che già in passato ha più volte dimostrato di essere. Personalmente, pur apprezzando la delicatezza dei racconti, l’ho trovato in questa circostanza meno incisivo, o – per qualche motivo a me ignoto – mi è arrivato meno che in passato. Il che non toglie che di autori e attori come lui continuiamo, tanto più oggi, ad averne un gran bisogno.
Per chi avesse perso lo spettacolo, ricordo che I parassiti è anche un libro che è uscito nel 2021 per Einaudi.
Voto: 3/5
mercoledì 19 aprile 2023
Rendez-vous. Festival del nuovo cinema francese. Cinema Nuovo Sacher, 29 marzo-4 aprile 2023
E anche quest'anno arriva, immancabile, l'appuntamento con il Rendez-vous, il festival del nuovo cinema francese, che si svolge - come ormai già da diversi anni - al Cinema Nuovo Sacher, con la collaborazione dell'Ambasciata francese in Italia e dell'Institut français. La selezione è sempre molto interessante ed è in alcuni casi l'unica possibilità di vedere dei film che poi non è detto che arrivino in sala. Quest'anno vedo in tutto tre film con una certa soddisfazione.
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Un petit frère
Un petit frère è il secondo lungometraggio della regista e sceneggiatrice francese Léonor Serraille. Il primo, Jeune femme (uscito in Italia con il titolo Montparnasse - femminile singolare), era stato anch'esso presentato nella rassegna Rendez-vous ma io non l'ho visto né recuperato successivamente. A dire la verità, dopo aver visto questo secondo film, mi è venuta voglia di recuperare anche quello.
Un petit frère racconta la storia di una famiglia originaria della Costa d'Avorio su un arco di circa vent'anni, dal momento in cui la madre Rose arriva in Francia con i suoi due figli al seguito, Jean e Ernest, fino a quando i figli sono ormai adulti.
La narrazione, la cui voce narrante è Ernest, è articolata in tre capitoli, dedicati ognuno nello specifico a uno dei componenti di questa famiglia, pur mantenendo la continuità narrativa e cronologica della storia. La prima parte è incentrata su Rose, la seconda su Jean, la terza infine su Ernest.
La bellezza del film della Serraille nasce dal fatto che la famiglia protagonista di questo racconto non è trattata come frequentemente si fa al cinema, ossia ponendo l'accento sull'aspetto della migrazione e della difficile integrazione nel paese di arrivo, bensì come una qualunque famiglia normale, con problemi in cui tutti possono identificarsi, indipendentemente dal colore della pelle e dalle problematiche specifiche legate alla loro particolare situazione. Rose è una madre single, ma ancora giovane e volitiva; è molto legata ai suoi figli con cui - soprattutto quando sono ancora molto piccoli - ha un bellissimo rapporto. Ma non vuole che la sua vita sia relegata al ruolo di madre, né accetta che altri le dicano cosa fare o chi amare o come vivere. Rose dunque fa le sue scelte, che non sempre si rivelano le migliori - come del resto le scelte di tutti -, e attraversa - come tutti - momenti di frustrazione e dolore, e momenti di felicità e riscatto. Ai figli non smette mai di trasmettere la necessità che si impegnino al massimo grado in quello che fanno perché per riuscire e avere successo dovranno essere i migliori. Accadrà così - come spesso accade tra genitori e figli - che il carico sulle spalle di questi ultimi sia eccessivo, e anche che le speranza e il desiderio dei genitori venga deluso. A patirne le conseguenze sarà soprattutto Jean, un giovane talentuoso e in fondo simile a sua madre, che però a un certo punto perderà il senso della strada che sta percorrendo, fino a decidere di tornare nel paese d'origine, mentre Ernest - da sempre più silenzioso e meno appariscente - riuscirà a trovare uno spazio nella società francese, pur non riuscendo a sfuggire a quel senso di depressione e malinconia, che sua madre gli rinfaccia essere malattie dei bianchi, ma da cui neppure lei è immune.
Ne viene fuori il quadro di un'umanità ricca e tridimensionale, in cui forse è una delle prime volte - probabilmente la prima - in cui mentre guardo un film i cui protagonisti sono in buona parte neri - il colore della pelle quasi scompare ai miei occhi per lasciare spazio alla complessità dei sentimenti di cui sono portatori questi personaggi.
Al termine del film Léonor Serraille - rispondendo alle domande della moderatrice - dice di essersi ispirata alla storia della famiglia del suo compagno, e conferma di aver voluto affrontare questa vicenda senza accenti né da commedia né melodrammatici, bensì mettendosi alla medesima altezza dei suoi personaggi (in particolare di Rose) per raccontare la vita senza alcun tipo di giudizio o messaggio. Da questo punto di vista il il film mi ha ricordato molto lo stile narrativo adottato da Mia Hansen-Løve nel suo ultimo film, Un beau matin. Infine scopro dalla chiacchierata finale con la regista che anche in questo film la direttrice della fotografia è Hèléne Louvart, appena scoperta grazie a Disco boy, e non a caso anche visivamente il film è splendido, senza essere necessariamente accecante e soverchiante, nello stile di una direttrice della fotografia che si mette pienamente al servizio della narrazione.
Voto: 3,5/5
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Viens je t'emmène = L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice
Quando avevo scelto sul programma del Rendez-vous il film Viens je t’emmene (che esce a breve in Italia con il titolo L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice) non avevo realizzato che Alain Guiraudie, il regista del film, è lo stesso dello Sconosciuto del lago, film noir che ho a lungo inseguito quando era uscito al cinema ma alla fine avevo perso. Questa scoperta, che faccio solo al termine del film durante l’incontro col regista organizzato dal festival, mi permette tanto più di apprezzare la scelta originale di Guiraudie, capace di spostarsi con scioltezza da un genere all’altro e di osare cose molto diverse tra loro. Del resto, il regista francese durante l’intervista conferma la sua vena ironica e un modo di essere decisamente queer che si ritrovano intatti e forse anche amplificati nel film.
Viens je t’emmène è ambientato a Clermont Ferrand, città francese collocata nel cuore del massiccio centrale, certamente più provinciale di altre città francesi e periferica rispetto al cuore pulsante della nazione. Qui vive Médéric (Jean-Charle Clichet), un trentacinquenne un po’ ingenuo che fa una vita piuttosto piatta e ordinaria, dividendosi tra il lavoro, il running, e le serate solitarie in casa. L’ordinarietà apparente di questa vita viene sconvolta quando Médéric si innamora di Isadora (Noémie Lvovsky), una prostituta di mezza età con un marito molto geloso, cui propone di vedersi per conoscersi e fare l’amore. Durante il primo incontro tra i due, la cittadina viene sconvolta da un attacco terroristico, e quella stessa notte un giovane arabo senzatetto di nome Selim (Iliés Kadri) cerca rifugio nel condominio di Médéric. Da questo momento in poi la storia procede per linee parallele e intersecantesi il cui centro è Médéric, che da un lato continua nei suoi tentativi di incontro con Isadora, tutti interrotti sul più bello dagli eventi più disparati, e dall’altro si trova a fare i conti con la propria e altrui diffidenza e al contempo il desiderio di aiutare il giovane Selim, con tutta una serie di conseguenze più o meno paradossali che coinvolgono il condominio nel quale vive.
Il film di Alain Guiraudie è una commedia dai toni grotteschi e a tratti esilaranti, che affronta temi importanti e delicati, l’amore, il sesso, la disperazione, la violenza, il razzismo, la banalità del male, ma lo fa in una maniera per niente scontata che da un lato ha un ché di profondamente classico e tradizionale (ricorda lo stile di alcune commedie francesi degli anni Settanta e pur essendo ambientato nella contemporaneità ci sono molti elementi narrativi e visivi che sembrano riportarlo indietro nel tempo), e dall’altro presenta tematiche, ritmo e approccio fortemente moderni e a tratti spiazzanti.
Il risultato è un film decisamente sopra le righe e piuttosto inafferrabile che credo di poter dire che rispecchi la personalità effervescente del suo regista.
Voto: 3/5
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Le lycéen = Winter boy
A raccontare questa storia è il diciassettenne Lucas (Paul Kircher, presente al festival per l’intervista al termine del film), il quale a posteriori rispetto agli eventi narrati ci spiega come la sua vita sia stata sconvolta dal trauma della morte del padre in un incidente stradale e cerca di ricostruire il senso di quanto gli è accaduto.
Lucas frequenta il liceo e come tutti i ragazzi della sua età va incontro alle prime esperienze sentimentali e sessuali (ha una storia con il compagno di classe Oscar) e fa i conti con un’età della vita in cui tutto ha confini ancora confusi e sfocati. In questo momento così delicato, Lucas viene raggiunto dalla notizia della morte del padre che lo catapulta all’improvviso in una condizione ignota e piena di incertezze. Mentre la madre Isabelle (Juliette Binoche) fa appello a tutta la sua forza interiore per non crollare di fronte ai figli, Quentin (Vincent Lacoste) cerca di svolgere il ruolo di fratello maggiore, portando con sé Lucas una settimana a Parigi, dove vive con il coinquilino Lilio (Erwan Kepoa Falé) e dove tenta di sfondare nel mondo dell’arte, allo scopo di farlo distrarre.
In questa settimana Lucas vaga per la città, si rifugia in chiesa, organizza un incontro sessuale con un coetaneo, si lega a Lilio cercando di sedurlo, tenta di prostituirsi, litiga e si riconcilia con il fratello, insomma va incontro a una versione amplificata di quella condizione di confusione, ambivalenza, mutevolezza e difficoltà di scollamento con la realtà circostante che è tipica di quell’età della vita.
Tutti nella famiglia di Lucas devono fare i conti con il dolore della perdita e la fatica che questo comporta, ma sulla fragile personalità ancora in formazione e lontana dal consolidamento di Lucas il lutto e il dolore producono un trauma così forte da mandare tutto in frantumi, fino a spingerlo a un gesto estremo e disperato, da cui solo lentamente potrà a poco a poco guarire per ritornare alla vita e guardare di nuovo al futuro.
Il film di Christophe Honoré è un film profondamente intimo e dalla forte componente autobiografica, come si comprende dalla dedica finale, rafforzata dal fatto che è lo stesso regista a interpretare il padre di Lucas nell’unica sequenza in cui compare. La forza del film sta sicuramente in buona parte nella straordinaria presenza scenica del giovane attore, i cui tratti delicati e il cui modo leggero e al contempo grave di stare nelle situazioni catapulta immediatamente in un’età della vita bella e terribile, in cui non si sa davvero a cosa appigliarsi per rimanere centrati. Come nel film di Guiraudie – e mi colpisce questa “somiglianza” tra due film completamente diversi – sebbene Le lyceen sia ambientato chiaramente nella contemporaneità, c’è qualcosa nel modo di vestire dei personaggi e in alcuni elementi narrativi che ci riconduce al passato, probabilmente a quello nel quale il regista ha vissuto i suoi diciassette anni.
Nel film di Honoré non c’è però solo la vicenda (personale e universale) di Lucas, bensì anche altri temi che si insinuano qua e là: penso in particolare al tema dei rapporti familiari e del tentativo - quasi sempre fallimentare - di protezione reciproco che crea storture e difficoltà di comunicazione, fino ad arrivare al tema del rapporto tra città e provincia e della tensione mai risolta tra bisogno di novità e ricerca di sicurezza, ovvero tra ampiezza delle opportunità e rischi di anonimità e solitudine.
Ne viene fuori un film intenso e ricco di sfumature che non può lasciare indifferenti.
Voto: 3,5/5
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Un petit frère
Un petit frère è il secondo lungometraggio della regista e sceneggiatrice francese Léonor Serraille. Il primo, Jeune femme (uscito in Italia con il titolo Montparnasse - femminile singolare), era stato anch'esso presentato nella rassegna Rendez-vous ma io non l'ho visto né recuperato successivamente. A dire la verità, dopo aver visto questo secondo film, mi è venuta voglia di recuperare anche quello.
Un petit frère racconta la storia di una famiglia originaria della Costa d'Avorio su un arco di circa vent'anni, dal momento in cui la madre Rose arriva in Francia con i suoi due figli al seguito, Jean e Ernest, fino a quando i figli sono ormai adulti.
La narrazione, la cui voce narrante è Ernest, è articolata in tre capitoli, dedicati ognuno nello specifico a uno dei componenti di questa famiglia, pur mantenendo la continuità narrativa e cronologica della storia. La prima parte è incentrata su Rose, la seconda su Jean, la terza infine su Ernest.
La bellezza del film della Serraille nasce dal fatto che la famiglia protagonista di questo racconto non è trattata come frequentemente si fa al cinema, ossia ponendo l'accento sull'aspetto della migrazione e della difficile integrazione nel paese di arrivo, bensì come una qualunque famiglia normale, con problemi in cui tutti possono identificarsi, indipendentemente dal colore della pelle e dalle problematiche specifiche legate alla loro particolare situazione. Rose è una madre single, ma ancora giovane e volitiva; è molto legata ai suoi figli con cui - soprattutto quando sono ancora molto piccoli - ha un bellissimo rapporto. Ma non vuole che la sua vita sia relegata al ruolo di madre, né accetta che altri le dicano cosa fare o chi amare o come vivere. Rose dunque fa le sue scelte, che non sempre si rivelano le migliori - come del resto le scelte di tutti -, e attraversa - come tutti - momenti di frustrazione e dolore, e momenti di felicità e riscatto. Ai figli non smette mai di trasmettere la necessità che si impegnino al massimo grado in quello che fanno perché per riuscire e avere successo dovranno essere i migliori. Accadrà così - come spesso accade tra genitori e figli - che il carico sulle spalle di questi ultimi sia eccessivo, e anche che le speranza e il desiderio dei genitori venga deluso. A patirne le conseguenze sarà soprattutto Jean, un giovane talentuoso e in fondo simile a sua madre, che però a un certo punto perderà il senso della strada che sta percorrendo, fino a decidere di tornare nel paese d'origine, mentre Ernest - da sempre più silenzioso e meno appariscente - riuscirà a trovare uno spazio nella società francese, pur non riuscendo a sfuggire a quel senso di depressione e malinconia, che sua madre gli rinfaccia essere malattie dei bianchi, ma da cui neppure lei è immune.
Ne viene fuori il quadro di un'umanità ricca e tridimensionale, in cui forse è una delle prime volte - probabilmente la prima - in cui mentre guardo un film i cui protagonisti sono in buona parte neri - il colore della pelle quasi scompare ai miei occhi per lasciare spazio alla complessità dei sentimenti di cui sono portatori questi personaggi.
Al termine del film Léonor Serraille - rispondendo alle domande della moderatrice - dice di essersi ispirata alla storia della famiglia del suo compagno, e conferma di aver voluto affrontare questa vicenda senza accenti né da commedia né melodrammatici, bensì mettendosi alla medesima altezza dei suoi personaggi (in particolare di Rose) per raccontare la vita senza alcun tipo di giudizio o messaggio. Da questo punto di vista il il film mi ha ricordato molto lo stile narrativo adottato da Mia Hansen-Løve nel suo ultimo film, Un beau matin. Infine scopro dalla chiacchierata finale con la regista che anche in questo film la direttrice della fotografia è Hèléne Louvart, appena scoperta grazie a Disco boy, e non a caso anche visivamente il film è splendido, senza essere necessariamente accecante e soverchiante, nello stile di una direttrice della fotografia che si mette pienamente al servizio della narrazione.
Voto: 3,5/5
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Viens je t'emmène = L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice
Quando avevo scelto sul programma del Rendez-vous il film Viens je t’emmene (che esce a breve in Italia con il titolo L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice) non avevo realizzato che Alain Guiraudie, il regista del film, è lo stesso dello Sconosciuto del lago, film noir che ho a lungo inseguito quando era uscito al cinema ma alla fine avevo perso. Questa scoperta, che faccio solo al termine del film durante l’incontro col regista organizzato dal festival, mi permette tanto più di apprezzare la scelta originale di Guiraudie, capace di spostarsi con scioltezza da un genere all’altro e di osare cose molto diverse tra loro. Del resto, il regista francese durante l’intervista conferma la sua vena ironica e un modo di essere decisamente queer che si ritrovano intatti e forse anche amplificati nel film.
Viens je t’emmène è ambientato a Clermont Ferrand, città francese collocata nel cuore del massiccio centrale, certamente più provinciale di altre città francesi e periferica rispetto al cuore pulsante della nazione. Qui vive Médéric (Jean-Charle Clichet), un trentacinquenne un po’ ingenuo che fa una vita piuttosto piatta e ordinaria, dividendosi tra il lavoro, il running, e le serate solitarie in casa. L’ordinarietà apparente di questa vita viene sconvolta quando Médéric si innamora di Isadora (Noémie Lvovsky), una prostituta di mezza età con un marito molto geloso, cui propone di vedersi per conoscersi e fare l’amore. Durante il primo incontro tra i due, la cittadina viene sconvolta da un attacco terroristico, e quella stessa notte un giovane arabo senzatetto di nome Selim (Iliés Kadri) cerca rifugio nel condominio di Médéric. Da questo momento in poi la storia procede per linee parallele e intersecantesi il cui centro è Médéric, che da un lato continua nei suoi tentativi di incontro con Isadora, tutti interrotti sul più bello dagli eventi più disparati, e dall’altro si trova a fare i conti con la propria e altrui diffidenza e al contempo il desiderio di aiutare il giovane Selim, con tutta una serie di conseguenze più o meno paradossali che coinvolgono il condominio nel quale vive.
Il film di Alain Guiraudie è una commedia dai toni grotteschi e a tratti esilaranti, che affronta temi importanti e delicati, l’amore, il sesso, la disperazione, la violenza, il razzismo, la banalità del male, ma lo fa in una maniera per niente scontata che da un lato ha un ché di profondamente classico e tradizionale (ricorda lo stile di alcune commedie francesi degli anni Settanta e pur essendo ambientato nella contemporaneità ci sono molti elementi narrativi e visivi che sembrano riportarlo indietro nel tempo), e dall’altro presenta tematiche, ritmo e approccio fortemente moderni e a tratti spiazzanti.
Il risultato è un film decisamente sopra le righe e piuttosto inafferrabile che credo di poter dire che rispecchi la personalità effervescente del suo regista.
Voto: 3/5
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Le lycéen = Winter boy
A raccontare questa storia è il diciassettenne Lucas (Paul Kircher, presente al festival per l’intervista al termine del film), il quale a posteriori rispetto agli eventi narrati ci spiega come la sua vita sia stata sconvolta dal trauma della morte del padre in un incidente stradale e cerca di ricostruire il senso di quanto gli è accaduto.
Lucas frequenta il liceo e come tutti i ragazzi della sua età va incontro alle prime esperienze sentimentali e sessuali (ha una storia con il compagno di classe Oscar) e fa i conti con un’età della vita in cui tutto ha confini ancora confusi e sfocati. In questo momento così delicato, Lucas viene raggiunto dalla notizia della morte del padre che lo catapulta all’improvviso in una condizione ignota e piena di incertezze. Mentre la madre Isabelle (Juliette Binoche) fa appello a tutta la sua forza interiore per non crollare di fronte ai figli, Quentin (Vincent Lacoste) cerca di svolgere il ruolo di fratello maggiore, portando con sé Lucas una settimana a Parigi, dove vive con il coinquilino Lilio (Erwan Kepoa Falé) e dove tenta di sfondare nel mondo dell’arte, allo scopo di farlo distrarre.
In questa settimana Lucas vaga per la città, si rifugia in chiesa, organizza un incontro sessuale con un coetaneo, si lega a Lilio cercando di sedurlo, tenta di prostituirsi, litiga e si riconcilia con il fratello, insomma va incontro a una versione amplificata di quella condizione di confusione, ambivalenza, mutevolezza e difficoltà di scollamento con la realtà circostante che è tipica di quell’età della vita.
Tutti nella famiglia di Lucas devono fare i conti con il dolore della perdita e la fatica che questo comporta, ma sulla fragile personalità ancora in formazione e lontana dal consolidamento di Lucas il lutto e il dolore producono un trauma così forte da mandare tutto in frantumi, fino a spingerlo a un gesto estremo e disperato, da cui solo lentamente potrà a poco a poco guarire per ritornare alla vita e guardare di nuovo al futuro.
Il film di Christophe Honoré è un film profondamente intimo e dalla forte componente autobiografica, come si comprende dalla dedica finale, rafforzata dal fatto che è lo stesso regista a interpretare il padre di Lucas nell’unica sequenza in cui compare. La forza del film sta sicuramente in buona parte nella straordinaria presenza scenica del giovane attore, i cui tratti delicati e il cui modo leggero e al contempo grave di stare nelle situazioni catapulta immediatamente in un’età della vita bella e terribile, in cui non si sa davvero a cosa appigliarsi per rimanere centrati. Come nel film di Guiraudie – e mi colpisce questa “somiglianza” tra due film completamente diversi – sebbene Le lyceen sia ambientato chiaramente nella contemporaneità, c’è qualcosa nel modo di vestire dei personaggi e in alcuni elementi narrativi che ci riconduce al passato, probabilmente a quello nel quale il regista ha vissuto i suoi diciassette anni.
Nel film di Honoré non c’è però solo la vicenda (personale e universale) di Lucas, bensì anche altri temi che si insinuano qua e là: penso in particolare al tema dei rapporti familiari e del tentativo - quasi sempre fallimentare - di protezione reciproco che crea storture e difficoltà di comunicazione, fino ad arrivare al tema del rapporto tra città e provincia e della tensione mai risolta tra bisogno di novità e ricerca di sicurezza, ovvero tra ampiezza delle opportunità e rischi di anonimità e solitudine.
Ne viene fuori un film intenso e ricco di sfumature che non può lasciare indifferenti.
Voto: 3,5/5
lunedì 17 aprile 2023
Think poetic
Luca Immesi è un regista e sceneggiatore italiano che, dopo un esordio nella fiction cinematografica, negli ultimi anni si sta sempre più spostando sul documentario. Per la realizzazione di Think poetic - come ci dice lui stesso nell'intervista al termine del film - ha seguito per quasi tre anni gli street artists che compongono il duo Qwerty, operativo sul territorio romano, e che - come altri nell'ambiente - ha scelto la strada dell'anonimato.
Si tratta di artisti che provengono dal mondo delle gallerie e dell'arte "ufficiale" e che a un certo punto hanno deciso di spostarsi sulla scena underground, per veicolare liberamente i propri contenuti e per esprimersi anche indipendentemente dal pubblico.
Non a caso Qwerty fa parte di quel gruppo di street artists - nel film compare anche e viene intervistato Pino Volpino - che, oltre ad agire nei vari quartieri di Roma soprattutto con poster e adesivi, cercano edifici abbandonati nel territorio romano, anche periferico, che diventano veri e propri quartier generali in cui colonizzare pareti e spazi con i propri disegni, nella consapevolezza che questi potrebbero non essere visti dal vivo da nessun altro che non siano gli street artists che frequentano gli stessi posti.
Personalmente non conoscevo il duo Qwerty, però finalmente ho capito la provenienza di molte opere di street art che incrocio spesso nelle strade romane e ho finalmente compreso chi c'è dietro le numerose poetic areas che si incontrano per Roma. Inoltre, ho scoperto Pino Volpino, un personaggio davvero particolare, i cui disegni con protagonisti gli animali da fattoria - spesso con espressioni sorprese e destabilizzate - sono davvero buffi e interessanti.
Soprattutto, però, il film mi ha dato modo di "entrare" visivamente nel mondo di alcuni edifici romani di archeologia industriale o di altro tipo, ora abbandonati, che dal mio punto di vista sono affascinanti e inquietanti allo stesso tempo, e che - se non fossi così paurosa - mi piacerebbe esplorare, anche a partire dal bel lavoro di ricognizione del sito Lost memories, che ho scoperto proprio facendo ricerche a seguito della visione del film.
Voto: 3/5
Si tratta di artisti che provengono dal mondo delle gallerie e dell'arte "ufficiale" e che a un certo punto hanno deciso di spostarsi sulla scena underground, per veicolare liberamente i propri contenuti e per esprimersi anche indipendentemente dal pubblico.
Non a caso Qwerty fa parte di quel gruppo di street artists - nel film compare anche e viene intervistato Pino Volpino - che, oltre ad agire nei vari quartieri di Roma soprattutto con poster e adesivi, cercano edifici abbandonati nel territorio romano, anche periferico, che diventano veri e propri quartier generali in cui colonizzare pareti e spazi con i propri disegni, nella consapevolezza che questi potrebbero non essere visti dal vivo da nessun altro che non siano gli street artists che frequentano gli stessi posti.
Personalmente non conoscevo il duo Qwerty, però finalmente ho capito la provenienza di molte opere di street art che incrocio spesso nelle strade romane e ho finalmente compreso chi c'è dietro le numerose poetic areas che si incontrano per Roma. Inoltre, ho scoperto Pino Volpino, un personaggio davvero particolare, i cui disegni con protagonisti gli animali da fattoria - spesso con espressioni sorprese e destabilizzate - sono davvero buffi e interessanti.
Soprattutto, però, il film mi ha dato modo di "entrare" visivamente nel mondo di alcuni edifici romani di archeologia industriale o di altro tipo, ora abbandonati, che dal mio punto di vista sono affascinanti e inquietanti allo stesso tempo, e che - se non fossi così paurosa - mi piacerebbe esplorare, anche a partire dal bel lavoro di ricognizione del sito Lost memories, che ho scoperto proprio facendo ricerche a seguito della visione del film.
Voto: 3/5
sabato 15 aprile 2023
Mimikaki. Un piacere per le orecchie / Yaro Abe
Mimikaki. Un piacere per le orecchie / Yaro Abe. Milano: Bao Publishing, 2021.
Yaro Abe è diventato noto al pubblico italiano grazie a La taverna di mezzanotte (di cui a suo tempo ho recensito i primi 5 volumi e ho da poco letto il sesto, sempre con grande piacere), che è diventato anche una serie televisiva per Netflix.
Proprio il successo de La taverna di mezzanotte ha fatto sì che si cominciassero a riscoprire anche i lavori precedenti del fumettista, tra cui questo Mimikaki, nel quale già si riconosce non solo il tratto ma anche l'impianto narrativo e la poetica dell'autore.
Anche Mimikaki è infatti organizzato in brevi storie con protagonisti diversi, che sono però collegate da un fil rouge: se ne La taverna di mezzanotte l'elemento comune è appunto una izakaya aperta la notte, dove si incontrano e passano le persone più diverse, nel caso di Mimikaki l'elemento che accomuna tutti i soggetti della narrazione è un negozio di Tokyo dove una donna offre un servizio di pulizia delle orecchie molto piacevole e apprezzato, realizzato con bastoncini di bambù da lei realizzati (che in giapponese si chiamano appunto mimikaki).
Scopriamo così - o almeno questo è quanto ci fa pensare Yaro Abe - che i giapponesi hanno una vera ossessione per la pulizia delle orecchie, al punto tale che i mimikaki o oggetti similari vengono utilizzati anche in pubblico (cosa che da noi risulterebbe decisamente strana e poco educata).
Come nel caso de La taverna di mezzanotte, intorno a questo negozio, alla donna che lo gestisce e ai suoi mimikaki ruota la più varia umanità e si condensano storie e situazioni: legami interrotti o ritrovati, ricordi del passato, fasi della vita. In tutti i casi però l'operazione di pulizia delle orecchie realizzato con tanta cura e attenzione rappresenta per i protagonisti l'occasione di una presa di coscienza, un disvelamento, o anche un cambiamento di prospettiva, quasi un modo nuovo di stare al mondo.
Il tocco di Yaro Abe è sempre delicato, capace di strappare un sorriso in alcuni casi e di far commuovere in altri. È impossibile leggere i suoi fumetti senza incuriosirsi di questa umanità che è al contempo così simile a noi e così diversa.
La mia curiosità verso il Giappone e i giapponesi continua ad aumentare.
Voto: 4/5
Yaro Abe è diventato noto al pubblico italiano grazie a La taverna di mezzanotte (di cui a suo tempo ho recensito i primi 5 volumi e ho da poco letto il sesto, sempre con grande piacere), che è diventato anche una serie televisiva per Netflix.
Proprio il successo de La taverna di mezzanotte ha fatto sì che si cominciassero a riscoprire anche i lavori precedenti del fumettista, tra cui questo Mimikaki, nel quale già si riconosce non solo il tratto ma anche l'impianto narrativo e la poetica dell'autore.
Anche Mimikaki è infatti organizzato in brevi storie con protagonisti diversi, che sono però collegate da un fil rouge: se ne La taverna di mezzanotte l'elemento comune è appunto una izakaya aperta la notte, dove si incontrano e passano le persone più diverse, nel caso di Mimikaki l'elemento che accomuna tutti i soggetti della narrazione è un negozio di Tokyo dove una donna offre un servizio di pulizia delle orecchie molto piacevole e apprezzato, realizzato con bastoncini di bambù da lei realizzati (che in giapponese si chiamano appunto mimikaki).
Scopriamo così - o almeno questo è quanto ci fa pensare Yaro Abe - che i giapponesi hanno una vera ossessione per la pulizia delle orecchie, al punto tale che i mimikaki o oggetti similari vengono utilizzati anche in pubblico (cosa che da noi risulterebbe decisamente strana e poco educata).
Come nel caso de La taverna di mezzanotte, intorno a questo negozio, alla donna che lo gestisce e ai suoi mimikaki ruota la più varia umanità e si condensano storie e situazioni: legami interrotti o ritrovati, ricordi del passato, fasi della vita. In tutti i casi però l'operazione di pulizia delle orecchie realizzato con tanta cura e attenzione rappresenta per i protagonisti l'occasione di una presa di coscienza, un disvelamento, o anche un cambiamento di prospettiva, quasi un modo nuovo di stare al mondo.
Il tocco di Yaro Abe è sempre delicato, capace di strappare un sorriso in alcuni casi e di far commuovere in altri. È impossibile leggere i suoi fumetti senza incuriosirsi di questa umanità che è al contempo così simile a noi e così diversa.
La mia curiosità verso il Giappone e i giapponesi continua ad aumentare.
Voto: 4/5
giovedì 13 aprile 2023
Disco boy
Giacomo Abbruzzese è un cineasta di Taranto, classe 1983, che - dopo essersi fatto notare con alcuni cortometraggi e mediometraggi - esordisce nel lungometraggio con questa pellicola, Disco boy, vincitrice dell'Orso d'argento a Berlino per la fotografia (più esattamente per il miglior contributo artistico) di Hèléne Louvart.
Per questo suo esordio sul grande schermo Abbruzzese si circonda di maestranze e attori di provenienza internazionale e sceglie un tema che tutto è fuorché provinciale, dimostrando di essere in grado di pensare al di fuori degli schemi e di voler affrontare questioni importanti, pur guardandoli da un punto di vista fortemente intimista. E probabilmente proprio in questo mix tra storie individuali ed equilibri geopolitici globali sta la forza di questo film davvero originale.
Il protagonista è Aleksei (Franz Rogowski, già splendido interprete di Great freedom), un giovane bielorusso che, insieme all'amico Mikhail, parte con un pullman di tifosi verso la Polonia con l'intento in realtà di far perdere le proprie tracce e raggiungere la Francia, la destinazione dei loro sogni. Durante l'attraversamento della frontiera però Mikhail muore e Aleksei decide di arruolarsi nella Legione straniera, il metodo più sicuro e veloce per ottenere una nuova identità e un passaporto francese. Nella sua prima missione Aleksei viene inviato sul delta del Niger dove un commando, capeggiato da Jomo (Morr N'Diaye), mette in atto una sorta di guerriglia per opporsi allo sfruttamento del territorio da parte delle potenze occidentali e nell'ambito di una di queste azioni ha preso in ostaggio dei francesi. In uno scontro con il commando, Aleksei uccide Jomo, ma da quel momento lo sguardo del giovane e quello della sorella Udoka (Laetitia Ky, che scopro essere una "scultrice" dei suoi capelli), nonché le immagini del loro villaggio in fiamme non smetteranno di perseguitarlo, fino a portarlo a una importante decisione.
Il film di Abbruzzese parla di sogni, di identità e di senso di appartenenza. Jomo è fortemente legato alla sua terra e alla sua cultura e per questo le difende con tutti i mezzi, ma ama anche moltissimo il ballo e in una vita diversa avrebbe voluto essere un "disco boy"; Udoka, pur essendo profondamente legata a suo fratello e condividendone cultura e propensioni, vorrebbe però andare via e cercare un'altra vita; Aleksei ha tagliato i ponti con le sue radici e si avvia a un cambiamento di identità, che però richiede un processo di rinnegamento di sé e dei propri valori. Jomo è l'alter ego di Aleksei e forse per questo il suo fantasma finirà per perseguitarlo fino a una sorta di identificazione con lui e al ricongiungimento con Udoka proprio in un ballo sul palco di una discoteca, che costituirà la premessa di un ripensamento e di un cambiamento di vita.
Un film ambizioso e intenso, a tratti originalissimo (vedi lo scontro notturno tra Aleksei e Jomo visualizzato dallo spettatore come attraverso un visore a infrarossi, ovvero i cambi di scena realizzati mediante una scena nera su cui si accendono molte minuscole luci), da cui si esce sicuramente colpiti e certamente ammirati.
Voto: 3,5/5
Per questo suo esordio sul grande schermo Abbruzzese si circonda di maestranze e attori di provenienza internazionale e sceglie un tema che tutto è fuorché provinciale, dimostrando di essere in grado di pensare al di fuori degli schemi e di voler affrontare questioni importanti, pur guardandoli da un punto di vista fortemente intimista. E probabilmente proprio in questo mix tra storie individuali ed equilibri geopolitici globali sta la forza di questo film davvero originale.
Il protagonista è Aleksei (Franz Rogowski, già splendido interprete di Great freedom), un giovane bielorusso che, insieme all'amico Mikhail, parte con un pullman di tifosi verso la Polonia con l'intento in realtà di far perdere le proprie tracce e raggiungere la Francia, la destinazione dei loro sogni. Durante l'attraversamento della frontiera però Mikhail muore e Aleksei decide di arruolarsi nella Legione straniera, il metodo più sicuro e veloce per ottenere una nuova identità e un passaporto francese. Nella sua prima missione Aleksei viene inviato sul delta del Niger dove un commando, capeggiato da Jomo (Morr N'Diaye), mette in atto una sorta di guerriglia per opporsi allo sfruttamento del territorio da parte delle potenze occidentali e nell'ambito di una di queste azioni ha preso in ostaggio dei francesi. In uno scontro con il commando, Aleksei uccide Jomo, ma da quel momento lo sguardo del giovane e quello della sorella Udoka (Laetitia Ky, che scopro essere una "scultrice" dei suoi capelli), nonché le immagini del loro villaggio in fiamme non smetteranno di perseguitarlo, fino a portarlo a una importante decisione.
Il film di Abbruzzese parla di sogni, di identità e di senso di appartenenza. Jomo è fortemente legato alla sua terra e alla sua cultura e per questo le difende con tutti i mezzi, ma ama anche moltissimo il ballo e in una vita diversa avrebbe voluto essere un "disco boy"; Udoka, pur essendo profondamente legata a suo fratello e condividendone cultura e propensioni, vorrebbe però andare via e cercare un'altra vita; Aleksei ha tagliato i ponti con le sue radici e si avvia a un cambiamento di identità, che però richiede un processo di rinnegamento di sé e dei propri valori. Jomo è l'alter ego di Aleksei e forse per questo il suo fantasma finirà per perseguitarlo fino a una sorta di identificazione con lui e al ricongiungimento con Udoka proprio in un ballo sul palco di una discoteca, che costituirà la premessa di un ripensamento e di un cambiamento di vita.
Un film ambizioso e intenso, a tratti originalissimo (vedi lo scontro notturno tra Aleksei e Jomo visualizzato dallo spettatore come attraverso un visore a infrarossi, ovvero i cambi di scena realizzati mediante una scena nera su cui si accendono molte minuscole luci), da cui si esce sicuramente colpiti e certamente ammirati.
Voto: 3,5/5
martedì 11 aprile 2023
Argentina, 1985
Il film di Santiago Mitre si presenta fondamentalmente come un classico film processuale, in cui si alternano la narrazione di contesto e il racconto delle indagini e del processo in aula, solo che in questo caso il processo che viene ricostruito è uno dei più importanti della storia dell'Argentina, ossia quello che la giustizia ordinaria intentò contro Videla e i membri della Giunta militare responsabile del golpe e delle innumerevoli violenze e persecuzioni del periodo della dittatura (1976-1983).
Nel 1984, quando le istituzioni democratiche argentine erano ancora fragili, di fronte all'inattività della giustizia militare, fu affidato al pubblico ministero Julio Cesar Strassera (il sempre magnifico Ricardo Darín) il compito di costruire l'impianto accusatorio finalizzato a inchiodare Videla e gli altri alle loro responsabilità. In questo compito Strassera fu affiancato da un giovane avvocato, Luis Moreno-Ocampo (Peter Lanzani), e da un manipolo di giovanissimi e volenterosi aiutanti, che in un clima di ostilità, intimidazioni e omertà riuscirono, in tempi strettissimi, a portare avanti l'indagine e a convincere un numero importante di persone, testimoni di violenze e atrocità, o parenti di desaparecidos, a presentarsi in tribunale per raccontare la propria esperienza, contribuendo a modificare il sentimento dell'opinione pubblica.
La storia è eccezionalmente adatta a essere raccontata, come tutte quelle che vedono un "Davide" scontrarsi con un apparentemente imbattibile Golia, ed è inevitabile emozionarsi di fronte a una vicenda - tra l'altro storicamente avvenuta - che per una volta è in buona parte andata nella direzione che era auspicabile, nella consapevolezza che ciò non accade frequentemente e che proprio per questo non si fa fatica a immedesimarsi in Strassera con tutte le sue debolezze e i suoi dubbi.
Per questi stessi motivi Argentina, 1985 avrebbe potuto essere un polpettone edificante e melodrammatico, ma Mitre riesce in buona parte a sfuggire a questa trappola adottando un registro che dosa adeguatamente il tono drammatico con quello più leggero. In particolare, il regista si sofferma a più riprese sul lato umano di Strassera, soprattutto sul rapporto con moglie e figli, e utilizza il personaggio del figlio piccolo, nonché quelli di alcuni amici di vecchia data oltreché del gruppo dei giovani assistenti, come strumenti di alleggerimento della tensione, che invece si fa ben più alta durante le sedute del processo.
Interessante l'evoluzione del protagonista, il quale inizialmente sembra - molto umanamente - voler sfuggire a questo compito in parte per codardia in parte per mancanza di fiducia nelle istituzioni, ma a poco a poco - anche attraverso il confronto con il suo collaboratore più giovane - comprende l'importanza di non tirarsi indietro di fronte alla possibilità di ottenere un risultato storico per il futuro della democrazia argentina, e anche per dare una risposta alle vittime e a chi negli anni si era battuto per la verità.
Io con il mio ormai usuale cinismo sono uscita dal cinema pensando a quanto il sistema di potere nel quale viviamo sia inattaccabile, anche a causa delle troppe persone che fanno il gioco del più forte, e come - nonostante le tante persone che desidererebbero verità e giustizia - spesso a vincere sono l'arroganza e l'intimidazione.
Voto: 3,5/5
Nel 1984, quando le istituzioni democratiche argentine erano ancora fragili, di fronte all'inattività della giustizia militare, fu affidato al pubblico ministero Julio Cesar Strassera (il sempre magnifico Ricardo Darín) il compito di costruire l'impianto accusatorio finalizzato a inchiodare Videla e gli altri alle loro responsabilità. In questo compito Strassera fu affiancato da un giovane avvocato, Luis Moreno-Ocampo (Peter Lanzani), e da un manipolo di giovanissimi e volenterosi aiutanti, che in un clima di ostilità, intimidazioni e omertà riuscirono, in tempi strettissimi, a portare avanti l'indagine e a convincere un numero importante di persone, testimoni di violenze e atrocità, o parenti di desaparecidos, a presentarsi in tribunale per raccontare la propria esperienza, contribuendo a modificare il sentimento dell'opinione pubblica.
La storia è eccezionalmente adatta a essere raccontata, come tutte quelle che vedono un "Davide" scontrarsi con un apparentemente imbattibile Golia, ed è inevitabile emozionarsi di fronte a una vicenda - tra l'altro storicamente avvenuta - che per una volta è in buona parte andata nella direzione che era auspicabile, nella consapevolezza che ciò non accade frequentemente e che proprio per questo non si fa fatica a immedesimarsi in Strassera con tutte le sue debolezze e i suoi dubbi.
Per questi stessi motivi Argentina, 1985 avrebbe potuto essere un polpettone edificante e melodrammatico, ma Mitre riesce in buona parte a sfuggire a questa trappola adottando un registro che dosa adeguatamente il tono drammatico con quello più leggero. In particolare, il regista si sofferma a più riprese sul lato umano di Strassera, soprattutto sul rapporto con moglie e figli, e utilizza il personaggio del figlio piccolo, nonché quelli di alcuni amici di vecchia data oltreché del gruppo dei giovani assistenti, come strumenti di alleggerimento della tensione, che invece si fa ben più alta durante le sedute del processo.
Interessante l'evoluzione del protagonista, il quale inizialmente sembra - molto umanamente - voler sfuggire a questo compito in parte per codardia in parte per mancanza di fiducia nelle istituzioni, ma a poco a poco - anche attraverso il confronto con il suo collaboratore più giovane - comprende l'importanza di non tirarsi indietro di fronte alla possibilità di ottenere un risultato storico per il futuro della democrazia argentina, e anche per dare una risposta alle vittime e a chi negli anni si era battuto per la verità.
Io con il mio ormai usuale cinismo sono uscita dal cinema pensando a quanto il sistema di potere nel quale viviamo sia inattaccabile, anche a causa delle troppe persone che fanno il gioco del più forte, e come - nonostante le tante persone che desidererebbero verità e giustizia - spesso a vincere sono l'arroganza e l'intimidazione.
Voto: 3,5/5
venerdì 7 aprile 2023
Marcel The Shell
Già avevo adocchiato questo film quando era uscito al cinema, poi dopo la recensione di Matteo Bordone nel suo podcast Tienimi Bordone sul Post, ho deciso che alla prima occasione utile l'avrei visto.
L'occasione mi è presentata in un weekend bolognese, grazie al cinema Lumiere. Purtroppo, mi sono dovuta accontentare della proiezione pomeridiana per i bambini, e dunque della versione doppiata, che - come ormai sapete benissimo - non amo affatto.
Ciò detto, Marcel The Shell è un film a suo modo adorabile, che dietro questo personaggio improbabile e apparentemente adatto solo a dei bambini nasconde riflessioni sicuramente più ampie e di secondo livello rispetto a quelle che i piccoli possono cogliere.
Per chi non lo sapesse il film è la trasformazione in lungometraggio dei brevi corti con protagonista la conchiglia con l'occhio di plastica e le scarpette da ginnastica che Dean Fleischer-Camp (regista e interprete del film) aveva realizzato insieme a Jenny Slate e messo su YouTube, con un inaspettato e planetario successo. È stato proprio questo successo a creare una pressione sui due registi per realizzare un lungometraggio, e in fondo il film parla anche di questo.
Di fatto, si tratta di un documentario che è fatto in parte di riprese dal vero, con ambienti reali e persone in carne e ossa (tra cui lo stesso Dean) e una parte di animazione realizzata in stop-motion che è quella che riguarda Marcel e il suo mondo.
Dean, che si è separato da poco, si è trasferito in una casa presa in affitto con Airbnb, ed è proprio qui che conosce Marcel e decide di fare un documentario su di lui per raccontare la sua vita e la sua storia.
Marcel vive nella grande casa insieme a sua nonna Conny, che è l'unica superstite di un increscioso incidente in seguito al quale tutta la famiglia e la comunità di Marcel è stata portata via, chissà dove. Marcel racconta a Dean com'è la sua vita e quella della nonna tutti i giorni, e spiega tutte le piccole e grandi astuzie che ha messo in atto per sopravvivere, per vivere meglio e per divertirsi.
Però la presenza della telecamera fa venire ai due l'idea di raccontare su YouTube la storia di Marcel in modo da raggiungere possibilmente qualcuno che sappia qualcosa sulla famiglia scomparsa. Il fatto è che i video di Marcel hanno un grande successo ma il pubblico della rete, a parte i like e i selfie, non porta alcun contributo utile, fino a quando la celebre trasmissione 60 Minutes che Marcel guarda con la nonna decide di intervistare proprio lui, e a seguito di questa intervista di rintracciare la sua famiglia.
In questo tempo il rapporto tra Dean e Marcel si approfondisce e quello che inizialmente doveva essere una relazione a un'unica direzione diventa uno scambio affettuoso e commovente, mentre il mockumentary va avanti creando diversi livelli di lettura e giocando sul rapporto tra realtà e girato.
A me, oltre alle piccole e grandi riflessioni che il film suscita e all'adorabilità del protagonista, di Marcel The Shell colpisce la pazienza e l'inventività con cui i suoi creatori hanno realizzato il mondo di Marcel, fatto di piccoli oggetti e piccole ambientazioni curate in ogni minimo dettaglio. Non c'è dubbio che sia necessaria un po' di ossessività per realizzare un film di questo tipo, ma è un'ossessività il cui risultato è dotato di una forte anima e dunque arriva allo spettatore.
Peccato non abbia vinto l'Oscar: sicuramente Pinocchio di Del Toro è un film tecnicamente più sontuoso e più perfetto, ma Marcel ha una genuinità e un'originalità imbattibili.
Voto: 3,5/5
L'occasione mi è presentata in un weekend bolognese, grazie al cinema Lumiere. Purtroppo, mi sono dovuta accontentare della proiezione pomeridiana per i bambini, e dunque della versione doppiata, che - come ormai sapete benissimo - non amo affatto.
Ciò detto, Marcel The Shell è un film a suo modo adorabile, che dietro questo personaggio improbabile e apparentemente adatto solo a dei bambini nasconde riflessioni sicuramente più ampie e di secondo livello rispetto a quelle che i piccoli possono cogliere.
Per chi non lo sapesse il film è la trasformazione in lungometraggio dei brevi corti con protagonista la conchiglia con l'occhio di plastica e le scarpette da ginnastica che Dean Fleischer-Camp (regista e interprete del film) aveva realizzato insieme a Jenny Slate e messo su YouTube, con un inaspettato e planetario successo. È stato proprio questo successo a creare una pressione sui due registi per realizzare un lungometraggio, e in fondo il film parla anche di questo.
Di fatto, si tratta di un documentario che è fatto in parte di riprese dal vero, con ambienti reali e persone in carne e ossa (tra cui lo stesso Dean) e una parte di animazione realizzata in stop-motion che è quella che riguarda Marcel e il suo mondo.
Dean, che si è separato da poco, si è trasferito in una casa presa in affitto con Airbnb, ed è proprio qui che conosce Marcel e decide di fare un documentario su di lui per raccontare la sua vita e la sua storia.
Marcel vive nella grande casa insieme a sua nonna Conny, che è l'unica superstite di un increscioso incidente in seguito al quale tutta la famiglia e la comunità di Marcel è stata portata via, chissà dove. Marcel racconta a Dean com'è la sua vita e quella della nonna tutti i giorni, e spiega tutte le piccole e grandi astuzie che ha messo in atto per sopravvivere, per vivere meglio e per divertirsi.
Però la presenza della telecamera fa venire ai due l'idea di raccontare su YouTube la storia di Marcel in modo da raggiungere possibilmente qualcuno che sappia qualcosa sulla famiglia scomparsa. Il fatto è che i video di Marcel hanno un grande successo ma il pubblico della rete, a parte i like e i selfie, non porta alcun contributo utile, fino a quando la celebre trasmissione 60 Minutes che Marcel guarda con la nonna decide di intervistare proprio lui, e a seguito di questa intervista di rintracciare la sua famiglia.
In questo tempo il rapporto tra Dean e Marcel si approfondisce e quello che inizialmente doveva essere una relazione a un'unica direzione diventa uno scambio affettuoso e commovente, mentre il mockumentary va avanti creando diversi livelli di lettura e giocando sul rapporto tra realtà e girato.
A me, oltre alle piccole e grandi riflessioni che il film suscita e all'adorabilità del protagonista, di Marcel The Shell colpisce la pazienza e l'inventività con cui i suoi creatori hanno realizzato il mondo di Marcel, fatto di piccoli oggetti e piccole ambientazioni curate in ogni minimo dettaglio. Non c'è dubbio che sia necessaria un po' di ossessività per realizzare un film di questo tipo, ma è un'ossessività il cui risultato è dotato di una forte anima e dunque arriva allo spettatore.
Peccato non abbia vinto l'Oscar: sicuramente Pinocchio di Del Toro è un film tecnicamente più sontuoso e più perfetto, ma Marcel ha una genuinità e un'originalità imbattibili.
Voto: 3,5/5
mercoledì 5 aprile 2023
Antenati. Grave party / Marco Paolini. Teatro Vascello, 15 marzo 2023
Il grave party di Marco Paolini - come ci spiegherà lui stesso nel corso dello spettacolo - è un rave party i cui convenuti sono però i nostri antenati, quelli morti qualche decennio fa ma anche quelli morti millenni fa.
Antenati è dunque una piccola storia evoluzionistica dell'umanità risalendo alle origini del homo sapiens, ma anche ai rapporti con l'uomo di Neanderthal. Ovviamente, il tutto fatto alla maniera di Paolini, ossia per mezzo del suo teatro di parola fatto di tanti contenuti - anche molto documentati - ma anche di tanti collegamenti arditi e passaggi ironici e divertenti, che permettono al pubblico di mantenere sempre alta l'attenzione e di assorbire anche i contenuti "seri" in modo più partecipativo.
Lo spettacolo si inserisce all'interno del progetto La fabbrica del mondo, che Paolini ha portato in televisione nel 2022 e che è possibile recuperare su Rai Play.
In questo spettacolo Paolini riflette sulle origini della nostra specie, ma anche in generale sul nostro rapporto con chi è venuto prima di noi, e anche sulle dinamiche che caratterizzano il rapporto tra generazioni diverse. Ovviamente al suo interno fanno capolino, più o meno chiaramente, molti altri temi, che vanno dal cambiamento climatico alla presunta centralità dell'essere umano nell'ecosistema terrestre, al rapporto dell'uomo con l'arte e la tecnologia, e molto altro.
Ne viene fuori uno spettacolo in puro stile Paolini, che tiene desta l'attenzione dal primo all'ultimo minuto (nonostante sia uno spettacolo infrasettimanale delle ore 21, che ultimamente fisicamente reggo sempre meno). Certo, se devo confrontare questo spettacolo con ITIS Galileo che avevo visto nel 2011 ci riconosco il tempo che è passato: è un Paolini più vecchio e appesantito dalla vita, e che proprio per questo riflette sul tempo che passa e che ci cancella. Eppure – e questa è la cosa bella – in questo spettacolo c’è ancora tanta speranza di futuro e nella capacità del genere umano di reinventare sé stesso e affrontare le sfide che si presenteranno nel tempo.
Il lungo applauso del pubblico è dunque un doveroso riconoscimento a un autore che tiene ancora in vita straordinariamente bene il teatro di parola, sperando che altri (penso a Mercadini, ma forse ci sono anche figure ancora più giovani) possano raccogliere il testimone.
Voto: 3,5/5
Antenati è dunque una piccola storia evoluzionistica dell'umanità risalendo alle origini del homo sapiens, ma anche ai rapporti con l'uomo di Neanderthal. Ovviamente, il tutto fatto alla maniera di Paolini, ossia per mezzo del suo teatro di parola fatto di tanti contenuti - anche molto documentati - ma anche di tanti collegamenti arditi e passaggi ironici e divertenti, che permettono al pubblico di mantenere sempre alta l'attenzione e di assorbire anche i contenuti "seri" in modo più partecipativo.
Lo spettacolo si inserisce all'interno del progetto La fabbrica del mondo, che Paolini ha portato in televisione nel 2022 e che è possibile recuperare su Rai Play.
In questo spettacolo Paolini riflette sulle origini della nostra specie, ma anche in generale sul nostro rapporto con chi è venuto prima di noi, e anche sulle dinamiche che caratterizzano il rapporto tra generazioni diverse. Ovviamente al suo interno fanno capolino, più o meno chiaramente, molti altri temi, che vanno dal cambiamento climatico alla presunta centralità dell'essere umano nell'ecosistema terrestre, al rapporto dell'uomo con l'arte e la tecnologia, e molto altro.
Ne viene fuori uno spettacolo in puro stile Paolini, che tiene desta l'attenzione dal primo all'ultimo minuto (nonostante sia uno spettacolo infrasettimanale delle ore 21, che ultimamente fisicamente reggo sempre meno). Certo, se devo confrontare questo spettacolo con ITIS Galileo che avevo visto nel 2011 ci riconosco il tempo che è passato: è un Paolini più vecchio e appesantito dalla vita, e che proprio per questo riflette sul tempo che passa e che ci cancella. Eppure – e questa è la cosa bella – in questo spettacolo c’è ancora tanta speranza di futuro e nella capacità del genere umano di reinventare sé stesso e affrontare le sfide che si presenteranno nel tempo.
Il lungo applauso del pubblico è dunque un doveroso riconoscimento a un autore che tiene ancora in vita straordinariamente bene il teatro di parola, sperando che altri (penso a Mercadini, ma forse ci sono anche figure ancora più giovani) possano raccogliere il testimone.
Voto: 3,5/5
lunedì 3 aprile 2023
Adam Green e Francesco Mandelli (+ Ryder The Eagle). Unplugged in Monti, Alcazar Live, 14 marzo 2023
Io e F. compriamo i biglietti per questo concerto fondamentalmente perché siamo curiose di tornare all'Alcazar, luogo che conoscevamo come cinema e che - dopo la chiusura di quest'ultimo - aveva avuto diverse traversie. Ora è diventato uno spazio per live e concerti, e ovviamente i ragazzi di Unplugged in Monti non se lo fanno sfuggire per una delle tappe della loro stagione.
Sul palco una coppia davvero inedita: Adam Green, prima componente dei Moldy Peaches, poi cantautore solista, ma per me praticamente sconosciuto, e Francesco Mandelli, volto del cinema e della televisione, ma che invece mostra grandi doti di musicista.
In realtà prima di lui sul palco arriva Ryder The Eagle, per me (e credo non solo per me) ancora più sconosciuto. È vestito con un abito scuro con collarino da prete (scoprirò dopo che il suo tour si chiama MegaChurch) e camicia bianca con le maniche svolazzanti, ed è accompagnato da un tastierista muto che suona una specie di organo.
Ryder The Eagle ci dice di essere francese, ma di vivere a New Mexico City. Il suo modo di porsi è talmente particolare che sulle prime penso che sia italiano e ci stia prendendo in giro, e invece poi controllando su Facebook capisco che è tutto vero. Il suo opening ha un'atmosfera decisamente surreale: lui si muove in modo un po' meccanico, suona e canta in maniera secondo me non del tutto inappuntabile, ha in prima fila ragazze apparentemente adoranti, e alla fine conquista un pubblico inizialmente un po' scettico scendendo dal palco in mezzo alle persone, suonando vari strumenti (compreso il sassofono), salendo sulla balaustra e rimanendo in canottiera bianca, con tutti i suoi tatuaggi ben in vista. Personalmente non ne sono stata conquistata, ma sicuramente mi ha divertito.
Dopo una breve pausa per sgomberare il palco, arrivano i protagonisti della serata. Si capisce subito - e lo diranno e dimostreranno in più modi durante il concerto - che sono amici di vecchia data e che il concerto è in fondo un divertissement che si sono concessi a margine di una vacanza romana di Green.
Come dicevo in principio, non conosco il cantante, ma in platea è pieno di persone che sanno a memoria tutte le sue canzoni e che durante il concerto le canteranno con lui a squarciagola, tant'è che io - che sono in prima fila per fare le fotografie - mi sento un po' un pesce fuor d'acqua.
Devo dire però che, pur non conoscendo nulla del suo repertorio, Adam Green e il bravissimo Mandelli che lo accompagna alla chitarra (e che dimostra anche ottime doti canore in un pezzo che esegue da solo) mi conquistano rapidamente. Green ha una voce notevole e che padroneggia fantasticamente, balla sul palco in un modo buffo e divertente ed è veramente simpatico, inoltre l'interazione tra lui e Mandelli è fantastica.
Anche le canzoni sono gradevoli, alcune con sonorità quasi orchestrali, sebbene in questo caso l'arrangiamento sia limitato alla chitarra. Ben presto il pubblico si scalda e il concerto finisce con Green che fa cantare insieme a lui i suoi sostenitori, e concede ovviamente un richiestissimo bis.
Anche noi alla fine andiamo a casa contente.
Voto: 3,5/5
Sul palco una coppia davvero inedita: Adam Green, prima componente dei Moldy Peaches, poi cantautore solista, ma per me praticamente sconosciuto, e Francesco Mandelli, volto del cinema e della televisione, ma che invece mostra grandi doti di musicista.
In realtà prima di lui sul palco arriva Ryder The Eagle, per me (e credo non solo per me) ancora più sconosciuto. È vestito con un abito scuro con collarino da prete (scoprirò dopo che il suo tour si chiama MegaChurch) e camicia bianca con le maniche svolazzanti, ed è accompagnato da un tastierista muto che suona una specie di organo.
Ryder The Eagle ci dice di essere francese, ma di vivere a New Mexico City. Il suo modo di porsi è talmente particolare che sulle prime penso che sia italiano e ci stia prendendo in giro, e invece poi controllando su Facebook capisco che è tutto vero. Il suo opening ha un'atmosfera decisamente surreale: lui si muove in modo un po' meccanico, suona e canta in maniera secondo me non del tutto inappuntabile, ha in prima fila ragazze apparentemente adoranti, e alla fine conquista un pubblico inizialmente un po' scettico scendendo dal palco in mezzo alle persone, suonando vari strumenti (compreso il sassofono), salendo sulla balaustra e rimanendo in canottiera bianca, con tutti i suoi tatuaggi ben in vista. Personalmente non ne sono stata conquistata, ma sicuramente mi ha divertito.
Dopo una breve pausa per sgomberare il palco, arrivano i protagonisti della serata. Si capisce subito - e lo diranno e dimostreranno in più modi durante il concerto - che sono amici di vecchia data e che il concerto è in fondo un divertissement che si sono concessi a margine di una vacanza romana di Green.
Come dicevo in principio, non conosco il cantante, ma in platea è pieno di persone che sanno a memoria tutte le sue canzoni e che durante il concerto le canteranno con lui a squarciagola, tant'è che io - che sono in prima fila per fare le fotografie - mi sento un po' un pesce fuor d'acqua.
Devo dire però che, pur non conoscendo nulla del suo repertorio, Adam Green e il bravissimo Mandelli che lo accompagna alla chitarra (e che dimostra anche ottime doti canore in un pezzo che esegue da solo) mi conquistano rapidamente. Green ha una voce notevole e che padroneggia fantasticamente, balla sul palco in un modo buffo e divertente ed è veramente simpatico, inoltre l'interazione tra lui e Mandelli è fantastica.
Anche le canzoni sono gradevoli, alcune con sonorità quasi orchestrali, sebbene in questo caso l'arrangiamento sia limitato alla chitarra. Ben presto il pubblico si scalda e il concerto finisce con Green che fa cantare insieme a lui i suoi sostenitori, e concede ovviamente un richiestissimo bis.
Anche noi alla fine andiamo a casa contente.
Voto: 3,5/5
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