Da qualche giorno è stata inaugurata a Roma, nell’Ala Brasini nel Palazzo del Vittoriano, la mostra dal titolo I grandi maestri, dedicata sostanzialmente ai 100 anni della mitica azienda produttrice di macchine fotografiche Leica. Era infatti il era il 1914 quando Oskar Barnack costruì la prima Leica, la macchina compatta che montava pellicola da 35 millimetri e che cambiò il corso della storia della fotografia.
La macchina Leica fu infatti la prima macchina piccola e compatta, che poteva essere portata sempre con sé e che dunque consentiva al fotografo di essere al centro dell’azione. Questa possibilità – nonché gli sviluppi tecnologici che la caratterizzarono (i tempi di scatto, il mirino, le ottiche ecc.) – trasformarono presto le macchine fotografiche Leica nello strumento preferito da una intera generazione di fotografi e fotoreporter. Anche quando la comparsa delle prime reflex spinse alcuni fotografi ad adottare questa nuova tecnologia e dunque a comprare queste nuove macchine fotografiche, la Leica continuò a essere preferita da chi voleva scattare senza dare troppo nell’occhio e in modo il più possibile istintivo.
La mostra allestita al Vittoriano non solo ci permette di vedere i principali modelli di Leica che si sono susseguiti in questi 100 anni, ma anche di fare una lunga passeggiata attraverso centinaia di foto scattate con queste macchine fotografiche. Dalle prime – a loro modo banali, ma ovviamente innovative per l’epoca – scattate dallo stesso Barnack fino a foto che hanno fatto la storia della fotografia: da Morte di un miliziano spagnolo di Robert Capa agli Attacchi al napalm in Vietnam di Nick Út, da V-J Day di Alfred Eisenstaedt a England di Gianni Berengo Gardin, fino a Derriere la Gare Saint-Lazare di Henri Cartier-Bresson. Ma accanto a queste foto e a questi nomi famosissimi sfilano sotto i nostri occhi foto di moltissimi altri fotografi – più o meno noti – che della Leica hanno sfruttato le potenzialità per i generi fotografici più diversi: non solo reportage, street photography e fotogiornalismo (che sono i generi che a questa macchina fotografica più si addicono), ma anche ritratti, fotografie concettuali e molto altro.
La mostra è articolata in sezioni che seguono in parte un ordine cronologico, in parte un ordine tematico, a volte precedute da un cartello illustrativo, altre volte no, il che può essere un po’ disorientante per il visitatore. Le didascalie delle foto – come accade sempre più spesso ultimamente – sono stampate piccolissime, costringendo il visitatore ad avvicinarsi molto alle foto, cosa ottima e possibile quando non c’è molta gente, ma certamente no nei momenti di grande afflusso.
Tutto ciò detto, la mostra è un’occasione per vedere foto bellissime (come quelle che ho a mia volta fotografato e messo a corredo di questo post), per scoprire nuovi fotografi, per conoscere importanti lavori fotografici (diventati anche libri fotografici) che hanno fatto la storia della fotografia, per riflettere sulla natura della fotografia e sulle sue potenzialità.
Per me un vero e proprio godimento per gli occhi e per la mente.
Voto: 3,5/5
giovedì 30 novembre 2017
martedì 28 novembre 2017
The square
Dopo il notevole Forza maggiore, Ruben Östlund torna dietro la macchina da presa per portare ancora una volta allo scoperto il sommerso umano, questa volta non tanto sul piano personale e relazionale, quanto sul piano sociale.
Christian (Claes Bang) è il curatore di un importante museo di arte contemporanea di Stoccolma, impegnato nell'allestimento e nel lancio di una nuova installazione di un'artista argentina che si chiama appunto The square, un quadrato luminoso che si configura come "un santuario di fiducia e altruismo" all'interno del quale abbiamo tutti gli stessi diritti e doveri. Una mattina Christian - coinvolto nella situazione di pericolo di una donna - viene in realtà derubato di telefono e portafogli, e accetta il suggerimento del suo collega di provare a ottenere indietro il maltolto con la minaccia.
Questo lo scheletro narrativo del film di Östlund, ma in realtà tutto intorno alla quotidianità di Christian e del museo ruotano molte altre persone e situazioni, che a tratti si trasformano quasi in veri e propri sketch, una sorta di siparietti, al punto da produrre in alcuni casi un effetto di giustapposizione e di cesura narrativa.
La sensazione che Östlund metta un po' troppa carne al fuoco - tutti temi, tra l'altro, molto importanti - è forte; non v'è dubbio però sul fatto che al cuore di questi diversi e numerosi filoni narrativi ci sia una critica feroce, anche se temperata da un registro che spesso si fa ironico fino al sarcastico, a una specifica componente della società: quella progressista, ecologista, politicamente corretta, di elevato profilo intellettuale, benestante, interprete dei valori dell'accoglienza e della tolleranza. Di questa parte sociale il film porta alla luce le profonde contraddizioni e fa cadere la facciata inappuntabile per rivelare la verità delle cose, ossia il fatto che tutti questi valori di cui essa si fa interprete sono validi solo fino a quando gli equilibri della società nel complesso non cambiano e tutto rimane al proprio posto, finché tali valori non vengono effettivamente messi alla prova della vita e dell'esperienza. In quel momento diventano invece palesi l'egoismo, il basso istinto, l'autoassoluzione, i mezzucci, gli escamotage relazionali che rendono queste persone uguali a tutte le altre, anzi forse peggio perché si camuffano dietro questa facciata.
La morale del film sembrerebbe essere che siamo tutti uguali finché siamo nel quadrato, ma solo finché in quel quadrato ci siamo solo noi e quelli come noi e nessuno ne invade gli spazi. La scena della cena di gala è la perfetta sintesi di questo concetto: l'uomo gorilla che gira per i tavoli va bene finché è uno spettacolo, una performance artistica, e dunque può essere mantenuto sotto controllo e si può decidere quando farlo smettere, ma diventa ingestibile e innesca tutti i meccanismi tipici studiati dalla teoria dei giochi quando la performance si trasforma in realtà e va fuori controllo.
Poi dentro il film c'è anche il sarcasmo verso certe derive del marketing e della società dell'informazione di cui tutti siamo fautori e vittime: la scena della conferenza stampa in cui Christian annuncia le sue dimissioni e che si trasforma - non è chiaro quanto volutamente - in un'immensa operazione promozionale per la nuova mostra è strepitosa.
Quello di Östlund non è un giudizio verso questa componente sociale espresso da una posizione di superiorità, è il riconoscimento di una complessità, la presa di coscienza della fragilità delle nostre convinzioni, il difficile rapporto tra responsabilità individuale e collettiva. Il grido di aiuto che più volte durante il film viene espresso da persone diverse e in condizioni diverse ci chiama in causa e ci interroga su come ognuno di noi reagirebbe a una certa situazione. In questo film non ci sono buoni né cattivi, non c'è una soluzione a portata di mano, ma la manifestazione esplosiva delle contraddizioni della nostra società occidentale.
Voto: 4/5
Christian (Claes Bang) è il curatore di un importante museo di arte contemporanea di Stoccolma, impegnato nell'allestimento e nel lancio di una nuova installazione di un'artista argentina che si chiama appunto The square, un quadrato luminoso che si configura come "un santuario di fiducia e altruismo" all'interno del quale abbiamo tutti gli stessi diritti e doveri. Una mattina Christian - coinvolto nella situazione di pericolo di una donna - viene in realtà derubato di telefono e portafogli, e accetta il suggerimento del suo collega di provare a ottenere indietro il maltolto con la minaccia.
Questo lo scheletro narrativo del film di Östlund, ma in realtà tutto intorno alla quotidianità di Christian e del museo ruotano molte altre persone e situazioni, che a tratti si trasformano quasi in veri e propri sketch, una sorta di siparietti, al punto da produrre in alcuni casi un effetto di giustapposizione e di cesura narrativa.
La sensazione che Östlund metta un po' troppa carne al fuoco - tutti temi, tra l'altro, molto importanti - è forte; non v'è dubbio però sul fatto che al cuore di questi diversi e numerosi filoni narrativi ci sia una critica feroce, anche se temperata da un registro che spesso si fa ironico fino al sarcastico, a una specifica componente della società: quella progressista, ecologista, politicamente corretta, di elevato profilo intellettuale, benestante, interprete dei valori dell'accoglienza e della tolleranza. Di questa parte sociale il film porta alla luce le profonde contraddizioni e fa cadere la facciata inappuntabile per rivelare la verità delle cose, ossia il fatto che tutti questi valori di cui essa si fa interprete sono validi solo fino a quando gli equilibri della società nel complesso non cambiano e tutto rimane al proprio posto, finché tali valori non vengono effettivamente messi alla prova della vita e dell'esperienza. In quel momento diventano invece palesi l'egoismo, il basso istinto, l'autoassoluzione, i mezzucci, gli escamotage relazionali che rendono queste persone uguali a tutte le altre, anzi forse peggio perché si camuffano dietro questa facciata.
La morale del film sembrerebbe essere che siamo tutti uguali finché siamo nel quadrato, ma solo finché in quel quadrato ci siamo solo noi e quelli come noi e nessuno ne invade gli spazi. La scena della cena di gala è la perfetta sintesi di questo concetto: l'uomo gorilla che gira per i tavoli va bene finché è uno spettacolo, una performance artistica, e dunque può essere mantenuto sotto controllo e si può decidere quando farlo smettere, ma diventa ingestibile e innesca tutti i meccanismi tipici studiati dalla teoria dei giochi quando la performance si trasforma in realtà e va fuori controllo.
Poi dentro il film c'è anche il sarcasmo verso certe derive del marketing e della società dell'informazione di cui tutti siamo fautori e vittime: la scena della conferenza stampa in cui Christian annuncia le sue dimissioni e che si trasforma - non è chiaro quanto volutamente - in un'immensa operazione promozionale per la nuova mostra è strepitosa.
Quello di Östlund non è un giudizio verso questa componente sociale espresso da una posizione di superiorità, è il riconoscimento di una complessità, la presa di coscienza della fragilità delle nostre convinzioni, il difficile rapporto tra responsabilità individuale e collettiva. Il grido di aiuto che più volte durante il film viene espresso da persone diverse e in condizioni diverse ci chiama in causa e ci interroga su come ognuno di noi reagirebbe a una certa situazione. In questo film non ci sono buoni né cattivi, non c'è una soluzione a portata di mano, ma la manifestazione esplosiva delle contraddizioni della nostra società occidentale.
Voto: 4/5
venerdì 24 novembre 2017
Doppio = Dublu
Non potevo perdere la visione di almeno un film del festival del cinema romeno in programmazione alla Casa del Cinema nel weekend dell’11 e 12 novembre. La mia scelta – anche dovuta a incastri tra impegni vari – cade su Doppio, opera prima di Catrinel Danaiata.
Il film racconta una fase della vita di George (Bogdan Dumitrache), un architetto molto promettente su cui il suo studio sta investendo molto. George ha un’età compresa tra i 30 e i 40 anni, ha una storia con Corina (con cui però non si decide ad andare a vivere insieme), e sente brevemente e con svogliatezza i genitori anziani che vivono nel paese di origine.
George è nella fase della vita in cui si saluta definitivamente la spensieratezza giovanile per assumere le responsabilità piene della vita adulta, ma resiste a questa prospettiva. Le serate in discoteca, l’alcol, l’uso di droghe sono il suo modo per sfuggire a un destino che è inevitabile per l’essere umano come effetto del passare del tempo. È in una di queste serate che George incontra Alina (Maria Dinulescu), una ragazza che sembra condividere con lui questo bisogno di leggerezza, nonché una condizione di insoddisfazione e instabilità.
George interpreta questo incontro come l’occasione per rifiutare un futuro già scritto (il lavoro, una famiglia ecc.), ma le responsabilità della vita adulta lo andranno a cercare anche quando lui cercherà di sfuggirgli e lo faranno attraverso la malattia della madre che lo costringe a ritornare a casa.
Il pianto di George è il segno di un’impotenza e di una sconfitta: quella contro il tempo che passa, contro la nostra solitudine, contro il tentativo di rimanere aggrappati al passato, contro il rifiuto delle responsabilità.
Non abbiamo alternative, se non quella di trovare la nostra via al diventare adulti, e questa via non può passare per la ricerca di artificiali paradisi di incoscienza o per una fittizia negazione della realtà perché quando gli occhi si riaprono sul mondo le cose non sono cambiate e ci investono inevitabilmente con la loro forza.
Un film rovinato da sottotitoli in italiano che sembravano essere stati realizzati con Google Translator, che soffre di qualche lentezza e forse di qualche eccesso, ma che nel complesso al passare delle ore ha conquistato un posto e un significato nella mia sensibilità emotiva.
Voto: 3/5
Il film racconta una fase della vita di George (Bogdan Dumitrache), un architetto molto promettente su cui il suo studio sta investendo molto. George ha un’età compresa tra i 30 e i 40 anni, ha una storia con Corina (con cui però non si decide ad andare a vivere insieme), e sente brevemente e con svogliatezza i genitori anziani che vivono nel paese di origine.
George è nella fase della vita in cui si saluta definitivamente la spensieratezza giovanile per assumere le responsabilità piene della vita adulta, ma resiste a questa prospettiva. Le serate in discoteca, l’alcol, l’uso di droghe sono il suo modo per sfuggire a un destino che è inevitabile per l’essere umano come effetto del passare del tempo. È in una di queste serate che George incontra Alina (Maria Dinulescu), una ragazza che sembra condividere con lui questo bisogno di leggerezza, nonché una condizione di insoddisfazione e instabilità.
George interpreta questo incontro come l’occasione per rifiutare un futuro già scritto (il lavoro, una famiglia ecc.), ma le responsabilità della vita adulta lo andranno a cercare anche quando lui cercherà di sfuggirgli e lo faranno attraverso la malattia della madre che lo costringe a ritornare a casa.
Il pianto di George è il segno di un’impotenza e di una sconfitta: quella contro il tempo che passa, contro la nostra solitudine, contro il tentativo di rimanere aggrappati al passato, contro il rifiuto delle responsabilità.
Non abbiamo alternative, se non quella di trovare la nostra via al diventare adulti, e questa via non può passare per la ricerca di artificiali paradisi di incoscienza o per una fittizia negazione della realtà perché quando gli occhi si riaprono sul mondo le cose non sono cambiate e ci investono inevitabilmente con la loro forza.
Un film rovinato da sottotitoli in italiano che sembravano essere stati realizzati con Google Translator, che soffre di qualche lentezza e forse di qualche eccesso, ma che nel complesso al passare delle ore ha conquistato un posto e un significato nella mia sensibilità emotiva.
Voto: 3/5
mercoledì 22 novembre 2017
#Antropocene / Marco Paolini, Mauro Brunello, Frankie Hi-NRG MC. Auditorium Parco della Musica, Sala Sinopoli, 14 novembre 2017
Per un'assurda coincidenza proprio il giorno che sono andata a vedere questo spettacolo all'Auditorium nell'ambito del RomaEuropa Festival avevo iniziato a leggere - per piacere e per interesse professionale - il libro di Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l'infosfera sta trasformando il mondo. Il filosofo di origine italiana che insegna ad Oxford ci racconta il passaggio dalla storia all'iperstoria, caratterizzata dal fatto che il benessere individuale e sociale è dipendente dalle ICT (tecnologie dell'informazione e della comunicazione).
Ebbene lo spettacolo #Antropocene parla sostanzialmente dell'epoca dell'iperstoria, raccontando uno scenario distopico ma non impossibile, il caso in cui la rete Internet - e con lei tutte le connessioni da cui il nostro mondo dipende - saltasse. Al centro della storia c'è Francesco Maria, interpretato da Marco Paolini, che ha dei problemi di connessione con il suo smartphone e sta tentando di chiamare il servizio clienti. Dall'altra parte del telefono la voce di un operatore sempre diverso (interpretato da Frankie Hi-NRG MC) che si rivelerà alla fine essere una macchina programmata, un'intelligenza artificiale, improvvisamente anch'essa disconnessa dal sistema centrale.
A inframmezzare queste conversazioni le musiche dell'orchestra diretta da Mauro Brunello, i suoi pezzi al violoncello e il rap di Frankie Hi-NRG. Tutto ciò potrebbe far pensare a un insieme disomogeneo, invece incredibilmente tutte queste voci e questi suoni - pur apparentemente non coerenti l'uno con l'altro - si fondono in un linguaggio interessante e intellegibile.
Come è proprio degli spettacoli di Paolini, si riflette tanto - in questo caso sul destino dell'umanità in questa società iperconnessa e su che cosa siamo chiamati a preservare - ma si ride e si sorride anche tanto, grazie a un testo frizzante e ironico. Bravissimo anche Frankie Hi-NRG MC, una vera sorpresa per me.
#Antropocene attinge e fa riferimento a tanti studi scientifici degli ultimi anni in campo filosofico, economico, sociale, tecnologico, ed è in grado di portarli al pubblico in un modo leggero ma non banale.
A volte mi chiedo se non sia questa l'unica strada possibile di una divulgazione che possa raggiungere un pubblico davvero ampio. Anche se poi mi rendo conto che in fin dei conti a questo spettacolo ci va poi sempre quella nicchia della società che forse già di per se stessa è più consapevole e sensibile a questi temi, e che anche in questo caso si autoseleziona.
Voto: 3,5/5
Ebbene lo spettacolo #Antropocene parla sostanzialmente dell'epoca dell'iperstoria, raccontando uno scenario distopico ma non impossibile, il caso in cui la rete Internet - e con lei tutte le connessioni da cui il nostro mondo dipende - saltasse. Al centro della storia c'è Francesco Maria, interpretato da Marco Paolini, che ha dei problemi di connessione con il suo smartphone e sta tentando di chiamare il servizio clienti. Dall'altra parte del telefono la voce di un operatore sempre diverso (interpretato da Frankie Hi-NRG MC) che si rivelerà alla fine essere una macchina programmata, un'intelligenza artificiale, improvvisamente anch'essa disconnessa dal sistema centrale.
A inframmezzare queste conversazioni le musiche dell'orchestra diretta da Mauro Brunello, i suoi pezzi al violoncello e il rap di Frankie Hi-NRG. Tutto ciò potrebbe far pensare a un insieme disomogeneo, invece incredibilmente tutte queste voci e questi suoni - pur apparentemente non coerenti l'uno con l'altro - si fondono in un linguaggio interessante e intellegibile.
Come è proprio degli spettacoli di Paolini, si riflette tanto - in questo caso sul destino dell'umanità in questa società iperconnessa e su che cosa siamo chiamati a preservare - ma si ride e si sorride anche tanto, grazie a un testo frizzante e ironico. Bravissimo anche Frankie Hi-NRG MC, una vera sorpresa per me.
#Antropocene attinge e fa riferimento a tanti studi scientifici degli ultimi anni in campo filosofico, economico, sociale, tecnologico, ed è in grado di portarli al pubblico in un modo leggero ma non banale.
A volte mi chiedo se non sia questa l'unica strada possibile di una divulgazione che possa raggiungere un pubblico davvero ampio. Anche se poi mi rendo conto che in fin dei conti a questo spettacolo ci va poi sempre quella nicchia della società che forse già di per se stessa è più consapevole e sensibile a questi temi, e che anche in questo caso si autoseleziona.
Voto: 3,5/5
lunedì 20 novembre 2017
Bach is in the air / Ramin Bahrami e Danilo Rea. Aula Magna della Sapienza, 7 novembre 2017
La musica classica è un altro settore in cui non ho ricevuto l'educazione al momento giusto e per la quale dunque - mio malgrado - mi mancano le basi per poterne trarre il massimo godimento.
Ciò detto, non abbandono i miei tentativi di avvicinamento a questo mondo e lo faccio talvolta scegliendo proposte un po' alternative, come questo concerto che Ramin Bahrami e Danilo Rea stanno portando in giro per l’Italia e non solo.
Il titolo del concerto è Bach is in the air, in quanto il programma prevede l'esecuzione di una decina di pezzi del grande maestro, interpretati classicamente al pianoforte da Ramin Bahrami, mentre Danilo Rea ci costruisce sopra le sue improvvisazioni jazzistiche.
Il risultato è molto interessante ed è interessante anche l'effetto diverso che questo concerto fa su persone diverse. F. - che ha una maggiore cultura sulla musica classica - mi dice alla fine di essere sonoramente più vicina all'esecuzione di Bahrami in cui lei riconosce un canone che le è familiare; io invece durante il concerto mi faccio trascinare dal ritmo di Rea, che è in qualche modo più vicino al mio orecchio musicale (sebbene alcuni dei pezzi di Bach siano famosissimi anche per me che sono ignorante in materia).
Lo spettacolo è nel complesso godibile anche per l'interazione tra questi due personaggi, così diversi, eppure in qualche modo così complementari. Se nell'esecuzione musicale Bahrami è impostato e Rea estroso, accade invece che negli intermezzi tra un'esecuzione e l'altra il primo appare spigliato col pubblico (quasi buffo con la sua aria da cartone animato), mentre il secondo è molto riservato e taciturno.
Il pubblico - in buona parte accademico vista la sede in cui si svolge il concerto, ossia l'Aula Magna della Sapienza di Roma - è silenzioso e attento e alla fine del programma chiede ai due musicisti di tornare sul palco per ben due volte, per deliziarci ancora con le loro esecuzioni.
Voto: 3,5/5
Ciò detto, non abbandono i miei tentativi di avvicinamento a questo mondo e lo faccio talvolta scegliendo proposte un po' alternative, come questo concerto che Ramin Bahrami e Danilo Rea stanno portando in giro per l’Italia e non solo.
Il titolo del concerto è Bach is in the air, in quanto il programma prevede l'esecuzione di una decina di pezzi del grande maestro, interpretati classicamente al pianoforte da Ramin Bahrami, mentre Danilo Rea ci costruisce sopra le sue improvvisazioni jazzistiche.
Il risultato è molto interessante ed è interessante anche l'effetto diverso che questo concerto fa su persone diverse. F. - che ha una maggiore cultura sulla musica classica - mi dice alla fine di essere sonoramente più vicina all'esecuzione di Bahrami in cui lei riconosce un canone che le è familiare; io invece durante il concerto mi faccio trascinare dal ritmo di Rea, che è in qualche modo più vicino al mio orecchio musicale (sebbene alcuni dei pezzi di Bach siano famosissimi anche per me che sono ignorante in materia).
Lo spettacolo è nel complesso godibile anche per l'interazione tra questi due personaggi, così diversi, eppure in qualche modo così complementari. Se nell'esecuzione musicale Bahrami è impostato e Rea estroso, accade invece che negli intermezzi tra un'esecuzione e l'altra il primo appare spigliato col pubblico (quasi buffo con la sua aria da cartone animato), mentre il secondo è molto riservato e taciturno.
Il pubblico - in buona parte accademico vista la sede in cui si svolge il concerto, ossia l'Aula Magna della Sapienza di Roma - è silenzioso e attento e alla fine del programma chiede ai due musicisti di tornare sul palco per ben due volte, per deliziarci ancora con le loro esecuzioni.
Voto: 3,5/5
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