Stone fruit / Lee Lai; trad. di Alice Amico. Roma: Coconino Press - Fandango, 2021.
L'esordio della fumettista australiana Lee Lai, Stone fruit, è qualcosa di sorprendente nel suo essere sincero e diretto in maniera disarmante. E dunque non mi meraviglia che sia stato tradotto e celebrato in molti paesi del mondo, e in ogni dove abbia ottenuto riconoscimenti più che meritati.
Dal punto di vista grafico la scelta è quella di virare l'intero fumetto sui toni del grigio e del blu, mentre i disegni risultano morbidi e realistici, ma anche capaci di trasfigurarsi nei momenti in cui la presenza della piccola Nessie trascina le protagoniste in una dimensione quasi favolistica.
Al centro del racconto ci sono Bron e Ray, una coppia queer in cui ciascuna deve fare i conti con i nodi irrisolti personali e quelli con le proprie famiglie di origine. La presenza nelle loro vite di Nessie, la nipotina cui Ray fa da babysitter mentre Amanda, sorella di Ray e madre single, è al lavoro, è fonte di gioia e spensieratezza per entrambe e crea una specie di dimensione spazio-temporale sganciata da quella reale in cui sentirsi leggere, a proprio agio con sé stesse ed essere libere di esprimere la propria interiorità.
La decisione di Amanda di non affidare più Nessie a Ray anche per una sorta di rifiuto nei confronti di Bron, la cui identità di genere non è scontata e che porta su di sé anche i segni di una sofferenza psichica, incrina il rapporto probabilmente già in crisi tra le due donne e le allontana.
Bron torna presso la sua famiglia d'origine, ipercattolica e anaffettiva, nella quale troverà inaspettatamente un'interlocutrice nella sorella minore Grace, ancora sedicenne, con cui il rapporto è tutto da costruire. Ray dal canto suo dovrà fare i conti con la sorella Amanda, portando alla luce i tanti non detti e provando ad affrontarli e a smontare i pregiudizi reciproci.
Quella di Lee Lai è dunque l'esplorazione di un rapporto di coppia e della difficoltà dell'amore di alimentare sé stesso, anche quando è sincero, perché il rischio di ferire e ferirsi è sempre dietro l'angolo così come quello di non capirsi e di alzare dei muri senza riuscire a liberarsi delle proprie pesantezze.
Ma questa esplorazione dell'amore non è solo riferita alla coppia, bensì anche e soprattutto alle relazioni familiari, in particolare a quelle orizzontali. Non a caso tra le parti più belle e riuscite del graphic novel ci sono i dialoghi tra sorelle, Ray e Amanda, e Bron e Grace, e non a caso Lee Lai dedica il suo primo fumetto alla sorella Cesca. Molti dei lettori finiranno per riconoscersi in queste pagine, e soprattutto nei sentimenti che passano attraverso di esse.
Bella anche l'introduzione di Jonathan Bazzi che sottolinea l'importanza di raccontare queste storie, che restituiscano anche al mondo queer - spesso trattato come una bolla separata e autoreferenziale - una tridimensionalità ricca e complessa, ricollocandolo in quelle dinamiche affettive in cui - indipendentemente dalle nostre identità, scelte ed esperienze - tutti possiamo ritrovarci.
Consigliatissimo.
Voto: 4/5
venerdì 27 maggio 2022
mercoledì 25 maggio 2022
Primavera / Ali Smith
Primavera / Ali Smith; trad. di Federica Aceto. Roma: Edizioni SUR, 2020.
Della tetralogia dedicata da Ali Smith alle stagioni avevo letto a suo tempo Autunno, che mi era moderatamente piaciuto: ero dunque alquanto indecisa se andare avanti nella lettura degli altri titoli.
Poi ho acquistato più o meno per caso Primavera e in un paio di giorni per me non facili, caratterizzati da lunghe ore di attesa, mi sono tuffata nella lettura di questo romanzo.
Al terzo libro della Smith che leggo (avevo letto anche Voci di dentro) penso di poter dire con ragionevole certezza che c'è qualcosa nel suo stile che mi crea una distanza: credo sia la voluta oscurità di certi passaggi narrativi e alcuni elementi che sfuggono a una spiegazione del tutto razionale o che comunque non vengono chiariti sul piano narrativo. Nonostante questo, apprezzo l'originalità della scrittura della Smith e accade anche che a tratti io ne sia conquistata.
Anche in questo caso, come per gli altri titoli della tetralogia, quella della Smith è una riflessione sul presente nel quale viviamo, in particolare sulle derive che lo caratterizzano.
Il romanzo si articola in tre parti: nella prima si racconta la storia di un'amicizia, anzi meglio di un'affinità elettiva, quella tra Richard, un regista dalla lunga carriera, e Patty, una sceneggiatrice dalle grandi risorse; la seconda è la storia di Brittany, una sorvegliante di un centro di detenzione per immigrati, e del suo incontro con Florence, una bambina dodicenne dotata di strani poteri di persuasione; nella terza parte infine questi due percorsi narrativi fatalmente si intrecciano, innescando una serie di eventi inaspettati.
I temi sono quelli cari alla Smith: la semplificazione e la spettacolarizzazione che caratterizzano il nostro tempo e di cui fanno le spese l'approfondimento e l'aderenza alla realtà, il nazionalismo e l'onnipresente razzismo, l'aggressività dei social, le disuguaglianze di genere e molti altri mali della nostra società, o forse dell'umanità in quanto tale.
Per quanto mi riguarda, ho amato molto la prima parte. Il personaggio di Patty mi ha suscitato un sincero moto di empatia e il rapporto di amicizia/amore/stima tra lei e Richard è oltremodo vivido e commovente, così come l'atteggiamento tra il realistico e l'ironico con cui Patty affronta la prospettiva della morte.
La lettura di questa prima parte dal mio punto di vista vale l'intero libro, il che probabilmente vuole anche dire che la scrittura di Ali Smith mi appassiona di più quando si rivolge all'aspetto intimo dei personaggi e all'introspezione piuttosto che quando diventa più esplicita la sua presa di posizione politico-ideologica rispetto alla contemporaneità.
Ciò detto ho già deciso che proseguirò nella lettura della tetralogia ;-)
Voto: 3,5/5
Della tetralogia dedicata da Ali Smith alle stagioni avevo letto a suo tempo Autunno, che mi era moderatamente piaciuto: ero dunque alquanto indecisa se andare avanti nella lettura degli altri titoli.
Poi ho acquistato più o meno per caso Primavera e in un paio di giorni per me non facili, caratterizzati da lunghe ore di attesa, mi sono tuffata nella lettura di questo romanzo.
Al terzo libro della Smith che leggo (avevo letto anche Voci di dentro) penso di poter dire con ragionevole certezza che c'è qualcosa nel suo stile che mi crea una distanza: credo sia la voluta oscurità di certi passaggi narrativi e alcuni elementi che sfuggono a una spiegazione del tutto razionale o che comunque non vengono chiariti sul piano narrativo. Nonostante questo, apprezzo l'originalità della scrittura della Smith e accade anche che a tratti io ne sia conquistata.
Anche in questo caso, come per gli altri titoli della tetralogia, quella della Smith è una riflessione sul presente nel quale viviamo, in particolare sulle derive che lo caratterizzano.
Il romanzo si articola in tre parti: nella prima si racconta la storia di un'amicizia, anzi meglio di un'affinità elettiva, quella tra Richard, un regista dalla lunga carriera, e Patty, una sceneggiatrice dalle grandi risorse; la seconda è la storia di Brittany, una sorvegliante di un centro di detenzione per immigrati, e del suo incontro con Florence, una bambina dodicenne dotata di strani poteri di persuasione; nella terza parte infine questi due percorsi narrativi fatalmente si intrecciano, innescando una serie di eventi inaspettati.
I temi sono quelli cari alla Smith: la semplificazione e la spettacolarizzazione che caratterizzano il nostro tempo e di cui fanno le spese l'approfondimento e l'aderenza alla realtà, il nazionalismo e l'onnipresente razzismo, l'aggressività dei social, le disuguaglianze di genere e molti altri mali della nostra società, o forse dell'umanità in quanto tale.
Per quanto mi riguarda, ho amato molto la prima parte. Il personaggio di Patty mi ha suscitato un sincero moto di empatia e il rapporto di amicizia/amore/stima tra lei e Richard è oltremodo vivido e commovente, così come l'atteggiamento tra il realistico e l'ironico con cui Patty affronta la prospettiva della morte.
La lettura di questa prima parte dal mio punto di vista vale l'intero libro, il che probabilmente vuole anche dire che la scrittura di Ali Smith mi appassiona di più quando si rivolge all'aspetto intimo dei personaggi e all'introspezione piuttosto che quando diventa più esplicita la sua presa di posizione politico-ideologica rispetto alla contemporaneità.
Ciò detto ho già deciso che proseguirò nella lettura della tetralogia ;-)
Voto: 3,5/5
lunedì 23 maggio 2022
Bauhaus / Valentina Grande e Sergio Varbella
Bauhaus. Graphic biography / Valentina Grande e Sergio Varbella. Milano: Centauria editore, 2021.
È un periodo in cui il Bauhaus è entrato prepotentemente nella mia vita. Tutto è iniziato con l'uscita fotografica a Mezzocammino organizzata da Itinerari di luce, che ci ha stimolati a cercare l'ispirazione del Bauhaus in questa periferia romana, dopo averci raccontato la storia di questo istituto che ha cambiato la concezione stessa dell'arte e ha aperto la strada al design.
Poi mi è capitato di vedere segnalato su FB questo graphic novel, o meglio - come esso stesso si autodefinisce - questa graphic biography, dedicato al Bauhaus, i cui testi sono stati realizzati da Valentina Grande con i disegni di Sergio Varbella.
Poco dopo aver acquistato questo albo, ho avuto anche l'occasione di vedere il documentario di Susanne Radelhof, Le donne del Bauhaus, che ha aggiunto qualche altro tassello alla mia conoscenza di questa interessantissima storia.
L'aspetto più originale di questo lavoro a fumetti è la scelta di rendere protagonista e narratrice della storia la stessa scuola, che parla di sé, delle fasi del suo percorso, delle persone che ne hanno fatto parte.
La narrazione è organizzata cronologicamente e segue il Bauhaus dalle origini a Weimar, dove essa fu fondata da Walter Gropius, passando per la fase di Dessau con l'abbandono di Gropius, la breve direzione di Hannes Meyer e l'arrivo dell'architetto Mies Van der Rohe, con cui il Bauhaus si sposta per l'ultima volta a Berlino dove termina il suo percorso.
In questo percorso, che dura dal 1919 al 1933, la scuola fa i conti con grandi cambiamenti nel contesto, che ne condizionano significativamente l’esistenza, nonché con alcune conflittualità e contraddizioni interne, che hanno a che fare con il punto di vista degli insegnanti su alcuni temi e con il ruolo delle donne nella scuola.
Nonostante questo, la forza creatrice e innovatrice del Bauhaus riesce comunque a farsi strada e, se l’esperienza apparentemente sembra esaurirsi con l’avvento del nazismo, il tempo dimostrerà che il suo contributo nell’ambito dell’arte, dell’artigianato, del design, dell’architettura e di molto altro rimarrà vivo e continuerà a rappresentare un modello fino a oggi.
L’albo è una occasione in qualche modo originale per entrare in contatto con questo mondo e il lavoro di Valentina Grande nel tentare di riassumere una storia così complessa e di Sergio Varbella nell’illustrare con immagini questi eventi mi è sembrato riuscito e assolutamente apprezzabile.
Voto: 4/5
È un periodo in cui il Bauhaus è entrato prepotentemente nella mia vita. Tutto è iniziato con l'uscita fotografica a Mezzocammino organizzata da Itinerari di luce, che ci ha stimolati a cercare l'ispirazione del Bauhaus in questa periferia romana, dopo averci raccontato la storia di questo istituto che ha cambiato la concezione stessa dell'arte e ha aperto la strada al design.
Poi mi è capitato di vedere segnalato su FB questo graphic novel, o meglio - come esso stesso si autodefinisce - questa graphic biography, dedicato al Bauhaus, i cui testi sono stati realizzati da Valentina Grande con i disegni di Sergio Varbella.
Poco dopo aver acquistato questo albo, ho avuto anche l'occasione di vedere il documentario di Susanne Radelhof, Le donne del Bauhaus, che ha aggiunto qualche altro tassello alla mia conoscenza di questa interessantissima storia.
L'aspetto più originale di questo lavoro a fumetti è la scelta di rendere protagonista e narratrice della storia la stessa scuola, che parla di sé, delle fasi del suo percorso, delle persone che ne hanno fatto parte.
La narrazione è organizzata cronologicamente e segue il Bauhaus dalle origini a Weimar, dove essa fu fondata da Walter Gropius, passando per la fase di Dessau con l'abbandono di Gropius, la breve direzione di Hannes Meyer e l'arrivo dell'architetto Mies Van der Rohe, con cui il Bauhaus si sposta per l'ultima volta a Berlino dove termina il suo percorso.
In questo percorso, che dura dal 1919 al 1933, la scuola fa i conti con grandi cambiamenti nel contesto, che ne condizionano significativamente l’esistenza, nonché con alcune conflittualità e contraddizioni interne, che hanno a che fare con il punto di vista degli insegnanti su alcuni temi e con il ruolo delle donne nella scuola.
Nonostante questo, la forza creatrice e innovatrice del Bauhaus riesce comunque a farsi strada e, se l’esperienza apparentemente sembra esaurirsi con l’avvento del nazismo, il tempo dimostrerà che il suo contributo nell’ambito dell’arte, dell’artigianato, del design, dell’architettura e di molto altro rimarrà vivo e continuerà a rappresentare un modello fino a oggi.
L’albo è una occasione in qualche modo originale per entrare in contatto con questo mondo e il lavoro di Valentina Grande nel tentare di riassumere una storia così complessa e di Sergio Varbella nell’illustrare con immagini questi eventi mi è sembrato riuscito e assolutamente apprezzabile.
Voto: 4/5
venerdì 20 maggio 2022
Corpi minori / Jonathan Bazzi
Corpi minori / Jonathan Bazzi. Milano: Mondadori, 2022.
Dopo l’acclamatissimo Febbre, opera prima arrivata finalista nella cinquina del Premio Strega (e che io pure ho molto apprezzato) tutti aspettavano Jonathan Bazzi alla seconda, difficilissima, prova, quella in cui molti scrittori che fanno centro al primo colpo falliscono, essendosi giocati tutte le cartucce creative alla prima prova.
Ebbene, secondo il mio modesto punto di vista, Bazzi riesce non solo a superare brillantemente questa seconda prova, ma ne esce vieppiù rafforzato come scrittore, consolidando il suo stile e le sue peculiari scelte narrative, molto radicate nell’autobiografia.
In un certo senso questo secondo romanzo di Bazzi, Corpi minori, è una sorta di romanzo di formazione che racconta della crescita personale e affettiva del protagonista, dopo l’abbandono della casa di famiglia a Rozzano e il trasferimento a Milano per studiare e trovare un posto nel mondo.
L’io narrante ci si presenta come un giovane gay con mille sogni e aspirazioni, ma incapace di portare avanti un progetto in maniera continuativa, attirato da mille ipotesi alternative e altrettante presunte opportunità.
Questo approccio vitale e al contempo confuso alla vita e al futuro riguarda le scelte di realizzazione personale (lo studio, il lavoro, gli interessi), ma anche e soprattutto quelle affettive, spesso dettate dall’opportunismo e da un’unica incrollabile certezza e desiderio: non fare mai più ritorno a Rozzano.
Il ritratto che lo scrittore fa di sé stesso è impietoso e drammaticamente sincero: meschinità, piccolezze, pensieri abietti e piccoli e grandi sotterfugi non vengono in alcun modo taciuti, componendo l’immagine di un protagonista immaturo, narcisista e vacuo nella sua progettualità, qualcuno che un po’ disprezziamo ma con cui empatizziamo, perché nessuno di noi può dirsi estraneo ad alcuni dei suoi pensieri e sentimenti, anche quelli di basso profilo.
Nella seconda parte del racconto, dopo la fine della storia con Pietro e l’incontro con Marius, il giovane di cui il protagonista si innamora e con cui ben presto va a convivere, si conferma l’immaturità dell’io narrante nell’approccio ai sentimenti, anche quando questi sono reali e intensi, e non simulati come nel caso della storia precedente.
Il protagonista è vittima – come tutti, gay o etero non fa differenza – di un ideale di amore romantico e assoluto che si traduce in una forma di simbiosi e di mantenimento dell’asticella emotiva su livelli altissimi. Di fronte ai dubbi – che nel caso del protagonista sono tra l’altro connaturati al suo stesso modo di essere su tutti i fronti dell’esistenza – sembra inevitabile il senso di fallimento e la necessità di cambiare e ricominciare, per tornare alla purezza del sentimento, secondo una forma di coazione a ripetere che caratterizza moltissime persone delle ultime generazioni.
Saranno in questo caso l’inerzia e una forma di pavidità a impedire al protagonista di prendere una decisione, a costringerlo - di fronte alle contingenze - ad assumersi delle responsabilità non solo nei confronti di sé stesso ma anche dell’altro, e infine a comprendere che una relazione non dura naturalmente e non rimane sempre uguale a sé stessa, ma fa i conti con l’inevitabile processo di normalizzazione e dunque di ridimensionamento dell’entusiasmo dei primi tempi.
Non si tratta evidentemente di nulla di particolarmente nuovo e originale, ma è così che appare nel momento in cui la storia narrata è profondamente radicata nella contemporaneità di una società dell’apparire social, che lo scrittore esplicita senza giudicare, e nell’universo specifico della cultura gay, rispetto alla quale Bazzi rifugge da una rappresentazione edulcorata e conciliante, a uso e consumo del perbenismo sociale.
Bazzi racconta le sozzure e le bellezze della vita, senza mai preoccuparsi di intaccare l’immagine precostituita e conciliante di sé stesso e del mondo che lo circonda.
La scrittura di Bazzi è fluida e accattivante, a tratti perfida e affilata, altre volte fragile e insicura, esattamente come il suo protagonista inizialmente intriso di una filosofia di vita volta alla ricerca della purezza attraverso la pratica dello yoga e il veganesimo, ma poi costretto a fare i conti con l’inevitabile e vitale impurità della propria e altrui esistenza.
Voto: 3,5/5
Dopo l’acclamatissimo Febbre, opera prima arrivata finalista nella cinquina del Premio Strega (e che io pure ho molto apprezzato) tutti aspettavano Jonathan Bazzi alla seconda, difficilissima, prova, quella in cui molti scrittori che fanno centro al primo colpo falliscono, essendosi giocati tutte le cartucce creative alla prima prova.
Ebbene, secondo il mio modesto punto di vista, Bazzi riesce non solo a superare brillantemente questa seconda prova, ma ne esce vieppiù rafforzato come scrittore, consolidando il suo stile e le sue peculiari scelte narrative, molto radicate nell’autobiografia.
In un certo senso questo secondo romanzo di Bazzi, Corpi minori, è una sorta di romanzo di formazione che racconta della crescita personale e affettiva del protagonista, dopo l’abbandono della casa di famiglia a Rozzano e il trasferimento a Milano per studiare e trovare un posto nel mondo.
L’io narrante ci si presenta come un giovane gay con mille sogni e aspirazioni, ma incapace di portare avanti un progetto in maniera continuativa, attirato da mille ipotesi alternative e altrettante presunte opportunità.
Questo approccio vitale e al contempo confuso alla vita e al futuro riguarda le scelte di realizzazione personale (lo studio, il lavoro, gli interessi), ma anche e soprattutto quelle affettive, spesso dettate dall’opportunismo e da un’unica incrollabile certezza e desiderio: non fare mai più ritorno a Rozzano.
Il ritratto che lo scrittore fa di sé stesso è impietoso e drammaticamente sincero: meschinità, piccolezze, pensieri abietti e piccoli e grandi sotterfugi non vengono in alcun modo taciuti, componendo l’immagine di un protagonista immaturo, narcisista e vacuo nella sua progettualità, qualcuno che un po’ disprezziamo ma con cui empatizziamo, perché nessuno di noi può dirsi estraneo ad alcuni dei suoi pensieri e sentimenti, anche quelli di basso profilo.
Nella seconda parte del racconto, dopo la fine della storia con Pietro e l’incontro con Marius, il giovane di cui il protagonista si innamora e con cui ben presto va a convivere, si conferma l’immaturità dell’io narrante nell’approccio ai sentimenti, anche quando questi sono reali e intensi, e non simulati come nel caso della storia precedente.
Il protagonista è vittima – come tutti, gay o etero non fa differenza – di un ideale di amore romantico e assoluto che si traduce in una forma di simbiosi e di mantenimento dell’asticella emotiva su livelli altissimi. Di fronte ai dubbi – che nel caso del protagonista sono tra l’altro connaturati al suo stesso modo di essere su tutti i fronti dell’esistenza – sembra inevitabile il senso di fallimento e la necessità di cambiare e ricominciare, per tornare alla purezza del sentimento, secondo una forma di coazione a ripetere che caratterizza moltissime persone delle ultime generazioni.
Saranno in questo caso l’inerzia e una forma di pavidità a impedire al protagonista di prendere una decisione, a costringerlo - di fronte alle contingenze - ad assumersi delle responsabilità non solo nei confronti di sé stesso ma anche dell’altro, e infine a comprendere che una relazione non dura naturalmente e non rimane sempre uguale a sé stessa, ma fa i conti con l’inevitabile processo di normalizzazione e dunque di ridimensionamento dell’entusiasmo dei primi tempi.
Non si tratta evidentemente di nulla di particolarmente nuovo e originale, ma è così che appare nel momento in cui la storia narrata è profondamente radicata nella contemporaneità di una società dell’apparire social, che lo scrittore esplicita senza giudicare, e nell’universo specifico della cultura gay, rispetto alla quale Bazzi rifugge da una rappresentazione edulcorata e conciliante, a uso e consumo del perbenismo sociale.
Bazzi racconta le sozzure e le bellezze della vita, senza mai preoccuparsi di intaccare l’immagine precostituita e conciliante di sé stesso e del mondo che lo circonda.
La scrittura di Bazzi è fluida e accattivante, a tratti perfida e affilata, altre volte fragile e insicura, esattamente come il suo protagonista inizialmente intriso di una filosofia di vita volta alla ricerca della purezza attraverso la pratica dello yoga e il veganesimo, ma poi costretto a fare i conti con l’inevitabile e vitale impurità della propria e altrui esistenza.
Voto: 3,5/5
mercoledì 18 maggio 2022
Settembre
Sono uscita dal cinema commossa e sollevata, e penso fosse questo l'intento di Giulia Louise Steigerwalt, qui alla sua opera prima in veste di regista, lei che si è già fatta conoscere e apprezzare come attrice.
Settembre (prodotto da Matteo Rovere) racconta un momento delicato della vita di alcune persone, che per una serie di motivi sono collegate le une alle altre. Francesca (Barbara Ronchi) non trova più alcun motivo di felicità nel suo matrimonio con Alberto, e l'unico suo supporto è la sua amica Debora (Thony), a sua volta con un matrimonio in crisi a causa dei tradimenti del marito.
Sergio (Luca Nozzoli), che è il figlio di Francesca, sta combinando l'incontro tra una sua compagna di classe, Maria (Margherita Rebeggiani) e Christian, e si offre di darle lezioni di sesso.
Guglielmo (Fabrizio Bentivoglio) vive da solo e trascorre le sue giornate tra il lavoro di medico, i videogiochi, delle tristi cene e delle uscite serali per incontrare una giovane prostituta, Ana (Tesa Litvan). Quest'ultima sogna di fare l'estetista e nel panificio dove va ogni giorno viene notata da Matteo (Enrico Borello), che si innamora di lei.
Tutte queste vite si trovano a un bivio, oppure si sono impantanate in una melma dalla quale fanno fatica a tirarsi fuori. Eventi imprevisti e imprevedibili offrono a ciascuno di loro l'occasione per interrompere l'inerzia e scegliere di cambiare ciò che non funziona, o quantomeno provarci.
È chiaro che quella di Giulia Steigerwald è una commedia che punta al lieto fine, a costo di semplificare alcune complessità, ma la freschezza dello sguardo della regista, una sceneggiatura e una recitazione che favoriscono l'empatia nei confronti dei personaggi, e il bisogno che tanto ci appartiene come esseri umani (e in questo momento ancora di più) di sperare sempre nel meglio fanno sì che la visione del film funga da vero e proprio balsamo per i nostri cuori sofferenti.
Settembre è un film delizioso, con un tocco leggero e divertito, senza essere stupido e superficiale, qualità che ne fanno quasi una rarità nel panorama cinematografico italiano contemporaneo.
La Steigerwalt non pretende di insegnarci nulla, né di dire grandi verità, ma guarda e ci fa guardare ai suoi personaggi - e di fatto anche a noi stessi - con un affetto sincero e compassionevole. Perché tutti ci impantaniamo a volte nelle nostre rigidità e tristezze, e non abbiamo il coraggio di guardarci in faccia e assumerci la responsabilità di un cambiamento, che inevitabilmente è sempre faticoso e comporta dei rischi. L'alternativa però è rimanere fermi e piangerci addosso.
Voto: 4/5
Settembre (prodotto da Matteo Rovere) racconta un momento delicato della vita di alcune persone, che per una serie di motivi sono collegate le une alle altre. Francesca (Barbara Ronchi) non trova più alcun motivo di felicità nel suo matrimonio con Alberto, e l'unico suo supporto è la sua amica Debora (Thony), a sua volta con un matrimonio in crisi a causa dei tradimenti del marito.
Sergio (Luca Nozzoli), che è il figlio di Francesca, sta combinando l'incontro tra una sua compagna di classe, Maria (Margherita Rebeggiani) e Christian, e si offre di darle lezioni di sesso.
Guglielmo (Fabrizio Bentivoglio) vive da solo e trascorre le sue giornate tra il lavoro di medico, i videogiochi, delle tristi cene e delle uscite serali per incontrare una giovane prostituta, Ana (Tesa Litvan). Quest'ultima sogna di fare l'estetista e nel panificio dove va ogni giorno viene notata da Matteo (Enrico Borello), che si innamora di lei.
Tutte queste vite si trovano a un bivio, oppure si sono impantanate in una melma dalla quale fanno fatica a tirarsi fuori. Eventi imprevisti e imprevedibili offrono a ciascuno di loro l'occasione per interrompere l'inerzia e scegliere di cambiare ciò che non funziona, o quantomeno provarci.
È chiaro che quella di Giulia Steigerwald è una commedia che punta al lieto fine, a costo di semplificare alcune complessità, ma la freschezza dello sguardo della regista, una sceneggiatura e una recitazione che favoriscono l'empatia nei confronti dei personaggi, e il bisogno che tanto ci appartiene come esseri umani (e in questo momento ancora di più) di sperare sempre nel meglio fanno sì che la visione del film funga da vero e proprio balsamo per i nostri cuori sofferenti.
Settembre è un film delizioso, con un tocco leggero e divertito, senza essere stupido e superficiale, qualità che ne fanno quasi una rarità nel panorama cinematografico italiano contemporaneo.
La Steigerwalt non pretende di insegnarci nulla, né di dire grandi verità, ma guarda e ci fa guardare ai suoi personaggi - e di fatto anche a noi stessi - con un affetto sincero e compassionevole. Perché tutti ci impantaniamo a volte nelle nostre rigidità e tristezze, e non abbiamo il coraggio di guardarci in faccia e assumerci la responsabilità di un cambiamento, che inevitabilmente è sempre faticoso e comporta dei rischi. L'alternativa però è rimanere fermi e piangerci addosso.
Voto: 4/5
lunedì 16 maggio 2022
Ovvi destini / di Filippo Gili. Teatro Sala Umberto, 5 maggio 2022
Mentre mangiamo una cosa al volo nel bistrot interno alla Sala Umberto, accanto a noi c’è tutta la compagnia che mette in scena questo spettacolo, compresi regista e attrici. Ed è buffo vederli lì che trangugiano anche loro qualcosa prima di darsi in pasto al pubblico.
Di Filippo Gili avevo visto ormai diversi anni fa Prima di andar via, che faceva parte della cosiddetta Trilogia di mezzanotte, in cui si riflette da punti di vista diversi sul tema sfuggente e complesso della morte (gli altri spettacoli sono Dall’alto di una fredda torre e L’ora accanto).
Con Ovvi destini Gili va a indagare in un tema che è centrale anche in Prima di andar via, ossia quello dei rapporti familiari. Qui sono protagoniste tre sorelle: Laura (Vanessa Scalera), la primogenita, con il vizio del gioco d’azzardo, Lucia (Anna Ferzetti), la intermedia, e Costanza (Daniela Marra), la più piccola, che è su una sedia a rotelle a causa di un incidente avvenuto in un edificio pericolante diversi anni prima.
Nella relazione burrascosa ma tutto sommato prevedibile tra queste tre sorelle interviene a un certo punto la figura di Carlo (Pier Giorgio Bellocchio), il fisioterapista di Costanza, che conosce alcuni segreti della vita di queste sorelle che potranno cambiare il corso degli eventi. Carlo – figura che a poco a poco rivela il suo lato mefistofelico, e che certamente non è del tutto realistica - prima ricatta Laura, poi invece le offre la possibilità di realizzare un desiderio.
Il colpo di scena finale metterà in discussione tutte le certezze, rivelando quanto la propria natura in un certo senso sfugga al nostro stesso controllo, rendendo i destini “ovvi” in quanto incontrollabili dalla nostra ragione.
Gli attori sul palco sono molto bravi: Bellocchio nel rendere il suo personaggio vero e irreale al contempo, le tre donne capaci di rendere con molta naturalezza sentimenti e dinamiche della relazione tra sorelle, tra momenti di avvicinamento e tenerezza e altri di conflitto e ira.
Anche la storia è abbastanza interessante, anche se personalmente non l’ho trovata particolarmente originale, tanto che persino il colpo di scena finale mi è sembrato in qualche modo prevedibile.
Sicuramente regia, scenografia e drammaturgia sono di ottimo livello, cosicché certo non si può dire che sia un brutto spettacolo.
Però, personalmente non ne sono stata conquistata, e – nonostante i cambi di registro e di umore – l’ho persino trovato un po’ monocorde e piatto. Non posso dire di essere arrivata a teatro con un qualche pregiudizio, quindi si è trattato esclusivamente dell’interazione del momento, che non ha fatto scattare la scintilla.
Peccato davvero. E certamente questa esperienza non entusiasmante non mi impedirà di offrire altre possibilità al teatro di Filippo Gili.
Voto: 3/5
Di Filippo Gili avevo visto ormai diversi anni fa Prima di andar via, che faceva parte della cosiddetta Trilogia di mezzanotte, in cui si riflette da punti di vista diversi sul tema sfuggente e complesso della morte (gli altri spettacoli sono Dall’alto di una fredda torre e L’ora accanto).
Con Ovvi destini Gili va a indagare in un tema che è centrale anche in Prima di andar via, ossia quello dei rapporti familiari. Qui sono protagoniste tre sorelle: Laura (Vanessa Scalera), la primogenita, con il vizio del gioco d’azzardo, Lucia (Anna Ferzetti), la intermedia, e Costanza (Daniela Marra), la più piccola, che è su una sedia a rotelle a causa di un incidente avvenuto in un edificio pericolante diversi anni prima.
Nella relazione burrascosa ma tutto sommato prevedibile tra queste tre sorelle interviene a un certo punto la figura di Carlo (Pier Giorgio Bellocchio), il fisioterapista di Costanza, che conosce alcuni segreti della vita di queste sorelle che potranno cambiare il corso degli eventi. Carlo – figura che a poco a poco rivela il suo lato mefistofelico, e che certamente non è del tutto realistica - prima ricatta Laura, poi invece le offre la possibilità di realizzare un desiderio.
Il colpo di scena finale metterà in discussione tutte le certezze, rivelando quanto la propria natura in un certo senso sfugga al nostro stesso controllo, rendendo i destini “ovvi” in quanto incontrollabili dalla nostra ragione.
Gli attori sul palco sono molto bravi: Bellocchio nel rendere il suo personaggio vero e irreale al contempo, le tre donne capaci di rendere con molta naturalezza sentimenti e dinamiche della relazione tra sorelle, tra momenti di avvicinamento e tenerezza e altri di conflitto e ira.
Anche la storia è abbastanza interessante, anche se personalmente non l’ho trovata particolarmente originale, tanto che persino il colpo di scena finale mi è sembrato in qualche modo prevedibile.
Sicuramente regia, scenografia e drammaturgia sono di ottimo livello, cosicché certo non si può dire che sia un brutto spettacolo.
Però, personalmente non ne sono stata conquistata, e – nonostante i cambi di registro e di umore – l’ho persino trovato un po’ monocorde e piatto. Non posso dire di essere arrivata a teatro con un qualche pregiudizio, quindi si è trattato esclusivamente dell’interazione del momento, che non ha fatto scattare la scintilla.
Peccato davvero. E certamente questa esperienza non entusiasmante non mi impedirà di offrire altre possibilità al teatro di Filippo Gili.
Voto: 3/5
giovedì 12 maggio 2022
Immaginaria Film Festival. Cinema Aquila, 22-26 aprile 2022
Anche quest'anno riesco ad affacciarmi, anche se solo per un giorno, ad Immaginaria. International film festival of lesbians and other rebellious women. Memore dell'esperienza dello scorso anno, quando mi ero resa conto che la cosa migliore del festival sono i documentari (e talvolta i corti), e molto meno i lungometraggi di fiction, scelgo per questa giornata due documentari e un solo film di fiction.
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In her words. 20th century lesbian fiction Il primo che scelgo è In her words. 20th century lesbian fiction, un documentario realizzato da Lisa Marie Evans e Marianne K. Martin. L'idea iniziale di raccontare la storia e l'impatto della letteratura lesbica nel ventesimo secolo era nata nel 2014 in occasione del National Women's Music Festival di Madison, dove la stessa Martin e la collega Sandra Moran avevano fatto un intervento su questo tema. Dopo la prematura e tragica morte di Sandra, anche col sostegno della di lei compagna Cheryl Pletcher, il progetto è stato comunque portato avanti e giunto a compimento.
Di fatto si tratta di un percorso cronologico all'interno della letteratura lesbica, la cui principale voce narrante è Lillian Faderman, il cui racconto si alterna alle interviste con molte delle scrittrici e delle protagoniste di questa storia, oltre che ad immagini di repertorio e fotografie.
Ne viene fuori una ricostruzione ricchissima e a suo modo spassosa, attraverso la quale si può leggere la storia stessa della società e non solo quella della comunità lesbica ed LGBT in generale.
Dai primi romanzi caratterizzati dagli esiti tragici delle protagoniste (specchio di un mondo in cui essere lesbica era una condanna), a poco a poco la letteratura del settore si apre alla possibilità di storie più "normali" e anche a generi diversi: i gialli, i piccoli romanzi di azione pubblicati sulle riviste (cosiddetta "pulp fiction"), i romanzi storici ecc. Si arriva infine ai giorni nostri e a scrittrici acclamate e quasi mainstream come Sarah Waters, a dimostrazione del lungo cammino che la letteratura lesbica ha compiuto in circa un secolo.
La storia della letteratura lesbica in molti momenti si interseca con la storia del movimento femminista, tra fasi di grande armonia e altre di conflitto, come del resto in molti casi accade ancora oggi. Di questo ci parla ad esempio nella sua intervista Rita Mae Brown, che è protagonista di uno dei passaggi più divertenti e intensi del film.
In her words non racconta però solo le storie delle scrittrici, bensì anche quello delle case editrici, in particolare la Naiad Press, la cui animatrice Barbara Grier emerge come figura determinante nella fase pionieristica dell'affacciarsi della letteratura lesbica sulla scena americana.
Nel complesso un film il cui interesse va ben al di là della comunità LGBT e che racconta un pezzo importante della storia dell'editoria americana, del movimento femminista e della società tutta.
Voto: 4/5
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Bauhausfrauen = Le donne del Bauhaus
Il documentario di Susanne Radelhof è in realtà un mediometraggio realizzato per la televisione tedesca, come lei stessa ci ha spiegato durante l'interessante dibattito che è seguito alla visione del film. In pratica la regista ha voluto ridare voce e spazio alla parte femminile di quella straordinaria scuola d'arte nata a Weimar nel 1919, grazie all'iniziativa di Walter Gropius, che ha rivoluzionato il mondo dell'arte e del design. La forza del Bauhaus è stata quella di non considerare le arti in maniera astratta e avulsa dalla società, ma di farle dialogare con l'artigianato e la produzione industriale, trasformandole in qualcosa di nuovo e originale. Ma la grandezza del Bauhaus non si limita solo ai grandi nomi che a esso sono associati e ai prodotti che sono stati realizzati e che ancora oggi sono esempi mirabili di stile, bensì anche alle idee che la scuola ha portato avanti, in termini di uguaglianza, di diritti, di libertà di pensiero, di creatività piena. O almeno queste erano le intenzioni iniziali del suo fondatore, che fecero sì che inizialmente gli studenti della scuola erano equamente divisi tra uomini e donne.
Susanne Radelhof ci racconta la parabola per cui le donne del Bauhaus, alcune davvero eccezionali per talento e versatilità, da protagoniste della scuola furono via via spinte ai suoi margini, relegate al laboratorio tessile, non riconosciute nelle loro capacità e in buona parte dimenticate dalla narrazione che la scuola ha fatto di sé stessa nel tempo.
Lo stesso Gropius, da posizioni molto progressiste, si spostò nel tempo verso posizioni più conservatrici, fors'anche perché preoccupato della sopravvivenza della scuola, molto legata ai finanziamenti esterni.
Certamente la storia di queste donne, da Alma Buscher a Marianne Brandt, da Gunta Stölzl a Friedl Dicker fino ad arrivare a Lucia Moholy, si inserisce all'interno della più complessiva storia del gender gap, che probabilmente nell'ambiente artistico - come in altri contesti particolari - è particolarmente accentuato. Attraverso interviste, immagini e fotografie, Susanne Radelhof ci ricorda le vite, le conquiste, i risultati e le difficoltà che hanno visto protagoniste queste donne, restituendo loro quella centralità che gli è stata a lungo negata in una storia scritta - come spesso accade - dagli uomini per gli uomini.
Voto: 4/5
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Kiss me before it blows up
Il film di Shirel Peleg, che tra l'altro è poi risultato vincitore della sezione Fiction del festival ed è ispirato in parte alla storia della regista, è una commedia divertente sulla storia d'amore tra una ragazza israeliana, Shira (Moran Rosenblatt), e una tedesca, Maria (Luise Wolfram). Quando Maria arriva in Israele per andare a vivere con Shira, il loro amore viene sottoposto a molteplici prove: Maria deve fare i conti innanzitutto con il passato da latin lover di Shira e le numerose ex che ricompaiono ad ogni piè sospinto, poi con la famiglia di Shira i cui componenti sono certamente peculiari e non mancano di mettere in imbarazzo la ragazza, e soprattutto con la nonna Berta, che rifiuta ostinatamente questa unione, per motivi che sono in parte personali e in parte legati alla ferita non sanata tra ebrei e tedeschi, nonostante il tempo trascorso e la diversità della situazione attuale.
Non c'è dubbio che il film sia in grado di affrontare temi importanti con un approccio leggero e divertito, che riesce a farci ridere di stereotipi e retaggi culturali duri a morire, cosicché al centro del racconto più che la storia lesbica c'è il tema del difficile incontro tra due culture con una storia come questa alle spalle e un presente non certamente facile.
Pur apprezzandolo in alcuni passaggi, il film mi è però sembrato un po' frammentato e in certi momenti quasi confuso; tra l'altro va detto che il tipo di comicità rappresentata è di quelle con cui faccio fatica a entrare in sintonia e che dunque difficilmente mi fa ridere. Certamente si tratta di un problema mio, visto che la platea se la rideva ampiamente. Cosicché, non avendo potuto interamente apprezzare l'aspetto migliore del film, cioè la sua componente ironica e a tratti sarcastica, quel che rimaneva mi è risultato troppo poco convincente.
Peccato!
Voto: 2,5/5
lunedì 9 maggio 2022
Chimica / Weike Wang
Chimica / Weike Wang; trad. di Fabio Cremonesi. Firenze: Edizioni Clichy, 2021.
Chimica è uno dei numerosi libri che mi sono stati regalati per Natale. Con mia grande gioia, anche perché quasi tutti comprati in librerie fisiche.
In questo caso è il mio amico M. a pensare a me con questo libro ed effettivamente, quando leggo il risvolto di copertina con la presentazione dello stesso, mi ci riconosco tanto.
Non a caso è uno dei primi libri che metto in lettura appena finisco il precedente e, complice anche un viaggio in treno, lo finisco in un paio di giorni.
Il libro si inscrive in quello che per me è ormai un vero e proprio filone della letteratura contemporanea, ossia quello che ritrae il mood proprio della generazione dei venti-trentenni (penso a Sally Rooney, Naoise Dolan e molti altri).
Come sa chi legge questo blog, ho una certa idiosincrasia nei confronti di questi romanzi, ma alcuni riescono a conquistarmi. Weike Wang ci è andata vicina per due terzi del libro.
La protagonista, di cui non conosciamo il nome e che, per le origini asiatiche e alcuni dettagli biografici, sembra essere chiaramente ispirata all'autrice, è una ragazza che sta facendo un dottorato in chimica e ha una storia stabile con Peter.
Apparentemente dunque tutto bene. Fino al momento in cui Peter le chiede di sposarlo.
A quel punto tutti gli equilibri della protagonista vanno in frantumi e le insoddisfazioni vengono a galla, prima tra tutte quella per una carriera in cui non crede realmente e che infatti decide di interrompere. Ovviamente anche la storia con Peter viene messa in crisi dall'indecisione di lei, amplificata dal fatto che la vita e la carriera di Peter sembrano andare a gran velocità in una direzione molto chiara, al contrario della sua.
Fin qui empatizzo con la protagonista. Comprendo la sensazione di stare vivendo una vita che non è la propria o in cui non si crede veramente, la necessità di cambiare rotta e lo spaesamento del non sapere in quale direzione muoversi. In questa fase sono comprensibili anche tutte le riflessioni sulle proprie origini, sugli atti di razzismo e bullismo subiti, sul rapporto con i propri genitori e sulla consapevolezza dei loro limiti.
Però, quando a un certo punto questo stato di incertezza e confusione diventa una specie di brodo primordiale dal quale la protagonista sembra non riuscire o non volersi tirare fuori, comincio a non capire più. E mi pare di nuovo di trovarmi di fronte a quel girare a vuoto di una generazione che di fronte all'infelicità sembra non avere rimedi e nemmeno la forza di cercarli. Come se dall'alto dovesse arrivare un deus ex machina a risolvere tutto. O nulla.
E mi ritrovo a non riuscire affatto a ridere e neppure a sorridere dell'ironia e dell'autoironia con cui viene affrontato questo stato di cose, perché in me scatta un reazione di rabbia o nella migliore delle ipotesi di compassione.
Però Weike Wang ha una scrittura asciutta e molto efficace, che riesce a farmi apprezzare la lettura anche quando non riesco più a identificarmi con la protagonista.
Voto: 3/5
Chimica è uno dei numerosi libri che mi sono stati regalati per Natale. Con mia grande gioia, anche perché quasi tutti comprati in librerie fisiche.
In questo caso è il mio amico M. a pensare a me con questo libro ed effettivamente, quando leggo il risvolto di copertina con la presentazione dello stesso, mi ci riconosco tanto.
Non a caso è uno dei primi libri che metto in lettura appena finisco il precedente e, complice anche un viaggio in treno, lo finisco in un paio di giorni.
Il libro si inscrive in quello che per me è ormai un vero e proprio filone della letteratura contemporanea, ossia quello che ritrae il mood proprio della generazione dei venti-trentenni (penso a Sally Rooney, Naoise Dolan e molti altri).
Come sa chi legge questo blog, ho una certa idiosincrasia nei confronti di questi romanzi, ma alcuni riescono a conquistarmi. Weike Wang ci è andata vicina per due terzi del libro.
La protagonista, di cui non conosciamo il nome e che, per le origini asiatiche e alcuni dettagli biografici, sembra essere chiaramente ispirata all'autrice, è una ragazza che sta facendo un dottorato in chimica e ha una storia stabile con Peter.
Apparentemente dunque tutto bene. Fino al momento in cui Peter le chiede di sposarlo.
A quel punto tutti gli equilibri della protagonista vanno in frantumi e le insoddisfazioni vengono a galla, prima tra tutte quella per una carriera in cui non crede realmente e che infatti decide di interrompere. Ovviamente anche la storia con Peter viene messa in crisi dall'indecisione di lei, amplificata dal fatto che la vita e la carriera di Peter sembrano andare a gran velocità in una direzione molto chiara, al contrario della sua.
Fin qui empatizzo con la protagonista. Comprendo la sensazione di stare vivendo una vita che non è la propria o in cui non si crede veramente, la necessità di cambiare rotta e lo spaesamento del non sapere in quale direzione muoversi. In questa fase sono comprensibili anche tutte le riflessioni sulle proprie origini, sugli atti di razzismo e bullismo subiti, sul rapporto con i propri genitori e sulla consapevolezza dei loro limiti.
Però, quando a un certo punto questo stato di incertezza e confusione diventa una specie di brodo primordiale dal quale la protagonista sembra non riuscire o non volersi tirare fuori, comincio a non capire più. E mi pare di nuovo di trovarmi di fronte a quel girare a vuoto di una generazione che di fronte all'infelicità sembra non avere rimedi e nemmeno la forza di cercarli. Come se dall'alto dovesse arrivare un deus ex machina a risolvere tutto. O nulla.
E mi ritrovo a non riuscire affatto a ridere e neppure a sorridere dell'ironia e dell'autoironia con cui viene affrontato questo stato di cose, perché in me scatta un reazione di rabbia o nella migliore delle ipotesi di compassione.
Però Weike Wang ha una scrittura asciutta e molto efficace, che riesce a farmi apprezzare la lettura anche quando non riesco più a identificarmi con la protagonista.
Voto: 3/5
giovedì 5 maggio 2022
Infanzia di un fotografo / Massimiliano Tappari
Infanzia di un fotografo / Massimiliano Tappari. Milano: Topipittori, 2021.
Il libro di Massimiliano Tappari - uno dei primi regali ricevuti per il Natale 2021 - è stato per me una felice scoperta. Lui è del 1967, ed è un fotografo, ma anche un poeta, un autore e un camminatore (come dicono le sue biografie), molto impegnato soprattutto nelle attività ludiche e formative per bambini e adulti.
Io non lo conoscevo, non avevo mai letto né visto niente di suo. Ma già la frase stampata sulla copertina mi ha conquistata, perché mi ci sono profondamente riconosciuta: "Il mondo si divide in due categorie di persone: chi divide il mondo in due categorie di persone e chi non lo fa. Io sto cercando di smettere ma la tentazione è irresistibile e ogni tanto ci ricasco. Sarà perché ho due nomi e quindi io stesso mi sento diviso in due."
Questa frase, oltre a calzarmi a pennello, tanto più che io sono del segno dei Gemelli, offre un indizio molto significativo di quello che si andrà a leggere e a guardare nel libro. Il libro di Tappari è più facile da definire per negazione, ossia dicendo cosa non è: non è un libro di fotografia, non è un romanzo, non è un'autobiografia, non è un libro di racconti, e nello stesso tempo però è tutto questo.
Il testo è fatto di frammenti, brevi aneddoti, piccoli racconti, talvolta aforismi, che letti tutti insieme e di seguito non solo gettano luce sul suo autore e sul suo modo di vedere la vita, ma in alcuni casi aprono squarci interessanti di riflessione e in altri aprono il viso a un sorriso o a una vera e propria risata.
Questo effetto è reso ancora più intenso dal dialogo talvolta sotterraneo, altre volte esplicito, tra testo e fotografie, e anche tra le fotografie stesse. Queste ultime sono spesso espressione di un disturbo di cui Tappari dice di soffrire da sempre, la pareidolia, che è un fenomeno umano istintivo che ci porta a riconoscere forme e figure note (umane, e non solo) in oggetti e cose che ci circondano. Per Tappari questa non è solo una tendenza, bensì una vera e propria “malattia” che condiziona profondamente il suo sguardo sul mondo, con risultati molto particolari a livello di fotografie.
La scrittura di questo libro appare una specie di operazione di memoria e di autocoscienza per il suo autore, che diventa per noi lettori occasione di scoperta e di meraviglia.
Un libro che potrà interessare i fotografi a qualunque livello, ma anche tutti coloro che amano riflettere sui piccoli e grandi episodi che la vita ci riserva.
Consigliato!
Voto: 4/5
Il libro di Massimiliano Tappari - uno dei primi regali ricevuti per il Natale 2021 - è stato per me una felice scoperta. Lui è del 1967, ed è un fotografo, ma anche un poeta, un autore e un camminatore (come dicono le sue biografie), molto impegnato soprattutto nelle attività ludiche e formative per bambini e adulti.
Io non lo conoscevo, non avevo mai letto né visto niente di suo. Ma già la frase stampata sulla copertina mi ha conquistata, perché mi ci sono profondamente riconosciuta: "Il mondo si divide in due categorie di persone: chi divide il mondo in due categorie di persone e chi non lo fa. Io sto cercando di smettere ma la tentazione è irresistibile e ogni tanto ci ricasco. Sarà perché ho due nomi e quindi io stesso mi sento diviso in due."
Questa frase, oltre a calzarmi a pennello, tanto più che io sono del segno dei Gemelli, offre un indizio molto significativo di quello che si andrà a leggere e a guardare nel libro. Il libro di Tappari è più facile da definire per negazione, ossia dicendo cosa non è: non è un libro di fotografia, non è un romanzo, non è un'autobiografia, non è un libro di racconti, e nello stesso tempo però è tutto questo.
Il testo è fatto di frammenti, brevi aneddoti, piccoli racconti, talvolta aforismi, che letti tutti insieme e di seguito non solo gettano luce sul suo autore e sul suo modo di vedere la vita, ma in alcuni casi aprono squarci interessanti di riflessione e in altri aprono il viso a un sorriso o a una vera e propria risata.
Questo effetto è reso ancora più intenso dal dialogo talvolta sotterraneo, altre volte esplicito, tra testo e fotografie, e anche tra le fotografie stesse. Queste ultime sono spesso espressione di un disturbo di cui Tappari dice di soffrire da sempre, la pareidolia, che è un fenomeno umano istintivo che ci porta a riconoscere forme e figure note (umane, e non solo) in oggetti e cose che ci circondano. Per Tappari questa non è solo una tendenza, bensì una vera e propria “malattia” che condiziona profondamente il suo sguardo sul mondo, con risultati molto particolari a livello di fotografie.
La scrittura di questo libro appare una specie di operazione di memoria e di autocoscienza per il suo autore, che diventa per noi lettori occasione di scoperta e di meraviglia.
Un libro che potrà interessare i fotografi a qualunque livello, ma anche tutti coloro che amano riflettere sui piccoli e grandi episodi che la vita ci riserva.
Consigliato!
Voto: 4/5
martedì 3 maggio 2022
Klara e il Sole / Kazuo Ishiguro
Klara e il Sole / Kazuo Ishiguro; trad. di Susanna Basso. Torino: Einaudi, 2021.
Come è stato scritto da più parti, con il suo ultimo romanzo, Klara e il Sole, Kazuo Ishiguro torna alle atmosfere di Non lasciarmi che lo hanno portato alla ribalta internazionale.
Siamo sempre in un mondo che in buona parte è simile a quello in cui viviamo, ma che a poco a poco rivela delle caratteristiche che lo collocano temporalmente in un futuro più o meno prossimo che fa virare la narrazione nella direzione della distopia, pur senza darlo pienamente a vedere e senza esserlo totalmente. Personalmente ritengo che questa sia la vera forza della narrazione di Ishiguro, ossia la capacità di instillare un non meglio definito senso di inquietudine che convive con momenti di assoluta normalità e dolcezza e che non trova un pieno scioglimento narrativo. Perché Ishiguro non ama spiegare tutto, né raccontare tutto quello che è necessario per capire, bensì lascia alla intuizione e alla fantasia del lettore il compito di riempire i buchi informativi o di non riempirli se non ne sente la necessità.
In questa storia la protagonista è Klara, un modello piuttosto evoluto (anche se non il più recente realizzato) di AA (Amico Artificiale), che vive - insieme a un certo numero di suoi simili - in un negozio cittadino dove attende che un adolescente la scelga e la porti via con sé. Gli AA - che sono alimentati dall'energia del sole - non sono tutti uguali, e Klara in particolare si distingue dagli altri per una grande capacità di osservazione e una spiccata sensibilità, che la direttrice del negozio non manca mai di sottolineare quando entra un nuovo cliente.
A scegliere Klara sarà Josie, una ragazzina che vive con la madre e la domestica Melania in una grande casa nel verde e che ha una salute precaria e fragile, oltre a condividere con gli altri suoi coetanei una incapacità di instaurare relazioni e una tendenza alla solitudine.
L'unico vero amico di Josie è Rick, che vive in una casa non lontana, anche lui insieme a una madre bizzarra ed emarginata. Scopriremo più avanti che nel mondo di Rick e Josie i bambini vengono potenziati geneticamente nei primi anni di vita, ma non tutti i genitori accettano di farlo in quanto si tratta di un intervento non senza rischi. Rick non è stato potenziato e questo rende il suo futuro molto incerto e le sue possibilità più limitate, sebbene anche il futuro di Josie è messo a rischio dalla sua salute precaria.
È proprio in questo contesto così delicato che Klara gioca un ruolo fondamentale, che andrà ben al di là di quello che ci si aspetterebbe da una macchina, per quanto evoluta.
Non è giusto rivelare di più della trama di Klara e il Sole, che in parte si sviluppa come un thriller e dunque merita di non veder rovinata la sorpresa della scoperta.
Ma - al di là dell'intreccio e dei nodi della narrazione - quello che colpisce e conta di più è la sottesa riflessione su cosa ci differenzia dalle macchine e ci rende umani, su quanto in là si possa spingere l'intelligenza artificiale nel riprodurre le caratteristiche degli esseri umani e se rimarrà davvero qualcosa di non riproducibile. Senza dubbio l'essere umano ha una storica, se non innata propensione a considerarsi speciale e a collocarsi al centro dell'universo, in una posizione di netta superiorità rispetto agli altri esseri viventi. Vero è però che nel caso delle intelligenze artificiali parliamo di un prodotto realizzato dall'umanità stessa che, per la sua stessa ambizione, vuole spingersi sempre oltre fino al limite impensabile di riprodurre sé stessa.
Nel romanzo di Ishiguro si ha a tratti la sensazione che il personaggio più "umano" di tutti sia proprio Klara, che - pur nella sua ingenuità - sembra l'unica non concentrata su sé stessa e disposta al sacrificio personale per il bene di Josie.
Forse la domanda vera che lo scrittore inglese ci sta ponendo non è se i robot diventeranno veramente umani, ma se siamo noi umani che ci stiamo disumanizzando.
Voto: 3,5/5
Come è stato scritto da più parti, con il suo ultimo romanzo, Klara e il Sole, Kazuo Ishiguro torna alle atmosfere di Non lasciarmi che lo hanno portato alla ribalta internazionale.
Siamo sempre in un mondo che in buona parte è simile a quello in cui viviamo, ma che a poco a poco rivela delle caratteristiche che lo collocano temporalmente in un futuro più o meno prossimo che fa virare la narrazione nella direzione della distopia, pur senza darlo pienamente a vedere e senza esserlo totalmente. Personalmente ritengo che questa sia la vera forza della narrazione di Ishiguro, ossia la capacità di instillare un non meglio definito senso di inquietudine che convive con momenti di assoluta normalità e dolcezza e che non trova un pieno scioglimento narrativo. Perché Ishiguro non ama spiegare tutto, né raccontare tutto quello che è necessario per capire, bensì lascia alla intuizione e alla fantasia del lettore il compito di riempire i buchi informativi o di non riempirli se non ne sente la necessità.
In questa storia la protagonista è Klara, un modello piuttosto evoluto (anche se non il più recente realizzato) di AA (Amico Artificiale), che vive - insieme a un certo numero di suoi simili - in un negozio cittadino dove attende che un adolescente la scelga e la porti via con sé. Gli AA - che sono alimentati dall'energia del sole - non sono tutti uguali, e Klara in particolare si distingue dagli altri per una grande capacità di osservazione e una spiccata sensibilità, che la direttrice del negozio non manca mai di sottolineare quando entra un nuovo cliente.
A scegliere Klara sarà Josie, una ragazzina che vive con la madre e la domestica Melania in una grande casa nel verde e che ha una salute precaria e fragile, oltre a condividere con gli altri suoi coetanei una incapacità di instaurare relazioni e una tendenza alla solitudine.
L'unico vero amico di Josie è Rick, che vive in una casa non lontana, anche lui insieme a una madre bizzarra ed emarginata. Scopriremo più avanti che nel mondo di Rick e Josie i bambini vengono potenziati geneticamente nei primi anni di vita, ma non tutti i genitori accettano di farlo in quanto si tratta di un intervento non senza rischi. Rick non è stato potenziato e questo rende il suo futuro molto incerto e le sue possibilità più limitate, sebbene anche il futuro di Josie è messo a rischio dalla sua salute precaria.
È proprio in questo contesto così delicato che Klara gioca un ruolo fondamentale, che andrà ben al di là di quello che ci si aspetterebbe da una macchina, per quanto evoluta.
Non è giusto rivelare di più della trama di Klara e il Sole, che in parte si sviluppa come un thriller e dunque merita di non veder rovinata la sorpresa della scoperta.
Ma - al di là dell'intreccio e dei nodi della narrazione - quello che colpisce e conta di più è la sottesa riflessione su cosa ci differenzia dalle macchine e ci rende umani, su quanto in là si possa spingere l'intelligenza artificiale nel riprodurre le caratteristiche degli esseri umani e se rimarrà davvero qualcosa di non riproducibile. Senza dubbio l'essere umano ha una storica, se non innata propensione a considerarsi speciale e a collocarsi al centro dell'universo, in una posizione di netta superiorità rispetto agli altri esseri viventi. Vero è però che nel caso delle intelligenze artificiali parliamo di un prodotto realizzato dall'umanità stessa che, per la sua stessa ambizione, vuole spingersi sempre oltre fino al limite impensabile di riprodurre sé stessa.
Nel romanzo di Ishiguro si ha a tratti la sensazione che il personaggio più "umano" di tutti sia proprio Klara, che - pur nella sua ingenuità - sembra l'unica non concentrata su sé stessa e disposta al sacrificio personale per il bene di Josie.
Forse la domanda vera che lo scrittore inglese ci sta ponendo non è se i robot diventeranno veramente umani, ma se siamo noi umani che ci stiamo disumanizzando.
Voto: 3,5/5
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