venerdì 5 marzo 2021

Tempi eccitanti / Naoise Dolan

Tempi eccitanti / Naoise Dolan; trad. di Claudia Durastanti. Roma: Edizioni di Atlantide, 2020.

Partiamo da una considerazione: una persona che ha un nome scritto Naoise e che si pronuncia Nisha non può lamentarsi di come gli altri sbaglino a pronunciare il suo nome. E forse questa cosa da sola potrebbe spiegare buona parte dei suoi problemi! :-D

A parte gli scherzi, eccoci di fronte a una nuova, giovane promessa della letteratura contemporanea: la Dolan ha 28 anni e appartiene a quella nuova generazione di scrittori a cavallo dei trenta che negli ultimi tempi sta facendo molto parlare di sé, sia per la qualità delle cose che scrive sia per il modo in cui rappresenta la propria generazione.

Qualcuno preferisce l’autobiografia romanzata (Marieke Lucas Rijneveld) o il memoir poetico (Ocean Vuong), qualcun altro si ispira ai classici del passato e li rinnova (Tiffany McDaniel), qualcun altro ancora racconta storie di fiction ambientate nel presente e che raccontano il mondo dei propri coetanei (Sally Rooney).

Con Tempi eccitanti di Naoise Dolan siamo certamente dalle parti di Sally Rooney (tra l’altro sua conterranea e amica), ma sarebbe riduttivo – come è stato fatto ad ogni piè sospinto – parlare della Dolan come della nuova Sally Rooney. Prima di tutto perché la Rooney ha ancora tutta una carriera davanti, e in secondo luogo perché la Dolan ha una sua specifica personalità letteraria e umana.

Quello che è decisamente vero è che i protagonisti del libro della Dolan condividono la temperie emotiva che caratterizza i personaggi della Rooney e dei romanzi di altri scrittori che raccontano la generazione dei venti-trentenni.

In questo caso i protagonisti sono tre: Ava, la ventiduenne che è anche la voce narrante della storia, una ragazza di Dublino che si è trasferita a Hong Kong dove vive insegnando inglese ai bambini, Julian, che fa il banchiere ed è pieno di soldi, Edith, una ragazza di Hong Kong che fa l’avvocatessa e viene da una famiglia benestante.

Il romanzo si articola in tre capitoli. Il primo, intitolato Julian, racconta l’incontro di Ava con il ragazzo, l’inizio della loro storia, che sfugge però a qualunque tipo di classificazione, e il trasferimento di lei nell’asettico appartamento di lui, dove i due occupano stanze separate, tranne quando fanno sesso.

Julian è un giovane blasé, intelligente ma emotivamente molto distaccato, concentrato sul lavoro e sui soldi, e forse proprio per questo poco interessato a rapporti impegnativi e in cui si creino delle aspettative reciproche. Per Ava, che è andata via dall’Irlanda perché non si sentiva a suo agio ma anche a Hong Kong non si è pienamente integrata, Julian è l’occasione di un legame lasco, di quelli che non danno grandi ritorni ma nemmeno grandi delusioni. Ava non vuole soffrire ancora e vede in questo rapporto/non rapporto la situazione giusta per evitare un eccesso di implicazioni sentimentali; d’altra parte, l’atteggiamento di Julian aumenta le sue insicurezza e le crea inevitabilmente un senso di incompiutezza.

Quando Julian va a Londra per lavoro e ci rimane qualche mese, Ava conosce Edith (che dà il titolo al secondo capitolo), una giovane brillante e di classe sociale elevata, con cui comincia a uscire regolarmente. Ben presto l’amicizia si trasforma in qualcos’altro e Ava trova in Edith quella pienezza e al contempo quella complessità di sentimenti che un rapporto d’amore vero implica.

Né a Julian né a Edith la protagonista riesce a dire la verità che diventerà palese al rientro di Julian a Hong Kong. Si arriva così al terzo capitolo (intitolato appunto Julian e Edith), in cui Ava si trova ben presto di fronte alla necessità di una scelta.

Il romanzo è tutto virato sul registro cinico-ironico, a tratti per me non solo poco comprensibile, ma per niente divertente, come invece alcuni recensori hanno affermato. Personalmente di fronte a queste persone che hanno per la propria vita possibilità emotive ed esperienziali molto più ampie di quelle che caratterizzavano la mia generazione sono quasi infastidita per la loro intrinseca tendenza a sabotare sé stessi e la possibilità di una forma di felicità.

Come ho già avuto modo di dire in altre recensioni di libri che rappresentano questa generazione, sembra che i venti-trentenni da un lato subiscano sulla propria pelle gli effetti delle profonde disuguaglianze sociali ed economiche e di un mondo nel quale la ricerca di una qualche forma di sicurezza non va spesso di pari passo con la soddisfazione individuale, dall’altro si trovino ad avere a che fare con un mondo di possibilità emotive molto più ampie ma di fronte al quale sono spesso paralizzati o inabili. Alla fine la cifra dominante che li caratterizza - e che trasversalmente va a comporre le distanze e le differenze - è il cinismo, ironico sì, ma pur sempre cinismo. Un cinismo dietro il quale secondo me si celano fortissime fragilità e profondissime paure, e che quasi sempre si accompagna a forme di frustrazione più o meno irrisolte.

E tutto questo inevitabilmente mi produce una sensazione di disagio, una forma quasi di rabbia perché non rischiare di soffrire vuol dire non vivere.

Voto: 3,5/5

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