lunedì 31 ottobre 2022

Festa del cinema di Roma, 13-23 ottobre 2022 (Prima parte)

La festa del cinema di Roma è ormai un appuntamento fisso del mio ottobre romano. Quest'anno avevo grandi aspettative legate al cambio di direzione e mi ero tenuta libera per l'intera durata della festa. Poi all'uscita del programma devo dire che sono rimasta un pochino delusa. Ho dunque preso meno biglietti del solito e ho scelto di vedere quasi tutti i film nella cornice dell'Auditorium che almeno ha il fascino del red carpet.

Alla fine ho collezionato il misero bottino di sei film, e per fortuna almeno un film davvero bello l'ho visto.

Qui la seconda parte delle recensioni.  

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The lost king

L'ultimo film di Stephen Frears è ispirato alla incredibile storia vera di Philippa Langley (qui interpretata da Sally Hawkins), una donna inglese che, in un momento delicato della sua vita (si sta separando dal marito, non ha ottenuto una promozione promessa, ha una malattia parzialmente invalidante), si appassiona alla storia di Riccardo III, il re inglese accusato di essere un usurpatore e di aver ucciso i suoi nipoti.

Philippa sente un legame con questo re vissuto molti secoli prima e vede nella possibilità di riscattare la sua memoria la possibilità di riscattare sé stessa. Da storica dilettante ma appassionata, la donna raccoglie dati e convince il Comune di Leicester e l'Università a investire dei soldi sul suo progetto, salvo poi scontrarsi col fatto che l'università è ormai gestita come un'azienda e che è pronta a tirarsi indietro o a salire sul carro dei vincitori - anzi a intestarsi il merito - nel momento in cui la strada si rivela giusta.

L'ossessione di Philippa sarà certamente premiata sebbene la donna dovrà "accontentarsi" di un riconoscimento più sostanziale che formale.

Non conoscendo questa bizzarra storia e visti i suoi tratti davvero incredibili in senso letterale, sono andata avanti per tutto il film a chiedermi se fosse realmente vera o se Stephen Frears ci stesse facendo uno scherzetto, salvo poi realizzare al termine del film - quando il regista offre alcune informazioni su cosa è successo dopo - che la storia di Philippa è reale e in un certo senso Frears ha a sua volta riscattato questa donna dall'oscurità a cui le istituzioni avrebbero voluto relegarla.

Un racconto tenero, buffo, a tratti fantastico e surreale (come quando Philippa parla con il re in persona che vede solo lei), ma che fa riflettere sulla nostra società, sui mali del presente, ma anche su quelli che hanno radici antiche e ancora ci portiamo dietro.

Voto: 3,5/5



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Infinito. L'universo di Luigi Ghirri

Il secondo film che scelgo quest'anno - e anche l'unico documentario che vedo - è quello che Matteo Parisini (presente in sala insieme alla sorella e alle figlie di Luigi Ghirri) ha dedicato al grande fotografo emiliano, sua passione fin dall'adolescenza (come lui stesso ci dice). Considero la visione del film una specie di preparazione per la visita alla mostra dedicata al fotografo attualmente in corso a Modena, e che è una delle tante iniziative a lui dedicate in occasione di due importanti anniversari (30 anni dalla scomparsa quest'anno, e 70 anni dalla nascita il prossimo anno).

Il documentario racconta Ghirri come persona innanzitutto, attraverso i ritratti e le parole dei familiari, degli amici e dei colleghi, ma ovviamente anche come fotografo innovativo che ha profondamente trasformato il modo di guardare e di fotografare, e lo ha fatto senza viaggiare per il mondo, bensì muovendosi prevalentemente nella sua regione.

Da un punto di vista cinematografico sono due gli aspetti secondo me più interessanti (e in parte originali) di questo documentario rispetto ad altri già realizzati sul fotografo: la scelta di raccontare la sua storia e il suo essere fotografo attraverso le parole dei suoi libri e delle sue lezioni (recitate da un altro appassionato di Ghirri che è Stefano Accorsi) e la sonorizzazione delle fotografie che - pur essendo immagini fisse - vengono accompagnate da una ricostruzione dei suoni del contesto, suoni che tra l'altro si armonizzano con una colonna sonora complessiva del film che suggerisce un tono fiabesco come molte delle fotografie del maestro.

Per chi conosce già Ghirri forse il film non aggiunge molto di nuovo; per chi non lo conosce probabilmente non spiega abbastanza, però dal mio punto di vista per i primi si tratta comunque di una visione non solo gradevole ma a tratti anche commovente, per i secondi è certamente l'occasione di farsi venire delle curiosità da approfondire in un secondo momento.

Voto: 3,5/5



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Hourìa

Dopo il film Non conosci Papicha, la regista franco-algerina Mounia Meddour continua il suo percorso nel lungometraggio di fiction, affiancata anche questa volta da Lyna Khoudri, già meravigliosa protagonista del primo film e ora nei panni qui di Hourìa, una ragazza algerina che fa danza classica e sogna di fare il salto al professionismo. Hourìa non ha il padre (scopriremo più avanti perché), mentre la madre insegna danza e non ha un'automobile: per questo la ragazza la sera va ai combattimenti tra montoni per scommettere e raccogliere i soldi per comprarla. Dopo una vincita importante viene inseguita da un giovane delinquente che si sente truffato, e cade per le scale, rompendosi una caviglia. Si sveglierà dall'intervento avendo perso anche la parola per effetto dello shock. Da qui in poi la strada di Hourìa è tutta in salita: una storia di resilienza e di tenacia in un contesto profondamente difficile come quello algerino.

Ciò che mi colpisce dei film della Meddour è il coraggio che dimostrano nel gettare luce su un paese che non sta alla ribalta delle cronache, di cui sappiamo poco o niente, dove non sembra esserci una tensione sociale forte come in altri paesi nordafricani o del medio oriente, ma che in realtà la regista ci racconta nella sua realtà difficile, un luogo che si porta dietro l'eredità del terrorismo anni Novanta, dove la corruzione è fortissima, l'integralismo islamico è presente in maniera significativa, i sogni delle giovani generazioni sono difficili da realizzare, ma anche una vita quotidiana serena non è affatto scontata.

Da un punto di vista cinematografico avevo trovato il film precedente più riuscito e di maggiore impatto emotivo, però magari è soprattutto un'impressione personale dovuta al fatto che alla seconda esperienza ero più preparata.

Voto: 3/5



lunedì 24 ottobre 2022

Festival del cinema spagnolo e latinoamericano. Cinema Farnese, 6-12 ottobre 2022

L'appuntamento con il Festival del cinema spagnolo e latinoamericano è ormai diventato per me un grande classico dell'autunno cinematografico romano, pur essendo molto vicino alla Festa del cinema di Roma.

Devo dire che quest'anno, avendo sott'occhio entrambi i programmi contemporaneamente, non ho potuto fare a meno di pensare che il programma del festival spagnolo e latinoamericano - pur meno ricco (sebbene più ampio del passato grazie alla presenza della doppia sala al Farnese) - presentasse una selezione più appetibile.

Comunque, alla fine sono riuscita ad andare a vedere ben quattro film, usufruendo dell'ingresso scontato grazie alla nuova formula abbonamento. Ecco le mie impressioni.

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Una pelicula sobre parejas

A proposito di commistioni tra i due festival, se non ricordo male questo film era stato presentato alla Festa del cinema di Roma dello scorso anno e l'avevo già puntato, ma non ero riuscita a vederlo. E dunque questo festival mi dà una seconda opportunità.

Si tratta del documentario scritto, diretto e interpretato da Natalia Cabral e Oriol Estrada, due registi dominicani che ci propongono un metadocumentario con un taglio fortemente autoironico. 

Tutto inizia con la presentazione di un loro documentario in una sala quasi vuota e poi con la telefonata di un produttore che gli dice che qualcuno ha deciso di mettere dei soldi sul loro prossimo progetto. Peccato che questo progetto non esista! Inizia così per entrambi - che sono una coppia nella vita - una riflessione sul proprio lavoro e anche su sé stessi come coppia, e arriva così la decisione di girare un documentario sulle coppie che - oltre a condividere il privato - condividono anche l'attività lavorativa.

Ma l'occhio dei registi diventa a più riprese quello degli spettatori che curiosano nella vita privata, nei momenti di incertezza e nelle situazioni lavorative di Natalia e Oriol, sorridendo del fatto che loro sono i primi a prendere in giro sé stessi e questo assurdo lavoro che fanno.

Il film è a tratti godibile e strappa qualche risata, ma ci sono lunghe sequenze che non aiutano a tenere viva l'attenzione. Personalmente - sarà che ero anche piuttosto stanca - ho mollato l'attenzione a più riprese.

Voto: 3/5



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Modelo 77

Alberto Rodríguez è l'autore di quel "piccolo" film di culto che è La isla mínima, cosicché anche in Italia si aspettava con ansia il suo nuovo film, tra l'altro ancora una volta ambientato nel periodo della transizione democratica spagnola.

Questa volta siamo a Barcellona nel 1975, precisamente nel carcere di Model (struttura che è stata ora trasformata in un centro culturale, come lo stesso regista ci racconta). Qui arriva Manuel (Miguel Herrán), un ragazzo con un bel completo che ben presto dovrà fare i conti con il duro ambiente carcerario. Nel frattempo però, con la morte di Franco, nel paese si consuma la transizione democratica e molte cose cominciano a cambiare significativamente, mentre in prigione continua a vigere un clima fascista nel quale le guardie spadroneggiano e i carcerati non solo non hanno alcun diritto, ma vengono sottoposti a vessazioni e abusi di potere. Alcuni di loro, quelli più consapevoli e che in alcuni casi sono in carcere per reati non più previsti dal nuovo regime democratico, cominciano ad organizzarsi in un sindacato che riesce anche a realizzare una forma di coordinamento tra diverse carceri. A questi gruppi si unisce Manuel e successivamente anche il riottoso Pino (Javier Gutiérrez). Purtroppo però la battaglia con i metodi del dialogo e della pressione sulle istituzioni non porta da nessuna parte, e i carcerati dovranno cominciare a cercare altre strade.

Il film di Rodriguez è ben scritto, ben diretto e ben interpretato: una ricostruzione magistrale, sebbene con giuste licenze poetiche di carattere narrativo, che non solo è in grado di riportarci indietro nel tempo e di farci percepire il clima interno ed esterno alle carceri in quegli anni, ma ci spinge anche a riflettere sulla più generale situazione carceraria anche al di fuori dei confini della Spagna e anche nel presente. La visione è di forte impatto visivo ed emotivo, e non si può non uscirne piuttosto scossi.

Purtroppo non sono infrequenti, persino in paesi con democrazie solide e di lunghissima tradizione, episodi (chissà se realmente isolati) che evidenziano trattamenti inaccettabili di coloro che sono in carcere e il frequente rischio che le carceri si sottraggano alle regole democratiche e al rispetto dei diritti individuali.

Il racconto che Rodriguez - rispondendo alle domande del pubblico - ci fa della realizzazione del film e della ricostruzione storica che ne è alla base risulta affascinante quasi quanto il film stesso.

Un film che merita un grande successo.

Voto: 4,5/5



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Paula

Nella serata delle premiazioni dei film latinoamericani da parte dell'IILA (Organizzazione internazionale italo-latina americana) vedo il corto vincitore della sezione relativa, La última pieza - Ensayo 1 di Silvana Alarcón (una piccola storia di memoria e depressione realizzata a partire dai negativi di foto tagliati dal nonno della regista), e il film vincitore della sezione fiction, Paula di Florencia Wehbe. Entrambe le giovani registe sono presenti in sala e al termine della proiezione raccontano i loro film e rispondono alle domande del pubblico.

Come ci dice la Wehbe, Paula è un film in buona parte autobiografico, ispirato alla sé stessa adolescente, che a 15 anni faceva fatica ad accettare il proprio corpo sovrappeso e aveva preso la strada dei disordini alimentari. Il cuore del film è dunque nei tentativi di questa giovane donna di trovare il proprio posto nel mondo, nei rapporti con la famiglia, con le amiche, con il sesso maschile, e soprattutto volendo bene a sé stessa.

Nel film della regista argentina questa storia universale viene riportata a un presente nel quale gli smartphone sono onnipresenti, e in cui app e social rendono la gestione del proprio senso di inadeguatezza apparentemente più facile, ma in realtà molto più complessa e pericolosa.

Ne esce un ritratto sincero e compassionevole, che fa certamente riflettere sia su quell'età difficile e rischiosa che è l'adolescenza, sia - come ci dice la Wehbe - sui fortissimi condizionamenti sociali che operano soprattutto sulle donne e sui loro corpi, e che tanti danni producono fin dall'età dell'adolescenza.

Un buon film che spero possa trovare una distribuzione italiana.

Voto: 3,5/5



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Maixabel

Maixabel Lasa, moglie di Juan Mari Jáuregui, il politico socialista ucciso dall'ETA nel 2000, è un'attivista politica molto impegnata sul fronte della ricostruzione della convivenza civile dopo la fine del periodo della lotta armata dell'ETA nonché promotrice della giustizia riparativa finalizzata a creare una forma di dialogo tra vittime e attentatori.

Il film di Icíar Bollaín racconta appunto la storia di Maixabel, e soprattutto quella del modo in cui attraverso la giustizia riparativa ha potuto realizzarsi l'incontro tra lei e due dei componenti del commando che assassinò suo marito, Luis (Urko Olazabal) e Ibon (Luis Tosar), da tempo in carcere. Intorno a Maixabel la figlia Marìa, che sostiene la madre nella sua scelta seppure personalmente decida di non accedere a questa possibilità, e gli amici del PSOE che in molti casi non comprendono o mal tollerano l'azione di Maixabel.

La proiezione si svolge alla presenza della regista e della stessa Maixabel Lasa, donna forte e mite allo stesso tempo, profondamente consapevole, umile nel perseguire una strada che sa non essere necessariamente per tutti ma che considera una possibilità imprescindibile per creare un dialogo.

Come ci dice lei stessa (in riferimento alla domanda di uno spettatore riguardo ai rapporti tra il film e la vicenda narrata nel romanzo di Aramburu Patria), la sua storia e quanto raccontato nel film sono soltanto uno dei molteplici punti di vista da cui si può raccontare quella vera e propria guerra civile che ha attraversato i Paesi Baschi per circa 40 anni. Ciò che probabilmente accomuna tutti questi punti di vista è il dolore e la paura che hanno attraversato la comunità basca per tutti questi anni, creando fratture dentro le famiglie e le comunità. Per questo, secondo Maixabel l'unica strada possibile non può che essere quella del dialogo e della ricostruzione del tessuto sociale.

Le narrazioni che riguardano la vicenda del terrorismo basco e della sottostante ideologia indipendentista mi colpiscono sempre profondamente (mi era già capitato con Patria), forse per la percezione di quanti danni possano fare queste ideologie e la mia totale incapacità di comprenderne profondamente le radici. Così, fors'anche per il piano fortemente emotivo su cui è giocato il film della Bollaín, tutto il tempo della visione lo passo con un groppo in gola che spesso si scioglie in lacrime che mi rigano il viso o nel naso che cola.

Capisco dunque molto bene perché la regista abbia voluto inserire nel film la presenza frequente della pioggia e dell'acqua ancor prima che lei ci spieghi questa scelta richiamando una citazione da Il mercante di Venezia di Shakespeare che dice "Il carattere della compassione è di non essere costretta; essa scende come una dolce pioggia dal cielo ed è due volte benedetta; benedice colui che la concede e quegli su cui si spande".

Tante volte mi chiedo - senza trovare risposta - come mi collocherei io in una situazione del genere e di quanta compassione sarei realmente capace. Ma forse è la compassione quello di cui il nostro mondo ha oggi più bisogno.

L'elemento narrativo è potente, ma i 3 Goya vinti dal film stanno lì anche a testimoniare la qualità cinematografica di questo film.

Voto: 4/5


giovedì 20 ottobre 2022

Maigret

Sono andata a vedere questo film pur non essendo un'appassionata di Simenon e del personaggio di Maigret, perché ho pensato che valesse la pena non perdersi l'accoppiata Leconte-Depardieu. Ed effettivamente non mi sbagliavo.

Patrice Leconte è regista bravo e con un gran mestiere, e lo dimostra anche in un film di genere come questo, conferendogli un tono retrò piacevole senza essere stucchevole. Gérard Depardieu conferisce al suo Maigret non solo una fisicità pressoché perfetta, bensì anche quella malinconia frammista a un'ironia quasi involontaria che stanno a pennello a entrambi.

Il film è liberamente tratto dal romanzo Maigret e la giovane morta in cui una giovane ragazza della periferia arrivata a Parigi come altre sue coetanee per garantirsi un futuro trova invece la morte. Le indagini del commissario si concentrano ben presto su un'amica con cui la giovane aveva vissuto a lungo in un piccolo appartamento e che poi è andata via in vista del matrimonio con un facoltoso rampollo locale.

Com'è tipico dei gialli con protagonista Maigret, l'attenzione non è tanto sui dettagli narrativi e dunque sulla scoperta dell'assassino o degli assassini (che un po' si intuiscono fin dal principio), bensì sull'indagine psicologica e umana, quindi sui sentimenti che sotto traccia attraversano non solo i protagonisti della vicenda ma anche lo stesso commissario e i suoi collaboratori. E in questo la mano di Leconte si sente tutta, così come tutto passa attraverso il volto e le movenze di Depardieu.

Nel complesso un film che rifugge da qualunque pretenziosità, ma che riesce a far arrivare allo spettatore le varie sfaccettature di tre anime che ci appaiono molto in sintonia, quelle di Simenon, Leconte e Depardieu.

Voto: 3/5



martedì 18 ottobre 2022

Joshua Radin. Monk, 21 settembre 2022

Il Monk è un posto di Roma che amo molto. Mi piace la location, mi piacciono gli spazi esterni, il giardino, e soprattutto amo molto la sala dei concerti dal vivo dove ho visto molti concerti, alcuni bellissimi, altri meno belli, ma sempre in un'atmosfera piacevole e quindi con un esito emotivo molto positivo.

Così, appena è ripartita la stagione dei concerti dopo il Covid ho comprato un paio di biglietti di artisti che conoscevo e che non mi sarebbe dispiaciuto ascoltare dal vivo, soprattutto visto che la location era appunto questa. Uno dei due, quello dei Low Roar, è purtroppo saltato, mentre per fortuna Joshua Radin non ha mancato l'appuntamento, anche perché - come ci dice lui stesso appena salito sul palco - fare un concerto una sera durante le proprie vacanze è qualcosa di molto piacevole.

Io entro in sala, dopo aver cenato all'Osteria del Monk, quando sta già cantando la musicista che fa l'opening di Radin: si tratta di Vitto, una giovane italiana che canta prevalentemente in italiano, ma ci propone anche due canzoni in inglese, visto anche il pubblico piuttosto internazionale (ci sono moltissimi americani venuti al Monk per ascoltare Radin, che evidentemente è molto più conosciuto nel mondo anglofono, come lui stesso ammette più volte). Vitto fa un piccolo concerto di sola chitarra e voce, con semplicità e bravura, e devo dire che mentre sulle prime sono un po' perplessa via via finisco per apprezzare i suoi testi schietti, la sua voce, e il suo modo genuino di interpretare le canzoni e di stare sul palco. Brava.

Dopo una breve pausa - considerato che non ci sono grandi allestimenti del palco da fare - arriva Joshua Radin con il suo cappellone un po' da cowboy e il pubblico è già piuttosto in visibilio. Io sono in prima fila, e ho a sinistra due ragazzi americani che sanno le sue canzoni a memoria e si dimenano a ogni nota di inizio di una nuova esecuzione e a destra una coppia - sempre di americani - che a un certo punto del concerto fa anche una richiesta di dedica di una canzone.

Io mi sento quasi fuori posto, visto che di Joshua Radin avevo comprato tantissimi anni fa un CD e poi credo di aver preso un altro paio di suoi lavori, ma non sono certo una che sa le sue canzoni a memoria (del resto forse non posso dire questa cosa praticamente di nessun cantante). Lo trovo gradevole, ma mi sfiziava l'idea di ascoltarlo dal vivo.

Quello di Radin è un concerto semplice, fatto di parole scambiate con il pubblico e tante canzoni, alcuni eseguite addirittura unplugged, solo voce e chitarra senza amplificazioni. Lui è piuttosto timido, accenna più volte a quanto tempo ci ha messo nella vita a volersi bene e a stare bene: dà l'idea di una persona non pacificata, ma che con l'età in qualche modo ha trovato un suo modus vivendi.

Il concerto fila via liscio. Joshua non ha una scaletta: ci fa ascoltare qualche canzone nuova, addirittura una inedita, poi canta canzoni da album molto vecchi, qualcuna su richiesta del pubblico. E con l'auspicio che noi continuiamo la nostra serata chissà dove, ci saluta. Ovviamente il pubblico lo richiama a gran voce, e così Joshua torna per un'ultima canzone prima di congedarsi definitivamente.

Voto: 3,5/5

venerdì 14 ottobre 2022

Da Venezia a Roma: The Whale; Tàr; Saint Omer

Approfitto della tradizionale rassegna romana dedicata ai Grandi festival per andare a vedere un po' di anteprime dei film presentati a Venezia (anche se prima o poi dovrò togliermi questo desiderio di fare direttamente la maratona veneziana!). Qui un piccolo resoconto.

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The Whale


Il film di Aronofsky è tratto dalla pièce teatrale di Samuel D. Hunter, anche autore della sceneggiatura. Non a caso il film si sviluppa in un'assoluta unità di luogo (vediamo solo l'interno della casa del protagonista e qualche inquadratura esterna) e in una parziale unità di tempo (la narrazione occupa le ultime 3-4 giornate della vita del protagonista).

Charlie (Brendan Fraser) è un uomo fortemente obeso: ha una compulsione per il cibo (seguita al trauma della perdita del suo compagno) e vive recluso nella sua casa, guadagnando grazie a delle lezioni online di scrittura, durante le quali tiene la telecamera spenta. L'unica che lo va costantemente a visitare è Liz (Hong Chau), un'amica infermiera che scopriremo più avanti essere legata a Charlie da un motivo molto preciso. In questa vita ritirata, e tra l'altro nel momento in cui Charlie ha un attacco di cuore, entra Thomas (Ty Simpinks), un giovanissimo missionario di una delle tante chiese (per non dire sette) americane che si mette in testa di dover salvare l'anima di quest'uomo.

Mentre Liz comunica a Charlie che la situazione della sua salute è seria e che probabilmente gli mancano pochi giorni, Charlie ha l'occasione di recuperare il rapporto con la figlia Ellie (Sadie Sink) che non vede da quando si è separato da sua moglie per mettersi con un uomo.

La casa di Charlie diventa così un vero e proprio palco teatrale dove si consumano i suoi ultimi giorni nel tentativo di dare un senso alla propria esistenza.

Il titolo del film di Aronofsky fa riferimento alla balena protagonista del romanzo di Melville, in quanto Charlie è ossessionato da una tesina in cui se ne parla (scopriremo più avanti chi ha scritto questa tesina), ma ovviamente fa riferimento anche alle dimensioni e al corpo di Charlie, impedito persino nei movimenti più semplici. Il regista sembra focalizzare l'attenzione sul tema del senso di colpa e della redenzione - sebbene in un'ottica laica - e a questo affianca il tema della scrittura come strumento di espressione di sé e in qualche modo di cura, ma lo fa con un carico retorico così importante da rendere il film a tratti un po' indigeribile (termine non casuale).

Oltre al fatto che, a parte la splendida Hong Chau il cui personaggio di Liz ho trovato davvero sincero e sentito, tutti gli altri personaggi, compreso lo stesso Charlie, li ho vissuti come un po' estremi e sopra le righe. Ma magari sono io.

Certo è che le giovani spettatrici dietro di me verso la fine del film singhiozzavano rumorosamente, cosicché io mi sono sentita piuttosto senza cuore. Resto però dell'opinione che The whale è un film in cui Aronofsky non è (ancora una volta?) riuscito a non calcare eccessivamente la mano.

Voto: 3/5

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Tàr


Per un po' sono stata convinta che Tàr fosse un vero e proprio biopic, dedicato a una figura realmente esistente o esistita, salvo realizzare a un certo punto che la prima direttrice della Berliner Philarmoniker Lydia Tàr è un personaggio nato dalla fantasia di Todd Field, regista e sceneggiatore di questo film lungo e complesso, la cui unica e vera grande mattatrice è una straordinaria Cate Blanchett, non a caso vincitrice della Coppa Volpi a Venezia.

Il film racconta la parabola (invero la fase discendente della parabola) di Lydia Tàr, giunta ai vertici di un mondo estremamente competitivo e molto maschilista come quello dei direttori d’orchestra, vezzeggiata e ricercata ovunque, con una vita personale apparentemente soddisfacente (una compagna, che è anche il primo violino della sua orchestra, e una figlia con cui vive). Il film si apre con una lunga intervista in un teatro pieno di gente in cui un giornalista del New Yorker ripercorre tutta la sua carriera ed esalta la straordinarietà di questa donna. A fronte di questo ritratto luminoso, le successive due ore del film sono invece il tentativo di far emergere a poco a poco tutti i lati oscuri della donna, utilizzando una narrazione che si fa a tratti ambigua e misteriosa, anche grazie all’uso di alcuni tecnicismi di ambiente musicale con cui i più potrebbero non essere a proprio agio.

Nel film confluiscono e deflagrano due nuclei tematici importanti: da un lato il ruolo della donna e la fatica doppia che le è richiesta in un ambiente fortemente maschile, dall’altro le dinamiche di potere nella loro sostanziale indipendenza dal sesso di chi lo detiene. Lydia Tàr è vittima di una forma di delirio di onnipotenza (che più spesso siamo abituati a riconoscere in figure maschili) che la rende persino spudorata e da cui pensa di uscire indenne, ma che pagherà a caro prezzo.

Todd Field ci prepara a quello che ci aspetta proponendoci i titoli di coda (quelli sui quali tutti si alzano dai loro posti per uscire dal cinema) praticamente all’inizio del film e subito dopo ci stende con la lunghissima e statica intervista, cosicché il regista è il primo a esercitare una forma di potere cui lo spettatore non può sottrarsi, quasi a metterlo alla prova rispetto a quello che verrà.

Un film decisamente ambizioso, in cui Cate Blanchett è al contempo adorabile e detestabile, come solo lei sa fare. E del resto – come ha dichiarato il regista – il film è stato scritto pensando a lei come attrice sin dal principio e senza di lei non si sarebbe fatto.

Voto: 3,5/5



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Saint Omer


Arrivo al film di Alice Diop, vincitrice del Premio della giuria e di quello come miglior opera prima a Venezia, con grandi aspettative. Si tratta di un film di ambiente giudiziario, che però utilizza gli stilemi di questo genere come strumento e occasione per scavare nella psiche umana. 
Il film si sviluppa lungo due assi narrativi: uno è quello che vede protagonista Rama (Kayije Kagame), un’insegnante nera di letteratura francese che sta scrivendo un libro sul mito di Medea ed è ai primi mesi di gravidanza; l’altro è quello di Laurence Coly (Guslagie Malanga), una giovane donna di origine senegalese che è a processo in quanto infanticida, crimine del quale si è dichiarata colpevole pur non essendo del tutto consapevole dei motivi che l’hanno condotta a questo gesto. 
Rama segue il processo stando tra gli spettatori e, man mano che ascolta la storia di Laurence attraverso la sua testimonianza e quella delle altre persone che si succedono come testimoni, è profondamente scossa dai dettagli complessi e non scontati di questa vicenda e si rispecchia dolorosamente nella storia della donna. 
Nel film di Alice Diop – che ho trovato visivamente molto interessante, soprattutto nelle scene dell’aula di tribunale dove c’è una scelta di consonanza di colori tra le persone e l’ambiente che non può certo essere casuale – ci sono molti temi che si intrecciano: la questione femminile, il tema della maternità e il complesso rapporto madre/figlia, la questione razziale e la difficile integrazione della comunità senegalese, nonché le differenze culturali che mettono duramente alla prova la capacità di comprensione reciproca.
La regista sceglie di non spiegare tutto e di ammantare la vicenda narrata di un alone di mistero che non si scioglie nemmeno con l’arringa finale dell’avvocata che difende Laurence. Le motivazioni che hanno condotto la giovane donna ad ammazzare la figlia restano in parte oscure, probabilmente per lei stessa per prima, mentre in questo rispecchiamento Rama elabora la propria maternità e contestualmente rivaluta il rapporto con la propria madre, da cui si è sempre sentita distante e che ha fatto fatica a capire durante tutta la vita.

Un esordio interessante, quasi documentaristico, che resta però piuttosto statico, e dal mio personale punto di vista - forse troppo razionale - lascia aperte troppe domande.

Voto: 3/5



mercoledì 12 ottobre 2022

Grief & Beauty / NTGent; Milo Rau. Romaeuropa Festival, Teatro Argentina, 30 settembre 2022

Del teatro di Milo Rau avevo già fatto esperienza in passato, sempre nell'ambito del Romaeuropa Festival, con gli spettacoli Orestes in Mosul e La rivolta della dignità, e a suo tempo avevo molto amato il primo, mentre ero uscita profondamente perplessa dal secondo.

Arrivo dunque alla partecipazione a questo nuovo spettacolo da un lato preparata a un teatro in cui le storie si mescolano e si giustappongono in maniera non sempre intellegibile e in cui l'immagine ripresa si interseca o si sovrappone a quanto accade sul palco, dall'altro preoccupata di quello che mi attende.

Sul palco la scenografia ci mostra l'interno di una casa con le sue diverse stanze. Al di sopra una grande schermo che mostra il primo piano di una donna anziana sorridente ripresa da una telecamera e che di fatto ci guarda con benevolenza.

Scopriremo poi che la donna è Johanna, un'anziana che Milo Rau e il cast dello spettacolo hanno incontrato durante la preparazione di una serie di spettacoli dedicati alla vita privata: la donna ha scelto l'eutanasia a 85 anni, dopo lunghi anni di una malattia cronica, e ha accettato di farsi riprendere in alcuni momenti di questo percorso.

Sul palco quattro personaggi senza nome, interpretati da Arne de Tremerie, Anne Deyglat, Staf Smans, Princess Isatu Hassan Bangura, che non sembrano avere alcuna relazione tra di loro, ma si cedono la parola e si alternano, raccontando nella loro lingua (fiammingo, olandese, inglese) storie personali di dolore, e non solo.

Talvolta i loro racconti sono enfatizzati dall'accompagnamento musicale dal vivo di Clémence Clarisse ovvero dalla ripresa dei loro primi piani rilanciati sul grande schermo dalla telecamera presente sul palco.

Da questi racconti non veniamo a sapere poi molto di queste persone, al massimo intuiamo delle cose che vanno al di là delle loro parole, come nel caso del personaggio di Staf che è un malato terminale e forse anche lui ha intenzione di ricorrere all'eutanasia.

Lo spettacolo prosegue invero un po' piatto, fatta eccezione - a mio parere - per le immagini di Johanna quando era ancora viva. Non a caso il momento emotivamente più forte è la ripresa della morte di Johanna, le sue ultime parole, il suo volto che trascolora e l'intervento successivo di chi lo ricompone per le esequie. Anche in questo caso è difficile dire quale sia l'intento di Rau e non a caso ognuno può interpretare questa scelta secondo la propria sensibilità e punto di vista, però non c'è dubbio che si tratti di una scelta dirompente (di fronte alla quale la persona seduta davanti a me scoppia a piangere).

Personalmente vado a casa con quell'immagine negli occhi; per il resto non molto altro mi è rimasto attaccato addosso e credo che scivolerà presto sia sul piano emotivo che su quello razionale.

Qualcuno più informato di me spiega molto meglio lo spettacolo e ne interpreta i significati, però se per esserne conquistati bisogna conoscere troppe informazioni che non passano attraverso di esso ho la sensazione che si faccia un'operazione soprattutto di carattere intellettualistico.

Voto: 3/5

lunedì 10 ottobre 2022

Nostalgia

Metti una serata di inizio autunno, quando le giornate hanno già cominciato a farsi incerte e la temperatura - soprattutto di sera - comincia a essere piuttosto bassa. Al Floating Theatre, il cinema galleggiante all'aperto allestito quest'anno a Villa Ada (non lontano da casa mia), danno Nostalgia, presentato dal regista Mario Martone. Non voglio perderlo, e pur di non perderlo rinuncio anche a una cena da Enzo al 29, dove volevo andare da tempo. L'allestimento è molto bello: schermo nel laghetto di Villa Ada e platea fatta di sedie a sdraio dove il film si ascolta con apposite cuffie per non essere disturbati dai rumori esterni.

La chiacchierata iniziale con Mario Martone è interessante. Il regista ci racconta i retroscena della decisione di girare questo film, decisione seguita all'acquisto dei diritti del libro omonimo di Ermanno Rea da parte di Medusa e giunta a maturazione proprio con lo scoppio della pandemia, cosicché durante il primo lockdown lui e sua moglie Ippolita Di Majo, che è anche la sua sceneggiatrice, hanno portato a termine la prima stesura per il film. Martone ci dice poi che la scelta di Favino è stata addirittura precedente alla scrittura della sceneggiatura, essendo maturata già durante la lettura del libro, e che le riprese sono durate un tempo contenuto (solo 6 settimane). Insomma un film in cui tutto è filato liscio, e che ora in sala sta dando grandi soddisfazioni in termini di pubblico. È inoltre di pochi giorni fa la notizia che Nostalgia sarà il film che rappresenterà l'Italia agli Oscar.

Ma andiamo a vedere di cosa parla questo film. Il protagonista è Felice (un sempre più bravo Pierfrancesco Favino che qui parla anche l'arabo e il napoletano), originario del rione Sanità dove non torna da quando aveva 15 anni. Da adolescente Felice era molto amico di Oreste, allora piccolo delinquente che trascinava anche Felice nelle sue scorribande, ora piccolo boss locale di camorra. Dopo una scorribanda a suo tempo finita male, Felice era stato portato via dallo zio, prima in Libano, poi in Egitto dove ha vissuto per 40 anni, facendo fortuna e sposandosi. Quando torna a Napoli per rivedere la madre ormai anziana, Felice ritrova un mondo che sulle prime gli sembra completamente estraneo, lui che parla meglio l'arabo che l'italiano, che ha abbracciato la religione musulmana e che vive nei ricordi di un passato ormai lontano. Il protagonista è però sorpreso al contempo dall'immutabilità di questi luoghi ("nulla è cambiato", dice a sua moglie) e anche dalla somiglianza e vicinanza che percepisce tra la sua città di origine e quella dove ha vissuto per la maggior parte della sua vita.

Felice si muove attraverso i vicoli del rione Sanità con un misto di ingenuità e consapevolezza, attraverso il quale a poco a poco compie un percorso di riappropriazione della propria identità (anche linguistica) che passa soprattutto attraverso la conoscenza di don Luigi (la figura ispirata a don Antonio Loffredo), un parroco impegnato a creare comunità su un territorio difficile, e l'incontro voluto e cercato a tutti i costi con Oreste Spasiano (Tommaso Ragno), simbolo di una giovinezza ormai perduta e incarnazione di un destino difficile da cambiare.

Le viscere di Napoli chiameranno Felice e lo spingeranno a restare e persino a comprare una casa dove vivere con sua moglie, ma il passato tornerà a chiedere il conto.

Film asciutto, ben scritto, con una bella fotografia. Direi un film quasi classico di cui non stento a comprendere i motivi del successo.

Voto: 3,5/5



mercoledì 5 ottobre 2022

Il signore delle formiche

Il merito più grande di questo film è certamente quello di aver ritirato fuori dal cassetto una storia giudiziaria italiana che persino chi era adulto in quegli anni non ricorda o ricorda poco.

Si tratta della vicenda di Aldo Braibanti, un intellettuale - scrittore e poeta -, nonché partigiano, originario di Fiorenzuola D’Arda, omosessuale dichiarato che alla metà degli anni Sessanta venne portato a processo dalla famiglia di un ragazzo con l'accusa di plagio, nel tentativo di porre termine alla relazione tra i due. Non esistendo nel codice Rocco il reato di omosessualità, l'accusa fece ricorso a questo articolo in un clima di oscurantismo e bigottismo che portò alla condanna del Braibanti nel 1968 a nove anni di carcere, mentre il giovane iniziò un calvario tra cliniche e manicomi, tra elettroshock e altre folli terapie nel tentativo di "curarlo dal suo male".

Il titolo del film di Amelio nasce dal fatto che Braibanti era anche un appassionato mirmecologo e nella torre di Castell'Arquato - dove per alcuni anni organizzò laboratori di teatro e arte per i giovani - aveva anche delle teche in cui osservava e studiava le formiche.

Pur dichiarando di essere liberamente ispirato a fatti realmente accaduti, Il signore delle formiche è nella sostanza dei fatti abbastanza fedele agli eventi che caratterizzarono la vicenda Braibanti, sebbene la figura del giornalista dell'Unità interpretato da Elio Germano non corrisponda a un personaggio reale e serva ad Amelio soprattutto a muovere una critica aspra nei confronti del PCI e del suo giornale che secondo lui non presero chiaramente posizione in questa vicenda. In realtà, la lettura degli articoli dell'epoca (leggibili integralmente dall'archivio free online dell'Unità) sembrerebbe dire il contrario; certamente Amelio ha scelto, nella sua libertà di regista, di portare all'evidenza, ridimensionare o non ricordare affatto, a seconda dei casi, il ruolo di alcune personalità pubbliche e le loro prese di posizione durante il processo.

Al di là della correttezza storica nella ricostruzione della vicenda, che comunque probabilmente non ha del tutto senso ricercare in un'opera di finzione (altrimenti Amelio avrebbe fatto un documentario), per quanto mi riguarda la cosa che ho apprezzato di meno del film è il tono un po' troppo didascalico - a tratti quasi stucchevole - nella ricostruzione della vicenda, e una generalizzata percezione di modernità del contesto e soprattutto di alcuni personaggi.

Se Luigi Lo Cascio è sufficientemente dimesso - e a tratti anche antipatico - da rendere il suo personaggio tridimensionale e credibile, altri protagonisti e comprimari appaiono o un po' troppo monodimensionali fino al limite della macchietta (penso in particolare all'avvocato calabrese), oppure un po' decontestualizzati: penso al giornalista, pur interpretato da un Elio Germano sempre bravo, o alla giovane attivista (Sara Serraiocco) la cui evoluzione mi è sembrata un po' affrettata.

La scena finale è poi completamente implausibile, anche se giustamente la mia amica G. mi fa notare che probabilmente nelle intenzioni del regista si trattava di una scena onirica piuttosto che reale.

In conclusione, il film mi ha fatto venire tante curiosità (e questo è un suo merito), però cinematograficamente non mi ha convinto particolarmente.

Voto: 3/5




martedì 4 ottobre 2022

Nope

Dei black horror di Jordan Peele sento parlare bene fin dall'uscita del suo Scappa - Get out. Però io che sono un po' allergica agli horror me ne sono tenuta a distanza, forse sbagliando, visto che un approccio horror meno esibito e più sotterraneo come quello di M. Night Shyamalan mi è invece molto gradito.

Comunque, dopo aver ascoltato la recensione di Matteo Bordone mi convinco che è un film affrontabile per me, e dunque vado insieme a S. alla matinée al Cinema Lumière di Bologna (con tanto di colazione nella biblioteca con caffè e cornetti del forno Brisa compresa nel prezzo del biglietto).

Il titolo del film è certamente polisemantico: potrebbe trattarsi dell'acronimo NOPE (Not Of Planet Earth), così come dell'espressione colloquiale americana per rispondere negativamente a una domanda; qualcuno ipotizza - analizzando alcuni passaggi della sceneggiatura - che ci siano anche altre allusioni e altri livelli di lettura che io però devo ammettere di non aver colto.

Comunque, andando alla storia, Nope ha due piani narrativi parzialmente paralleli: uno principale e l'altro secondario. Quello secondario riguarda un episodio accaduto durante le riprese di una specie di sitcom televisiva di parecchi decenni prima, durante le quali la scimmia protagonista a causa dello scoppio di un palloncino in scena ha una reazione aggressiva ammazzando diversi degli attori sul set, un massacro da cui si salva un ragazzino di origine asiatica, che torna protagonista anche dell'asse narrativo principale. La storia primaria è quella di un ranch non lontano da Hollywood dove da molti decenni la famiglia Haywood alleva cavalli da utilizzare nelle produzioni cinematografiche. Dopo un episodio poco chiaro che porta alla morte del padre, OJ (Daniel Kaluuya) e sua sorella Emerald (Keke Palmer) si fanno carico della gestione dei cavalli, ma a causa di un episodio avvenuto su un set, si ritrovano in difficoltà economiche e cominciano a vendere i loro cavalli al vicino parco a tema western di proprietà di Jupe, l'ormai adulto ragazzino di origine asiatica che si era salvato dal massacro raccontato nell'altro filone narrativo.

In questo intreccio narrativo l'elemento fantascientifico e horror è rappresentato da un oggetto volante che compare nei cieli sopra la fattoria e che di tanto in tanto risucchia quello che trova sulla sua strada. Sarà OJ a riconoscere la natura animale di questa minaccia e ad affrontarlo con la strategia corretta, grazie alle sue competenze di addestratore e alla sua esperienza con i cavalli.

Nel film di Jordan Peele ci sono molti temi che si intrecciano: sicuramente al centro c'è il rapporto tra l'essere umano e il mondo animale (e forse più ampiamente con la natura), un rapporto ormai incrinato dal fatto che l'uomo è sempre più distante e incapace di comprendere, in quando interessato soltanto allo sfruttamento e a ribadire la sua superiorità. Non meno importante è la riflessione sul cinema e sul sogno cinematografico (basti dire che OJ ed Emerald pensano di risolvere i loro problemi economici filmando l'oggetto volante, così come il vecchio regista di Hollywood annoiato vuole compiere l'azione della vita facendo una ripresa impossibile dello stesso essere volante), ma anche questo sogno sembra ormai andato in frantumi in conseguenza della sua trasformazione manieristica in spettacolo e dell'alluvione di immagini e video da cui siamo sommersi. Lo stesso film di Peele è una strana creatura cinematografica a cavallo tra western, horror e fantascienza, ed è in fondo anche la "caricatura" (non necessariamente in senso negativo) di questi generi. C'è anche la rivendicazione del ruolo trascurato dei neri anche nella storia del cinema, tanto che gli Haywood dicono di essere discendenti del fantino protagonista della prima sequenza filmata della storia.

Insomma Peele non ci sta a fare un film che sia solo un "giocattolone".

Che poi in realtà è vero che Nope è fondamentalmente un giocattolone che intrattiene per oltre due ore, con invenzioni molto belle (penso all'uso rovesciato che si fa di elementi che normalmente sono festosi, bandierine, pupazzi gonfiabili ecc. e alla colonna sonora che gioca sul rallentamento di alcuni brani) ed inserti ironici non scontati, oltre che una storia avvincente. Però Peele è bravo e intelligente, e dunque anche il giocattolone diventa - almeno parzialmente - un interessante gioco intellettuale.

Voto: 3,5/5