venerdì 14 ottobre 2022

Da Venezia a Roma: The Whale; Tàr; Saint Omer

Approfitto della tradizionale rassegna romana dedicata ai Grandi festival per andare a vedere un po' di anteprime dei film presentati a Venezia (anche se prima o poi dovrò togliermi questo desiderio di fare direttamente la maratona veneziana!). Qui un piccolo resoconto.

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The Whale


Il film di Aronofsky è tratto dalla pièce teatrale di Samuel D. Hunter, anche autore della sceneggiatura. Non a caso il film si sviluppa in un'assoluta unità di luogo (vediamo solo l'interno della casa del protagonista e qualche inquadratura esterna) e in una parziale unità di tempo (la narrazione occupa le ultime 3-4 giornate della vita del protagonista).

Charlie (Brendan Fraser) è un uomo fortemente obeso: ha una compulsione per il cibo (seguita al trauma della perdita del suo compagno) e vive recluso nella sua casa, guadagnando grazie a delle lezioni online di scrittura, durante le quali tiene la telecamera spenta. L'unica che lo va costantemente a visitare è Liz (Hong Chau), un'amica infermiera che scopriremo più avanti essere legata a Charlie da un motivo molto preciso. In questa vita ritirata, e tra l'altro nel momento in cui Charlie ha un attacco di cuore, entra Thomas (Ty Simpinks), un giovanissimo missionario di una delle tante chiese (per non dire sette) americane che si mette in testa di dover salvare l'anima di quest'uomo.

Mentre Liz comunica a Charlie che la situazione della sua salute è seria e che probabilmente gli mancano pochi giorni, Charlie ha l'occasione di recuperare il rapporto con la figlia Ellie (Sadie Sink) che non vede da quando si è separato da sua moglie per mettersi con un uomo.

La casa di Charlie diventa così un vero e proprio palco teatrale dove si consumano i suoi ultimi giorni nel tentativo di dare un senso alla propria esistenza.

Il titolo del film di Aronofsky fa riferimento alla balena protagonista del romanzo di Melville, in quanto Charlie è ossessionato da una tesina in cui se ne parla (scopriremo più avanti chi ha scritto questa tesina), ma ovviamente fa riferimento anche alle dimensioni e al corpo di Charlie, impedito persino nei movimenti più semplici. Il regista sembra focalizzare l'attenzione sul tema del senso di colpa e della redenzione - sebbene in un'ottica laica - e a questo affianca il tema della scrittura come strumento di espressione di sé e in qualche modo di cura, ma lo fa con un carico retorico così importante da rendere il film a tratti un po' indigeribile (termine non casuale).

Oltre al fatto che, a parte la splendida Hong Chau il cui personaggio di Liz ho trovato davvero sincero e sentito, tutti gli altri personaggi, compreso lo stesso Charlie, li ho vissuti come un po' estremi e sopra le righe. Ma magari sono io.

Certo è che le giovani spettatrici dietro di me verso la fine del film singhiozzavano rumorosamente, cosicché io mi sono sentita piuttosto senza cuore. Resto però dell'opinione che The whale è un film in cui Aronofsky non è (ancora una volta?) riuscito a non calcare eccessivamente la mano.

Voto: 3/5

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Tàr


Per un po' sono stata convinta che Tàr fosse un vero e proprio biopic, dedicato a una figura realmente esistente o esistita, salvo realizzare a un certo punto che la prima direttrice della Berliner Philarmoniker Lydia Tàr è un personaggio nato dalla fantasia di Todd Field, regista e sceneggiatore di questo film lungo e complesso, la cui unica e vera grande mattatrice è una straordinaria Cate Blanchett, non a caso vincitrice della Coppa Volpi a Venezia.

Il film racconta la parabola (invero la fase discendente della parabola) di Lydia Tàr, giunta ai vertici di un mondo estremamente competitivo e molto maschilista come quello dei direttori d’orchestra, vezzeggiata e ricercata ovunque, con una vita personale apparentemente soddisfacente (una compagna, che è anche il primo violino della sua orchestra, e una figlia con cui vive). Il film si apre con una lunga intervista in un teatro pieno di gente in cui un giornalista del New Yorker ripercorre tutta la sua carriera ed esalta la straordinarietà di questa donna. A fronte di questo ritratto luminoso, le successive due ore del film sono invece il tentativo di far emergere a poco a poco tutti i lati oscuri della donna, utilizzando una narrazione che si fa a tratti ambigua e misteriosa, anche grazie all’uso di alcuni tecnicismi di ambiente musicale con cui i più potrebbero non essere a proprio agio.

Nel film confluiscono e deflagrano due nuclei tematici importanti: da un lato il ruolo della donna e la fatica doppia che le è richiesta in un ambiente fortemente maschile, dall’altro le dinamiche di potere nella loro sostanziale indipendenza dal sesso di chi lo detiene. Lydia Tàr è vittima di una forma di delirio di onnipotenza (che più spesso siamo abituati a riconoscere in figure maschili) che la rende persino spudorata e da cui pensa di uscire indenne, ma che pagherà a caro prezzo.

Todd Field ci prepara a quello che ci aspetta proponendoci i titoli di coda (quelli sui quali tutti si alzano dai loro posti per uscire dal cinema) praticamente all’inizio del film e subito dopo ci stende con la lunghissima e statica intervista, cosicché il regista è il primo a esercitare una forma di potere cui lo spettatore non può sottrarsi, quasi a metterlo alla prova rispetto a quello che verrà.

Un film decisamente ambizioso, in cui Cate Blanchett è al contempo adorabile e detestabile, come solo lei sa fare. E del resto – come ha dichiarato il regista – il film è stato scritto pensando a lei come attrice sin dal principio e senza di lei non si sarebbe fatto.

Voto: 3,5/5



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Saint Omer


Arrivo al film di Alice Diop, vincitrice del Premio della giuria e di quello come miglior opera prima a Venezia, con grandi aspettative. Si tratta di un film di ambiente giudiziario, che però utilizza gli stilemi di questo genere come strumento e occasione per scavare nella psiche umana. 
Il film si sviluppa lungo due assi narrativi: uno è quello che vede protagonista Rama (Kayije Kagame), un’insegnante nera di letteratura francese che sta scrivendo un libro sul mito di Medea ed è ai primi mesi di gravidanza; l’altro è quello di Laurence Coly (Guslagie Malanga), una giovane donna di origine senegalese che è a processo in quanto infanticida, crimine del quale si è dichiarata colpevole pur non essendo del tutto consapevole dei motivi che l’hanno condotta a questo gesto. 
Rama segue il processo stando tra gli spettatori e, man mano che ascolta la storia di Laurence attraverso la sua testimonianza e quella delle altre persone che si succedono come testimoni, è profondamente scossa dai dettagli complessi e non scontati di questa vicenda e si rispecchia dolorosamente nella storia della donna. 
Nel film di Alice Diop – che ho trovato visivamente molto interessante, soprattutto nelle scene dell’aula di tribunale dove c’è una scelta di consonanza di colori tra le persone e l’ambiente che non può certo essere casuale – ci sono molti temi che si intrecciano: la questione femminile, il tema della maternità e il complesso rapporto madre/figlia, la questione razziale e la difficile integrazione della comunità senegalese, nonché le differenze culturali che mettono duramente alla prova la capacità di comprensione reciproca.
La regista sceglie di non spiegare tutto e di ammantare la vicenda narrata di un alone di mistero che non si scioglie nemmeno con l’arringa finale dell’avvocata che difende Laurence. Le motivazioni che hanno condotto la giovane donna ad ammazzare la figlia restano in parte oscure, probabilmente per lei stessa per prima, mentre in questo rispecchiamento Rama elabora la propria maternità e contestualmente rivaluta il rapporto con la propria madre, da cui si è sempre sentita distante e che ha fatto fatica a capire durante tutta la vita.

Un esordio interessante, quasi documentaristico, che resta però piuttosto statico, e dal mio personale punto di vista - forse troppo razionale - lascia aperte troppe domande.

Voto: 3/5



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