venerdì 26 luglio 2024

Tutta intera / Espérance Hakuzwimana

Tutta intera / Espérance Hakuzwimana. Torino: Einaudi, 2022.

Ho scoperto e comprato questo libro dopo aver letto un lungo post su FB di Espérance Hakuzwimana in cui l'autrice annunciava la sospensione del suo tour di presentazione del romanzo in giro per l'Italia non solo per il costo economico non banale, ma anche e soprattutto per il costo emotivo del confronto con un mondo in cui il razzismo continua a essere onnipresente, anche quando è inconsapevole.

Del resto, è proprio di questo che la scrittrice ruandese, adottata da una famiglia italiana, parla in questo suo romanzo, che arriva dopo il saggio autobiografico E poi basta. Manifesto di una donna nera.

La protagonista di Tutta intera è Sara, una giovane donna che condivide con l'autrice la condizione di essere nera, ma cresciuta in una famiglia di bianchi, in una città (immaginaria) che si sviluppa a cavallo del fiume Sele, dove da un lato vivono gli "integrati", dall'altro - a Basilici - le famiglie di immigrati provenienti da ogni parte del mondo.

Sara è cresciuta in un mondo di bianchi, in una famiglia con un padre professore di liceo e una madre cuoca della mensa di un asilo, mentre suo zio gestisce le coltivazioni di pesche che sono l'oro rosa di questa terra e dove lavorano molte delle persone che provengono da Basilici.

Per la protagonista l'incontro-scontro tra i due mondi si verifica quando - grazie alla mediazione di don Paolo - va a tenere un corso facoltativo pomeridiano nella scuola di Basilici, dove viene a contatto con il variegato e non scontato mondo in cui vivono Taja, Charlie Dì, Giulio Arbour, Paul Bonafede e molti altri ragazzini che in parte assomigliano fisicamente a Sara, ma che da lei e dalla sua vita sono invece lontani anni luce.

Inizierà dunque così per Sara un percorso di decostruzione - che le farà mettere in discussione tutta la vita che ha vissuto fin lì - e poi di ricostruzione, alla ricerca di quelle parti di sé che fino a quel momento non aveva riconosciuto o messo a fuoco.

È come se improvvisamente Sara prendesse coscienza del razzismo più o meno strisciante nel quale ha sempre vissuto, nonostante l'amore dei suoi genitori, e si rendesse conto che non può più fare finta di niente, né puntare all'assimilazione integrale con i bianchi, perché la propria fisicità e le proprie origini richiedono una presa di posizione anche nei confronti delle persone che pure l'hanno cresciuta e amata, e soprattutto nei confronti della società tutta che discrimina quanti sono stati più sfortunati di lei, ma che dimostrano spesso di avere più risorse e più capacità di adattarsi alla realtà.

Ne viene fuori un quadro per niente pacificante e pacificato, in cui la strada da fare è ancora lunghissima perché il razzismo ci abita in modi profondi e sotterranei di cui talvolta nemmeno ci accorgiamo, ma che offendono e marcano le differenze.

È un po' la sensazione che ho provato leggendo Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie. Sicuramente il libro della Hakuzwimana è più semplice sia narrativamente che stilisticamente, ma conferma il potere straordinario dei libri nell'aiutarci a metterci nei panni di persone diverse da noi e a comprendere per quanto possibile il loro punto di vista.

Per me ultimamente leggere libri di scrittrici di origine africana è servito proprio a questo: provare a capire e soprattutto riconoscere che cose per noi scontate e inoffensive non lo sono se ci si mette da un punto di vista differente.

Voto: 3,5/5

mercoledì 24 luglio 2024

All we imagine as light

Il film della regista indiana Payal Kapadia ha vinto a Cannes il Grand Prix Speciale della Giuria, il premio più importante dopo la Palma d'oro, e ne ho letto benissimo qua e là. Non me lo sono dunque lasciata sfuggire in questa anteprima proposta nell'ambito della rassegna Da Cannes a Roma.

Semplificando molto si può dire che il film è una storia di emancipazione femminile all'interno di una società caratterizzata da grandi disparità e rigidità sociali.

Al centro della storia tre donne: Prabha (Kani Kusruti), infermiera in un ospedale di Mumbai, Anu (Divya Prabha), apprendista infermeria nello stesso ospedale nonché coinquilina di Prabha, e infine Parvaty (Chaya Khadd), la cuoca dell'ospedale.

In realtà nel film esiste una quarta protagonista, che non è una persona bensì la città di Mumbai, una città enorme e ad altissima densità (oltre 12.000.000 di abitanti per una densità di oltre 31.000 abitanti al Km2, numeri che fanno impallidire persino noi che viviamo il caos quotidiano romano), caratterizzata da tantissime contraddizioni e grandi differenze interne, in cui convivono modernità e arretratezza, e dove converge un numero impressionante di persone da tutte le parti dell'India per lavorare, producendo una dinamica quotidiana che appare quasi insostenibile.

Che la città sia una protagonista centrale della narrazione ce lo dicono le prime immagini del film che ci mostra le strade di Mumbai, immerse in una luce prevalentemente notturna e virata al blu, e ci fa ascoltare, senza mostrarci i volti dei parlanti, varie storie di persone che in questa città ci sono andati a vivere e hanno dovuto farci i conti.

È in questo caleidoscopio in cui si concentrano le speranze e le paure di moltissime persone, dove le provenienze, le religioni, i dialetti si mescolano al punto tale che la gente fa fatica a capirsi, che si muovono le tre protagoniste. 

Prabha è una donna con una grande etica del lavoro, un marito che ha sposato per un matrimonio combinato e che, subito dopo il matrimonio, è emigrato in Germania e ha un collega dottore nello stesso ospedale che mostra un debole per lei: in questa situazione la donna non si concede nessun cedimento né mostra alcuna emozione, sebbene evidentemente soffra perché il marito non si fa sentire da più di un anno, cosicché di fronte all'arrivo inaspettato di una cuociriso ultramoderna fabbricata in Germania va in crisi.

Anu è più giovane, quasi una sorella minore per Prabha, studia per diventare infermiera e nel frattempo ha una storia con un giovane ragazzo musulmano, storia impossibile per una ragazza indu, tanto più che nel frattempo la madre le manda sul cellulare le foto di possibili ragazzi con cui combinare il matrimonio.

Parvaty vive in un appartamento che a suo tempo era stato assegnato al marito che lavorava in una fabbrica là vicino e che ora la multinazionale edilizia vuole sfrattare, costringendola a tornare nel suo paese di origine, nella regione del Konkan, sul mare.

Sarà proprio con il viaggio nel paese di origine di Parvaty - che quest'ultima farà insieme a Prabha e ad Anu e durante la permanenza in questo piccolo villaggio così distante da ogni punto di vista, non solo geografico, dalla metropoli tentacolare - che ciascuna delle tre donne - anche grazie alla solidarietà reciproca - sceglierà di dare una svolta alla propria esistenza per costruire forse un futuro nuovo.

Non mi sento di dire che questo film possa piacere a tutti: è un film indiano, e si sente forte una specificità narrativa che in parte sentiamo distante, anche solo per il fatto che il progresso della storia avviene lentamente e nel mezzo si aprono altri squarci e filoni che funzionano talvolta per sommatoria e sovrapposizione, producendo un effetto di sovraccarico quasi metaforico della città di Mumbai. E non a caso lo scioglimento e in un certo senso la semplificazione narrativa arriverà nel mondo semplice del paesino sul mare di Parvaty.

C'è tanto della società e della cultura indiana nel film della Kapadia, e questa distanza a volte si sente fortissima (e costituisce anche un fattore di interesse straordinario, almeno per me), però incredibilmente e allo stesso tempo, fin dall'attacco del film - con le storie di coloro che da varie province dell'India sono andati a vivere e a lavorare a Mumbai - e fatta la tara delle differenze culturali e sociali, a me sembra quasi di riconoscere qualcosa di familiare, temi che vanno al di là dell'India e in cui ci si può rispecchiare, arrivando a comprendere queste donne nonostante siano - nel loro abbigliamento, nel loro modo di muoversi, di parlare e anche di pensare - lontanissime da noi.

Bellissimo il personaggio di Prabha, una donna che rappresenta quella generazione di donne indiane che viene da un'India passata e fa fatica ad affrancarsene, e dirompente il personaggio di Anu, che rappresenta invece una generazione che mette in discussione lo status quo e vuole affermare sé stessa ed essere libera di scegliere.

Se si ha la pazienza di lasciarsi trasportare dalle atmosfere di As we imagine as light, il film della Kapadia si trasformerà in un vero e proprio viaggio emotivo e conoscitivo.

Voto: 4/5


lunedì 22 luglio 2024

L'histoire de Souleymane

Quest'anno la rassegna Da Cannes a Roma, tradizionalmente organizzata dall'Anec Lazio tutte le estati, pare un po' sottotono. Il programma esce all'ultimissimo minuto, al punto che a malapena c'è il tempo di farsi un'idea di cosa andare a vedere, e in generale il numero dei film proposti e anche la selezione risultano un po' inferiori alle aspettative.

Per di più ho poche serate libere nella settimana di programmazione, e dunque alla fine decido di fare una minimaratona, vedendo di seguito i due film che maggiormente mi incuriosiscono.

Uno di questi film è L'histoire de Souleymane che definirò un po' semplicisticamente la risposta francese a Io capitano di Matteo Garrone. In questo caso il protagonista, Souleymane (il bravissimo Abou Sangaré, che ha vinto il premio per la migliore interpretazione maschile nella sezione Un certain regard, sezione nella quale il film ha vinto il premio della giuria), ha già fatto il suo viaggio dall'Africa (in questo caso dalla Guinea) fino all'Italia ed è arrivato in Francia, dove sbarca il lunario consegnando cibo, con un account subaffittato, in attesa che la sua domanda d'asilo venga accolta e dunque di avere i documenti per poter lavorare.

Il film inizia dalla fine (ma lo scopriremo di fatto solo dopo), ossia dal momento in cui il giovane è seduto in una sala d'attesa e viene chiamato in un ufficio. Da qui il regista Boris Lojkine ci riporta indietro di due giorni e attacca la sua telecamera addosso al protagonista, portando lo spettatore dentro la sua vita.

Scopriamo così che Souleymane deve sostenere l'intervista a seguito della quale verrà deciso se potrà ottenere l'asilo in Francia oppure no: come molti altri immigrati, il giovane si è rivolto a persone che a pagamento gli procurano dei documenti a sostegno di una storia che lui dovrà imparare a memoria e sostenere in maniera credibile durante l'intervista.

Per pagare l'uomo che gli procura storia e documentazione, il giovane si è comprato una bicicletta e, dietro pagamento di una percentuale, ha ottenuto l'account di un altro uomo per consegnare cibo a domicilio, in una corsa contro il tempo che deve fare i conti con la pericolosità delle strade, gli inconvenienti e la maleducazione dei gestori dei locali e dei clienti. Al termine del lavoro ogni giorno Souleymane deve correre a prendere l'ultimo autobus che lo porterà al centro di accoglienza dove dorme quasi tutte le notti, e - per assicurarsi un posto - ogni mattina deve alzarsi prestissimo per prenotare autobus e posto letto.

Nel frattempo, cogliamo alcune informazioni della sua vita personale: una madre in Guinea che ha problemi di malattia mentale, una fidanzata - sempre in Guinea - che ha ricevuto una proposta di matrimonio da un ingegnere. E tutto questo in una vita in cui la lotta per la sopravvivenza tra persone in condizioni simili alle sue e la sopraffazione sono la normalità. Souleymane arriverà alfine all'intervista con la sua camicia bianca e i suoi documenti, pronto a raccontare la sua storia.

L'histoire de Souleymane è un film che ti si appiccica addosso nei primi istanti e non ti molla più per tutta la sua durata, in un crescendo di ansia, di rabbia, di frustrazione, ma anche di empatia e affetto per il suo protagonista, che non penso possano lasciare indifferenti.

Torno dunque al parallelismo che avevo proposto inizialmente con il film di Garrone, che - come sa chi l'ha visto - terminava con l'arrivo quasi trionfale di Seydou in Italia, dopo inenarrabili sofferenze. In un certo senso, L'histoire de Souleymane è la risposta al commento con cui chiudevo la recensione: "della vita che lo aspetta e delle ulteriori e inevitabili sofferenze future non sappiamo nulla". Guardando Souleymane sappiamo cosa attende queste persone quando arrivano in quell'Europa che in alcuni casi - come in questo - nemmeno hanno scelto e che non era la loro destinazione.

Anche in questo caso - come in molti altri - si potrebbe parlare di un film necessario, ma devo dire che ormai io esco da queste visioni arrabbiata e frustrata, perché non solo mi sento impotente, ma mi trovo dalla parte del privilegio e dello sfruttamento. E, per quanto ognuno di noi prenda le sue personali contromisure per fare i conti con la sua coscienza, è inevitabile provare un senso di ingiustizia fortissimo nei confronti delle nostre società incapaci di far fronte a un problema globale e creato in qualche modo da noi stessi.

Voto: 3,5/5

mercoledì 17 luglio 2024

The Notwist. Monk, 16 giugno 2024

Un paio di anni fa, quando la pandemia stava allentando la sua presa, i Notwist erano venuti a Roma per un concerto, ma una febbre pochi giorni prima mi aveva impedito di andare ad ascoltarli dal vivo (cosa che tra l'altro avevo fatto con soddisfazione diverse volte in passato).

A questo giro, dunque, e tanto più che la sede prescelta era il mio amato Monk, non mi sono lasciata sfuggire l'occasione di tornare ad ascoltarli.

Quando entriamo in sala il palco (non certo enorme) è strapieno di strumenti musicali e altra strumentazione, che oscilla tra l'elettronica e il vintage, e del resto dai Notwist non ci si poteva aspettare di meno. 
Quando si presentano sul palco sono in formazione completissima, i due fratelli Archer, Markus (voce e chitarra) e Michael (basso), insieme a Cico Beck (sintetizzatori), Andi Haberl (una batteria esplosiva), Karl Ivar Refseth (vibrafono), Max Punktezahl (chitarra e tastiera), e quella che per me è una new entry, ossia Theresa Loibl (clarino, tastiera, e harmonium).

La sala del Monk si riempie completamente di gente, e la presenza di persone di età anche superiore alla mia è piuttosto significativa, anche perché i Notwist sono su piazza da parecchio e loro stessi (almeno il loro nucleo centrale) non sono più giovanissimi.

I Notwist sono musicisti che non si perdono in chiacchiere e hanno un aspetto quasi dimesso, ma dal vivo sono un'esperienza ogni volta nuova e inattesa. Il flusso musicale - com'è loro abitudine - è quasi continuo, praticamente senza interruzione e talvolta con raccordi tra una canzone e l'altra, e a questo giro il gruppo sembra aver deciso di volerci riportare alle atmosfere di una discoteca berlinese techno degli anni Novanta.

Pur con una setlist che attinge a molti loro lavori e dentro la quale ci sono alcuni dei loro grandi successi come One With the Freaks, Kong, Pick Up the Phone, Who We Used to Be, Into Another Tune, e poi nel bis anche il loro cavallo di battaglia, Consequence, gli arrangiamenti sono decisamente techno e sviluppano una potenza sonora pazzesca, nella quale la voce di Markus Archer quasi scompare, e invitano davvero a ballare e saltare come fa Max Punktezahl mentre suona sul palco.

Personalmente resto incantata dalla perizia (e anche nerdaggine) musicale di questo gruppo, che usa una straordinaria molteplicità di strumenti e di combinazioni strumentali, modernissime e vintage (come i remix che Markus fa con i vinili su un giradischi); devo però ammettere che la scelta musicale fatta dal gruppo non era perfettamente adatta a una sala chiusa e piccola come quella del Monk, dove funzionano meglio i concerti acustici o con un livello sonoro meno potente, e sarebbe stata perfetta in uno spazio aperto dove tra l'altro il folto pubblico presente avrebbe potuto stare meno appiccicato e avrebbe davvero potuto ballare insieme ai musicisti.

Voto: 3,5/5

lunedì 15 luglio 2024

Le buone maniere / Daniel Cuello

Le buone maniere / Daniel Cuello. Milano: Bao Publishing, 2022.

Seguo ormai Daniel Cuello da qualche anno: dopo aver letto Mercedes, mi sono appassionata al suo lavoro e ho letto anche il suo precedente romanzo grafico, Residenza Arcadia, e quello nato dalle sue strisce, Guardati dal beluga magico. Tra l’altro, seguendolo anche su Facebook, ho scoperto di avere in comune con lui una cosa importante: entrambi adoriamo i croissant e vivremmo solo di quelli, il che me lo ha reso ancora più vicino e simpatico! ;-)

Con Le buone maniere Cuello prosegue nella sua narrazione – già avviata con Residenza Arcadia e Mercedes – di un futuro distopico, nel quale – in un luogo e in un tempo imprecisati – governa una dittatura che tiene le persone sotto il proprio giogo.

Se in Residenza Arcadia Cuello raccontava degli abitanti, per lo più anziani, di un condominio e in Mercedes spostava l’attenzione su una donna di potere caduta in disgrazia, in Le buone maniere l’ambiente rappresentato è quello di un ufficio, il numero 84 (che certamente è un richiamo al 1984 di George Orwell), dove – andata in pensione la precedente direttrice – la responsabilità è passata nelle mani di Teo Salsola, un uomo mite, ma incolore, tormentato dai traumi dell’infanzia.

L’ufficio in questione si occupa di bonificare tutti i testi che circolano o che devono essere pubblicati, in modo che siano coerenti con l’ideologia della dittatura al potere e da eliminare la possibilità che si diffondano idee nuove e potenzialmente pericolose.

Nonostante la gravità del compito dell’ufficio, al suo interno il funzionamento non è molto dissimile da quello di qualunque altro ufficio pubblico, con le sue regole, la sua catena di comando, le stranezze dei singoli, le competizioni e i dispetti reciproci, le ambizioni individuali, i rapporti di potere, le raccomandazioni.

Il racconto – come è tipico dello stile di Cuello – ha un tono che oscilla costantemente tra il grottesco e il drammatico non solo sul piano narrativo, ma anche sul piano stilistico, dei colori e del disegno.

Come sempre nei romanzi grafici dell’autore italo-argentino, i personaggi, pur nel loro essere tratteggiati in maniera ironica e grottesca, sono sfaccettati e complessi, non propriamente cattivi ma con le loro meschinità, non propriamente buoni ma capaci di slanci e forme di coraggio. Anche i più abietti, senza essere giustificati, vengono in qualche modo analizzati nella loro complessità.

Alla fine, Le buone maniere è una riflessione ironica, ma non per questo meno seria, sui condizionamenti sociali e su come il non scegliere e non prendere posizione ci renda inevitabilmente complici delle azioni più abiette; in sostanza Cuello ci offre un’altra declinazione di quello che Hanna Arendt ha definito la “banalità del male”.

Ci vuole dunque coraggio per non essere parte di un ingranaggio perverso, e - prima ancora che affrontare i pericoli e i rischi esterni - bisogna essere capaci di affrontare le proprie paure.

Voto: 3,5/5

venerdì 12 luglio 2024

Gossip. Villa Ada, 22 giugno 2024

Un tempo il programma estivo dei concerti di Villa Ada era uno dei più interessanti dell'estate romana. Negli ultimi anni però la scaletta si è fatta sempre più ripetitiva e povera, e questo è un peccato se si considera che la location è tra le più belle che si possano desiderare per un concerto estivo all'aperto.

Quest'anno, all'interno di un programma che rimane piuttosto deludente, adocchiamo la presenza dei Gossip, la storica band di Beth Ditto, che aveva avuto uno straordinario successo nella seconda metà degli anni 2000, prima con l'album Standing in the way of control e poi con Music for men, nel quale era contenuto il singolo Heavy cross, vero e proprio tormentone di quegli anni.

Il gruppo si era fatto conoscere e apprezzare per il suo stile musicale, ma anche per il protagonismo di Beth Ditto, cantante dalla voce cristallina e inconfondibile, ma anche attivista sul tema dell'orientamento sessuale e di quella che oggi si chiamerebbe body positivity e di cui in qualche modo lei è stata una delle prime bandiere.

A un certo punto i Gossip sono scomparsi dalla scena musicale, e in molti pensavano che non vi avrebbero fatto più ritorno. E invece quest'anno con la pubblicazione dell'album Real power la band statunitense sorprende tutti e cerca di riprendersi il suo pubblico con un lungo tour in giro per il mondo.

La serata a villa Ada non è però di quelle più fortunate. Io e le mie amiche siamo convinte che il concerto non inizierà prima delle 21,30, com'è sempre stato per i concerti a villa Ada, e quindi andiamo a mangiare una pizza prima. Quando però arriviamo sembra che il concerto sia cominciato da un pezzo, anche perché era previsto l'opening di Wrongonyou di cui non vediamo traccia.

Comunque, pazienza, siamo lì e siamo intenzionate a goderci quello che resta del concerto. Peccato che quasi immediatamente capiamo che la Ditto non è in buone condizioni di salute, e che la voce le sta andando progressivamente via.

La sua band - in cui oltre agli storici componenti, Nathan "Brace Paine" Howdeshell e Hannah Blilie, c'è anche una tastierista e bassista altissima di cui non sono riuscita a capire il nome - la supporta in ogni modo, e anche il pubblico le viene in soccorso cantando e battendo le mani quando la vede in difficoltà.

Nel complesso il concerto riesce comunque a essere soddisfacente e divertente, e la Ditto non ci fa mancare i suoi siparietti: fa salire sul palco due ragazze che sono nel pubblico e che ci dicono che una delle due si sta per sposare e questo concerto è il suo addio al nubilato, cosicché la Ditto le chiede quale sia la canzone della sua storia d'amore e intona con il pubblico I will always love you di Whitney Houston. A più riprese si rivolge al pubblico parlando delle cose più varie, e approfittando per fumare e bere, cosa che certamente non aiuta la sua voce.

Il pubblico però non sembra soffrirne e, anzi, quando la band lascia il palco la richiama a gran voce per un bis atteso, che non può che concludersi con il tormentone Heavy cross sul quale balliamo tutti, prima di tornare alle nostre casette nel buio della notte romana.

Voto: 3/5

mercoledì 10 luglio 2024

AIR. Auditorium Parco della musica, 21 giugno 2024

Chi segue questo blog sa quanto poco volentieri io vada a sentire i concerti estivi alla cavea dell'Auditorium, perché le mie esperienze in questo senso non sono mai state particolarmente soddisfacenti.

In questo caso la mia decisione scaturisce fondamentalmente dalla proposta di un'amica pugliese: weekend romano per lei con concerto degli AIR che a lei piacciono molto, mentre io - pur conoscendoli - non li ho mai ascoltati granché. Da brava secchiona compro l'album Moon Safari, di cui proprio quest'anno cade il venticinquesimo anniversario e che infatti è il cuore del tour estivo del duo francese, formato da Nicolas Godin e Jean-Benoît Dunckel.

Ascolto un po' l'album, ma l'ascolto casalingo mi soddisfa poco, cosicché arrivo al concerto senza grandi aspettative, ma contenta in ogni caso della compagnia e della serata tra amiche.

Siamo in tribuna, con buoni posti, e la prima cosa che osservo è che la scelta degli AIR è molto diversa da quella di altri concerti visti alla cavea. Sul palco è infatti stata collocata una specie di scatola bianca rettangolare con il lato aperto verso il pubblico, dentro la quale sono posizionati tutti gli strumenti: la batteria e percussioni varie, le tastiere, i sintetizzatori, le chitarre.

Alle 21.15 sale sul palco il batterista - che in questo tour è Louis Delorme, molto bravo - poi a seguire arrivano i due componenti della band, e il concerto inizia.

I due ripropongono integralmente la scaletta dell'album, e alle prime esecuzioni penso che la serata sarà lunghissima, resistente come sono a tutta questa musica elettronica, in buona parte solo strumentale.

Man mano però che il concerto va avanti mi lascio trasportare in questo viaggio nello spazio: la scatola bianca in cui i musicisti si muovono, suonano e cantano, diventa una specie di enterprise che, grazie alle luci e alle proiezioni sulle pareti, sembra fluttuare nell'universo, attraversare pianeti reali e immaginari, esplorare le profondità dello spazio e forse anche della mente e dell'immaginazione umana.

Questa scatola non è però solo una trovata scenograficamente perfetta; essa funziona perfettamente anche come cassa di risonanza, consentendo alle musiche degli AIR di essere convogliate nella maniera giusta nella direzione del pubblico, e - secondo il mio non esperto parere - migliorando sensibilmente l'acustica della cavea.

Dopo l'esecuzione integrale dell'album Moon Safari gli AIR concedono anche il bis, con brani provenienti da altri album in un crescendo di empatia (se di empatia si può parlare in un concerto di questo tipo), che porterà all'ovazione finale del pubblico che in buona parte si alza in piedi per omaggiare questi schivi, ma eccezionali musicisti.

Voto: 3,5/5

lunedì 8 luglio 2024

Lahav Shani - Martha Argerich. Auditorium Parco della Musica, 15 giugno 2024

A distanza di quasi dieci anni dal concerto della Argerich che ero andata a vedere all'Auditorium nel 2015, dopo quello che mi aveva entusiasmata nel 2012, non mi lascio sfuggire l'occasione di tornare a sentire dal vivo questa straordinaria pianista che alla veneranda età di 83 anni continua a deliziarci con le sue esecuzioni musicali.

Il programma del concerto è interamente dedicato a Beethoven: la Argerich è protagonista della prima parte, dedicata al Concerto n. 2, uno dei cavalli di battaglia della pianista argentina, accompagnata in questo caso dall'orchestra dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia diretta per l'occasione dal giovane direttore d'orchestra e pianista israeliano Lahav Shani.

La Argerich - che già era nel programma del Santa Cecilia l'anno scorso, ma alla fine non era venuta per problemi di salute - viene accolta, prima ancora di iniziare a suonare, con grandissimo calore dal pubblico romano che certamente la aspettava da parecchio tempo; poi, quando comincia a muovere le mani sulla tastiera in quella sua maniera straordinaria (tanto più se si pensa all'età attuale della pianista), conquista definitivamente tutti, cosicché alla fine del concerto l'applauso è lunghissimo e inevitabilmente richiama la Argerich sul palco per l'esecuzione a quattro mani insieme a Lahav Shani di Ma mère l’Oye, Le jardin Féerique di Maurice Ravel (io ovviamente lì per lì non so assolutamente di cosa si tratti, e lo scopro solo dopo grazie al santo Google).

Alla fine di questa esecuzione, tre quarti del pubblico dell'Auditorium è in piedi per un omaggio dovuto a una musicista che ha fatto la storia del pianoforte. 

La seconda parte del concerto vede entrare l'orchestra al gran completo, nonché l'impressionante schieramento del coro dell'Accademia, cui si aggiungono i solisti, il soprano Chen Reiss, il mezzosoprano Okka von der Damerau, il tenore Siyabonga Maqungo e il basso Giorgi Manoshvili, per l'esecuzione della Sinfonia n. 9 di Beethoven.

Non sono ovviamente in grado di esprimere alcun tipo di valutazione o di giudizio sulla qualità dell'esecuzione (nemmeno di quella precedente ovviamente), ma nonostante la lunghezza e la stratificazione della sinfonia non avverto noia, anzi mi diverto a seguire gli interventi dei singoli strumenti nella complessa partitura e anche a osservare i musicisti concentrati nella loro esecuzione.

Come sa chi segue questo blog, non sono un'appassionata di musica classica, ma un concerto dal vivo ogni tanto è un'esperienza che trovo molto soddisfacente e a volte emozionante.

Voto: 4/5

venerdì 28 giugno 2024

Kinds of kindness

Ora che con Povere creature! (ma in realtà già con La favorita) Yorgos Lanthimos ha messo al sicuro il suo posto nell'empireo di Hollywood, conquistando il grande pubblico, il regista greco sembra volersi permettere sia di ritornare ad alcune atmosfere proprie dei suoi primi film (e a lavorare con il suo sceneggiatore Efthymis Filippou) sia di utilizzare alcuni di quei registri a scopo di divertissement, anche sfruttando la disponibilità dei grandi attori che ha a disposizione.

E così più o meno contemporaneamente a Povere creature! con lo stesso gruppo di attori (Emma Stone, la sua ormai dichiarata musa, Jesse Plemons, Willem Dafoe, Margaret Qualley, cui qui si aggiungono Hong Chau e Mamoudou Athie) mette in piedi questo film, Kinds of kindness, che in realtà è praticamente la somma di tre mediometraggi, e infatti il tutto dura quasi tre ore.

Matteo Bordone nel suo podcast che ascolto più o meno quotidianamente dice che i tre episodi non hanno un filo conduttore e che sono ciascuno finalizzato a stigmatizzare un fenomeno della vita contemporanea: il servilismo, la paranoia e il settarismo. Pur essendo vero che le tematiche sono quelle citate, personalmente ritengo che il filo conduttore ci sia e non sia soltanto il fantomatico personaggio di R.M.F. che compare in tutti gli episodi, una specie di McGuffin che attraversa il racconto, bensì sia dichiarato fin dai primissimi minuti, quando sui titoli di testa (a partire dalla sequenza di video delle case di produzione che di solito hanno proprie musiche) parte la canzone Sweet dreams degli Eurythmics in cui l'amatissima Annie Lennox a più riprese intona:

Everybody's looking for something
Some of them want to use you
Some of them want to get used by you
Some of them want to abuse you
Some of them want to be abused


Ebbene, secondo me questa strofa è la chiave interpretativa del film che ci mostra in fondo diverse storie di manipolazione e abuso, storie nelle quali - come sempre accade in queste derive patologiche - vittime e carnefici sono legati a doppio filo.

Gli attori che interpretano i vari personaggi nei tre episodi sono sempre gli stessi, e la loro prova attoriale è decisamente di grande livello, per la loro capacità trasformativa che li fa immedesimare in ruoli diversi e spesso opposti, senza che questo stoni agli occhi dello spettatore.

Nel primo episodio Jesse Plemons è lo schiavo di Willem Dafoe, con il quale intrattiene anche una relazione sentimentale. La sua vita ogni giorno viene letteralmente scritta dal padrone che prende tutte le decisioni e chiede al suo servo lo svolgimento di prove sempre più impegnative. Quando il padrone chiede allo schiavo di uccidere un uomo il rapporto va in crisi.

Nel secondo episodio Jesse Plemons è un poliziotto la cui moglie, Emma Stone, è dispersa in seguito a un naufragio. Quando viene ritrovata e torna a casa, il marito comincia a coltivare il dubbio che non sia realmente lei e la sottopone a "prove d'amore" sempre più crudeli ed estreme.

Nel terzo episodio Emma Stone è un'adepta di una setta a capo della quale ci sono Dafoe e Hong Chau, e insieme a Jesse Plemons, ha il compito di individuare una specie di messia donna capace di guarire e resuscitare i morti. L'incontro con il marito e la figlia che il personaggio della Stone ha abbandonato per unirsi alla setta innesca una serie di eventi non senza conseguenze.

Kinds of kindness è tutto fuorché un film gentile: la violenza unita a un'ironia macabra producono un mix a volte insostenibile per lo spettatore, ma devo dire che - abituata agli altri film realizzati da Lanthimos insieme a Filippou - la cosa non mi ha sorpreso più di tanto, anzi per certi versi non ho potuto fare a meno di pensare che Lanthimos è tornato a fare Lanthimos, non solo sul piano della narrazione ma anche delle scelte tecniche (abbandonando i fish eye e le pompose scenografie degli ultimi film, e tornando a uno stile più asciutto e minimal). Pur apprezzando il Lanthimos hollywodiano, ho salutato con favore questo ritorno alle origini, anche se - a pensarci a mente più fredda - è un ritorno solo parziale, com'è normale che sia quando si fa un viaggio in altri territori e inevitabilmente si torna cambiati.

Il vero limite di Kinds of kindness secondo me è la sua natura - nemmeno tanto celata - di divertissement registico, in cui in realtà il regista non ha cose particolarmente originali né particolarmente approfondite da comunicare allo spettatore. Anzi, per certi versi il regista si diverte quasi a spese dello spettatore, sottoposto a tre ore di sostanziale sofferenza dalla quale la risata che scatta inevitabile a più riprese non libera, anzi amplifica il disagio.

Voto: 3,5/5


mercoledì 26 giugno 2024

Eileen

Vado a vedere questo film attirata dal fatto che la sua sceneggiatura è l’adattamento del romanzo omonimo di Ottessa Moshfegh, a cui la stessa scrittrice ha partecipato. Non che io conosca bene la Moshfegh (ho letto solo Il mio anno di riposo e oblio che nemmeno mi era piaciuto particolarmente), però trovo che nel suo sguardo obliquo sull'esistenza ci sia qualcosa di affascinante e nello stesso tempo di inquietante.

Per cui l’idea di una declinazione noir di questo sguardo mi è sembrata particolarmente attraente.

Siamo negli anni Sessanta. La storia è quella di Eileen (la bravissima Thomasin McKenzie), una giovane donna che vive in un paesino del Massachussets, dove lavora come segretaria nel carcere minorile e vive con il padre, ex poliziotto e alcolista. La vita di Eileen è monotona e infelice, e tutto il suo desiderio di ribellione cova sotto una superficie incolore e anonima, ma nel privato della sua macchina (che perde monossido nell'abitacolo, ma che Eileen non fa riparare) e della sua camera. Eileen esprime tutta la sua frustrazione attraverso fantasie che non si trasformano mai in azione, se non attraverso masturbazione e caramelle succhiate ma non masticate.

Quando nel carcere dove lavora arriva Rebecca Saint John (la conturbante Anne Hathaway), psicologa elegante e assertiva, totalmente distante dal modello femminile remissivo che Eileen ha conosciuto fino a quel momento, Eileen ne è immediatamente conquistata, anche perché contro ogni pronostico Rebecca si interessa a lei e le due diventano amiche, se non qualcosa di più.

Man mano che Rebecca è coinvolta nel caso di Lee Polk – che ha ucciso a coltellate il padre – anche Eileen viene trascinata nel desiderio della dottoressa di far luce sul caso, anche attraverso metodi non convenzionali e totalmente fuori dalle regole deontologiche. Per Eileen sarà l'occasione per tirare fuori i desideri sopiti e dare una possibile svolta alla propria esistenza.

Quello di William Oldroyd è costruito come un noir classico, nel rispetto delle scelte narrative del romanzo della Moshfegh, e - oltre a scegliere una cifra stilistica e visiva assolutamente coerente con i suoi modelli (il buio che domina sovrano, gli squallidi interni delle case, i bar pieni di fumo, i percorsi in macchina in strade che attraversano boschi e campagne) – non tralascia alcuna delle tematiche tipiche del genere (la provincia noiosa e becera, l'assenza di prospettive, la violenza e gli abusi che la attraversano, il maschilismo dominante). A fronte di questa confezione e narrazione, Eileen riesce però al contempo a essere estremamente moderno, rovesciando alcuni topoi e mettendo al centro del racconto sì una femme fatale (il cui nome, Rebecca, è tutto un programma), ma ancora di più una giovane donna che, trascinata nel suo gioco e poi inevitabilmente tradita, coglie comunque l'occasione di questa potenziale discesa agli inferi per intraprendere – forse – un percorso di emancipazione e di liberazione dalla insostenibile cappa che la sovrasta e dalla prigione in cui è rinchiusa.

Non tutto nel film di Oldroyrd è perfettamente riuscito, e alcune cose non sono molto credibili – anche questo, forse, nella tradizione del miglior noir – ma il risultato di tensione e di oscura angoscia è perfettamente raggiunto, anche grazie all'inserimento di sequenze immaginarie che aggiungono turbamento a turbamento.

Voto: 3,5/5


lunedì 24 giugno 2024

Narciso. La fotografia allo specchio. Terme di Caracalla, 1 giugno 2024

Nella stessa location dove avevo visitato qualche tempo fa la mostra dedicata a Letizia Battaglia (di cui mi accorgo solo ora di non aver fatto alcun post), è attualmente in corso la mostra Narciso. La fotografia allo specchio, promossa dalla Soprintendenza Speciale di Roma, diretta da Daniela Porro, e organizzata da Electa con la cura di Nunzio Giustozzi.

Si tratta di una mostra che si sviluppa attraverso 78 fotografie di una quarantina di autori, da quelli notissimi come Robert Capa, Lisetta Carmi, Robert Doisneau, Frank Horvat, Inge Morath, Helmut Newton, Ferdinando Scianna, a quelli - almeno per me - un po' meno noti, come Simon Annand, Ilse Bing, Claude Cahun, Burt Glinn, Guido Harari, Richard Kalvar, Astrid Kirchner, Hiroji Kubota, Simone Martinetto, Duane Michals, Jeanloup Sieff e Wanda Wulz.

Il tema dello specchio è stato ispirato dalla realizzazione ad aprile, nello spazio delle terme, dello specchio d'acqua con i giochi e i riflessi (installazione che tornerà a settembre), e attraverso il percorso - articolato in tre sezioni - è esplorato in tutte le sue sfaccettature, secondo le linee di creatività dei fotografi in mostra. Dai doppi alle autorappresentazioni, dalle maschere alle deformazioni, dai molteplici io alle introspezioni.

Lo scenario nel quale la mostra è collocata è parte dello spettacolo, e chi non è mai stato alle terme di Caracalla può cogliere l'occasione della esposizione per conoscere meglio questo straordinario monumento e i bellissimi mosaici che ancora si possono ammirare nei suoi ambienti.

Il terzo e ultimo spazio in cui si sviluppa la mostra, la cosiddetta natatio, è sicuramente quello più suggestiva con gli espositori che offrono in visione fotografie su entrambi i lati e vanno a costituire un quasi labirinto all'interno del quale i visitatori si perdono e si inseguono. In questo caso tra gli espositori delle foto sono collocati anche alcuni specchi fronte-retro che permettono anche ai visitatori-fotografi di fare i loro esperimenti di doppi e rappresentazioni.

Chi non ha mai visitato le terme di Caracalla ha una "scusa" in più per andarci, combinando la visita alla mostra a quella del sito archeologico. Devo dire però che, per quanto mi riguarda, dopo aver visitato la mostra della Battaglia, con un allestimento simile e foto di grandissimo impatto, questa seconda esposizione mi è parsa più debole e ripetitiva. Non che non ci siano grandi fotografie, ma l'insieme risulta meno potente, e l'effetto "wow" dell'allestimento funziona meno nel momento in cui lo si è già sperimentato una volta.

Sono uscita dunque un po' delusa, ma pensando - anche grazie alla bellissima luce del tramonto - che la location è perfetta per sperimentare con le fotografie e può essere che io ci torni anche solo per questo.

Voto: 2,5/5

venerdì 21 giugno 2024

The National. Auditorium Parco della Musica, 3 giugno 2024

Quando ho saputo che il tour estivo dei National prevedeva una tappa romana mi sono immediatamente fiondata a comprare i biglietti, perché da tanto aspettavo la possibilità di ascoltarli dal vivo e di poter sentire cantare il loro leader Matt Berninger.

Certo, la location della cavea non mi rendeva particolarmente felice – per le note questioni dell’impossibilità di portare all’interno la mia macchina fotografica, un’acustica secondo me non ottimale e un clima complessivo che non mi entusiasma (vedi mia recensione sul concerto degli Smile).

Però mi sono turata il naso, ho speso i miei quasi 70 euro e ho preso degli ottimi posti nella tribuna centrale.

La serata del concerto è una bella serata di primavera inoltrata, in cui a un certo punto bisogna anche indossare la giacchetta per non sentire freddo.

I National arrivano sul palco con un ritardo non maggiore di 15 minuti, e cominciano subito a suonare sfoderando la potenza musicale del loro allestimento sul palco.

Matt Berninger affronta il palco con un atteggiamento quasi clownesco, che non so se gli appartiene, sinceramente io non me lo aspettavo. Non sta fermo un attimo, fa cadere continuamente l’asta del microfono, va a destra e a sinistra del palco trascinandosi dietro il filo del suo microfono, scende talvolta nella prima fila del parterre per recuperare cartelli o stabilire un contatto con il pubblico.

Ma tutto questo sarebbe anche secondario se non fosse che, nonostante la mia posizione molto centrale, io non riesco ad apprezzare appieno le esecuzioni musicali, né quelle degli strumenti che solo raramente riesco davvero a cogliere nel loro specifico contributo, né quella del cantato che pur avvalendosi della straordinaria voce di Matt Berninger non riesce ad emozionarmi e a tratti mi sembra quasi urlata.

La scelta della scaletta, fors’anche adeguata al contesto della cavea che certo non si presta a concerti a carattere intimistico, è quasi tutta virata sulla produzione musicalmente più dirompente e rock della band americana, e molto meno sui toni notturni e malinconici che io personalmente preferisco e che mi avevano fatto amare particolarmente il disco solista di Berninger.

Va detto che non sono una fan sfegatata dei National (come non lo sono di praticamente alcuna band o cantante) e dunque non sono tra quelli che possono unirsi a Berninger nei ritornelli e partecipare al maestoso singalong della canzone di chiusura del bis Vanderlyle Crybaby Geeks. E forse questo mi fa godere di meno di questo tipo di spettacoli. O forse semplicemente mi sono talmente abituata ai concerti in contesti più raccolti e di dimensioni più piccole, dove riesco ad apprezzare musicalmente anche cantanti e band che non conosco grazie alla possibilità di goderne musicalmente, che ormai con questo tipo di spettacolo non riesco a entrare in sintonia e non riesco davvero a emozionarmi.

Peccato, ma spero di ricordarmene la prossima volta che un cantante o una band che voglio ascoltare dal vivo dovessero scegliere la cavea dell’auditorium come location della loro puntata romana (quantomeno spero di ricordarmi di prendere i posti nel parterre che forse fanno sentire di più l'atmosfera vera del concerto).

Voto: 3/5

mercoledì 19 giugno 2024

Diari d'amore / regia di Nanni Moretti. Teatro Argentina, 31 maggio 2024

La prima regia teatrale di
Nanni Moretti è finalizzata al portare in scena due testi di Natalia Ginzburg, Dialogo e Fragole e panna, che costituiscono i due atti di questo spettacolo teatrale della durata di circa un'ora e mezzo, per il quale Moretti si affida ad attori di provata esperienza tra cui Valerio Binasco e Daria Deflorian.

Nel primo atto i protagonisti sono marito e moglie (Valerio Binasco e Alessia Giuliani). È mattino e i due sono ancora a letto, mentre è in arrivo la signora che aiuta in casa e la bambina dorme nell'altra stanza. La conversazione comincia come una normale conversazione all'interno di una coppia consolidata ma ormai stanca, con i momenti di confidenza, le piccole scaramucce, i momenti di sintonia, l'interesse e il disinteresse, la distanza emotiva che a volte si fa incolmabile. Via via diventa chiaro che lei ha qualcosa di importante da raccontare al marito, sebbene nel fluire della conversazione il momento non sembra mai quello giusto per una rivelazione destinata a mettere in discussione la vita di coppia, costringendo i due a interrogarsi sul futuro. Il tono non è mai strettamente drammatico: ci sono una leggerezza e un'ironia di fondo in questa conversazione, sebbene sotto la superficie si muovano sentimenti contraddittori, insicurezze, e la consapevolezza - tutto sommato condivisa dai due protagonisti - che l'amore è qualcosa che non si capisce mai fino in fondo e che ci sfugge quanto più ci sforziamo di afferrarlo. Un testo modernissimo che si fa fatica a pensare che sia stato scritto all'inizio degli anni Settanta (nato come pièce per la televisione).

Il secondo atto dello spettacolo, Fragole e panna (scritto dalla Ginzburg nel 1966), si svolge nel salotto di una casa borghese, nella campagna alle porte di Roma. Qui suona alla porta una giovane donna, Barbara (Arianna Pozzoli) che cerca il padrone di casa, Cesare (Valerio Binasco). La governante (Daria Deflorian) le dice che l'avvocato è all'estero; di lì a poco arriva però la padrona di casa, nonché moglie di Cesare, Flaminia (Alessia Giuliani), che di fronte alla storia della ragazza, amante di Cesare, scappata di casa perché picchiata dal marito, ha un atteggiamento apparentemente distaccato e cinico. Insieme alla sorella Letizia (Giorgia Senesi), arrivata a trovare Flaminia, finiranno per cercare una sistemazione per Barbara affinché non debba tornare a casa. Al rientro di Cesare, sarà evidente la crisi del rapporto tra marito e moglie, ormai separati in casa, ma in maniera emotivamente non pacifica, almeno per Flaminia, nonché la superficialità di Cesare che passa da un'amante all'altra e ostenta un'indifferenza quasi sprezzante verso Barbara, che l'ha conquistato con la sua giovinezza ma che non gli interessa più. Anche in questo caso, pur essendo le tematiche trattate anche piuttosto drammatiche, il testo ha momenti di alleggerimento - per esempio attraverso il personaggio della governante, magnificamente interpretata dalla Deflorian - e riesce a risultare molto realistico e credibile.

La messa in scena è semplice ma del tutto coerente, e in generale la regia è leggera ma assolutamente appropriata, e soprattutto consente di concentrarsi sulla incredibile modernità dei testi della Ginzburg, spiazzanti nella loro capacità di risuonare con le nostre vite e di muoversi con leggiadra profondità nei meandri delle relazioni umane, in particolare quelle di coppia.

Bello spettacolo, che raggiunge il suo risultato senza voler essere pirotecnico a tutti i costi, bensì valorizzando testi e attori, che sono poi l'essenza del teatro.

Voto: 3,5/5

lunedì 17 giugno 2024

Anatomia di un istante / Javier Cercas

Anatomia di un istante / Javier Cercas; trad. di Pino Cacucci. Milano: Guanda, 2010.
Dopo aver letto quasi ininterrottamente durante una domenica di pioggia, chiusa l'ultima pagina del volume (prima della corposa bibliografia finale) e con il colpo al cuore del riferimento al padre di Cercas, resto senza parole.

Il libro di Javier Cercas non è un romanzo: lui stesso ci spiega all'inizio del volume che l'idea iniziale era quella di scrivere un romanzo, ma - man mano che studiava gli eventi e il contesto del golpe spagnolo del 23 febbraio 1981 - si è reso conto che talvolta la realtà è molto più appassionante della finzione letteraria.

Cercas fa ruotare tutta la sua ricostruzione intorno alle immagini dell'emiciclo riprese dalle telecamere interne durante il colpo di stato: in particolare la sua attenzione si concentra sul fermo immagine che mostra il tenente Tejero con la pistola in pugno, il generale Mellado in piedi che tenta di affrontare i militari, e Adolfo Suárez seduto immobile al suo posto, mentre il resto dell'aula sembra vuoto in quanto gli altri deputati si sono nascosti dietro gli scranni. Intanto le pallottole fischiano tutto intorno.

Nelle oltre 400 pagine del volume, Cercas ci aiuta a conoscere tutti i protagonisti di questa vicenda, raccontandoci la storia politica e personale di ciascuno, a partire dal presidente del consiglio dimissionario Adolfo Suárez, per proseguire con il generale Manuel Gutièrrez Mellado, vicepresidente del Consiglio, con Santiago Carrillo, deputato e capo del partito comunista spagnolo da poco legalizzato, per arrivare infine ai protagonisti del golpe, il generale Alfonso Armada, il capitano generale Milans, uno dei capi dei servizi segreti José Luis Cortina, lo stesso tenente Tejero, nonché il re Juan Carlos, a capo di una monarchia non ancora totalmente consolidata.

Attraverso lo straordinario racconto di Cercas, conosciamo nel dettaglio i fatti che sono stati ricostruiti nel corso del tempo, ma anche tutti i punti oscuri di questa vicenda, sui quali l'autore prova a proporre una sua interpretazione o a indicare l'ipotesi secondo lui più probabile tra quelle via via emerse.

Ne esce certamente un grande affresco di un paese che fa i conti con il suo pesante passato dittatoriale e che faticosamente si converte alle gioie e ai dolori della democrazia, ma il racconto di Cercas è anche l'occasione per riflettere su temi di portata molto più ampia: il ruolo della politica e i meccanismi che la caratterizzano, nonché gli uomini che la agiscono.

Tra le pagine più belle quella in cui parla di lealtà e tradimento:

«Suárez, Gutiérrez Mellado e Carrillo [...] tradirono la lealtà nei confronti di un errore per costruire la lealtà a una scelta giusta; tradirono i loro seguaci per non tradire se stessi; tradirono il passato per non tradire il presente. A volte per essere fedeli al presente occorre tradire il passato. A volte il tradimento è più difficile della lealtà. A volte la lealtà è una forma di coraggio, ma in certi casi è una forma di codardia. A volte la lealtà è una forma di tradimento e il tradimento una forma di lealtà. Forse non sappiamo di preciso cosa sia la lealtà e cosa il tradimento. Possediamo un'etica della lealtà, ma non un'etica del tradimento. L'eroe della ritirata è un eroe del tradimento.»

Oggi che tanto si parla di storytelling e che ormai quest'ultimo si è degradato ad una versione becera e opportunistica della Narrazione con la N maiuscola, Cercas ci offre un eccezionale saggio di cosa significhi davvero fare storytelling, senza tradire la storia e i fatti, senza adulare il lettore o l'ascoltatore, bensì usando le proprie ricerche e le fonti per costruire un racconto che si legge tutto d'un fiato, sebbene si tratti di un racconto che non ci risparmia alcun tipo di complessità e a volte risulta persino ridondante. Non nascondo di aver avuto anche io dei momenti di stanchezza (intorno alla metà delle 400 pagine), ma poi Cercas mi ha sempre riacchiappato e trascinato nel suo entusiasmante viaggio nel tentativo di comprendere la storia recente del suo paese e alcuni meccanismi universali.

Un grande libro, che aiuta a capire meglio un paese che non è il nostro, ma che tanto ci dice anche della nostra realtà, e soprattutto a ragionare e a riflettere sul rapporto tra gli uomini e la storia.

Da leggere.

Voto: 4/5

giovedì 13 giugno 2024

Chien de la casse

L'opera prima di Jean-Baptiste Durand ha fatto il pienone delle nomination ai César, i cosiddetti Oscar francesi, per poi vincere i premi per la miglior opera prima e la migliore promessa maschile a uno dei protagonisti e vero mattatore della pellicola, Raphaël Quenard, che interpreta nel film Antoine Miralés.

Chien de la casse è ambientato a Le Pouget, un piccolo paesino del sud della Francia, e racconta la storia dell'amicizia tra Antoine, che tutti chiamano Miralés, e Damien (Anthony Bajon), che tutti chiamano Dog.

I due sono amici da molti anni, diversissimi e al contempo accomunati da un senso di insoddisfazione rispetto alle proprie vite. Miralés ha studiato da cuoco, ma passa il tempo a bighellonare per la città con il suo cane Balabar e il suo amico Dog, che sta aspettando la chiamata nell'esercito. Il primo ha una personalità esuberante, una parlantina inarrestabile e atteggiamenti molto contraddittori: da un lato si occupa della madre che soffre di depressione, va a trovare la vicina di casa anziana portandole dei biscotti, si ferma a chiacchierare col matto del paese, dall'altro non perde occasione per riprendere l'amico e dimostrare la sua predominanza nel rapporto e la sua superiorità. Il secondo è di pochissime parole, ha lo sguardo triste di chi non brilla in autostima, e subisce passivamente il ruolo predominante di Miralés.

Il loro è un rapporto di codipendenza, in cui amore e tossicità convivono, ma che in un certo senso è per entrambi l'unica difesa rispetto a un contesto sociale piccolo, asfissiante e senza prospettive. Miralés sembra soffrire dell'impossibilità di mettere a frutto i suoi talenti e la sua cultura, Dog vive uno stato di compressione emotiva e di paura da cui sembra non riuscire ad affrancarsi.

A scompigliare le carte di una routine insopportabile ma rassicurante arriva Elsa (Galatéa Bellugi), una ragazza proveniente dalla Bretagna che si trasferisce per un mese a casa della nonna.

Contro ogni aspettativa, Elsa inizia una storia con Dog, e - compresa la dinamica nella quale quest'ultimo è intrappolato - opera attivamente per affrancarlo da Miralés, determinando l'allontanamento tra i due ragazzi e la gelosia di Miralés, che non è chiaro se sia maggiormente rivolta a Elsa o a Dog.

Questa interruzione dei rapporti di forza consolidati innesca una serie di eventi che costringeranno i due ragazzi a interrogarsi su tutto quello che davano per scontato o che accettavano più o meno passivamente senza fare nulla per produrre una qualche forma di cambiamento.

Non è una "grande" storia quella raccontata da Durand, e probabilmente in essa c'è anche tanta parte di memoria autobiografica, però in questa storia piccola e in fondo molto personale ci sono tanti temi diversi, affrontati senza paura né sconti: la provincia e i suoi limitati orizzonti, l'amicizia maschile e i suoi stereotipi, i rapporti di codipendenza, un'originale tipologia di triangolo amoroso, la contraddittorietà individuale che ci riguarda tutti, soprattutto nella fase della gioventù. E molto altro.

Non un film che punta alla gradevolezza a tutti i costi, ma che secondo me coglie nel segno, soprattutto grazie alla complessità del personaggio di Miralés e alla interpretazione di Quenard, al punto che vorresti menarlo e abbracciarlo al contempo.

Voto: 3,5/5


martedì 11 giugno 2024

Bonnie Prince Billy. Unplugged in Monti, Monk, 22 maggio 2024

Sempre alla ricerca di bella musica da andare ad ascoltare dal vivo, il Monk si conferma ormai un punto di riferimento per la scena musicale romana dal vivo, almeno per quanto riguarda il tipo di musica che ascolto io. In questo caso ci hanno messo lo zampino anche i ragazzi di Unplugged in Monti che hanno catturato Bonnie Prince Billy (al secolo Will Oldham, attore, oltre che musicista) nel suo tour italiano.

Io ho incontrato la musica di Bonnie Prince Billy parecchio tempo fa, e non so bene neanche come e perché. Ho alcuni CD di lui da solista, ma anche Superwolf, quello realizzato insieme al sodale Matt Sweeney. Negli ultimi anni lo avevo seguito di meno, ma qualcosa via via avevo comprato, trovando sempre conferma delle sue qualità, sebbene non sempre entusiasmandomi.

L'ultimo suo lavoro Keeping secrets will destroy you l'ho preso e ascoltato con molto interesse, trascinata dalle ottime recensioni. E così non potevo perdere l'occasione di andare ad ascoltarlo dal vivo.

In questo tour il cantante di Louisville, Kentucky, si presenta in trio, accompagnato da due polistrumentisti molto bravi, Thomas Deakin che alterna clarinetto, tromba e chitarra elettrica, e Drew Miller che suona sax e flauto traverso. E devo dire che personalmente ho particolarmente apprezzato gli arrangiamenti e il tipo di atmosfera intima scelta per questi concerti.

I tre salgono sul palco e iniziano subito a cantare e suonare, ma scopriremo a poco a poco la simpatia e le capacità istrioniche di Bonnie, suggerite anche dal suo look, fatto dall'immancabile cappello da baseball con la bandiera della Sierra Leone, una camicia di jeans ricamata con dei fiorellini, l'eyeliner agli occhi e un fard con brillantini sulle guance (che caratterizza anche gli altri due musicisti), smalto celeste alle mani, calzini a quadri. Tutti e tre sono seduti sulle sedie per eseguire i loro brani, anche se Bonnie continuerà ad assumere posizioni diverse, e poi si alzerà in piedi in particolare per cantare la canzone L'ultima occasione di Mina.

Durante il concerto si alternano canzoni dell'ultimo album a suoi lavori più vecchi, nonché a cover di famose canzoni della tradizione country-folk, e tra una canzone e l'altra Will ci racconta aneddoti della sua vita, e ogni tanto si rivolge a sua figlia, una bambina dai capelli biondi che va avanti e indietro tra la zona davanti al palco e il dietro le quinte. Tra le numerose chiacchiere, Will ci racconta anche della sua amicizia con Steve Albini, morto qualche settimana fa, e a lui dedica la classica I see a darkness.

Al termine del concerto i tre quasi subito si esibiscono in un bis, ma quando escono dal palco e sembra che tutto sia finito tornano, chiamati a gran voce per un'ultima canzone, lasciandoci poi a una bella notte romana di primavera.

Voto: 3,5/5

domenica 9 giugno 2024

Look back / Tatsuki Fujimoto

Look back / Tatsuki Fujimoto; trad. di Luigi Boccasile. Bosco (PG): Star Comics, 2022.

Il manga di Tatsuki Fujimoto (che scopro che gli appassionati definiscono un oneshot perché è una storia unitaria e non seriale) racconta la storia di due ragazze, Fujino e Kyomoto, entrambe appassionate di disegno.

Innanzitutto, la scelta di questi due nomi che combinati formato il nome dell'autore (Fuji + moto = Fujimoto) tradisce o meglio suggerisce la matrice autobiografica di questo albo, che parla dell'ossessione per il disegno che anche l'autore ha sperimentato fin dall'infanzia e adolescenza.

Fujino e Kyomoto frequentano la stessa scuola: la prima ha un carattere socievole e determinato, ed è una otaku (ossia è ossessionata dai fumetti), la seconda invece è una hikikomori, una giovane che vive in isolamento nella sua casa per una timidezza patologica e una difficoltà ad affrontare il mondo esterno, ma anche lei è appassionata di disegno.

Entrambe le ragazze pubblicano dei fumetti sul giornalino della scuola, e quando Fujino scopre che Kyomoto è molto brava, scatta in lei una sorta di competizione che la spinge a migliorarsi e a diventare sempre più brava. Costretta ad andare a casa di Kyomoto per motivi scolastici, tra le due ragazze nascerà un'amicizia e una collaborazione professionale che le porterà a vincere dei premi e a pubblicare una serie a fumetti.

A un certo punto le loro strade si dividono, perché Kyomoto decide di frequentare l'Accademia di Belle Arti mentre Fujino prosegue la sua carriera da sola. Un evento drammatico cambierà il corso degli eventi, o meglio segnerà uno spartiacque temporale di fronte al quale l'autore di questo albo ci mostra o forse attribuisce all'animo scosso di Fujino una serie di finali alternativi, come in una sorta di sliding doors.

Ho dovuto rileggere due volte l'albo perché dopo una prima metà molto lineare ho fatto fatica a comprendere o quantomeno a spiegare razionalmente la parte finale, che sceglie di essere emotiva più che realistica.

Ho anche cercato in rete le recensioni dell'albo per farmi illuminare da qualcuno più intelligente di me o più abituato allo stile dei manga, ma ho trovato quasi solo recensioni di persone che facevano sfoggio di conoscenza del mondo dei manga ma senza aggiungere una virgola sull'effettivo senso del libro, ovvero recensioni entusiastiche senza motivazioni specifiche.

Questa cosa mi ha fatto un effetto strano e mi ha fatto pensare al moltiplicarsi delle recensioni tutte uguali, che sembrano scritte più per non restare fuori da un "giro" che perché si ha da dire qualcosa di interessante. Spero di non fare la stessa fine.

Comunque l'albo di Fujimoto è una lettura che incuriosisce ma che personalmente non mi ha lasciato molto.

Voto: 3/5

venerdì 7 giugno 2024

Festival del cinema spagnolo e latinoamericano, 15-19 maggio 2024

E anche quest'anno un breve passaggio al Festival del cinema spagnolo e latinoamericanoFestival del cinema spagnolo e latinoamericano lo faccio, nonostante cada in un periodo per me molto intenso in termini di lavoro e spostamenti vari.

Non posso dunque fare valutazioni sul festival nel suo complesso - anche se gli organizzatori parlano di una delle edizioni più ricche di sempre - ma certamente mi confermo nell'idea che il cinema spagnolo e latinoamericano meriti attenzione, in quanto riesce a sfornare abbastanza regolarmente film importanti e originali sia sul piano tecnico che su quello dei contenuti.

Appuntamento dunque al prossimo anno.

***********************
Voy a pasarmelo bien

Il film di apertura del festival - alla presenza del regista David Serrano e della sua co-sceneggiatrice nonché sua moglie Luz Cipriota - è Voy a pasarmelo bien, titolo che richiama l'omonima canzone degli Hombres G, un gruppo rock spagnolo costituitosi nei primi anni Ottanta e che - mentre è per noi praticamente sconosciuto - in patria ebbe uno straordinario successo fino agli inizi del decennio successivo.

Ci spiega il regista che il film doveva essere un biopic degli Hombres G, ma che - poiché nel momento in cui si cominciò a lavorare allo stesso erano in uscita e realizzazione moltissimi biopic di area musicale - a lui venne l'idea di parlare del gruppo indirettamente attraverso una storia molto più personale, ossia raccontando il suo sé tredicenne che era pazzo del gruppo e che, proprio sulla comune passione per lo stesso, si innamorò per la prima volta di una ragazzina della sua età.

Sempre nell'introduzione al film si pone anche l'accento sul fatto che il regista ne ha voluto fare un vero e proprio musical, dal momento che la narrazione è più volte interrotta da sequenze ballate e cantate, in cui ovviamente la fa da padrone il repertorio degli Hombres G.

Siamo a Valladolid nel 1989: pur non essendo la città del regista, Valladolid è stata scelta per le sue caratteristiche e dimensioni, e perché probabilmente si tratta di una città alla ricerca di visibilità e che si propone in Spagna come patria del cinema, ospitando il SEMINCI, la settimana internazionale del cinema, che ha anche una parte importante nel film.

La storia di Voy a pasarmelo bien si svolge su due assi temporali: il 1989, anno in cui il protagonista David e i suoi amici (i cosiddetti "monelli") sono alle prese con i bulli della scuola e soprattutto con l'arrivo in classe di una nuova alunna, Layla, di cui David si innamora e con cui condivide la passione per gli Hombres G, e il presente in cui David (Raul Arèvalo) e gli amici Paco, Luis e Fernando sono ormai adulti, vivono a Valladolid e hanno preso strade diverse, ma devono fare i conti con il ritorno di Layla (Karla Souza) che è ormai una regista famosa e sta per ricevere un premio al SEMINCI.

Passato e presente si incrociano e si rincorrono, e i nodi non sciolti ritornano al pettine, ma forse sono destinati a restare tali. Nel frattempo tante bellissime coreografie, una storia molto divertente, una sceneggiatura leggera ma intelligente, degli interpreti bambini bravissimi, e la possibilità per gli spettatori (anche quelli come noi che gli Hombres G non li hanno mai sentiti nominare) di ritornare con la memoria agli anni della nostra infanzia e adolescenza anni Ottanta, e a tutte le assurdità e le follie che caratterizzano quell'età e che erano rafforzate dalle specificità di quell'epoca.

Insomma un gran divertimento che mai avrei pensato per un film che sulla carta temevo non essere minimamente nelle mie corde.

Voto: 3,5/5



***********************
La mesita del comedor

Il secondo e ultimo film della mia breve presenza al festival del cinema spagnolo e latinoamericano l'ho scelto perché è l'unico compatibile con i miei orari di lavoro. Avevo quasi pensato di lasciar perdere dopo che avevo letto che si trattava di un horror, ma la notizia dei numerosi premi vinti dal film mi ha convinta.

In sala c'è Caye Casas, il regista del film, e alla fine della proiezione - con il suo approccio da buontempone - ci racconterà che il film è stato realizzato con un budget minimale in 17 giorni, 7 di prove e 10 di girato. A chi gli chiede se è stato ispirato da quel filone del cinema spagnolo che si muove tra grottesco e humour nero risponde che sicuramente c'entra anche quello, ma più ancora c'è un elemento proprio della cultura spagnola e anche della sua cultura familiare. E ci racconta qualche aneddoto relativo a sua nonna quasi centenaria.

La categorizzazione del film come horror si rivela dunque del tutto insufficiente e inadeguata a descrivere questo film, che al massimo possiamo definire un film sull'horror del quotidiano.

La mesita del comedor (che uscirà in Italia con il titolo Il tavolino di vetro) inizia con una scena grottesca - esilarante e drammatica al contempo - che si svolge in un negozio di mobili, dove una coppia con un bambino piccolo sta decidendo se comprare un tavolino di design per il salotto. La moglie è fortemente contraria e oppositiva, mentre lui è favorevole all'acquisto. Alla fine la contrattazione si trasformerà in una resa dei conti di coppia, ma il tavolino sarà alla fine acquistato. Una volta portato a casa per il montaggio, il tavolino sarà protagonista dell'evento intorno al quale ruota tutto il film e che farà crescere minuto dopo minuto la tensione sullo schermo e negli spettatori fino al tragico scioglimento finale.

Qualcuno nel pubblico parla di un'ispirazione hitchcockiana, in particolare del film Nodo alla gola, dal momento che in entrambi i film esiste una specie di complicità tra il protagonista e gli spettatori, gli unici a conoscere la verità fino al disvelamento che arriva al termine.

A più riprese, durante la visione, si ha la netta percezione che il film sia stato girato con pochi mezzi e diverse scene fanno quasi pensare a un girato amatoriale. Nonostante questo, va dato merito al regista di aver saputo utilizzare sapientemente tutti gli strumenti a sua disposizione e di aver fatto delle scelte tali da minimizzare i limiti tecnici e da non impattare sul crescendo di tensione.

Insomma una scommessa vinta, grazie alla creatività del regista e alla bravura degli attori, che risultano credibili in ogni situazione e momento.

Voto: 4/5