mercoledì 24 aprile 2024

Come dividere una pesca / Noor Naga

Come dividere una pesca / Noor Naga; trad. di Francesca Pe'. Milano: Feltrinelli, 2023.

Protagonisti di questo romanzo di Noor Naga sono una ragazza e un ragazzo senza nome. Lei è di origine egiziana ma è cresciuta in America dopo che i genitori si sono trasferiti lì, lui viene da un piccolo e poverissimo villaggio che ha abbandonato per spostarsi al Cairo dove ha partecipato alle manifestazioni che hanno portato alla caduta di Mubarak.

Lei decide di trascorrere un periodo al Cairo perché vuole entrare in contatto con il suo paese d'origine, nonostante il parere contrario della madre, e ci arriva da privilegiata, con un lavoro, una bella casa a disposizione e ampie possibilità economiche. Nel frequentare il Riche Cafe conosce il ragazzo di Shubra Khit, e da qui inizia una relazione tra i due. Si tratterà di un incontro tra due mondi apparentemente vicini, ma in realtà lontanissimi e inevitabilmente destinati a entrare in collisione.

Il libro di Noor Naga è articolato in tre parti. Nella prima ogni capitolo inizia con una domanda più o meno bizzarra, cui segue il relativo punto di vista dei due protagonisti, che si alternano capitolo dopo capitolo. Nella seconda parte la storia continua senza domande, ma sempre attraverso l'alternarsi del racconto di lei e di lui, dopo che le loro strade si sono separate. L'ultima parte racconta un laboratorio di scrittura in cui un insegnante e un gruppo di persone stanno commentando il romanzo di Noor, in particolare discutono della sua terza parte, e dunque di quanto accaduto dopo gli ultimi eventi descritti nella seconda parte, e si conclude con la notizia che il romanzo verrà pubblicato.

Sul piano della struttura narrativa, come si vede, si tratta di un romanzo molto originale che spariglia un po' le carte della narrazione e, in particolare nell'ultima sezione, svela la finzione, facendosi meta-narrativo, e portando direttamente nel romanzo alcune possibili obiezioni del lettore. E già questo lo rende piuttosto interessante.

A me personalmente ha però intrigato particolarmente lo sguardo all'interno della cultura e della società egiziane, soprattutto in relazione al rapporto con il mondo femminile. Il fatto che la protagonista sia una egiziana (e non una straniera), ma una egiziana di cultura occidentale, rende questo sguardo estremamente sfaccettato e complesso, pieno di contraddizioni, e costringe il lettore a riflettere sul tema delle distanze culturali, sulle moltissime forme ancora esistenti di colonialismo, sulle disparità interne alla stessa società egiziana, sulla profonda delusione di un popolo rispetto al sogno di riscattarsi, e su molto altro che il nostro punto di vista occidentale non solo ci rende difficile comprendere ma talvolta persino riconoscere.

Una lettura non facile e a tratti persino respingente, per la violenza psicologica strisciante che la attraversa, ma estremamente stimolante.

Voto: 3,5/5

lunedì 22 aprile 2024

Rendez-vous festival del nuovo cinema francese, 3-7 aprile 2024

E anche quest'anno come da tradizione non poteva mancare una piccola maratona di cinema francese grazie al Festival Rendez-vous, che ancora una volta è ospitato al Nuovo Sacher dove c'è sempre Nanni Moretti a fare gli onori di casa. In tutto riesco a vedere tre film, piuttosto diversi l'uno dall'altro, scelti un po' sulla base dell'interesse, un po' sulla base delle mie disponibilità di tempo. Ovviamente non mi permetto di dare un giudizio sul festival a partire da questi soli tre film, ma il mio bilancio finale, pur essendo positivo, non è entusiasta come in altre circostanze, nel senso che ho trovato i film godibili, ma non imperdibili. Comunque il valore aggiunto di poterli vedere in anteprima, in lingua originale e poter assistere al Q&A con il regista o gli interpreti rende l'esperienza assolutamente valida.

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Le procès Goldman = Il caso Goldman


In questo caso la scelta del film scaturisce sia dall'apprezzamento verso il regista Cédric Kahn sia dall'interesse verso i film giudiziari, che - se ben fatti - trovo molto appassionanti.

In questo caso Kahn ci propone un film strettamente giudiziario, visto che l'azione si svolge quasi interamente all'interno dell'aula del tribunale, il che - anche per effetto dell'uso di un formato 4/3 - produce un effetto decisamente claustrofobico.

Al centro la figura di Pierre Goldman, un estremista di sinistra di origine ebreo-polacca che negli anni Settanta compì numerose rapine, una delle quali finì con l'uccisione di due donne. L'uomo fu condannato in primo grado all'ergastolo in quanto riconosciuto colpevole anche del duplice omicidio. Il film di Kahn ci racconta il secondo grado del processo che arrivò anche grazie alla determinazione del padre di Pierre, figura di spicco della Resistenza francese, e sulla scia del grande successo del libro che lo stesso Goldman aveva scritto e che gli aveva procurato un ampio sostegno.

Come ci dice il regista, il film è stato interamente scritto sulla base dello studio dei giornali dell'epoca, mentre non è stato possibile accedere agli atti originali del processo. Ne viene fuori la figura istrionica di Goldman, che spesso interveniva persino contraddicendo i suoi avvocati, che pure ebbero un ruolo decisivo nell'assoluzione dell'uomo dall'accusa di omicidio.

È evidente che il film nasce da una vera e propria fascinazione per questo personaggio, che io personalmente non conoscevo, ma che certamente in Francia ha segnato un'epoca e il cui processo è stato rappresentativo di una temperie politico-sociale, che - pur non riguardando solo la Francia - certamente in questo paese ha avuto caratteristiche specifiche, che in parte ci sfuggono.

Sarà anche per questo che il film risulta piuttosto impegnativo da seguire; in generale la sceneggiatura appare un po' legnosa e a tratti meccanica, forse a causa di una ricostruzione che nasce da fonti molto frammentarie.

L'aspetto certamente più affascinante - che viene sottolineato anche dal regista nel dibattito finale - riguarda il meccanismo di funzionamento della giustizia, che - in assenza di prove schiaccianti - inevitabilmente risente di valutazioni di contesto, pur cercando di tenersi aggrappata alle procedure giudiziarie. Dunque, se Goldman sia stato o meno responsabile degli omicidi, per i quali si professava innocente a differenza che per le rapine, non lo sapremo mai, ma il rischio di un nuovo Affaire Dreyfus e tutta una serie di altri elementi hanno certamente contribuito a spingere verso l'assoluzione.

Voto: 3/5



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Le successeur = Il successore 

Con il film di Xavier Legrand ci si sposta decisamente verso un’altra dimensione cinematografica, che sta dalle parti del thriller psicologico. Protagonista è Ellias Barnès (Marc-André Grondin), un giovane stilista di origine canadese (è di Montreal) che si sta definitivamente affermando nell'ambiente dell’alta moda a Parigi, città dove vive da molto tempo. Il film inizia con una sfilata che si svolge in una scenografia a spirale, inquadrata a più riprese dall'alto e accompagnata da una musica che trasmette fin dall'inizio un senso di angoscia e di tragedia imminente.

Ellias sta per prendere l'eredità di una casa di alta moda quando arriva la notizia che suo padre – con il quale si era messo in contatto qualche giorno prima dopo moltissimi anni di lontananza – è morto, cosicché Ellias deve partire per Montreal per gestire il funerale e la dismissione dei beni del padre, compresa la casa nella quale viveva. Qui farà una scoperta agghiacciante che manderà in tilt i suoi programmi e la sua capacità razionale, innescando una reazione a catena che lo condurrà in un abisso sempre più profondo, a fare i conti con l’eredità di suo padre e le colpe dei genitori che ricadono sui figli.

Il regista al termine della proiezione ci dice che con questo film ha voluto indagare un altro aspetto del patriarcato, quello che ha meno a che fare con il rapporto tra uomini e donne, ma che in qualche modo inquina anche l’universo maschile. Sinceramente non so se ho colto quest’aspetto della narrazione; certamente però ho sentito molto intensamente lo stato d'animo del protagonista e, pur riconoscendone dall'esterno gli errori strategici, ho vissuto insieme a lui l'angoscia, la disperazione, il dolore, il senso di sconfitta, l'eterno ritorno di quello che pensavamo di esserci definitivamente lasciati alle spalle. Del resto il film si apre con una spirale, e la spirale ritorna anche nella scala della casa funeraria a cui Ellias si rivolge a Montreal, e in quella spirale il protagonista in qualche modo è destinato a rimanere intrappolato.

Voto: 3,5/5



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Bernadette = La moglie del presidente


Con l'opera prima di Lèa Domenech si chiude l’edizione 2024 del Rendez-vous film festival, e quest’ultima proiezione vede la partecipazione, oltre alla regista, della protagonista del film, Catherine Deneuve, che si porta ancora piuttosto bene i suoi 81 anni. Per la Domenech è la prima volta nel lungometraggio di finzione e, prima dell’inizio del film, la giovane regista ci spiega in un buon italiano la genesi di questo progetto. Dice che la figura di Bernadette Chirac è stata centrale nella società francese negli anni in cui era ragazzina, e che nel suo caso specifico il contatto con questa figura era ancora più forte in quanto suo padre era un giornalista politico. Nonostante l’appartenenza a una parte politica opposta e la cattiva nomea che Bernadette si portava addosso, la regista dice di averne rivalutato la figura dopo aver visto un documentario su di lei, e proprio a partire da quella suggestione ha deciso di realizzare una commedia incentrata su di lei e in particolare sulla sua rivincita come politica e come donna nei confronti di suo marito Jacques Chirac.

Il film è giocato su un registro molto divertente e divertito, come si capisce fin dalle prime scene quando compare un coro che con le sue esecuzioni a cappella spiega e commenta quanto accade nel film; ovviamente, la realtà storica, pur presente, è ampiamente mescolata con la finzione e l’invenzione cinematografica, che trasformano la coppia presidenziale e il suo entourage in un gruppo di personaggi da commedia dell’arte, con venature esilaranti e grottesche. Si tratta però di una leggerezza della narrazione che non scade mai nella volgarità e che non usa mai mezzucci, anzi si mette al servizio di una storia di riscatto femminile, e guarda a Bernadette con lo sguardo benevolo di chi – pur riconoscendone i limiti e i difetti – intende però anche mostrarne le qualità e le intuizioni.

Accanto alla bravissima Deneuve, straordinaria nel non prendersi sul serio, troviamo un grande Denis Podalydès (nel ruolo del consigliere della first lady) e un più macchiettistico Michel Vuillermoz nel ruolo del presidente. Un film godibile che ancora una volta dimostra la capacità dei francesi di parlare di politica e società con tanti registri diversi, ma in maniera non banale.

Voto: 3/5


venerdì 19 aprile 2024

No sleep till Shengal / Zerocalcare

No sleep till Shengal / Zerocalcare; con i toni di grigio di Alberto Madrigal. Milano: Bao Publishing, 2022.

A distanza di sei anni da Kobane calling, e con ormai all'attivo un numero imprecisato di albi e ormai ben due serie tv per Netflix, Zerocalcare torna a parlarci di quell'area del mondo collocata tra Siria, Turchia, Iran e Iraq che è il Kurdistan, ma che come tale non viene riconosciuto da nessuno dei paesi citati e nemmeno da buona parte della comunità internazionale.

A fronte di un mio incontro iniziale piuttosto tiepido con il mondo di Zerocalcare, Kobane calling ha rappresentato per me il momento della svolta, quello che mi ha definitivamente conquistata. La versione graphic journalist di Zerocalcare - ovviamente una versione originale e perfettamente in linea con lo stile di Zero (che a me ricorda un po' Guy Delisle) - è forse quella che mi convince di più o quanto meno quella con cui mi è più facile entrare in sintonia.

E la magia si ripete anche con No sleep till Shengal, che racconta il viaggio compiuto da Zerocalcare tra la primavera e l'estate 2021 nell'area dell'Iraq dove la comunità degli Ezidi rivendica l'autonomia dopo aver messo in piedi una confederazione democratica, ma è oggetto di una persecuzione su vasta scala.

Ancora una volta, dietro il viaggio di Zero c'è la comunità curda di Roma e la necessità di accendere i riflettori su un conflitto volutamente dimenticato. Zerocalcare ce ne parla a modo suo, raccontandoci il viaggio, le traversie, i checkpoint, gli incontri, le paure e i dubbi. E in tutto questo il fumettista romano è sempre lui, con le sue idiosincrasie e le sue pippe mentali, ma anche con sei anni di più, e quindi ancora più idiosincrasie e pippe :-D

In ogni caso, il graphic novel è un buon punto di partenza per incuriosirsi alla vicenda degli Ezidi, popolazione che è stata oggetto di numerosi massacri e tentativi di genocidio durante la sua storia, e che combatte per esistere e sopravvivere. Ovviamente questa è una sintesi semplificata, e - come direbbe Zero - le cose sono molto più complesse di così, e lui è un vero maestro nel mettere in scena - prima di tutto per sé stesso - l'obiezione.

Io me lo sono divorato una sera prima di andare a dormire, e non ho spento la luce finché non ho letto l'ultima pagina, la nota scritta che Zerocalcare pospone all'albo per dire che da quando il viaggio è stato compiuto alla pubblicazione dell'albo è passato circa un anno, e ovviamente le cose sono cambiate e alcune delle persone raccontate non ci sono più, perché questa area del mondo ha un livello di instabilità altissimo e raccontarne le vicende è difficile perché le cose cambiano molto rapidamente. Resta però sempre vero che il Kurdistan e più in generale questa area del mondo non trova pace né equilibrio, non solo per gli interessi vari e contrapposti dei paesi che vi gravitano (primo fra tutti la Turchia), ma anche e soprattutto per l'indifferenza - in buona parte interessata - del mondo occidentale.

Zerocalcare ci aiuta a non dimenticarcelo.

Voto: 3,5/5

mercoledì 17 aprile 2024

Kripton

Avevo puntato questo film fin dalla sua programmazione nell'ambito della Festa del cinema di Roma, ma non ero riuscita a vederlo. Già in quella circostanza ne avevo sentito parlare molto bene da diversi amici, poi il film esce in sala e la mia amica A. ne fa un post entusiastico su Facebook, cosicché la mia curiosità cresce ulteriormente.

Per fortuna, dopo averlo lisciato ancora, grazie al cinema Troisi che organizza una serata ad hoc co-organizzata con la Facoltà di psichiatria e psicologia della Sapienza Università di Roma, riesco finalmente a recuperarlo insieme a mio padre, mio ospite a Roma proprio in quei giorni.

Il film di Francesco Munzi, presente in sala e protagonista del dibattito finale insieme a Mauro Pallagrosi, dirigente medico psichiatra ASL Roma 1, è un documentario che nasce da un'esperienza molto particolare: la piccola troupe di Munzi, in particolare Valerio Azzali, trascorrono 100 giorni con il personale e i pazienti psichiatrici della ASL Roma 1, nonché le loro famiglie, e, in questo tempo, la telecamera riesce miracolosamente a scomparire, restituendoci la quotidianità di questo luogo e delle persone che lo popolano.

Ovviamente, non tutte le unità di personale né tutti i pazienti si sono resi disponibili a comparire nel film, ma le storie che Munzi e Azzali ci propongono costituiscono uno spaccato umano di grandissima intensità e valore.

Di fronte a noi le storie di Dimitri, ragazzo ucraino adottato quando aveva tre anni che sembra vivere in uno stato di apatia e sfiducia verso il futuro e ha un rapporto difficile con i genitori separati, Georgiana che ha avuto una figlia che le è stata tolta ma con cui vorrebbe ricongiungersi, Silvia che ha disturbi alimentari e non vuole separarsi dal padre, un ragazzo di 43 anni che vive in un delirio di persecuzione e di dissociazione dalla realtà, una ragazza di colore che si muove con circospezione e sembra rifuggire tutti.

Si tratta di storie difficili con percorsi terapeutici lunghi e non scontati, carichi di sofferenza e con prospettive incerte, eppure Munzi riesce nel non facile risultato di restituirci intera l'umanità di tutte le persone coinvolte, i pazienti, le famiglie, gli operatori sanitari. L'empatia è totale, anche con chi evidentemente ha una sofferenza psichica importante, e passa attraverso la possibilità - se non di una vera e propria comprensione - quanto meno di una compassione, intesa in senso letterale, ossia di sentire insieme a queste persone.

Assistiamo così ai colloqui tra pazienti e operatori, tra familiari e operatori, o anche a incontri allargati in cui partecipano insieme pazienti e familiari, oppure anche tutti i pazienti della struttura. Assistiamo anche a momenti difficili, momenti di crisi, di ribellione, di sofferenza, ma il film prende il volo soprattutto nel trasmetterci anche occasioni di incontro emotivo, di serenità, di chiarimento e addirittura momenti che definirei di pura poesia. C'è tanto pudore e tanto amore nella telecamera di Munzi che ci trasmette un voler bene, che finisce per essere anche il nostro, e che ci dimostra ancora una volta che solo la conoscenza aiuta a superare il pregiudizio ovvero i giudizi semplificati.

Il regista ci spiega durante il dibattito anche la scelta di introdurre nel film - quasi a creare dei veri e propri momenti onirici o di pausa - degli spezzoni tratti da filmini familiari (non direttamente relativi ai protagonisti) o ricavati da film sperimentali del passato. Si tratta - come ci dice Munzi - di suggestioni di tipo molto personale e forse arbitrario, che però ogni spettatore può cogliere e interpretare come vuole.

Si tratta in ogni caso di un asse "narrativo" parallelo che certamente aiuta a ritmare il racconto e in un certo senso ad amplificarlo, e che si affianca a un montaggio del girato molto efficace nello spostarsi da un personaggio all'altro e da una situazione all'altra in maniera intelligente e attrattiva per lo spettatore.

In definitiva il film di Munzi è un regalo prezioso che per una volta - ce ne vorrebbero molte di più di occasioni così - ci aiuta ad assumere, con intelligenza e sensibilità, un punto di vista davvero altro, e a renderci più consapevoli di una umanità ferita (che come ci dicono i titoli di coda è sempre più ampia, soprattutto dopo la pandemia) e che meriterebbe più attenzioni da parte delle istituzioni.

Al contrario, quello a cui assistiamo sono tagli alle strutture e al personale e rimozione collettiva, ossia la negazione di quello che una società davvero civile dovrebbe auspicare.

Voto: 4/5


lunedì 15 aprile 2024

L'origine del mondo. Ritratto di un interno / di Lucia Calamaro. Teatro Argentina, 26 marzo 2024

Sono ormai diversi anni che seguo il lavoro di Lucia Calamaro, di cui ho già visto diversi spettacoli a teatro. La considero una delle drammaturghe italiane più interessanti e che ha davvero qualcosa da dire e da raccontare.

Con L'origine del mondo torniamo indietro nel tempo, a un suo lavoro che risale a circa 15 anni fa, a un periodo alquanto difficile della sua vita, segnato dalla depressione, tema centrale di questo testo.

Quel periodo e quella condizione fortemente individuale hanno acquisito negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia, una rilevanza sociale, tanto che da più parti si lancia l'allarme sul dilagare delle situazioni depressive, anche nei giovani.

Il testo torna dunque di stringente attualità, e così Lucia Calamaro decide di riportarlo in scena offrendo il ruolo principale a Concita De Gregorio, che - nonostante le perplessità iniziali - decide di accettare perché, anche in conseguenza delle sue vicende individuali, sente il testo molto vicino e personale.

Per quanto mi riguarda, mentre vedo lo spettacolo - e non avendo ancora letto che risale a 15 anni fa -, penso a più riprese che sia stato scritto per Concita, quasi cucito addosso a lei, tanto percepisco un forte senso di riconoscimento con quanto sta recitando.

L'origine del mondo parla di una donna di mezza età che cade in una condizione depressiva: non ci viene spiegato perché e se c'è un motivo specifico, ma la donna si è praticamente autoreclusa in casa, fatte salve le sedute presso la sua psicanalista.

La vicenda viene raccontata in tre parti. Nel primo atto, Concita durante la notte, a causa dell'insonnia si ritrova davanti al frigorifero a decidere se e cosa ha voglia di mangiare e a fare considerazioni su sé stessa e la propria vita; a un certo punto compare sua figlia, che a sua volta si è svegliata e con cui inizia un dialogo nel quale si confrontano la necessità della ragazza di poter contare sulla madre e l'impossibilità della madre di occuparsi di altro che non sia la sua condizione di malessere perenne. Il dialogo con la figlia si alterna a quello con la psicanalista, da cui emerge il senso di frustrazione di chi vorrebbe una soluzione al proprio stato e non la trova. Nel secondo atto, madre e figlia sono intorno alla lavatrice, quando arriva la madre di Concita, una donna di un'altra generazione che non riesce a farsi una ragione dello stato di catatonia della figlia e cerca di scuoterla con il suo approccio dirompente e un po' invadente, e con un buon senso forse un po' terra terra ma a tratti comprensibile. Nel terzo atto, Concita è di nuovo a confronto con la sua psicanalista con cui l'incomunicabilità sembra totale, ma in realtà nelle pieghe di questa non comunicazione si intrufola la possibilità per Concita di uscire finalmente dal suo guscio e di provare a riprendere in mano la propria vita.

Il racconto dei passaggi narrativi fa forse pensare a uno spettacolo drammatico, ma in realtà - com'è tipico degli spettacoli della Calamaro - il testo, pur trattando temi importanti, è fortemente ironico: si ride dei personaggi sul palco e anche di sé stessi, perché non si può fare a meno di riconoscersi in alcuni passaggi del testo, che è poi probabilmente il vero punto di forza del lavoro della Calamaro, cioè la profonda umanità che - pur concedendosi divagazioni intellettualistiche e colte, comunque in questo caso in modo ironico - riesce a parlare credo davvero a tutti.

Sarà per questo che due ore e mezza di spettacolo non mi sono pesate affatto. Le attrici tutte molto brave: Concita De Gregorio in questa inedita veste di attrice davvero sorprendente, notevoli anche Alice Redini (nel doppio ruolo della figlia e della psicanalista) e Lucia Mascino (nel ruolo della madre), che a teatro trovo ad ogni spettacolo sempre più brava e convincente.

Mi accorgo - guardando le mie recensioni degli altri spettacoli della Calamaro che ho visto in passato - che ho sempre messo lo stesso voto (3,5/5), il che significa che trovo che il suo teatro di alto livello e totalmente godibile, oltre che dai contenuti interessanti, ma - per il mio personale punto di vista - manca quel quid - che non saprei nemmeno identificare - per rendermeli totalmente indimenticabili.

Voto: 3,5/5

venerdì 12 aprile 2024

Inshallah A Boy

Inshallah A Boy è il film del regista giordano Amjad Al Rasheed, primo film giordano ad essere selezionato in concorso per il Festival di Cannes, che racconta la storia di Nawal (Mouna Hawa), una giovane donna musulmana che ha una figlia di 6-7 anni e sta cercando di avere un altro figlio con suo marito. Purtroppo il marito muore improvvisamente nel sonno, e Nawal si trova a fare i conti non solo con le strette regole sul lutto femminile, ma anche con una serie di problemi economici e di scoperte sorprendenti sul marito di cui non sospettava praticamente nulla.

Di fronte alle richieste sempre più insistenti del cognato, che approfitta del fatto che Nawal si è sempre fidata del marito rispetto alla gestione degli aspetti economici e ora si trova a doverne ripagare dei debiti e anche non riconosciuta nella proprietà della casa, la donna decide di non arrendersi alla situazione e resistere con tutte le sue forze. Sa che la sua unica via d'uscita, almeno sul breve termine, è essere incinta, e, sul medio termine, avere un figlio maschio, e Nawal è disposta a inseguire questo obiettivo anche con mezzi poco leciti, ma soprattutto a crederci con tutte le sue forze.

Il film di Al Rasheed, purtroppo visto doppiato (che ormai sta diventando per me una vera sofferenza, soprattutto per i film recitati in arabo), è tecnicamente un dramedy, ma la confezione serve solo a non caricare di ulteriori elementi melodrammatici e tragici una storia e una realtà pesantissimi di per sé.

Durante tutta la visione del film non si può infatti che provare angoscia per la posizione in cui si viene a trovare questa donna (e con lei tutte le donne che vivono in contesti similari), costretta non solo a lottare per la propria sopravvivenza, pur essendo la moglie legittima dell'uomo deceduto, ma persino per la custodia della propria figlia che può esserle sottratta con molta facilità. Gli uomini che popolano questo mondo fortemente patriarcale e in cui forti sono i condizionamenti religiosi oscillano tra l'inerte e l'aggressivo, ma in ogni caso sembrano non rendersi conto neppure lontanamente dell'ingiustizia profonda della situazione.

La cosa ancora più triste è che di fronte alla situazione di Nawal non scatta nemmeno alcuna solidarietà femminile, un po' forse per assuefazione a uno stato di cose considerato normale e di cui non si vede un'alternativa, un po' perché ciascuna donna è in un certo senso impegnata a combattere la sua personale battaglia di sopravvivenza in una società siffatta.

Si esce piuttosto depresse, sentendosi fortunate ad essere nate in un'altra parte del mondo dove almeno  alcune cose sono state superate da tempo e interrogandosi su quale speranza ci possa essere che in alcuni paesi la situazione femminile possa migliorare e con quali tempi.

Voto: 3,5/5


mercoledì 10 aprile 2024

Iliade, o Il gioco degli dei / con Alessio Boni e Iaia Forte. Teatro Ambra Jovinelli, 21 marzo 2024

In una stagione teatrale piuttosto avara di spettacoli che mi siano piaciuti senza vere perplessità, volentieri spendo qualche parola in più su questo spettacolo della Compagnia del Quadrivio, il gruppo di autori (alcuni dei quali anche attori) formato da Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini e Marcello Prayer.

Quella realizzata dal Quadrivio non è l'ennesima trasposizione teatrale dell'opera omerica come si potrebbe immaginare, bensì una lettura originale e ricca di spunti, oltre che complessivamente godibile e divertente. I quattro drammaturghi dicono di essersi ispirati agli elementi ironici, se non a tratti comici, presenti qua e là nell'Iliade, e che sono spesso stati trascurati dalle letture scolastiche, più concentrate sugli accenti drammatici della storia.

Ironica è dunque la cornice della storia: ritroviamo gli dei dell'Olimpo su una spiaggia, vestiti in abiti moderni, che un po' si annoiano, un po' rimpiangono i fasti del passato, un po' riaccendono vecchie discussioni familiari. Zeus (Alessio Boni) è invecchiato e ha grossi vuoti di memoria; sua moglie Era (Iaia Forte) mal sopporta il modo di essere del marito, e i due litigano spesso per i figli, Ares (figlio di Era, ma non di Zeus), ma anche Atena, Hermes, Afrodite, Apollo (tutti figli di Zeus, di cui a più riprese si sottolinea la natura libertina, ma non di Era). Tutti, ognuno con le proprie idiosincrasie, rimpianti e rivendicazioni, si ritrovano su questa spiaggia, a ricordare i bei tempi in cui governavano gli esseri umani ed erano in grado - anche solo per il loro divertimento - di cambiare il corso degli eventi e influenzare i comportamenti degli uomini.

Per richiamare i vecchi tempi e anche per capire in che momento è iniziata la loro decadenza, decidono di riportare in scena la guerra e l’assedio degli Achei contro la città di Troia, iniziata a seguito del rapimento di Elena, moglie di Menelao e cognata di Agamennone, considerata la donna più bella dell’antichità. Il rapitore, Paride, era figlio del re di Troia, Priamo, e per questo gli Achei organizzarono la spedizione di cui furono protagonisti da parte achea figure come Achille e Patroclo, e da parte troiana Ulisse (Odisseo).

La vicenda narrata nell'Iliade viene raccontata dagli dei decaduti come si trattasse di un teatro delle marionette; ognuno di loro di volta in volta si fa portatore di una marionetta che lo copre quasi integralmente e che manovra nelle azioni e interazioni, interpretando così gli umani protagonisti della guerra di Troia. Di tanto in tanto gli dei lasciano le loro marionette e commentano i fatti della guerra e le azioni dei vari personaggi, e soprattutto rivendicano il ruolo che hanno avuto nel confondere la percezione degli umani ovvero nel raggirarli, spingendoli a fare azioni che probabilmente non avrebbero altrimenti fatto.

E però all'esito della guerra di Troia, con l'ingresso del cavallo di legno nelle mura della città, e la strage dei troiani, gli dei si chiedono se la loro intromissione non sia stata eccessiva e se non sia da quel momento che il loro rapporto con gli umani è cambiato, dando l'avvio a quella decadenza che li vede ormai vecchi, inutili e annoiati.

Eppure, in questa commedia dell'arte che mette in scena quasi uno spettacolo di pupi nel quale tutto ci fa pensare che gli uomini siano manovrati dagli dei (e in questo caso lo sono persino letteralmente), man mano il sospetto che siano invece gli dei che narrano la storia ad essere creazioni umane diventa sempre più forte, fino a trasformarsi in certezza. E così non solo ci appare chiaro che gli dei sono lo specchio nel quale gli uomini trasferiscono tutti i loro difetti e meschinità, nonché forse le loro ambizioni, ma sono anche uno straordinario strumento di deresponsabilizzazione collettiva, lì dove qualunque nefandezza e azione più o meno orribile può essere ascritta all'intervento divino o fatta in nome di un qualche dio, togliendo dunque agli esseri umani il pesante fardello di fare i conti con le loro azioni e le relative conseguenze.

Uno spettacolo apparentemente leggero - e per questo molto godibile dal punto di vista degli spettatori - che riesce però a far riflettere e a non lasciare indifferenti.

Voto: 3,5/5

lunedì 8 aprile 2024

Another end

Avevo già adocchiato il film di Piero Messina, che mi incuriosiva molto per trama e cast molto lontani dagli standard del cinema italiano. Quando poi F. mi ha segnalato la proiezione al Greenwich con presenza in sala del regista e dell'attore principale Gael García Bernal non ho avuto più dubbi.

I due salgono sul palco per una breve intervista, e si capisce che oltre ad aver lavorato insieme per questo film sono amici: Piero Messina ci spiega che il film che stiamo per vedere, pur flirtando con il cinema di genere, in questo caso il sci-fi, è in realtà una storia molto personale e che sente molto sua; Bernal invece ci parla del suo personale rapporto con il cinema italiano, iniziato molto tardi ma piuttosto importante nella sua formazione.

Dopo questa breve introduzione eccoci al film (purtroppo anche questo doppiato: i due protagonisti, Bernal e Berenice Bejo, sono fratelli nel film e parlano tra di loro spagnolo, mentre con gli altri parlano in inglese). Another end - che nei titoli di apertura gioca con un'altra espressione inglese contenuta nel titolo, Not Here - racconta la storia di Sal (Bernal), un uomo che ha perso la compagna Zoe in un incidente stradale, e non riesce a fare i conti con il lutto e con il senso di colpa. Siamo in una città senza nome, livida e piovosa (in realtà un mix di Parigi e Roma), in un futuro che potrebbe non essere tanto lontano dal nostro presente, e in questo futuro una società che si chiama Aeterna, dove lavora anche Eve (Bejo), la sorella di Sal, offre ai suoi clienti la possibilità di trasferire il contenuto della mente del defunto nel corpo di un locatore, una persona che per soldi o altri motivi decide di prestarsi alla causa e, per un numero di incontri prestabilito, diventa l'avatar della persona morta e potrà interagire con chi è rimasto, dando loro la possibilità di elaborare e gestire meglio l'addio. Convinta da Eve, anche Sal decide - dopo qualche esitazione - di ricorrere ai servizi di Aeterna, e così Zoe ritorna nel corpo di un'altra donna (la bravissima Renate Reinsve, già apprezzata ne La persona peggiore del mondo). Durante questi incontri Sal non solo ritrova Zoe attraverso la donna che ne porta i pensieri e le memorie, ma a poco a poco si affeziona anche a questo nuovo corpo che lo mette in contatto con Zoe. Per questo Sal chiede alla sorella di proseguire gli incontri e a un certo punto comincia anche a seguire la donna nella sua vita normale creando una situazione che si fa via via sempre più difficile da decifrare.

Mi fermo qua perché ho detto fin troppo e perché Another end è uno di quei film che gioca molto sul finale a sorpresa e sul gioco che in questo modo innesca con lo spettatore, anche durante l'intera visione.

Come già era stato per Estranei, con cui questo film condivide il tema della perdita e del lutto, e anche la componente diciamo non realistica (soprannaturale nel primo caso, e fantascientifica nel secondo), io non sospetto praticamente nulla fino alle fine. E dire che leggo qua e là che si capisce tutto già da metà film, ma evidentemente la mia elasticità mentale deve essersi enormemente ridotta con l'età.

In ogni caso, al di là del più o meno atteso finale, all'interno di questa confezione sci-fi dal respiro decisamente internazionale (e ne va dato decisamente merito a Piero Messina, tra l'altro compositore anche di parte dei brani che costituiscono la colonna sonora del film) si sviluppa un racconto i cui temi sono universali e senza tempo, ossia l'amore e la perdita, cui si affianca una riflessione sui legami umani e su cosa li sostanzi (le esperienze condivise, i ricordi, il nostro modo di essere, l'intimità dei corpi, un mix di tutto questo?), e in ultima istanza ci si chiede cosa fa della persona quello che è, perché se siamo il nostro cervello allora sembra perdere importanza in quale corpo agisca, ma solo come. Sono temi per me estremamente affascinanti e su cui negli ultimi anni per vari motivi ho avuto modo di riflettere tanto, e devo dire che il film di Messina mette sul piatto una serie di elementi di analisi intellettuale ed emotiva non banali né scontati.

Si potrà dunque dire che non si tratta di un film perfetto, non certo un capolavoro, ma personalmente ho moltissimo apprezzato sguardo e ambizione di questo regista italiano sui generis che a questo punto intendo seguire con particolare attenzione.

Voto: 3,5/5



venerdì 5 aprile 2024

Salveremo il mondo prima dell'alba / Carrozzeria Orfeo. Teatro Vascello, 16 marzo 2024

L'anno scorso - dopo che un'amica mi aveva parlato benissimo della compagnia e visto che il Teatro Vascello dedicava una specie di retrospettiva ai loro spettacoli - avevo preso il biglietto per andare a vedere Thanks for Vaselina, ma, a causa di uno dei tanti eventi romani che bloccano il traffico in mezza città, non sono riuscita a raggiungere il teatro per tempo e ho dovuto rinunciare.

Quest'anno dunque non mi sono lasciata scappare l'occasione di vedere il loro ultimo spettacolo, Salveremo il mondo prima dell'alba, in programmazione sempre al Teatro Vascello. In realtà avevo avuto un primo assaggio della scrittura di Gabriele Di Luca, il drammaturgo che scrive gli spettacoli di Carrozzeria Orfeo con lo spettacolo Stupida Show!, la stand up comedy realizzata per Paola Minaccioni, ma in questo caso ho potuto apprezzare la compagnia in tutta la sua articolazione e complessità.

Salveremo il mondo prima dell'alba è ambientato in un wellness centre per ricchi collocato su un satellite spaziale. In questo centro ci sono Jasmine (Alice Giroldini), una popstar afflitta dalla sua stessa celebrità e con un rapporto difficile con la madre e con la sessualità, Omar (Sergio Romano), un imprenditore ricco che ha lasciato la sua famiglia (moglie e figlia) per vivere la sua sessualità con il compagno Patrizio (Roberto Serpi), William (Ivan Zerbinati), un capitalista senza scrupoli che fa soldi creando e diffondendo fake news, e il suo domestico bengalese Nat (Sebastiano Bronzato). A gestire questo processo di riabilitazione un coach, interpretato da Massimiliano Setti, vestito come Dargen D'Amico (!), che un po' è una quasi figura di terapeuta, un po' è un ca**one che fa battute stupide.

Lo spettacolo, che dura circa due ore e mezza con una pausa tra i due atti, fila via come un treno, senza un momento di stanchezza o di noia, grazie alla regia di Di Luca, Setti e Tedeschi, a un allestimento perfetto, ad attori di grande qualità e a un testo scoppiettante, in cui si alternano comicità pura, satira sociale e intermezzi di riflessione.

Non posso fare il confronto con i lavori precedenti, ma mi pare che la caratteristica principale di Carrozzeria Orfeo stia proprio in questo mirabile equilibrio tra leggerezza e profondità, in virtù del quale tutti i temi trattati - che sono tanti, dal femminismo ai social, dal rapporto tra ricchi e poveri al cambiamento climatico, dalle dinamiche familiari alle storture del capitalismo, e molte altre - sono affrontati in modo non superficiale, ma senza nemmeno prendersi troppo sul serio, ché altrimenti si finirebbe in uno stucchevole discorso esistenzialista e filosofico. Qualche elemento di banalità che mi ha fatto un po' storcere il naso l'ho trovato proprio nelle riflessioni presuntamente filosofiche, però perdonabili in quanto compensati dalla ricchezza di umanità, di compassione, di empatia che questo testo mette in campo, cercando di comprendere le sofferenze, le piccolezze e gli errori dei singoli, anche quelli più insopportabili, e attraverso di loro quelle dell'umanità tutta, che alla fine - vista da lontano e con un cannocchiale capovolto - emerge in tutta la sua piccolezza, ma anche unicità. Al punto tale che lo spettacolo riesce a concludersi con un'apertura di speranza, riconoscendo a un'umanità che si sta autodistruggendo la possibilità di ripartire daccapo, anche se forse destinata alla stessa parabola.

Durante Salveremo il mondo prima dell'alba si ride molto, ma si pensa anche molto, e soprattutto si viene stimolati a mettere in campo il proprio senso di appartenenza all'umanità in tutte le sue sfaccettature, facendo dunque un esercizio di comprensione prima - e soprattutto oltre - il giudizio. Perché nessuno di noi del pubblico è diverso da quell'umanità confusa, dipendente, sofferente, eppure adorabile che si muove sul palco davanti a noi.

Voto: 4/5

mercoledì 3 aprile 2024

Falling into place

Siamo alla quarta edizione del Festival del cinema tedesco, organizzato in collaborazione tra l'Ambasciata tedesca a Roma e il Goethe Institut, e in programmazione quest'anno al Cinema Quattro Fontane. Ma io solo quest'anno riesco a parteciparvi. Incastrati i vari impegni, prendo i biglietti per la seconda visione di questo film, Falling into place, dell'attrice Aylin Tezel, qui anche in veste di sceneggiatrice e regista.

E forse questo è il primo problema. La Tezel, classe 1983, ha deciso con questo film di fare il grande salto, e ha scelto di portare sul grande schermo una storia - secondo me - molto generazionale.

Protagonisti di Falling into place sono Ian (Chris Fulton, un misto tra Bradley Cooper, Ryan Gosling e Jake Gyllenhall) e Kira (la stessa Tezel), due giovani ma non troppo, che si incontrano più o meno casualmente nell'isola di Skye (bellissima, tra l'altro). I due si portano dietro varie pesantezze: Kira ha da poco chiuso una storia ed è sull'isola da sola, sebbene inizialmente il viaggio fosse programmato con il suo fidanzato; Ian è tornato per andare a trovare la sua famiglia, con cui ha un rapporto piuttosto problematico, anche per via di una inizialmente non precisata situazione difficile che riguarda sua sorella.

Durante la permanenza all'isola di Skye, Ian e Kira entrano in un'intimità profonda, ma ben presto ognuno torna alla sua vita di tutti i giorni: Ian a Londra dove vive con la sua fidanzata e Kira sempre a Londra, dove deve fare i conti con il suo passato sentimentale e il suo futuro lavorativo.

Come si può facilmente immaginare, i due saranno destinati a incontrarsi nuovamente e a fare delle scelte, anche dopo aver affrontato i loro fantasmi.

È evidente che siamo all'interno del genere della dramedy di tipo sentimentale, con una forte componente generazionale, quella della generazione tra i trenta e i quarant'anni, e forse proprio per questo con una presunta riflessione esistenziale. Il punto di vista è decisamente femminile ma anche - a dire il vero - piuttosto adolescenziale.

C'è dunque sicuramente in questo film quella immaturità e confusione esistenziale e sentimentale che caratterizzano questa generazione (e che si ritrova in molti altri prodotti culturali della stessa provenienza). Però non si può nascondere che anche il prodotto cinematografico si presenta acerbo e un po' scolastico: a livello di fotografia, di montaggio, di colonna sonora si sente forte un approccio di maniera, che - sommato a una narrazione e a una sceneggiatura piuttosto semplicistici - fa sì che il risultato finale risulti tendenzialmente banale e a tratti stucchevole.

La ciliegina sulla torta è che andiamo a un festival del cinema in cui uno dei principali valori aggiunti dovrebbe essere la possibilità di vedere i film in lingua originale (ed effettivamente questo promette il festival): peccato che il film di Aylin Tezel, pur essendo recitato integralmente in lingua inglese - in quanto la protagonista Kira, pur essendo tedesca, vive in Gran Bretagna, e Ian è scozzeze -, ci viene proposto doppiato in tedesco, tra l'altro con un doppiaggio di qualità non elevatissima. Il risultato è quasi paradossale e totalmente straniante, cosicché usciamo dal cinema piuttosto interdette, ma anche divertite da questa esperienza davvero surreale.

Voto: 2/5


lunedì 1 aprile 2024

Al bubduqyyia - Il Concerto perduto / Giovanni Sollima, il Pomo d'Oro e Federico Guglielmo. Istituzione Universitaria Concerti, La Sapienza, Aula Magna, 12 marzo 2024

Come sa chi un po' legge questo blog, non sono né particolarmente appassionata né particolarmente conoscitrice della musica classica, ma ogni tanto mi piace fare qualche incursione in questo territorio, soprattutto quando vengo in contatto con musicisti che riescono a trasmettermi qualcosa.

Questo è il caso di Giovanni Sollima, compositore e violoncellista palermitano, che ormai seguo da diverso tempo con soddisfazione.

Questa volta Sollima è - insieme all'ensemble Il Pomo d'Oro e al violinista Federico Guglielmo - nel programma dell'Istituzione Universitaria Concerti (IUC) che ogni anno porta una bella selezione di musica classica e non solo nell'Aula magna della Sapienza.

La bellezza della proposta musicale di Sollima sta nel fatto che la sua non è solo una scelta di brani da suonare, bensì è un percorso di senso, una narrazione in musica, che consente anche al pubblico più ignorante (a cui ritengo di appartenere da questo punto di vista) di cogliere dei collegamenti inaspettati.

In questo caso, al centro della ricerca musicale c'è il mare Adriatico e soprattutto la città di Venezia, a lungo luogo di incontro di culture diverse ma tutte accomunate da un legame profondo con il mar Mediterraneo.

Questa centralità di Venezia è confermata dal fatto che il programma si costruisce intorno ad alcune composizioni di Vivaldi (Concerto in si bemolle maggiore RV 547, Sinfonia dall’opera Dorilla in Tempe 709, Recitativo dal Concerto Grosso Mogul RV 208, Il Proteo o sia il mondo al rovescio, Concerto in fa maggiore RV 544), cui fanno da controcanto musiche popolari provenienti da Cipro (Kartsilamades) e dalla cultura Arbereshe (Moje Bokura), cui si aggiungono Tartini (Aria del Tasso e Gondoliera) e le composizioni dello stesso Sollima (Il Concerto Perduto, Moghul, The Family Tree).

Dentro questo concerto si passa dalle sonorità settecentesche di Vivaldi a quelle ritmate della musica tzigana e balcanica, dai suoni melodiosi di ascendenza mediorientale agli elementi alle dissonanze contemporanee, il tutto in un discorso però unitario e coerente.

Sollima è come sempre spaziale con il suo violoncello a cui fa fare praticamente qualunque cosa, ma devo dire che l'ensemble Il Pomo d'Oro e il violinista Federico Guglielmo reggono brillantemente il confronto, e trasformano ogni esecuzione in un momento di straordinaria goduria.

Voto: 4/5

giovedì 28 marzo 2024

Drive-away dolls

Siamo nel 1999. Un uomo (Pedro Pascal) è inseguito e ucciso da altri uomini che gli rubano la valigetta che porta con sé. Questo è solo il prologo di Drive-away dolls, perché proprio intorno a questa valigetta si sviluppa tutto il plot del film, che procede su due assi paralleli inevitabilmente destinati a incontrarsi.

Da un lato la storia di Jamie (Margaret Qualley) e Marian (Geraldine Viswanathan), due giovani ragazze lesbiche, amiche ma molto diverse nell'atteggiamento: la prima è una "sciupafemmine" e sebbene sia fidanzata con Sukie (Beanie Feldstein) non perde occasioni per andare a letto con altre, la seconda invece non ha mai superato la delusione per una storia d'amore finita da tempo e per questo motivo si è chiusa in sé stessa e nelle sue letture. Quando Sukie lascia Jamie, le due amiche decidono di staccare un po' e partire con una macchina verso Tallahassee, una città della Florida dove vive la zia di Marian.

Dall'altro lato c'è la storia della valigetta e del suo contenuto che - scopriremo più avanti - mette a rischio la carriera di un importante politico americano, che dunque ha sguinzagliato dei suoi uomini per recuperarla.

Peccato che, per un errore del gestore del noleggio auto, la macchina nel cui fondo del bagagliaio è custodita la preziosa valigetta venga data alle due ragazze, del tutto ignare della situazione.

Inizia così un inseguimento attraverso tutta la Florida, durante il quale numerose saranno le avventure e disavventure delle due ragazze e dei loro inseguitori, fino al crescendo finale con il cameo di Matt Damon nei panni dell'uomo politico danneggiato dalla circolazione del contenuto della macchinetta.

Il primo film di Ethan Coen in solitaria (senza il fratello Joel, ma con la moglie Tricia Cooke) è un divertissement che si ispira ai b-movie degli anni Settanta, ma è ambientato negli anni Novanta e rilegge il classico gangster road movie in chiave queer, con alcuni elementi che si richiamano all'immaginario psichedelico degli anni Sessanta (per esempio nelle transizioni tra una scena e l'altra). La sceneggiatura è leggera, divertita e divertente, le protagoniste sono due giovani donne alla ricerca della loro libertà e indipendenza, il mondo maschile è tratteggiato in modo quasi caricaturale, la sceneggiatura è piena di doppi sensi ed elementi comici. Il risultato è una commedia sgangherata e un po' grottesca che, pur richiamandosi a certo cinema del passato, ricorda anche molto la precedente produzione dei Coen. Il tutto però in salsa queer, non solo per le protagoniste ma anche per i riferimenti sottesi (il contenuto della valigetta è un omaggio all'artista Cynthia Plaster Caster, cui il film è dedicato). Pare che il film fosse stato scritto tempo fa, ma solo ora nel 2024 ha trovato un contesto favorevole alla sua realizzazione e distribuzione.

Durante la visione si ride, si sorride, e si spegne un po' il cervello, perché Drive-away dolls non ha grandi messaggi da trasmettere o particolari intenzioni, bensì è fondamentalmente l'occasione per divertirsi giocando con i modelli del passato e mischiandoli con la tematica queer.

Voto: 3/5


mercoledì 27 marzo 2024

Libera. Diventare grandi alla fine della storia / Lea Ypi

Libera. Diventare grandi alla fine della storia / Lea Ypi; trad. di Elena Cantoni. Milano: Feltrinelli, 2023.

Non ricordo più in quale podcast avevo sentito parlare di questo libro di Lea Ypi, ma non finirò mai di ringraziare chiunque sia stato a ispirarmi questa lettura perché Libera è un libro bello e importante.

Lea Ypi è è una filosofa albanese, nata a Tirana nel 1979, che attualmente insegna filosofia politica alla London School of Economics di Londra.

Il libro - scritto originariamente in inglese e che in Gran Bretagna ha vinto il Premio Ondaatje - è un memoir nel quale la Ypi racconta gli anni del suo passaggio dall'infanzia all'adolescenza e infine all'età adulta, ossia gli anni che vanno dal 1990-91 al 1997-98. Attraverso la propria storia personale, la Ypi ci conduce all'interno delle pieghe delle vicende storiche che hanno caratterizzato l'Albania di quegli anni, dall'eredità difficile del dittatore Enver Hoxha, alla fine della dittatura con le prime elezioni democratiche e l'avvio della transizione, fino alla fase della cosiddetta "anarchia albanese" del 1997. In quell'anno Lea Ypi terminava la scuola superiore e decideva di andare a studiare in Italia, alla Sapienza di Roma, con una borsa di studio.

Il libro comincia nel 1990 con Lea undicenne che di ritorno da scuola, per nascondersi dalle proteste di piazza in corso, si nasconde dietro la statua di Stalin, abbracciandone una gamba. Si tratta di un'immagine fortemente simbolica che riflette i sentimenti della protagonista in quel momento. Lea è cresciuta in un paese guidato da Hoxha (al potere per oltre 40 anni) secondo le più ferree regole del socialismo reale, di impronta marxista-stalinista, un paese che proprio per le idee radicali di Hoxha non solo è lontano dal mondo occidentale, ma è uscito dal Patto di Varsavia dopo la svolta di Kruschev. Lea vive con i genitori, il fratello e la nonna Nini, che le ha insegnato fin da piccola il francese, lingua che la bambina non ama perché la rende diversa da tutti i suoi compagni. Lea non sa - perché i genitori e la nonna glielo nascondono - che sua nonna proviene da una famiglia aristocratica musulmana dell'impero ottomano, e che anche per questo la sua famiglia non è particolarmente ben vista dal regime di Hoxha e ha subito nel tempo anche alcune forme di persecuzione. Ignara di tutto ciò, Lea è invece un'entusiasta di Enver Hoxha e del mondo nel quale vive che - come a tutti i bambini - le appare il miglior mondo possibile, nonostante tutte le sue contraddizioni. L'inizio delle proteste di piazza e le crepe sempre più ampie che si aprono nel regime e nella società albanese mettono Lea di fronte a domande sempre più complesse e parzialmente senza risposta.

In pochi anni, dopo la fine del regime comunista e l'avvio della transizione sul piano politico ed economico, Lea intraprende il suo percorso di crescita, dovendo fare i conti con verità di cui non sospettava l'esistenza e una realtà sempre più confusa e complessa: l'attivismo politico della madre a favore di una società liberista, il socialismo incerto del padre e la sua imprevista e difficile carriera nel partito, le rivelazioni della nonna anche grazie a un viaggio a Parigi con Lea, i tantissimi amici e conoscenti emigrati in Italia o comunque scappati dall'Albania che in parte vengono rimpatriati e in parte fanno perdere le loro tracce, i cambiamenti sociali repentini e la difficoltà a dare un senso al passato e al presente. Intanto Lea diventa una giovane donna chiamata a costruire la propria visione del mondo, mentre l'Albania all'inizio del 1997 finisce nel caos - tra proteste e guerriglia armata nelle strade - a causa della rabbia collettiva esplosa dopo il fallimento delle imprese finanziarie nate alla fine del comunismo e la conseguente perdita di tutti i risparmi di oltre un terzo della popolazione. Mentre in Albania arrivavano le truppe italiane che capeggiavano l'Operazione Alba sotto l'egida dell'ONU allo scopo di riportare l'ordine e l'Italia di Romano Prodi attuava un blocco navale nell'Adriatico che determinò un grave incidente e la morte di 81 persone, Lea vive mesi difficilissimi chiusa in casa per paura di essere ammazzata per strada, con la madre e il fratello saliti al volo su una nave che li avrebbe portati in Italia, e il resto della famiglia (padre e nonna) rimasti in Albania, mentre lei si trova a decidere cosa fare del suo futuro.

Un libro scritto con grande maestria, appassionante più di un romanzo, che getta luce su un paese per noi vicinissimo e le cui vicende hanno avuto riflessi anche sulla storia italiana, ma di cui alla fine sappiamo poco (parlo per me ovviamente!) e quello che sappiamo non sempre corrisponde perfettamente alla prospettiva delle persone che quelle cose le hanno vissute. Lea Ypi non pretende di esaurire i punti di vista e le interpretazioni della storia albanese di quegli anni, però certamente offre numerosi spunti di riflessione sul concetto di libertà, oggetto di appropriazione di ideologie contrapposte, caratterizzato da numerose sfaccettature e ambiguità, le stesse che la piccola Lea si trovò ad affrontare a cavallo tra il socialismo reale del passato e la svolta liberista degli anni Novanta.

Un libro che fa venire mille curiosità e ci conferma ancora una volta - se ce ne fosse bisogno - quanto siamo chiusi nei nostri piccoli mondi e quanto facciamo fatica a capire le "vite degli altri", anche quelli con cui per una serie di circostanze incrociamo le nostre esistenze.

Consigliatissimo.

Voto: 4,5/5


lunedì 25 marzo 2024

Pa' / di Marco Tullio Giordana; con Luigi Lo Cascio. Teatro Ambra Jovinelli, 6 marzo 2024

Mi accingo a scrivere queste brevi riflessioni quasi solo per dovere di cronaca, dal momento che non posso certamente dire che lo spettacolo mi sia piaciuto o mi sia arrivato (e uscendo dal teatro le mie amiche hanno espresso sensazioni molto simili).

Pa' è uno spettacolo che si inserisce nella coda delle celebrazioni del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (risalente al 2022), ed è un monologo costruito a partire da diversi testi dello scrittore, cui il regista Marco Tullio Giordana, con la collaborazione dell'interprete Luigi Lo Cascio, ha cercato di conferire uno sviluppo coerente e unitario, trasformandolo in uno spettacolo teatrale.

Sul palco, il solo Lo Cascio, calato nella parte di Pasolini, che si fa interprete di questa "autobiografia in versi", come la chiama Giordana, scegliendo uno stile che oscilla tra l'aulico e il naturalistico, com'è - credo - inevitabile per lo stile di scrittura di Pasolini. La scenografia suggerisce un mondo in distruzione, dando dunque una rappresentazione anche visiva alle "profezie" del poeta che - mettendo anche sé stesso in gioco - andava alla ricerca di elementi profondi di comprensione della parabola autodistruttiva del nostro paese.

Dentro questo testo c'è dunque la storia personale di Pasolini - i rapporti con la madre Susanna e con il fratello partigiano, i suoi "ragazzi di vita", la terra di origine e quella di elezione - ma anche la riflessione sull'Italia - la politica, la società, la storia.

Sulla carta tutto molto interessante, ma questi testi, una volta portati su un palco, nonostante l'impegno interpretativo di Lo Cascio, diventano faticosissimi da seguire: già la scrittura di Pasolini non è semplice di per sé, ma certamente l'assemblaggio di testi diversi non facilita l'armonia del percorso narrativo e la cattura dello spettatore.

Insomma, personalmente ho colto delle cose qua e là ma per il resto non sono riuscita a non distrarmi a più riprese. Cosicché al termine dello spettacolo capisco che dello stesso non mi rimarrà pressoché nulla.

Voto: 2,5/5

venerdì 22 marzo 2024

La presidente / Alicia Giménez-Bartlett

La presidente / Alicia Giménez-Bartlett; trad. di Maria Nicola. Palermo: Sellerio, 2023.

Per alleggerire un po' la mia sequenza di letture emotivamente impegnative decido di dedicarmi a questo giallo - in realtà forse sarebbe più corretto definirlo poliziesco - di Alicia Giménez-Bartlett che mi è stato regalato qualche tempo fa dalla mia amica G.

Della Giménez-Bartlett avevo letto a suo tempo sia un giallo della serie dedicata all'ispettrice Petra Delicado, Riti di morte, sia il romanzo Uomini nudi, non un giallo, ma una "commedia umana".

La reazione era stata diversa per questi due libri: non avevo amato particolarmente il giallo, mentre ero stata conquistata dalla "commedia umana". Con La presidente in un certo senso si è trattato della prova del nove per capire se la scrittrice spagnola sia nelle mie corde oppure no.

In questo caso si torna al giallo/poliziesco, ma le protagoniste sono le sorelle Berta e Marta Miralles, appena uscite dall'Accademia di polizia, cui viene affidato l'incarico di investigare sulla morte della presidente della Comunità Valenciana, Vita Castellà. L'intento dei vertici della polizia, a loro volta imbeccati dalla politica, è quello di far fallire le indagini e di conseguenza insabbiare il caso, per evitare di far emergere situazioni che potrebbero seriamente mettere in difficoltà il partito cui la Castellà apparteneva.

Le due giovani poliziotte però sono fermamente determinate a risolvere il caso e, nel momento in cui capiscono di non essere sostenute, anzi di essere persino ostacolate dai loro capi, procedono in maniera astuta e avventurosa, con la collaborazione di Salvador Badìa, ex assistente della Castellà.

Ovviamente Berta e Marta risolveranno il caso, dimostrando le loro capacità investigative, ma mettendosi anche personalmente a rischio.

Il romanzo della Giménez-Bartlett scorre via rapido, conquistando il lettore su diversi piani: innanzitutto sul piano della descrizione d'ambiente, che riguarda in questo caso Valencia e la sua provincia (con tutti i cambiamenti che le hanno caratterizzate), in secondo luogo sul piano dei personaggi (le due protagoniste sono molto intriganti sia quando battibeccano tra loro sia quando sono impegnate nel loro lavoro), infine sul piano della narrazione, che tiene viva l'attenzione e l'interesse fino allo scioglimento finale.

In definitiva, ho letto con molto piacere questo romanzo e mi è venuta la curiosità di conoscere Valencia e i suoi dintorni, luoghi che ancora mancano alle mie esplorazioni spagnole. Mi sono anche affezionata Berta e a Marta, e spero dunque che la Giménez-Bartlett non smetterà di scrivere storie che le vedono protagoniste.

Voto: 3,5/5

mercoledì 20 marzo 2024

La sala professori = Das Lehrerzimmer

Claudia (la splendida Leonie Benesch) è arrivata da non molto in una nuova scuola dove insegna matematica ed educazione fisica a dei ragazzi di 12-13 anni. La scuola fa i conti da molto tempo con una serie di furti di cui non è stato ancora individuato il colpevole. Il sospetto cade su uno dei ragazzi della classe di Claudia, Alì (di origine turca), che - con grande imbarazzo di Claudia - viene sottoposto, insieme ai suoi genitori, a un vero e proprio interrogatorio dal Consiglio di istituto.

Di fronte all'accanirsi della scuola nella ricerca del colpevole, con metodi quanto meno discutibili, Claudia - che invece sospetta che il colpevole si nasconda tra i professori - decide di fare la propria personale indagine e lascia la sua giacca con il portafogli in sala professori e la telecamera del suo computer accesa. Dalle immagini riprese si convince che il furto sia stato compiuto dalla segretaria della scuola, nonché madre di Oskar (Leonard Stettnisch), un ragazzino abbastanza geniale in matematica che è nella sua classe.

Da questo momento si innesca una serie di eventi a catena che fa deflagrare la situazione, rendendo il clima scolastico insostenibile e la posizione di Claudia sempre più difficile sia di fronte al corpo docente che di fronte agli studenti, nonché ai loro genitori. Le buone intenzioni di Claudia, un'insegnante idealista e che cerca di essere molto attenta al rapporto con i suoi studenti, sono quelle che tipicamente lastricano le strade per l'inferno.

Il regista Ilker Çatak ci porta nelle aule, nei corridoi e nelle sale di questa scuola (vero e proprio microcosmo dal quale - per tutta la durata del film - non si esce praticamente mai) per analizzare i meccanismi e le dinamiche relazionali innescate da eventi reali, intorno ai quali si aggrumano pregiudizi, aspettative, ingenuità, atteggiamento punitivo, frustrazioni, che attraversano tutti gli abitanti di questo microcosmo (allievi, insegnanti, genitori, personale di altro tipo).

La verità provata non la conosceremo mai e, dunque, man mano che il film procede sempre più incalzante - come fosse un vero e proprio thriller - ogni spettatore si fa le proprie opinioni, giudica, prende parte, ma senza che la sceneggiatura (scritta dal regista insieme a Johannes Duncker) gli fornisca gli elementi effettivamente necessari per dimostrare la propria tesi, come Carla insegna ai propri studenti in una delle prime scene del film, e facendoci in parte tornare in mente il tema di fondo dello splendido Anatomia di una caduta.

Questo sguardo all'interno di un ambiente scolastico in cui - piuttosto che cercare armonia ed equilibrio - tutti sono corresponsabili di divisioni e conflitti, in un clima complessivo che è democratico solo nella forma ma certamente non lo è nella sostanza e in cui il metodo della tolleranza-zero la fa da padrone, in cui non è la verità a contare ma gli umori e gli interessi individuali, è lo strumento che il regista utilizza per far luce su quanto accade nel più ampio contesto sociale nel quale la scuola si innesta.

Le scelte di formato, montaggio e musica fanno il resto di un film di valore.

Voto: 3,5/5



lunedì 18 marzo 2024

Any Other (+ Tutto Piange). Circolo Arci Angelo Mai, 2 marzo 2024

È la quarta volta che ascolto dal vivo Any Other, il progetto musicale di Adele Nigro (aka Adele Altro), che è ormai al terzo album (se non si considera l'EP Four covers).

Avevo preso il nuovo album stillness, stop: you have a right to remember appena uscito, ma l'ascolto si è fatto intensivo negli ultimi giorni prima del concerto. Devo dire che durante questi ripetuti ascolti mi sono detta più volte che il progetto Any Other cresce ad ogni nuova uscita, o quanto meno (visto che non sono una vera esperta di musica) a me va piacendo sempre di più.

Personalmente ho un rapporto strano con Any Other: ho tutti i suoi dischi, l'ho ascoltata dal vivo quasi tutte le volte che è venuta a Roma, la sua è una musica di cui riconosco il valore ma che - una volta passato il concerto - non riesco ad ascoltare tantissimo, pur riconoscendone le qualità e il respiro internazionale.

Mi pare che con l'ultimo album le caratteristiche che hanno fatto apprezzare il progetto Any Other a livello nazionale e internazionale si siano finalmente coniugate per me con la vera piacevolezza dell'ascolto.

Poi certo i concerti sono in parte un'altra cosa, che è poi la grandezza dei musicisti veri. Tra l'altro Any Other si circonda sempre di musicisti giovani e bravi, che - a parte la certezza della presenza del sodale Marco Giudici - cambiano da disco a disco e da concerto a concerto, ma regalano sempre esecuzioni di grandissimo livello.

In questo caso, per esempio abbiamo Giulio Stermieri alle tastiere, Arianna Pasini al synth e alle chitarre, Nicholas Remondino alla batteria e Marco Giudici al basso (lui l'ho sentito suonare praticamente qualunque strumento con la medesima semplicità e capacità).

L'opening del concerto - prima che Any Other salga sul palco è affidato a Tutto piange (aka Virginia Tepatti), di cui sta per uscire il primo disco - prodotto per l'appunto da Adele Altro - per l'etichetta 42 Records, la stessa di Any Other.

La giovane cantante e musicista, accompagnata da un chitarrista, ci fa ascoltare alcune sue canzoni, e ci comunica tutta l'emozione di esibirsi di fronte al numeroso pubblico dell'Angelo Mai, nel quale si nasconde anche suo padre. Sonorità e testi sono molto interessanti, e il pubblico - all'interno del quale ci sono sicuramente anche suoi amici - apprezza molto questo avvio di serata.

Salgono poi sul palco Adele e gli altri musicisti, che aprono il concerto cantando a cappella tutti insieme l'inizio di Second Thought prima di posizionarsi ciascuno al suo strumento e trasformare il canto nudo in musica arrangiata. Seguono alcune canzoni dell'ultimo album tra cui Zoe's seeds, Awful Thread, If I don't care, nonché Capricorn No dall'album Two, geography. A questo punto tutta la band abbandona il palco, e Adele chiama Virginia Tepatti per eseguire insieme la cover di Waiting di Angel Olsen (molto bella) e poi da sola Mother goose, sempre da Two, geography. Quando tutta la band risale sul palco ci attendono Geography, Something, Travelling Hard, Extra episode e Sonnet #4. Arrivati a tre canzoni dalla fine, Adele ci ricorda che loro non fanno il bis, e che per chi ci è affezionato faccia finta che siano usciti dal palco e rientrati su richiesta - a gran voce - del pubblico.

Ogni esecuzione della band è un'esperienza musicale a sé: gli arrangiamenti e le interpretazioni sono molto diverse da quelle incise nel disco, spesso anche la durata mi pare differente. Si privilegiano i cambi di ritmo, l'alternanza di melodia e forme di cacofonie, suoni sussurrati e crescendo musicali che producono quasi un muro del suono. Io sono troppo ignorante musicalmente per dire di più, e non a caso a volte faccio anche fatica a star dietro alle scelte di Any Other, ma - dall'altro lato - ne riconosco le eccellenti qualità e capisco perché questa ragazza sta facendo molta strada, e non solo in Italia.

Adele conferma l'impressione che già avevo avuto in precedenti concerti, cioè alterna un atteggiamento di quasi durezza e cipiglio, soprattutto nell'esecuzione delle canzoni, che poi però si scioglie in tenerezza e dolcezza appena ce n'è l'occasione.

Bel concerto, nonché per me prima occasione per andare all'Angelo Mai, una delle location romane che ancora mi mancava.

Voto: 3,5/5