venerdì 28 febbraio 2025

Spatriati / Mario Desiati

Spatriati / Mario Desiati. Torino: Einaudi, 2021.

Comincio a pensare di non avere un particolare feeling con i vincitori del Premio Strega. A suo tempo avevo comprato e letto con grandi aspettative Il colibrì di Sandro Veronesi e ne ero rimasta profondamente delusa, al punto da decidere di non andare a vedere nemmeno il film.

Con Spatriati partivo da premesse molto più promettenti: il romanzo di uno scrittore pugliese (che viene da Martina Franca, non molto lontano da dove sono nata io) che parla di temi quali il rapporto con le origini, l'identità, la libertà, tutti temi che mi sono cari.

E però alla fine nemmeno la presenza di temi così sensibili per me è riuscita ad appassionarmi al romanzo di Desiati.

Al centro di Spatriati (termine che nel dialetto barese ha un'accezione più ampia e complessa che nell'italiano e che Desiati spiega molto bene) ci sono fondamentalmente due persone, Francesco e Claudia, e in subordine i loro genitori, Elisa e Vincenzo quelli di Francesco, ed Etta ed Enrico quelli di Claudia. L'intera vicenda, che si sviluppa in un arco temporale piuttosto lungo, si svolge sostanzialmente in due luoghi: Martina Franca e Berlino, che sono poi anche i luoghi di Desiati.

I due ragazzi si conoscono a scuola: Francesco sta tendenzialmente in disparte, mentre Claudia è esuberante e anticonformista. I loro destini si incrociano quando si scopre che Enrico ed Elisa, che lavorano insieme in ospedale, sono amanti. Questo lega indissolubilmente anche Francesco e Claudia, e rende il loro rapporto inclassificabile e a suo modo del tutto speciale.

Da qui in poi seguiremo i percorsi divergenti e convergenti dei due: Claudia che non si fa sfuggire l'occasione per andare lontano dal posto dove è nata e, dopo qualche tentativo fallito, trova una sua dimensione a Berlino, dove il suo essere una personalità non convenzionale non rappresenta un'eccezione; Francesco a lungo non si allontana dalla sua terra, per molto tempo non si permette di esprimere pienamente la propria identità, anche perché nasconde persino a sé stesso la propria natura e i propri desideri, ma quando raggiungerà Claudia a Berlino si aprirà a tutto quello che ha tenuto a lungo compresso, sebbene non saprà poi resistere al richiamo delle radici.

Immagino che ci sia parecchio di autobiografico in questo libro di Desiati e non a caso nel libro i dettagli e la verosimiglianza dei luoghi e delle situazioni sono particolarmente curati.

Eppure mentre leggo il libro di Desiati non riesco a non avere l'impressione della finzione, e forse anche, da certi punti di vista, della semplificazione.

E nemmeno posso dire che con lo scrittore pugliese c'è una vera distanza generazionale: lui è del 1977, io del 1973. Non a caso molte delle premesse del libro, del mondo che Desiati racconta li riconosco perfettamente e li conosco molto bene. Però poi il racconto va a cercare un sentire che a me non riesce a togliere la sensazione di un'artificiosità.

Non posso dire di non aver letto gradevolmente il libro - che è scritto molto bene - ma per me non è decollato e temo che mi scivolerà addosso come altre letture di cui serbo ricordi molto frammentari.

Voto: 3/5

mercoledì 26 febbraio 2025

Elena la matta / con Paola Minaccioni. Teatro Sala Umberto, 6 febbraio 2025

Lo spettacolo portato in scena da Paola Minaccioni per la regia di Giancarlo Nicoletti è ispirato al libro di Gaetano Petraglia La matta di piazza Giudia (che è stato riadattato per il teatro da Elisabetta Fiorito), integrando la storia di Elena Di Porto con quella di Settimia Spizzichino, l’unica sopravvissuta al rastrellamento del ghetto, nonché altre testimonianze di quel periodo provenienti dalla comunità ebraica di Roma.

La scenografia di Alessandro Chiti – come sempre molto riconoscibile nel suo impatto visivo - presenta un piano inclinato in legno in cui si aprono due alloggiamenti dove trovano posto i musicisti Valerio Guaraldi, compositore delle musiche originali, e Claudio Giusti, che accompagnano dal vivo con canzoni, musiche e suoni la performance di Paola Minaccioni. Davanti a questo piano inclinato stracci e vestiti ammucchiati.

Paola Minaccioni si muove sia sul piano inclinato intorno ai musicisti sia davanti a esso, utilizzando di volta in volta alcuni degli abiti ammucchiati per raccontare momenti diversi della storia o rappresentare personaggi collaterali.

La protagonista, Elena Di Porto, nasce a Roma nel 1912 da una famiglia ebrea; la sua vita sembra instradata lungo il percorso comune alla maggior parte delle donne di quel periodo. Un marito a cui essere sottomessa, dei figli da tirare su da sola, il clima sempre più soffocante creato dal regime, soprattutto dopo le leggi razziali, la guerra e la persecuzione nei confronti degli ebrei.

Ma Elena non è una donna come le altre: è indomita, coraggiosa, generosa, di mente aperta e non tollera i soprusi. Per questo sarà fortemente osteggiata e il suo ribellarsi sarà stigmatizzato come pazzia, costringendola a più ricoveri in ospedale psichiatrico, a Santa Maria della Pietà; subirà poi il confino in Basilicata e al ritorno a Roma vivrà il rastrellamento del ghetto e la deportazione.

Attraverso la dirompente fisicità di Paola Minaccioni – bravissima e camaleontica – la figura di Elena e quella delle altre donne ch’ella incontra a Santa Maria della Pietà e al confino prendono vita davanti ai nostri occhi in maniera vivida ed emozionante.

Grazie all’uso di un romanesco verace e antico – che porta con sé una percezione di credibilità e immediatezza – lo spettacolo di Nicoletti riesce a trasmettere quel mix unico di ironia, commozione e tragedia che è tipico della romanità, senza scadere mai nella banalità e nella retorica, e sfuggendo – dal mio punto di vista – al rischio di diventare uno spettacolo a tesi.

Un monologo che crea un’identificazione forte del pubblico con le vicende della donna raccontata, muovendo sentimenti senza scadere nel sentimentalismo.

Il lungo appaluso finale del pubblico, che in parte si alza anche in piedi, è la conferma del fatto che lo spettacolo arriva dritto al cuore e alla mente degli spettatori.

Voto: 4/5

lunedì 24 febbraio 2025

The substance

Il film di Coralie Fargeat da quando è uscito mi ha alternativamente attirato e respinto in ugual misura. Arrivati a febbraio avevo quasi messo una pietra sopra alla possibilità di vedere il film al cinema (che per me significa alla fine rinunciare totalmente a vedere il film). E invece – grazie al Cinema delle provincie – riesco non solo a vedere The substance sul grande schermo ma persino in lingua originale sottotitolata.

The substance vede protagonista Elizabeth Sparkle (Demi Moore), una star che ha avuto molto successo in gioventù e continua a condurre un programma di fitness in televisione a 50 anni. L’emittente televisiva attraverso la figura del produttore Harvey, interpretato da un insopportabile Dennis Quaid (primo di una serie di uomini rappresentati come degli imbecilli) decide però che è arrivato il momento di mettere in cantina Elizabeth per lasciare spazio a una ragazza giovane, una starlette emergente.

Elizabeth non riesce ad accettare la fine della sua popolarità, che vive anche come la conferma della fine della sua gioventù, e non è a suo agio con un corpo che inevitabilmente sta invecchiando.

Quando, dopo un incidente in macchina, si trova di fronte alla possibilità di utilizzare un metodo che le permetterà di “dare vita” a un’altra sé più giovane, decide di coglierla e da questa operazione “nasce” Sue (Margaret Qualley), giovane, bella e dal fisico perfetto, che immediatamente viene scritturata dalla medesima emittente che ha licenziato Elizabeth.

L’utilizzo di questa sostanza prevede che le due donne si alternino ogni 7 giorni, attraverso un processo che consente a Elizabeth di continuare ad alimentare la vita di Sue. Ben presto però Sue comincia a contraddire questa regola e a forzare le condizioni producendo una serie di conseguenze inaspettate, tragiche e grottesche al contempo.

Il tema è interessantissimo e assolutamente di attualità, pur essendo al contempo esistenziale: il rapporto di una donna – soprattutto una donna di spettacolo – con il passare degli anni e la prospettiva della perdita della bellezza e della perfezione del proprio corpo, rapporto non banale di per sé stesso, ma esacerbato da una società che ha fatto della bellezza e della performance dei valori assoluti. Lo sguardo degli uomini è presente in maniera significativa nel film, e certamente è alla base del fatto che Elizabeth non accetti di non essere più giovane e bella, ma per Fargeat sono le donne stesse ad alimentare in qualche modo questo circolo vizioso.

Cosa siamo dunque disposte ad accettare per avere una seconda chance di giovinezza, anche quando questa giovinezza ci toglie quello che potremmo ancora avere in età matura?

E dentro questa domanda ce ne sono molte altre, a partire dal rapporto tra le generazioni e tra i generi fino ad arrivare al cambiamento della televisione e dell’aspettativa collettiva che nel tempo ha esacerbato l’attenzione verso il corpo e l’ostentazione della sua perfezione.

A partire da tutte queste premesse di grandissimo interesse la Fargeat costruisce un film esagerato, nel quale tutto è decisamente sopra le righe, dalla narrazione alle immagini, calcando la mano sul raccapriccio e l’orrore dello spettatore fino a uno splatter che evolve nel trash, e infine nel ridicolo.

Nell’ultima mezz’ora del film – dal mio punto di vista quasi totalmente inutile a livello narrativo e di contenuti – non si può fare a meno di ridere, e - se già la nausea ci aveva accompagnato durante tutta la visione - in quest’ultima parte sembra che la regista si accanisca sul povero spettatore per spingerlo al quasi conato di vomito. E lo dico io che ho passato parte del film coprendomi gli occhi. Ma - si sa - io sono particolarmente sensibile a queste cose.

Voto: 3/5


venerdì 21 febbraio 2025

I cani di Riga / Henning Mankell

I cani di Riga / Henning Mankell; trad. di Giorgio Puleo. Milano: Feltrinelli; Venezia: Marsilio, 2021.

Della serie dell'ispettore Wallander avevo letto solo il primo giallo in occasione di una vacanza - nel 2014 - in Danimarca, che prevedeva una piccola puntatina nella Svezia meridionale, e - da quanto leggo nel post scritto a suo tempo - l'avevo trovato gradevole ma senza entusiasmi, tanto che dopo non avevo letto più nulla.

Quest'anno, con l'organizzazione all'ultimo minuto del viaggio in Scania, decido di ridare un'altra chance a Henning Mankell e compro il secondo libro della serie, I cani di Riga.

Questo secondo romanzo è ambientato nei primissimi anni Novanta, all'indomani della caduta del muro di Berlino e durante il processo di sgretolamento dell'impero sovietico, e proprio intorno a questi temi si sviluppa la narrazione.

Tutto comincia con un canotto che va alla deriva verso le coste svedesi con due uomini morti a bordo. Il caso viene affidato al commissario Wallander della stazione di polizia di Ystad, e ben presto si scopre che i due uomini sono lettoni e probabilmente erano coinvolti in un traffico di droga. Per questo motivo viene inviato in Svezia dalla Lettonia il comandante Liepa al fine di acquisire informazioni sull'indagine in corso e trasferirla poi a Riga. Tra Wallander e Liepa si crea una buona sintonia, cosicché quando tornato in patria il maggiore Liepa viene assassinato, Wallander viene chiamato in terra lettone per partecipare alle indagini.

Sarà per lui l'occasione di conoscere un mondo che gli è in buona parte sconosciuto, soprattutto per le dinamiche in corso dopo la dissoluzione dell'impero sovietico, i tentativi di indipendenza effettiva dei paesi baltici e le interferenze russe.

Wallander dovrà presto lasciare la Lettonia, ma ci tornerà successivamente sotto falso nome per giungere al cuore della verità sulla morte del comandante Liepa e per dare manforte alla moglie Baiba.

Come ci spiega lo stesso Mankell nella postfazione al romanzo, la scrittura di questa storia è stata particolarmente complicata, come sempre accade quando si parla di luoghi che si conoscono meno e di cui bisogna verificare i riferimenti; e tanto più in questo caso, visto che la scrittura dello stesso è coincisa con un periodo storicamente molto complesso per il mondo ex-sovietico e dunque lo scrittore ha dovuto necessariamente ricorrere a persone più interne al contesto e con maggiori conoscenze specifiche.

Devo dire che - rispetto al primo romanzo che ricordo poco e che probabilmente risultava meno appassionante - di questo ho apprezzato sia il ritmo incalzante che soprattutto da un certo momento in poi mi ha tenuta incollata alle pagine, sia il substrato storico-politico che, pur nel contesto di un'opera di finzione, è descritto in modo attento e interessante.

Poca Svezia dunque in questo libro - se non in termini comparativi - e molta Lettonia (e paesi baltici in generale), quindi una lettura che non mi ha fornito particolari suggestioni rispetto al mio viaggio in Scania, ma certamente ha rafforzato il mio desiderio di vedere i paesi baltici a distanza di ormai oltre trent'anni dal momento raccontato in questo giallo.

Voto: 3,5/5

mercoledì 19 febbraio 2025

The brutalist

Tenevo talmente tanto a vedere questo film di cui avevo cominciato a sentir parlare fin dalla sua presentazione a Venezia che mi sono presa mezza giornata di ferie per poter andare a godermelo allo spettacolo del pomeriggio, in versione originale sottotitolata, e anche in pellicola 70 mm (su cui è stato riversato il formato VistaVision con cui il regista ha voluto girare il film per coerenza con il periodo storico di ambientazione e per il tipo di riprese). Il film dura circa tre ore e mezzo e si articola in due parti (più un prologo e un epilogo) che prevedono un intervallo di circa 15 minuti voluto dallo stesso regista.

Come già si capisce da questa breve introduzione, il film di Brady Corbet non è un film qualunque, e certamente è molto diverso da quelli a cui siamo ormai abituati.

La storia è quella di László Tóth (Adrien Brody), un architetto ungherese formatosi alla scuola del Bauhaus, che, perseguitato in patria in quanto ebreo, nel 1947 arriva America su una nave piena di migranti. La prima cosa che vedrà sarà la statua della libertà, ma dalla sua prospettiva la vedremo anche noi rovesciata, introiettando dunque quel senso di angoscia e in fondo anche di mistero che attraversa tutto il film.

Seguiremo poi László in tutte le sue peripezie: l’arrivo a Philadelphia dal cugino Attila che ha un negozio di mobili, la progettazione di uno studio/biblioteca per il magnate Harrison Van Buren (Guy Pearce), la caduta in disgrazia e il lavoro da operaio, poi l’insperato riconoscimento proprio dello stesso Van Buren che diventa il suo mecenate e che gli commissiona la realizzazione di un grande edificio pubblico con palestra, biblioteca e una cappella cristiana al centro. Proprio grazie all’avvocato ebreo di Van Buren, László riesce a ricongiungersi in America con la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsófia (Raffey Cassidy). Lo seguiremo poi ancora nell’evolversi del rapporto con Van Buren e la sua famiglia, nelle difficoltà della realizzazione dell’edificio che gli è stato commissionato e su cui mette anche parte dei propri soldi, nella lotta contro le conseguenze dei traumi del passato e di quelli recenti, nella solitudine umana e artistica, nel senso di estraneità al contesto, fino all’epilogo – ambientato durante una biennale di architettura a Venezia negli anni Ottanta, quando la nipote Zsófia rivelerà infine alcune verità che consentiranno di comprendere meglio il percorso di László e quello che abbiamo visto fin qui.

È evidente che Brady Corbet punta al film monumentale, all’epopea di un uomo, che viene presentata allo spettatore come fosse una vicenda reale - una specie di ricostruzione documentaria – e invece, pur con qualche ispirazione nella realtà, è una storia di finzione.

La cosa più sorprendente è che il regista costruisce questo sofisticato oggetto cinematografico con un budget ridicolo rispetto a quello di altri film molto meno ambiziosi, e ci riesce mettendo pienamente a frutto la straordinaria potenza del cinema, ossia quella che stimola l’immaginazione e alimenta la fame che l’essere umano ha di storie. Cosicché in The brutalist tutto si gioca su quello che viene suggerito sullo schermo, e non tanto su quello che viene mostrato, nonché ovviamente sulla capacità degli attori di instillare pensieri e sensazioni. In questo senso, anche la colonna sonora conferma lo stesso approccio: Brady Corbet sceglie Daniel Blumberg, che – come so avendolo visto dal vivo – è un maestro nel creare suggestioni e mondi attraverso sonorizzazioni inattese, spesso a partire da oggetti semplici e di uso quotidiano, cosa che fa anche nel film.

E forse questo suo punto di forza è anche la sua debolezza, perché mette in parte nelle mani dello spettatore la riuscita della narrazione. Non a caso quello che vediamo accadere mantiene un’aura di ambiguità e di mistero che ognuno è chiamato a sciogliere con la propria sensibilità. Ebbene, è proprio da questo punto di vista che il film non mi ha convinta: i numerosi spunti e temi suggeriti dal film per me sono rimasti tutti in superficie, talvolta impliciti o addirittura arcani, e complessivamente ho trovato sia la storia che i personaggi emotivamente poco risuonanti con me, cosicché la rivelazione finale che doveva gettare luce su tutto il film mi è risultata tutto sommato fiacca e poco originale. Anche l’eco di tematiche dell’attualità se anche c’è non mi è parsa particolarmente incisiva.

Insomma, per me questo film rimarrà certamente memorabile a livello di qualità registica, ma non sul piano della raffinatezza narrativa e dell’intensità emotiva (che è poi la stessa sensazione con cui talvolta esco dalla visione dei film di Paul Thomas Anderson).

Voto: 3/5


lunedì 17 febbraio 2025

Euphoria. Art is in the air. Balloon Museum, La Nuvola, 2 febbraio 2025

L’opzione di andare a vedere la mostra Euphoria – Art is in the air organizzata dal Balloon Museum presso La Nuvola non rientrava nei miei programmi. La immaginavo una via di mezzo tra un luogo per bambini e una roba instagrammabile, ma poco significativa.

Poi, dopo aver ascoltato un podcast della rivista Internazionale in cui se ne parlava, mi sono resa conto che poteva valere la pena farci un pensiero, in quanto le installazioni presentate nel percorso sono vere e proprie opere d’arte che utilizzano l’aria come loro elemento caratterizzante.

Ed eccomi qua una domenica mattina, praticamente all’ora di pranzo, insieme a S., all’ingresso della mostra. Nonostante l’orario prandiale, i bambini non mancano, però devo ammettere che l’organizzazione della mostra è ottima e consente sia agli adulti che ai bambini di poterla godere al meglio. Ad ogni installazione – o quasi – c’è una persona della mostra (di solito giovane) che spiega a tutti – soprattutto ai bambini – quali sono le regole di comportamento perché l’interazione avvenga nel migliore dei modi e che vigila perché questo effettivamente accada.

La gente è tanta, ma devo dire che, adottata qualche semplice misura – tipo aspettare che il grosso del gruppo (si entra a fasce orarie) sia passato alla stanza successiva oppure muoversi prima che gli altri lo facciano –, è possibile visitare la mostra piacevolmente.

Nel percorso si alternano opere da ammirare e basta (bellissimi i grandi palloni rossi che oscillando sembrano quasi degli alieni - mi hanno fatto pensare al film Arrival) ad altre con cui è possibile interagire, anzi che utilizzano l’azione dei visitatori per dispiegare le loro potenzialità (penso al grande pallone trasparente sospeso in una stanza che porta sulla superficie dei carboncini, e che muovendosi grazie alle spinte dei visitatori disegna sul soffitto e sulle pareti).

Alcune opere sono piuttosto semplici e per me poco significative (per esempio quelle fatte come veri e propri gonfiabili, sinceramente non troppo diversi da quelli dove i bambini festeggiano i compleanni), altre sono più sorprendenti o divertenti a seconda dei casi (la stanza con i pesci colorati fluttuanti l’ho amata, ma anche la casetta piena zeppa di palloni celesti, e pure la stanza delle bolle di sapone e quella dei palloni bianchi circondata di specchi), alcune sono proprio da effetto wow, per esempio l’enorme installazione di sfere luminose che si muovono e cambiano colore a ritmo di musica al di sopra di un grande divano tondo centrale, mentre tutto intorno è possibile dondolarsi sulle altalene, o ancora l’enorme piscina piena di oltre 1.500.000 di palline colorate, ma anche la macchina che sputa-anelli-di-fumo di fronte a sé.

Ma quelle citate sono solo alcune delle tante installazioni che è possibile vedere o sperimentare, e man mano che il percorso procede ci si lascia andare e contagiare dall’atmosfera giocosa e fanciullesca di questa mostra, che è poi il fine ultimo di tutte queste opere, accomunate appunto dal binomio tra aria e sensazione di gioia e libertà.

Il mio tendenziale snobismo per una volta viene messo a tacere, e mettendo da parte qualche sovrastruttura di troppo mi lascio alla fine andare a un divertimento semplice e immediato, senza per questo essere stupido.

Nonostante il biglietto decisamente caro, direi che ne può valere la pena. E io ho approfittato della mostra anche per fare tante foto originali e strane portandomi dietro la macchina fotografica.

Voto: 3,5/5

venerdì 14 febbraio 2025

Marta Del Grandi (+ Adult matters). Monk, 1 febbraio 2025

Di Marta Del Grandi ho sentito parlare la prima volta in occasione di un concerto al Monk tenutosi di mattina a cui il mio amico E. mi aveva caldamente suggerito di partecipare.

In quella circostanza non ce l’avevo fatta, e tra l’altra al primo ascolto il disco Selva, l’ultimo della cantante, non mi aveva colpito particolarmente.

A questo giro però – anche approfittando dell’iniziativa dei concerti che si tengono presto (alle 19) – decido di non lasciarmi sfuggire l’occasione di vedere se questa compositrice, musicista e cantante è così brava come dice il mio amico e come leggo dappertutto.

Quando arriviamo al Monk è tutto chiuso, ma il tempo di bere un bicchiere di birra e le porte della sala concerti si aprono. Io mi sistemo, come sempre, in prima fila con la mia macchina fotografica.

L’opening è affidato al progetto musicale del viterbese Luigi Bussotti che si chiama Adult matters: il giovane musicista è emozionatissimo, ma il pubblico lo accoglie con grande attenzione e calore, e le canzoni che ci suona e canta con la sua chitarra – seppure ancora un po’ acerbe – dimostrano qualità e determinazione, quelle che certamente gli hanno consentito di essere prossimo alla pubblicazione del suo primo album.

Dopo una breve pausa, ecco arrivare sul palco la star della serata, Marta Del Grandi, nata ad Abbiategrasso (in provincia di Milano), vissuta a lungo all’estero e ora tornata a Milano.

Ha all’attimo due album, Until we fossilize e Selva: in entrambi i casi la maggior parte delle canzoni sono in inglese, sebbene la canzone che dà il titolo all’ultimo album (che comunque risale a due anni fa) sia in italiano, e lei stessa proponendocela sul palco ci dice che è quella della svolta in italiano e che doveva andare a Sanremo.

Accanto a lei sul palco Vito Gatto (violino, tastiere e synth) e Alessandro Cau (batteria), mentre dietro le quinte opera Matthew Fortunati (il fonico che è anche addetto al basso virtuale).

Appena comincia a cantare la sala del Monk si impregna di musica e si ha nettamente la sensazione di trovarsi di fronte a una musicista che è nata per stare su un palco a cantare e suonare.

La sua presenza scenica è composta ma molto caratterizzata, e il suo modo di cantare (e suonare) è pieno e maturo, con sonorità che – al di là della lingua in cui canta – riportano a mondi musicali internazionali, pur non dimenticando le sonorità italiane. Il fatto che Marta Del Grandi citi Fiona Apple e Big Thief tra i suoi riferimenti sinceramente non mi stupisce, ma anche chi ci ritrova delle sonorità alla Daniela Pes direi che non sbaglia.

E però alla fine la musica di Marta Del Grandi è tutta e solo sua, negli arrangiamenti, nei testi, nelle sonorità, ed è – non c’è dubbio – grande musica, che merita di essere scoperta da un pubblico ben più ampio.

Durante il concerto, la musicista milanese ci offre anche i duetti con due amiche cantanti romane, Vera Di Lecce e Valentina Polinori, che chiama sul palco, e con cui esegue non solo canzoni proprie, ma anche loro canzoni, conferendo a esse la forza della sua maturità musicale.

La setlist vede canzoni dell’album Selva mescolate ad altre del primo album Until we fossilize, e si conclude con l’esecuzione di Lullaby Firefly (canzone che come ci dice raramente esegue ai concerti) e poi della cover di Hotel Supramonte di Fabrizio De Andrè.

Dopo il ritorno sul palco e un’ultima canzone, Marta Del Grandi e i suoi musicisti ci salutano ancora e usciamo nella serata invernale romana che è ancora tutta davanti a noi.

Voto: 4/5

mercoledì 12 febbraio 2025

Anna Cappelli / di Annibale Ruccello; con Valentina Picello. Teatro India, 26 gennaio 2025

Dopo aver inseguito a lungo la possibilità di vedere quest’opera (l’ultima) di Ruccello a teatro, mi capita addirittura di vederla due volte in meno di un anno.

Dopo aver assistito alla messa in scena diretta da Renato Chiocca al Cometa Off e interpretata da Giada Prandi, eccomi stavolta al Teatro India dove Anna Cappelli è interpretata da Valentina Picello con la regia di Claudio Tolcachir.

Su questo ultimo testo depositato in SIAE da Annibale Ruccello prima della sua prematura scomparsa non dirò quasi nulla: per la storia, il modo in cui è organizzata e i temi trattati rimando alla mia precedente riflessione.

Mi soffermerò invece sulle differenze della messa in scena e della recitazione.

In questo caso il palcoscenico è completamente ricoperto da una specie di strato di terra in cui affondano alcuni oggetti d’arredo ed elettrodomestici: una lavatrice, un frigorifero coricato, uno specchio, una poltrona, una cyclette, un lampadario. Tutto ha un aspetto consunto e deteriorato.

In questo ambiente troviamo – fin dal momento dell’ingresso in sala – Anna (l’attrice Valentina Picello), che a sua volta ha un aspetto fortemente trasandato, vestiti malmessi e capelli arruffati. Altri abiti sono disseminati qua e là sulla scena, e saranno utilizzati dall’attrice nel corso della rappresentazione.

Nelle diverse scene che compongono lo spettacolo l’attrice si muove in questo spazio gravitando ora sull’uno ora sull’altro degli oggetti in scena, e si spoglia e si riveste utilizzando gli abiti presenti sul palcoscenico. Un parziale abbassamento delle luci segna la fine di una scena e l’inizio di un’altra.

Di tanto in tanto una canzone irrompe nel monologo, e la protagonista balla o canta su questa musica, ai cui estremi si collocano Raffaella Carrà e il canto religioso Tu sei la mia vita.

Come già avevo avuto modo di far notare dopo lo spettacolo al Cometa OFF, Anna Cappelli è un testo che si presta a molte diverse interpretazioni e coloriture, a seconda delle scelte del regista e dell’interprete, e grazie anche alla stratificazione dei suoi contenuti.

Se Giada Prandi aveva scelto di rendere il personaggio di Anna un po’ naif, Valentina Picello sceglie una versione di Anna più sanguigna ai limiti dell’isterico, e tutta la rappresentazione acquista una venatura grottesca che pure è presente nel testo di Ruccello e che qui viene scelta come principale linea interpretativa.

Non ho mai letto l’originale dell’opera, ma da un confronto a distanza temporale così ravvicinata tra le due rappresentazioni ho anche avuto la sensazione che questa versione sia più libera – forse anche un pochino più moderna - nel testo recitato rispetto a quella, probabilmente più fedele, della Prandi.

Resta l’occasione per ogni attrice che interpreta Anna Cappelli di calarsi in modo se vogliamo personale dentro gli stati d’animo di questa donna, per farne un personaggio più sfortunato o più tragico, più ingenuo o più folle, più grottesco o più inquietante, o forse tutte queste cose insieme. E questo grazie al genio di Ruccello.

Voto: 4/5

lunedì 10 febbraio 2025

A complete unknown

Quello che sto per scrivere immagino che farà strabuzzare gli occhi a molti. Di Bob Dylan non so praticamente nulla: ovviamente so che è un’icona della musica e non solo, ma conosco solo pochissime canzoni e non ho mai approfondito la sua storia individuale.

Cosicché arrivo al cinema – al termine di una giornata faticosissima in cui il mio unico desiderio è stare al buio e non sentire parlare altri se non gli attori sullo schermo – in una condizione di totale verginità rispetto a quello che sto per vedere.

Scopro così solo durante la visione che il film di James Mangold è tratto dal libro di Elijah Wald Dylan goes electric! del 2015, che approfondisce la prima fase della carriera di Bob Dylan, quella che va dal 1961 al 1965, fino alla cosiddetta “svolta elettrica”.

Siamo in un’America in grande fermento: Bob (Timothée Chalamet) arriva diciannovenne a New York con la sua chitarra per incontrare il suo mito, Woody Guthrie, che è semiparalizzato in ospedale, e per suonare le canzoni che scrive. Nel suo incontro con Guthrie conosce anche Pete Seeger (Edward Norton), e Woody e Pete riconosceranno in questo giovane misterioso un grande talento compositivo e musicale. Seeger diventerà anche suo mentore e padre putativo musicale, e lo accompagnerà durante i suoi primi passi nell’ambiente musicale newyorkese.

Scritturato dalla Columbia Records e inizialmente all’ombra di Joan Baez (Monica Barbaro), all’epoca già famosa, ben presto Dylan conquista non soltanto la scena newyorkese, all’interno della quale diventa il cantore e il paladino dei diritti civili, ma raggiunge un successo che va ben oltre i confini americani.

Mentre fa i conti con questo successo di cui mal sopporta gli effetti collaterali, la sua vita sentimentale oscilla tra Sylvie (Elle Fanning) e Joan, e la sua inquietudine lo rende sempre più insofferente nei confronti delle classificazioni in cui il mondo musicale e la società vorrebbero ingabbiarlo.

Da qui il passo che lo porterà a rinnegare il folk impegnato che lo ha reso famoso e appunto la “svolta elettrica” che lo condurrà su territori musicali nuovi sia sul piano delle sonorità che su quello dei testi.

La famosa (per chi conosce Dylan) partecipazione al Newport Folk Festival è il momento della rottura definitiva con la scena folk e l’inizio di questa nuova fase, di fronte a un pubblico spaccato a metà.

Non potendo fare nessun tipo di esegesi del film rispetto alla vicenda e alla musica dylaniana, mi limiterò a considerazioni che riguardano solo l’aspetto cinematografico.

Il film si regge in buona parte sulla performance attoriale e musicale (il che è molto meno scontato) di Timothée Chalamet che fa un grande lavoro a livello fisico e vocale per uscire da sé stesso e farsi dimenticare dal pubblico a vantaggio del personaggio che interpreta. Molto brava – soprattutto a livello musicale – Monica Barbaro nei panni di Joan Baez, e se la cava più che bene anche Edward Norton.

Mi è anche piaciuta la scelta di scegliere e utilizzare le canzoni di Dylan come parte integrante della narrazione per far progredire la storia raccontata, che fa del film un biopic anomalo, quasi un musical senza coreografie.

Se devo invece soffermarmi su quello che mi è arrivato del film, personalmente me lo sono goduto nella massima libertà come la storia di un giovanissimo talento irrequieto, il cui rapporto con la musica è talmente totalizzante che lo porta a voler esplorare continuamente nuovi mondi musicali e a sfuggire non solo a quello che gli altri vogliono da lui, ma persino a sé stesso. La stessa irrequietezza è probabilmente quella che lo porta a non trovare una vera stabilità sentimentale, presto stufo della vita con Sylvie, ma insofferente anche nei confronti della personalità di Joan. Se poi sia la realtà storica o meno a me importa poco.

Dal mio punto di vista un ottimo godimento cinematografico e musicale.

Voto: 3,5/5


venerdì 7 febbraio 2025

Il mio giardino persiano = My favourite cake

Approfitto della proiezione organizzata dalla Casa internazionale delle donne presso il cinema 4 fontane con il live streaming dei due registi Maryam Moghaddam (II) e Behtash Sanaeeha e della protagonista Lili Farhadpour per vedere in lingua originale questo film iraniano, presentato all’ultimo festival di Berlino e, ovviamente, osteggiato in patria.

Il film vede protagonista Mahin, una donna settantenne, ex infermiera, vedova da molti anni, che vive da sola nella sua bella casa con giardino a Teheran. Data la lontananza dei figli, che da anni sono andati a vivere all’estero, e le difficoltà sempre maggiori a condividere momenti e attività con le amiche – che hanno la sua stessa età e sono sempre più piene di acciacchi -, Mahin soffre di solitudine, ai limiti della depressione.

Decisa a incontrare qualcuno, Mahin con uno stratagemma conosce Faramarz (Esmaeel Mehrabi), un ex soldato, divorziato, solo anche lui, che sbarca il lunario facendo il tassista nonostante l’età. Mahin invita Faramarz a casa e i due trascorrono una serata insieme, serata piena di risate, di balli, di tenerezza, durante la quale – nel privato della casa di Mahin e del suo bellissimo giardino – la donna può vestire i suoi vestiti migliori e truccarsi, i due possono bere vino e mangiare insieme, e anche parlare liberamente di tutto.

Questa serata che sembra preludere a un amore – forse impossibile – tra i due viene interrotta bruscamente da un destino infausto, che toglie speranza ma dall’altro lato conferisce significato e ancora più forza alla bellezza delle cose e di quello che ci viene negato.

Esattamente come accade in un paese come l’Iran, nella quotidiana lotta impari dei cittadini e soprattutto delle cittadine per ritagliarsi frammenti di bellezza e libertà in un contesto asfittico e soffocante, fatto di regole e divieti.

I registi, che insieme alla protagonista sono sotto processo per il film e non possono allontanarsi dal paese, ci dicono che il loro intento è stato quello di raccontare la realtà delle cose, di andare oltre la censura imposta nel rappresentare anche la vita privata dei cittadini iraniani, e di mostrare che nella vita quotidiana, tutte le volte che si riesce a essere lontani dagli occhi della polizia morale, gli iraniani sono affamati di vita, hanno passioni e sono liberi nei loro pensieri e parole come i cittadini di qualunque altro paese del mondo.

E se lo sguardo si posa su un uomo e una donna avanti con l’età il tutto assume un valore ancora più agrodolce, perché la sensazione che non c’è più tempo per aspettare che qualcosa accada ma che è necessario farlo accadere è fortissima. E riguarda gli individui esattamente come la società a cui appartengono.

I capelli colorati di rosa della regista nel chiuso della sua casa di Teheran sono un segno esteriore di un desiderio di libertà e di espressione personale che le donne iraniane fanno sempre più fatica a tenere a freno, esattamente come Mahin.

Voto: 3,5/5



mercoledì 5 febbraio 2025

Il rito / di Ingmar Bergman. Teatro Vascello, 21 gennaio 2025

Lo spettacolo in scena al Teatro Vascello è l’adattamento teatrale ad opera di Alfonso Postiglione del film di Ingmar Bergman del 1969, che io personalmente non conoscevo. A dire la verità devo denunciare una mia sostanziale ignoranza sulla cinematografia di Bergman, e dunque anche sulle tematiche a lui care e sulle sue scelte stilistiche.

Approccio dunque questo spettacolo senza alcuna aspettativa, lasciandomi andare alla drammaturgia e alla messa in scena.

La scenografia vede il palco trasformato in una scatola bianca al centro della quale c’è un piano sopraelevato su cui si sviluppa la stanza – scura - del giudice Abrahamsson (interpretato al Vascello dallo stesso Postiglione).

Al centro della narrazione il caso di un trio di teatranti, Hans (Antonio Zavatteri) e Thea Winckelmann (Alice Arcuri) e Sebastian Fischer (Giampiero Judica), che è accusato per la presunta oscenità di uno spettacolo, caso affidato appunto al giudice Abrahamsson.

Lo sviluppo della narrazione procede per quadri che consentono via via allo spettatore di approfondire la conoscenza dei protagonisti di questa storia e di rendersi conto, a poco a poco, che in questa vicenda non ci sono buoni e cattivi, ma persone tutte attraversate – sebbene in modi diversi – da frustrazioni, malesseri, infelicità e forme di follia.

Il giudice è rappresentato come un oscuro burocrate che apparentemente è solo interessato a capire se effettivamente l’accusa di oscenità è fondata, ma in realtà via via risulta sempre più ambiguo, viscido, invadente rispetto alle vite personali di questi attori, rispetto ai quali sviluppa una forma di invidia e di interessamento quasi morboso.

Dall’altro lato, i tre personaggi – che sulla scenografia si muovono sempre al livello più basso rispetto alla stanza del giudice – rivelano a poco a poco la complessità dei loro rapporti, i fallimenti personali e professionali, le contraddizioni che li animano, e appaiono altrettanto meschini e cinici del giudice.

Alla fine la messa in scena del famoso spettacolo osceno nella stanza del giudice e alla sua presenza porterà alla luce il rimosso con esiti imprevisti.

La sensazione di disagio che si percepisce fin dalle prime battute dello spettacolo cresce progressivamente nel corso della rappresentazione, amplificata da colori, musiche, recitazione.

Si esce dal teatro con la sensazione di aver partecipato a un rito satanico e felici di esserne usciti. A tratti la sensazione che provo è simile a quella che avevo avuto nel vedere Midsommar - Il villaggio dei dannati, il film di Ari Aster, forse per il collegamento geografico e culturale con la Svezia, o anche per il bianco accecante che cela attrettanta angoscia del buio, nonché per il mistero del rito che deve compiersi.

Non esattamente il mio genere preferito di spettacoli teatrali, ma certamente un ottimo spettacolo.

Voto: 3,5/5

lunedì 3 febbraio 2025

La strada / Cormac McCarthy; La strada / Manu Larcenet

La strada / Cormac McCarthy; trad. di Martina Testa. Torino: Einaudi, 2014.

La strada / Manu Larcenet; dal romanzo di Cormac McCarthy; trad. di Emanuelle Caillat. Roma: Coconino Press – Fandango, 2024.

Ed eccomi a un classicone letterario contemporaneo che non avevo ancora letto e che, dopo la morte di McCarthy, ha avuto nuova linfa anche grazie all’adattamento in forma di graphic novel a opera di un grande del fumetto francese, Manu Larcenet.

Il romanzo di McCarthy ha due caratteristiche principali che ne fanno un soggetto adattissimo a una trasposizione per immagini, e direi non tanto a un film (che pure è stato realizzato), ma proprio a un graphic novel: l’essenzialità della narrazione e uno stile narrativo molto visivo, cosicché anche durante la lettura si hanno davanti agli occhi immagini piuttosto dettagliate, che poi ciascuno con la sua fantasia può completare e dotare di un contesto.

Il mondo raccontato ne La strada è un mondo post-apocalittico: la scrittura non ci rivelerà mai che cosa è successo, possiamo ipotizzare una catastrofe atomica mondiale che ha distrutto gran parte di quello che l’uomo ha costruito e ha devastato il mondo vivente, dalla natura agli animali, agli esseri umani.

Al centro del racconto un padre e un figlio che viaggiano con il loro carrello senza una meta precisa: vanno verso sud, per sfuggire al freddo dell’inverno. I due sono dei sopravvissuti, e l’unica possibilità per loro di continuare a vivere è continuare a muoversi seguendo “la strada” e facendo piccole deviazioni da essa per nascondersi e riposare, alla ricerca di cibo e cose utili per sopravvivere.

Capiamo ben presto che in questo mondo plumbeo e ricoperto di cenere, non sono molti i sopravvissuti: molti sono morti per la catastrofe che non ha un nome, molti hanno preferito morire di fronte all’assenza di qualunque prospettiva, altri ancora sono morti per gli stenti oppure negli scontri tra le bande di sopravvissuti. In questo momento gli esseri umani rimasti sembrano aver perso qualunque forma di umanità, fino a diventare gli uni predatori degli altri per sopravvivere.

Per questo, padre e figlio viaggiano con una pistola sempre in tasca e devono tenere gli occhi sempre aperti per non finire essi stessi preda di altri sopravvissuti senza alcuno scrupolo.

Ma in quale futuro possono credere i due protagonisti continuamente messi di fronte alla fame, alla miseria umana, all’orrore, alla violenza e senza una vera speranza che non sia la sopravvivenza, un padre che sa di avere i giorni contati e un bambino che non sa com’era il mondo perduto e vede solo morte intorno a sé?

Il libro di McCormack non è articolato in capitoli, bensì si struttura in paragrafi di dimensioni variabili, ma piuttosto brevi, una sequenza di immagini e di situazioni che alternano il cammino dei due protagonisti alle soste per dormire, ripararsi, mangiare. I dialoghi – che avvengono quasi esclusivamente tra loro due – sono essenziali e piuttosto ripetitivi. Eppure, nonostante questo stile iterativo e scarno, il romanzo riesce a essere ricco di sentimenti e, nell’orrore di questo mondo azzerato dagli stessi esseri umani, riesce a far emergere – attraverso i due protagonisti - il meglio dell’umanità: la pietas, l’amore, la tenerezza, la bellezza, la resilienza, la generosità, il coraggio. E devo dire che l’adattamento di Manu Larcenet – nei disegni e nelle scelte narrative – riesce a essere perfettamente fedele al tono e al senso del libro, arricchendolo degli sguardi dei protagonisti e dando forma agli orrori che si parano davanti ai loro occhi.

In un presente come quello che viviamo il romanzo è un monito di cui l’umanità sembra far fatica a ricordarsi e a tener conto, in un senso di onnipotenza e di invincibilità dei singoli, dei gruppi e dei popoli che tutti i giorni ci mette davanti piccole e grandi azioni di autodistruzione.

Voto: 4/5