In un teatro per metà pieno di belle facce giovani di ragazzi di scuola superiore, andiamo a vedere la messa in scena di Enrico IV di Luigi Pirandello ad opera di Franco Branciaroli, che ne è il regista e il protagonista.
Rispetto al testo teatrale originale (suddiviso in tre atti), Branciaroli decide di organizzare la rappresentazione in due atti, affidando alcuni cambi di scena alla semplice chiusura del sipario, senza una vera interruzione.
La prima parte vede sul palcoscenico i comprimari. La marchesa Matilde con il barone Tito Belcredi e la figlia Frida arrivano insieme a un dottore nella residenza di Enrico IV, chiamati dal nipote di lui che – per adempiere la volontà della madre – vorrebbe far guarire lo zio dalla pazzia che ormai da vent’anni gli fa credere di essere l’imperatore Enrico IV e costringe l’intero mondo intorno a lui a sostenere questa messinscena.
L’impatto con lo spettacolo mi lascia un po’ interdetta. La recitazione degli attori sul palcoscenico è fortemente sopra le righe e la sensazione della finzione è molto forte. I personaggi dei consiglieri segreti di Enrico, quattro giovani travestiti con abiti medievali, ma in qualche modo spaventati e totalmente spaesati rispetto a quanto gli accade intorno, creano un ulteriore effetto di straniamento. La scenografia è anch’essa piuttosto inquietante, occupata com’è da cavalli a dondolo e due grandi quadri sghembi con le gigantografie dei giovani Enrico IV e Matilde di Canossa così come apparivano in quella dannata sera di vent’anni prima, quando durante la festa in maschera Enrico cadde da cavallo e precipitò nella pazzia.
In quest’atmosfera e dopo un breve cambio di scena compare sul palco Enrico IV, abbigliato da imperatore, con la faccia che porta i segni di un trucco un po’ slavato, che lo fa apparire un vero e proprio clown decaduto. Enrico incontra i suoi ospiti travestiti da personaggi dell’epoca e l’incontro, che serve al dottore per verificare le condizioni del malato e decidere la sua strategia, ha dei tratti surreali, nello smarrimento degli ospiti e nelle imprevedibili parole e azioni di Enrico.
La comparsa in scena di Enrico (nella superba interpretazione di Franco Branciaroli) scompiglia le carte e dà alla messinscena un respiro e una forza che fino a quel momento sembravano fargli difetto, oltre a gettare una nuova luce sulla prima parte. Il momento di rottura arriva però in tutta la sua portata durate il lungo monologo di Enrico IV alla presenza dei suoi consiglieri, quello nel quale egli rivela di non essere pazzo, bensì di aver finto la propria pazzia per tutti questi anni, preferendo la finzione della messinscena all’insopportabile finzione della vita.
La pulizia e la forza delle parole di Enrico ribaltano completamente la prospettiva. Improvvisamente, il pazzo che vive nei panni di un altro personaggio mostra tutta la sua verità nella consapevolezza con cui ha scelto questa perenne recita; e tutti gli altri che abbiamo visto e ascoltato fin qui si rivelano per quello che sono, “maschere”, “personaggi” che perennemente recitano sul palcoscenico della vita e che ci appaiono tanto più finti del finto Enrico IV.
L’ultima parte dello spettacolo, quella nella quale questi due mondi vengono messi a confronto e si incontrano e scontrano nel tentativo dei presunti sani di far rinsavire il pazzo, i piani si confondono ulteriormente, la recita consapevole e quella involontaria si mescolano e si aggrovigliano fino al tragico esito che vede contrapposti i due rivali in amore, Enrico e Belcredi. Il confine tra follia e sanità, tra finzione e vita, è valicato una volta per tutte condannando definitivamente Enrico al suo personaggio.
Che meraviglia questo tuffo nella poetica pirandelliana, nelle parole senza tempo dello scrittore siciliano, uno per me dei più cari durante gli anni del liceo! Un fine conoscitore della natura umana e un grande osservatore delle dinamiche sociali. Non teme paragoni. E Franco Branciaroli ce lo ricorda egregiamente.
Voto: 3,5/5
giovedì 26 febbraio 2015
lunedì 23 febbraio 2015
Whiplash
Un tempo sarei letteralmente andata in visibilio per un film come questo, che mi pare si collochi perfettamente al punto di intersezione tra Saranno famosi e Rocky, ossia tra le storie di giovani talenti in campo artistico (e musicale) durante il periodo della loro formazione e della lotta per affermare la propria arte e quelle di personaggi (di solito sportivi) che si sottopongono a prove fisiche e psicologiche massacranti per raggiungere un obiettivo.
Qui il protagonista è Andrew (Miles Teller), un ragazzo di diciannove anni che frequenta la Shaffer, la più importante scuola di musica di New York, dove suona la batteria. Andrew si è appassionato alla batteria fin da piccolo e ha un unico sogno, quello di diventare un grande musicista come il suo idolo Buddy Rich e di lasciare il segno nel mondo della musica. E fin qui non siamo molto lontani da tutti i film nati sulla falsa riga di Saranno famosi.
Durante delle prove in solitaria, Andrew viene notato da Terence Fletcher (un J. K. Simmons da Oscar), un insegnante temutissimo ma anche capace di tirare fuori il meglio dai suoi allievi. Da questo incontro tra un giovane totalmente focalizzato sul proprio obiettivo e sulla propria ambizione e un maestro terribile che lo sottoporrà a ogni tipo di umiliazione e di prova per testarne la determinazione e per tirarne fuori il meglio deriva una vera e propria guerra che Andrew combatte innanzitutto contro i propri limiti, puntualmente amplificati da Fletcher. E a questo punto entriamo nel mondo di Rocky e dei suoi epigoni.
L’esito è meno scontato di quanto si potrebbe immaginare e passa per il definitivo affrancarsi di Andrew da Fletcher e per l’imposizione di se stesso e della propria personalità.
Come accennavo, un tempo sarei stata conquistata da un film così, che ti tiene alta la tensione fino all’ultimo e ti fa trattenere il respiro insieme al protagonista fino al liberatorio atto finale. Un tempo mi sarei identificata in questa forma di passione assoluta che oscura qualunque altro aspetto di sé e della propria vita, in questo desiderio di perfezione, in questo tentativo sovrumano di lasciare il segno nella storia.
E invece oggi in fondo capisco che questo modo di percepirsi e di percepire il mondo circostante è fortemente legato a un’età della vita. Non a caso il protagonista ha 19 anni e il regista Damien Chazelle ne ha poco più di 31. Non si può concepire e – nello stesso tempo – entusiasmarsi per una passione così totalizzante e in parte autodistruttiva come quella raccontata nel film se non fino a quando si è "giovani". Il limite tra la dedizione estrema che sola può forgiare il capolavoro della perfezione e l’annichilimento della persona che nutre talento e ambizione è sottile e quasi impossibile da tracciare; ed Andrew per primo ne farà le spese e ne diventerà consapevole sulla propria pelle.
Due ore di musica jazz suonata ad altissimi livelli (con un assolo finale da brividi), capace di entrare nelle orecchie e nel cuore anche del meno musicale degli spettatori (anche di chi come me ha un orecchio musicale e un senso del tempo quasi inesistenti), due ore di un girato che non ha niente da invidiare a un film d’azione ad alta tensione, sebbene qui il massimo dell’azione sia quella del batterista che si esercita a sangue alla batteria. Quindi, tanto di cappello a Whiplash.
E però, alla fine, di questo film non posso non percepire il profondo maschilismo e solipsismo in cui sono immersi entrambi i protagonisti e che pervade tutto il mondo circostante, e mi chiedo quanto ancora alla mia età (e più avanti) un tale punto di vista sul mondo possa risultare motivante e identificante e quanto invece finisca irrimediabilmente vittima del cinismo e dell’inevitabile disillusione che la vita porta con sé.
Qualcuno l’ha definito l’anti-favola di Hollywood, ma non c’è niente di più simile al mito hollywoodiano di questo film.
Voto: 3,5/5
Qui il protagonista è Andrew (Miles Teller), un ragazzo di diciannove anni che frequenta la Shaffer, la più importante scuola di musica di New York, dove suona la batteria. Andrew si è appassionato alla batteria fin da piccolo e ha un unico sogno, quello di diventare un grande musicista come il suo idolo Buddy Rich e di lasciare il segno nel mondo della musica. E fin qui non siamo molto lontani da tutti i film nati sulla falsa riga di Saranno famosi.
Durante delle prove in solitaria, Andrew viene notato da Terence Fletcher (un J. K. Simmons da Oscar), un insegnante temutissimo ma anche capace di tirare fuori il meglio dai suoi allievi. Da questo incontro tra un giovane totalmente focalizzato sul proprio obiettivo e sulla propria ambizione e un maestro terribile che lo sottoporrà a ogni tipo di umiliazione e di prova per testarne la determinazione e per tirarne fuori il meglio deriva una vera e propria guerra che Andrew combatte innanzitutto contro i propri limiti, puntualmente amplificati da Fletcher. E a questo punto entriamo nel mondo di Rocky e dei suoi epigoni.
L’esito è meno scontato di quanto si potrebbe immaginare e passa per il definitivo affrancarsi di Andrew da Fletcher e per l’imposizione di se stesso e della propria personalità.
Come accennavo, un tempo sarei stata conquistata da un film così, che ti tiene alta la tensione fino all’ultimo e ti fa trattenere il respiro insieme al protagonista fino al liberatorio atto finale. Un tempo mi sarei identificata in questa forma di passione assoluta che oscura qualunque altro aspetto di sé e della propria vita, in questo desiderio di perfezione, in questo tentativo sovrumano di lasciare il segno nella storia.
E invece oggi in fondo capisco che questo modo di percepirsi e di percepire il mondo circostante è fortemente legato a un’età della vita. Non a caso il protagonista ha 19 anni e il regista Damien Chazelle ne ha poco più di 31. Non si può concepire e – nello stesso tempo – entusiasmarsi per una passione così totalizzante e in parte autodistruttiva come quella raccontata nel film se non fino a quando si è "giovani". Il limite tra la dedizione estrema che sola può forgiare il capolavoro della perfezione e l’annichilimento della persona che nutre talento e ambizione è sottile e quasi impossibile da tracciare; ed Andrew per primo ne farà le spese e ne diventerà consapevole sulla propria pelle.
Due ore di musica jazz suonata ad altissimi livelli (con un assolo finale da brividi), capace di entrare nelle orecchie e nel cuore anche del meno musicale degli spettatori (anche di chi come me ha un orecchio musicale e un senso del tempo quasi inesistenti), due ore di un girato che non ha niente da invidiare a un film d’azione ad alta tensione, sebbene qui il massimo dell’azione sia quella del batterista che si esercita a sangue alla batteria. Quindi, tanto di cappello a Whiplash.
E però, alla fine, di questo film non posso non percepire il profondo maschilismo e solipsismo in cui sono immersi entrambi i protagonisti e che pervade tutto il mondo circostante, e mi chiedo quanto ancora alla mia età (e più avanti) un tale punto di vista sul mondo possa risultare motivante e identificante e quanto invece finisca irrimediabilmente vittima del cinismo e dell’inevitabile disillusione che la vita porta con sé.
Qualcuno l’ha definito l’anti-favola di Hollywood, ma non c’è niente di più simile al mito hollywoodiano di questo film.
Voto: 3,5/5
giovedì 19 febbraio 2015
Una lieve imperfezione / Adrian Tomine
Una lieve imperfezione / Adrian Tomine. Milano: RCS Libri, 2008.
Ogni volta che torno al paesello in Puglia vado a fare un giro alla bella libreria Le storie nuove che da qualche anno ha aperto i battenti alla "discesa del Carmine", offrendo finalmente un’oasi di lettura in un paese nel quale per anni non è esistita una libreria.
Grazie anche alla brava proprietaria, nonostante le dimensioni contenute della libreria, girando per gli scaffali si scoprono sempre delle cose interessanti. Questa volta la mia scoperta è stata questo graphic novel di Adrian Tomine, Una lieve imperfezione.
Questo lavoro era nato in tre puntate autonome pubblicate nella serie dal titolo Optic nerve; poi i tre capitoli – che hanno una continuità e unità narrativa – sono stati raccolti in un albo unico ed in questa veste sono stati pubblicati da Rizzoli nella collana 24/7.
Una lieve imperfezione racconta di Ben Tanaka, un trentenne di origine giapponese che gestisce un cinema sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Ben è fidanzato con Miko, una ragazza anche lei di origine giapponese, e la sua migliore amica è Alice, una ragazza omosessuale che fa un dottorato al Mills College.
Adrian Tomine ci catapulta nell’universo affettivo confuso di questi trentenni che sembrano non sapere esattamente cosa vogliono dalla vita e dove vogliono andare. Ben e Miko sono in crisi: lui è attratto dalle ragazze bianche e ha un rapporto in qualche modo difficile con le sue origini asiatiche, Miko ha deciso di andare a vivere a New York per inseguire i suoi sogni professionali. Alice passa da una ragazza all’altra, incapace di trovare una stabilità affettiva.
La precarietà e l’insicurezza degli affetti la fanno da padrone in tutti questi non più giovani, la cui dose di cinismo appare già elevatissima.
Tomine è quasi maniacale sia nel tratto grafico (la precisione e la ricchezza di dettagli delle sue tavole sono ammirevoli, quasi straordinari) sia nella rappresentazione emotiva. D’altra parte, il fumettista non ci offre nessun altro ausilio interpretativo, dal momento che non esiste la voce del narratore a circostanziare la narrazione né i pensieri dei protagonisti a spiegare i comportamenti.
Quello che vediamo nelle pagine di questo graphic novel è quanto di più simile ci possa essere alla vita reale, con tutte le sue contraddizioni, il suo non detto, le sue conversazioni non sempre cristalline. I personaggi non sono realmente personaggi, ma in qualche modo nostri coetanei che avremmo potuto o potremmo incontrare un giorno di questi. La storia non è propriamente finzione, ma vita vissuta ed esperienze che tutti abbiamo o potremmo attraversare.
E il dato culturale – che pure qui è rilevante rispetto alla narrazione – non impedisce né la comprensione profonda né l’empatia.
Interessante esperimento. Da leggere.
Voto: 3,5/5
Ogni volta che torno al paesello in Puglia vado a fare un giro alla bella libreria Le storie nuove che da qualche anno ha aperto i battenti alla "discesa del Carmine", offrendo finalmente un’oasi di lettura in un paese nel quale per anni non è esistita una libreria.
Grazie anche alla brava proprietaria, nonostante le dimensioni contenute della libreria, girando per gli scaffali si scoprono sempre delle cose interessanti. Questa volta la mia scoperta è stata questo graphic novel di Adrian Tomine, Una lieve imperfezione.
Questo lavoro era nato in tre puntate autonome pubblicate nella serie dal titolo Optic nerve; poi i tre capitoli – che hanno una continuità e unità narrativa – sono stati raccolti in un albo unico ed in questa veste sono stati pubblicati da Rizzoli nella collana 24/7.
Una lieve imperfezione racconta di Ben Tanaka, un trentenne di origine giapponese che gestisce un cinema sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Ben è fidanzato con Miko, una ragazza anche lei di origine giapponese, e la sua migliore amica è Alice, una ragazza omosessuale che fa un dottorato al Mills College.
Adrian Tomine ci catapulta nell’universo affettivo confuso di questi trentenni che sembrano non sapere esattamente cosa vogliono dalla vita e dove vogliono andare. Ben e Miko sono in crisi: lui è attratto dalle ragazze bianche e ha un rapporto in qualche modo difficile con le sue origini asiatiche, Miko ha deciso di andare a vivere a New York per inseguire i suoi sogni professionali. Alice passa da una ragazza all’altra, incapace di trovare una stabilità affettiva.
La precarietà e l’insicurezza degli affetti la fanno da padrone in tutti questi non più giovani, la cui dose di cinismo appare già elevatissima.
Tomine è quasi maniacale sia nel tratto grafico (la precisione e la ricchezza di dettagli delle sue tavole sono ammirevoli, quasi straordinari) sia nella rappresentazione emotiva. D’altra parte, il fumettista non ci offre nessun altro ausilio interpretativo, dal momento che non esiste la voce del narratore a circostanziare la narrazione né i pensieri dei protagonisti a spiegare i comportamenti.
Quello che vediamo nelle pagine di questo graphic novel è quanto di più simile ci possa essere alla vita reale, con tutte le sue contraddizioni, il suo non detto, le sue conversazioni non sempre cristalline. I personaggi non sono realmente personaggi, ma in qualche modo nostri coetanei che avremmo potuto o potremmo incontrare un giorno di questi. La storia non è propriamente finzione, ma vita vissuta ed esperienze che tutti abbiamo o potremmo attraversare.
E il dato culturale – che pure qui è rilevante rispetto alla narrazione – non impedisce né la comprensione profonda né l’empatia.
Interessante esperimento. Da leggere.
Voto: 3,5/5
lunedì 16 febbraio 2015
Birdman o (l’imprevedibile virtù dell’ignoranza)
Alejandro Gonzales Iñarritu è un messicano che vive a Los Angeles.
Questa premessa è in qualche modo indispensabile per affrontare la visione del suo ultimo film Birdman o (l’imprevedibile virtù dell’ignoranza). E lo è da almeno due punti di vista: innanzitutto perché solo un americano acquisito potrebbe guardare a Hollywood con il distacco e la consapevolezza di Iñarritu; in secondo luogo, perché la cifra dominante di questo film sta nella sua sovrabbondanza, una specie di horror vacui (sul piano narrativo, musicale, visivo, psicologico) che – unita a una certa qual componente kitsch – sarebbe incomprensibile e potrebbe persino risultare fastidiosa se non venisse correttamente inserita nel background culturale del regista.
Di cosa parla questo film? Di un attore, Riggan Thompson (un quasi irriconoscibile Michael Keaton, che si mette totalmente al servizio della causa di Iñarritu), diventato famoso negli anni Novanta interpretando un supereroe alato e volante, Birdman appunto. Dopo aver rinunciato a girare la quarta puntata della fortunata serie, Thompson ha deciso di portare in scena l’adattamento del racconto di Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. In questa nuova impresa è affiancato sul palco dalla sua amante, Laura, da una giovane attrice che ha sempre sognato di sfondare a Broadway (Naomi Watts) e da un attore talentuoso, ma parecchio sopra le righe (Edward Norton). Fuori dal palco, lo sostengono il produttore Jack, la ex moglie e la figlia Sam, appena uscita da un centro di disintossicazione.
Sul piano della confezione cinematografica, Iñarritu pensa in grande: il film è infatti costruito quasi come un unico, lunghissimo piano-sequenza che ci fa continuamente entrare e uscire dal teatro dove gli attori stanno provando, passando per i camerini, i corridoi, le scale, le terrazze e le strade circostanti. Il piano sequenza viene mantenuto anche lì dove all’interno degli stessi spazi si registra un salto temporale, che però sembra non interrompere il movimento della macchina da presa. Una specie di manifestazione estrema di virtuosismo che ben si lega all’ambizione del suo protagonista nella ricerca della consacrazione di se stesso come attore. Questo movimento fluido della camera è invece reso ritmico da una colonna sonora che – in particolare quando è in scena il protagonista Riggan Thompson – è costruita su soli tamburi, creando una tensione costante.
A livello di contenuti, Iñarritu non è meno sovrabbondante. Dentro il film trovano posto i temi più diversi (in buona parte già visti ampiamente sullo schermo) a realizzare una vera e propria summa dell’immaginario hollywoodiano.
È chiaro che l’intento primario del regista è quello di creare un gioco di specchi nel quale la meta-narrazione la fa da padrona ad ogni livello: ad esempio, il regista ci racconta il mondo hollywoodiano dall’interno, ma lo fa a partire da un palcoscenico teatrale, scoprendone in qualche modo tutti i vizi e le idiosincrasie; il suo protagonista è interpretato da un Michael Keaton che effettivamente deve parte della sua fortuna cinematografica al fatto di aver interpretato il ruolo di un supereroe alato, Batman.
Tutto questo caleidoscopio di rimandi e di indizi che il regista dissemina per tutto il film alla fine però si diparte e trova composizione nella figura di Riggan Thompson. Un attore totalmente in preda al proprio egocentrismo e sommamente terrorizzato dall’inevitabile declino e dal destino di oblio. Riggan è uno che sa fare il suo mestiere e sa riconoscere cos’è un buon attore e cosa non lo è, ma al contempo è totalmente dipendente dal riconoscimento esterno e dalla fame di popolarità. Questo sdoppiamento insanabile è incarnato dalla contrapposizione tra sé e Birdman e riflessa nell’irriducibilità tra il palcoscenico teatrale e i blockbuster movies. Nel mondo raccontato da Iñarritu - che poi è quello che ogni giorno ci si dipana davanti - qualità attoriali (e dunque competenze) e popolarità si divaricano irrimediabilmente in un gioco al ribasso che corrompe le celebrità e rende ignorante il pubblico, in un circolo vizioso che sembra alimentarsi all’infinito. E in questa parabola senza via d’uscita – in cui nessuno esce indenne, meno che mai la critica – Riggan sceglie la propria personale chiusura del cerchio, l’iper-realismo portato sul palcoscenico.
Che poi alla fine anche quello si rivelerà un sostanziale bluff, ma produrrà il risultato di riconciliare in qualche modo il nostro antieroe con se stesso.
Da vedere assolutamente in lingua originale.
Voto: 3,5/5
Questa premessa è in qualche modo indispensabile per affrontare la visione del suo ultimo film Birdman o (l’imprevedibile virtù dell’ignoranza). E lo è da almeno due punti di vista: innanzitutto perché solo un americano acquisito potrebbe guardare a Hollywood con il distacco e la consapevolezza di Iñarritu; in secondo luogo, perché la cifra dominante di questo film sta nella sua sovrabbondanza, una specie di horror vacui (sul piano narrativo, musicale, visivo, psicologico) che – unita a una certa qual componente kitsch – sarebbe incomprensibile e potrebbe persino risultare fastidiosa se non venisse correttamente inserita nel background culturale del regista.
Di cosa parla questo film? Di un attore, Riggan Thompson (un quasi irriconoscibile Michael Keaton, che si mette totalmente al servizio della causa di Iñarritu), diventato famoso negli anni Novanta interpretando un supereroe alato e volante, Birdman appunto. Dopo aver rinunciato a girare la quarta puntata della fortunata serie, Thompson ha deciso di portare in scena l’adattamento del racconto di Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. In questa nuova impresa è affiancato sul palco dalla sua amante, Laura, da una giovane attrice che ha sempre sognato di sfondare a Broadway (Naomi Watts) e da un attore talentuoso, ma parecchio sopra le righe (Edward Norton). Fuori dal palco, lo sostengono il produttore Jack, la ex moglie e la figlia Sam, appena uscita da un centro di disintossicazione.
Sul piano della confezione cinematografica, Iñarritu pensa in grande: il film è infatti costruito quasi come un unico, lunghissimo piano-sequenza che ci fa continuamente entrare e uscire dal teatro dove gli attori stanno provando, passando per i camerini, i corridoi, le scale, le terrazze e le strade circostanti. Il piano sequenza viene mantenuto anche lì dove all’interno degli stessi spazi si registra un salto temporale, che però sembra non interrompere il movimento della macchina da presa. Una specie di manifestazione estrema di virtuosismo che ben si lega all’ambizione del suo protagonista nella ricerca della consacrazione di se stesso come attore. Questo movimento fluido della camera è invece reso ritmico da una colonna sonora che – in particolare quando è in scena il protagonista Riggan Thompson – è costruita su soli tamburi, creando una tensione costante.
A livello di contenuti, Iñarritu non è meno sovrabbondante. Dentro il film trovano posto i temi più diversi (in buona parte già visti ampiamente sullo schermo) a realizzare una vera e propria summa dell’immaginario hollywoodiano.
È chiaro che l’intento primario del regista è quello di creare un gioco di specchi nel quale la meta-narrazione la fa da padrona ad ogni livello: ad esempio, il regista ci racconta il mondo hollywoodiano dall’interno, ma lo fa a partire da un palcoscenico teatrale, scoprendone in qualche modo tutti i vizi e le idiosincrasie; il suo protagonista è interpretato da un Michael Keaton che effettivamente deve parte della sua fortuna cinematografica al fatto di aver interpretato il ruolo di un supereroe alato, Batman.
Tutto questo caleidoscopio di rimandi e di indizi che il regista dissemina per tutto il film alla fine però si diparte e trova composizione nella figura di Riggan Thompson. Un attore totalmente in preda al proprio egocentrismo e sommamente terrorizzato dall’inevitabile declino e dal destino di oblio. Riggan è uno che sa fare il suo mestiere e sa riconoscere cos’è un buon attore e cosa non lo è, ma al contempo è totalmente dipendente dal riconoscimento esterno e dalla fame di popolarità. Questo sdoppiamento insanabile è incarnato dalla contrapposizione tra sé e Birdman e riflessa nell’irriducibilità tra il palcoscenico teatrale e i blockbuster movies. Nel mondo raccontato da Iñarritu - che poi è quello che ogni giorno ci si dipana davanti - qualità attoriali (e dunque competenze) e popolarità si divaricano irrimediabilmente in un gioco al ribasso che corrompe le celebrità e rende ignorante il pubblico, in un circolo vizioso che sembra alimentarsi all’infinito. E in questa parabola senza via d’uscita – in cui nessuno esce indenne, meno che mai la critica – Riggan sceglie la propria personale chiusura del cerchio, l’iper-realismo portato sul palcoscenico.
Che poi alla fine anche quello si rivelerà un sostanziale bluff, ma produrrà il risultato di riconciliare in qualche modo il nostro antieroe con se stesso.
Da vedere assolutamente in lingua originale.
Voto: 3,5/5
venerdì 13 febbraio 2015
Le voci di dentro / Eduardo De Filippo. Teatro Argentina, 10 febbraio 2015
Nonostante la giornata campale, arrivo al Teatro Argentina intenzionata a godermi appieno questa commedia di Eduardo De Filippo portata in scena dai fratelli Peppe e Toni Servillo.
Il teatro è pieno. Noi siamo in balconata e dominiamo dall'alto la scena. La scenografia è essenziale e dominata dai toni del bianco. Nella prima metà siamo a casa Cimmaruta: un tavolo con delle sedie al centro della scena e una credenza poggiata al muro. Nella seconda parte siamo a casa Saporito: sempre un tavolo con delle sedie al centro della scena e una porta alle spalle che conduce contemporaneamente alla stanza dove vive zi' Nicola e all'esterno.
Protagonisti appunto i Cimmaruta (e la loro cameriera) e i Saporito, apparecchiatori di feste popolari (i fratelli Alberto e Carlo e zi' Nicola, che da anni ormai ha smesso di parlare e si esprime facendo esplodere mortaretti).
Le voci di dentro è una vera e propria commedia degli equivoci, che alla fine si può definire commedia solo perché non ci sono morti. Certo, si ride e si sorride, ma quasi sempre a denti stretti, dentro un racconto che definire amaro è un eufemismo.
Tutto nasce dall'accusa che Alberto (Toni Servillo) muove alla famiglia Cimmaruta di aver ucciso l'amico Aniello Amitrano e di aver occultato il cadavere, supportata dalle prove che Alberto dice di sapere dove sono nascoste. In realtà, solo dopo aver fatto intervenire le forze dell'ordine, Alberto si rende conto di aver sognato tutto e che non esiste alcun documento comprovante l'assassinio. A quel punto, però, la macchina si è messa in moto: i Cimmaruta - anziché respingere compatti l'accusa - si scompaginano e separatamente vanno da Alberto, accusandosi l'uno con l'altro, incapaci di escludere che qualcuno di loro abbia effettivamente commesso l'assassinio. Carlo (Peppe Servillo), intanto, intravede la possibilità - qualora Alberto venisse arrestato per calunnia - di vendere tutti i materiali dell'impresa di famiglia per ricavare qualche soldo. Intorno a loro si agitano anche la cameriera di casa Cimmaruta e il portiere dello stabile dove abitano le due famiglie. Spettatore muto di questa dilagante meschinità umana è il personaggio misterioso di zi' Nicola, che interverrà con un'unica, significativa frase poco prima di morire: "Per favore, un poco di pace".
Siamo nella Napoli del dopoguerra, in un contesto nel quale anni di abbrutimento e di lotta per la sopravvivenza hanno messo a nudo i tratti deteriori dell'umanità e dato spazio agli istinti più animaleschi e viscerali. Uccidere un'altra persona è considerato parte dell'esperienza quotidiana, non un crimine orribile e fuori dagli orizzonti della normalità, così come il senso di solidarietà, anche all'interno della famiglia, ha lasciato il posto all'individualismo e alla volontà di sopraffazione.
Ma Eduardo non parla solo ai suoi contemporanei, bensì all'umanità tutta, ogni qualvolta i suoi migliori valori vengono messi alla prova dagli squilibri economici e dai dissesti politici e sociali, di fronte ai quali con amarezza si deve constatare che non prevalgono la logica della cooperazione e i buoni sentimenti, bensì l'istinto competitivo e le reazioni di pancia.
E insieme ad Alberto, osservatore e al contempo motore e causa iniziale di questo disvelamento, ci viene da dire: "E che parlamm' 'a 'ffa'".
Toni Servillo - anche autore della regia - dimostra ancora una volta tutta la sua classe, a confronto con la maestria del grande Eduardo, scomparendo dentro il suo personaggio, che - come spesso gli accade - lo fagocita e lo trasforma, supportato in questo da un cast straordinario, a cominciare dal fratello Peppe.
Voto: 3,5/5
Il teatro è pieno. Noi siamo in balconata e dominiamo dall'alto la scena. La scenografia è essenziale e dominata dai toni del bianco. Nella prima metà siamo a casa Cimmaruta: un tavolo con delle sedie al centro della scena e una credenza poggiata al muro. Nella seconda parte siamo a casa Saporito: sempre un tavolo con delle sedie al centro della scena e una porta alle spalle che conduce contemporaneamente alla stanza dove vive zi' Nicola e all'esterno.
Protagonisti appunto i Cimmaruta (e la loro cameriera) e i Saporito, apparecchiatori di feste popolari (i fratelli Alberto e Carlo e zi' Nicola, che da anni ormai ha smesso di parlare e si esprime facendo esplodere mortaretti).
Le voci di dentro è una vera e propria commedia degli equivoci, che alla fine si può definire commedia solo perché non ci sono morti. Certo, si ride e si sorride, ma quasi sempre a denti stretti, dentro un racconto che definire amaro è un eufemismo.
Tutto nasce dall'accusa che Alberto (Toni Servillo) muove alla famiglia Cimmaruta di aver ucciso l'amico Aniello Amitrano e di aver occultato il cadavere, supportata dalle prove che Alberto dice di sapere dove sono nascoste. In realtà, solo dopo aver fatto intervenire le forze dell'ordine, Alberto si rende conto di aver sognato tutto e che non esiste alcun documento comprovante l'assassinio. A quel punto, però, la macchina si è messa in moto: i Cimmaruta - anziché respingere compatti l'accusa - si scompaginano e separatamente vanno da Alberto, accusandosi l'uno con l'altro, incapaci di escludere che qualcuno di loro abbia effettivamente commesso l'assassinio. Carlo (Peppe Servillo), intanto, intravede la possibilità - qualora Alberto venisse arrestato per calunnia - di vendere tutti i materiali dell'impresa di famiglia per ricavare qualche soldo. Intorno a loro si agitano anche la cameriera di casa Cimmaruta e il portiere dello stabile dove abitano le due famiglie. Spettatore muto di questa dilagante meschinità umana è il personaggio misterioso di zi' Nicola, che interverrà con un'unica, significativa frase poco prima di morire: "Per favore, un poco di pace".
Siamo nella Napoli del dopoguerra, in un contesto nel quale anni di abbrutimento e di lotta per la sopravvivenza hanno messo a nudo i tratti deteriori dell'umanità e dato spazio agli istinti più animaleschi e viscerali. Uccidere un'altra persona è considerato parte dell'esperienza quotidiana, non un crimine orribile e fuori dagli orizzonti della normalità, così come il senso di solidarietà, anche all'interno della famiglia, ha lasciato il posto all'individualismo e alla volontà di sopraffazione.
Ma Eduardo non parla solo ai suoi contemporanei, bensì all'umanità tutta, ogni qualvolta i suoi migliori valori vengono messi alla prova dagli squilibri economici e dai dissesti politici e sociali, di fronte ai quali con amarezza si deve constatare che non prevalgono la logica della cooperazione e i buoni sentimenti, bensì l'istinto competitivo e le reazioni di pancia.
E insieme ad Alberto, osservatore e al contempo motore e causa iniziale di questo disvelamento, ci viene da dire: "E che parlamm' 'a 'ffa'".
Toni Servillo - anche autore della regia - dimostra ancora una volta tutta la sua classe, a confronto con la maestria del grande Eduardo, scomparendo dentro il suo personaggio, che - come spesso gli accade - lo fagocita e lo trasforma, supportato in questo da un cast straordinario, a cominciare dal fratello Peppe.
Voto: 3,5/5
lunedì 9 febbraio 2015
Il nome del figlio
Sono andata a vedere il film con grande entusiasmo, perché il trailer mi aveva incuriosita e perché molte persone me ne avevano parlato bene, se non – in alcuni casi – con toni entusiastici.
Tra l’altro avevo visto da non molto un altro film italiano, I nostri ragazzi, con quasi lo stesso gruppo di attori in una composizione e caratterizzazione molto simile: Luigi Lo Cascio e Valeria Golino, nelle vesti di marito e moglie (intellettuale lui e piuttosto sottomessa lei), Alessandro Gassmann (che lì era il fratello del personaggio di Lo Cascio, mentre qui della Golino), nei panni del belloccio che ha fatto carriera e soldi e ha sposato una donna per la sua bellezza (lì Barbora Bobulova, qui Micaela Ramazzotti).
In realtà il registro narrativo è completamente diverso; qui siamo nel territorio della commedia, ovviamente quella sofisticata e intellettuale, come si conviene alla Archibugi e al testo teatrale francese a cui il film è ispirato e da cui è stato tratto anche un film francese di qualche anno fa, Cena tra amici, che però non ho visto.
La versione della Archibugi è un film italianissimo da ogni punto di vista: dell’ambientazione (fortemente romana e particolarmente concentrata in quella zona di frontiera che è il Mandrione e l’inizio della Casilina dove la periferia si fa radical chic nelle strade del Pigneto), dei personaggi e del loro background culturale e politico.
Ne viene fuori un affresco gradevole e divertente che cinematograficamente collocherei idealmente a metà strada tra le Due partite della Comencini e il Carnage della Reza. E in qualche modo soffre degli stessi limiti di questi, dal momento che nel creare le condizioni per smascherare ipocrisie e stereotipi si fa esso stesso per certi versi prevedibile.
La storia è presto detta. Metti una sera a cena i due fratelli Paolo (Alessandro Gassmann) e Betta (Valeria Golino) Pontecorvo. Il primo, un agente immobiliare di successo e pieno di soldi, è sposato con Simona (Micaela Ramazzotti), una giovane e bella ragazza di periferia che ha appena scritto (o si è fatta scrivere?) un libro di grande successo anche se di scarso spessore, Le notti di F., e che aspetta un figlio. Betta è invece un’insegnante un po' frustrata, sposata con Sandro (Luigi Lo Cascio), un professore universitario di letteratura ossessionato dalla comunicazione via Twitter. Con loro l’amico di sempre, Claudio (Rocco Papaleo). Dall’innocente scherzo di Paolo in merito al nome del futuro figlio che già si sa essere maschio prende l’avvio una girandola di rivelazioni, conflitti verbali, ricordi, confronti che costringeranno Paolo, Betta, Sandro e Claudio (amici da una vita) a fare i conti con il passato e soprattutto con le figure – quasi mitiche – dei genitori di Paolo e Betta, il padre Emanuele (ebreo scampato all'eccidio nazista), morto ormai da molti anni, e la madre Lucia che vive ancora nella villa di famiglia nel livornese dove si collocano molti dei loro ricordi di gioventù.
Il film è una specie di tentativo di raccontare i cinquantenni di oggi, quelli che hanno ripudiato le premesse ideologiche della loro giovinezza e quelli che ne sono rimasti ingabbiati, tutti alla fine vittime degli schemi semplificati che in qualche modo ciascuno di loro si è costruito, e rispetto ai quali svetta la figura semplice ma in qualche modo senza mediazioni di Simona, che – nell’assenza di qualunque pretesa intellettuale – si propone esattamente per quella che è e mette a nudo lo snobismo altrui.
Man mano che guardavo il film – che pure mi ha molto divertito e di cui ho apprezzato particolarmente alcuni passaggi di una sceneggiatura decisamente brillante e che mi rimarrà a lungo nella memoria – avvertivo però la sensazione di qualcosa di familiare e al contempo di fastidioso, che ha cominciato a prendere forma quando in una delle scene del film si intravede per un attimo la copertina del libro di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti. Ed ecco che scopro che è proprio il famigerato Piccolo l’autore di questa sceneggiatura, ancora una volta bravissimo e capace di arrivare diretto al lettore e allo spettatore (a seconda dei casi), ma a sua volta vittima egli stesso dei suoi schemi, nella ripetizione di una tesi che vorrebbe apparire rinnovata nel tentativo di mettere a nudo le contraddizioni insite in chi si è nutrito delle ideologie di sinistra e si è beato della sua condizione di superiorità intellettuale e invece – in un doppio salto carpiato che sa di controrivoluzionario – esita in uno snobismo peggiore di quello che vuole discutere e in qualche modo irridere.
Il risultato – tra diverse risate e anche qualche momento di tensione e di commozione – non si può dire del tutto riuscito, perché non affonda il coltello e forse si fa esso stesso cliché, anche in alcune scelte registiche un po’ troppo compiaciute e nella prova degli attori, bravissimi, ma quasi crocifissi in ruoli che si ripetono ormai un po' troppo stancamente.
Voto: 3,5/5
giovedì 5 febbraio 2015
Ghost world / Daniel Clowes
Ghost world / Daniel Clowes. Seattle: Fantagraphic Books, 1998.
Mi avevano fatto notare che nelle mie letture di graphic novels mi mancava un vero e proprio classico del genere, Ghost world di Daniel Clowes. E così l’ho comprato in lingua originale ed eccomi qui a commentarlo.
L’impatto – innanzitutto dal punto di vista linguistico e in secondo luogo dal punto di vista narrativo – non è stato semplicissimo.
Il volume si articola infatti in capitoli che si configurano quasi come episodi in sé conchiusi, ma esiste un filo narrativo che li unisce tutti insieme, richiamando personaggi ed eventi citati nei capitoli precedenti. Il linguaggio è esemplato su quello degli adolescenti e dunque si presenta a tratti peculiare e gergale, ma nello stesso tempo comunica una forte sensazione di realismo.
Le protagoniste sono Enid e Rebecca, due adolescenti alle soglie del college, molto amiche ma anche molto diverse: Enid è anticonvenzionale, cinica e inquieta, Rebecca è più timida e insicura, in fondo più tradizionale.
Enid e Rebecca si divertono ad andare in giro per le strade della loro città (totalmente anonima), frequentano fast food e negozi altrettanto anonimi. Parlano di quello che gli succede, degli strani personaggi che incontrano o che in qualche modo vengono in contatto con la loro vita, si costruiscono – come spesso gli adolescenti fanno – un proprio universo emotivo e di pensieri non sempre facile da interpretare.
In questo ghost world in cui spesso solo Enid e Rebecca si comprendono veramente, le due amiche dovranno affrontare il passaggio alla vita adulta e le nuove sfide che questa pone alla loro amicizia: le scelte di studio, il possibile trasferimento in un’altra città, l’amore per un ragazzo.
Le loro strade finiranno tristemente per divergere e le responsabilità della vita adulta spazzeranno via i discorsi bizzarri, gli scherzi, il desiderio di essere originali e controcorrente a tutti i costi.
La lettura di questo graphic novel lascia un po’ spiazzati, con un vago senso di straniamento, che alla fine si traduce in una qualche sensazione di tristezza, perché da un lato non necessariamente ci si riconosce nelle protagoniste (lontane da me temporalmente e culturalmente), dall’altro inevitabilmente ci si identifica in alcuni sentimenti universali che trasversalmente accomunano gli adolescenti di tutte le epoche e di tutti i luoghi.
Alla fine un po’ ci sentiamo presi in giro da Daniel Clowes, e un po’ anche intimamente capiti.
Voto: 3/5
Mi avevano fatto notare che nelle mie letture di graphic novels mi mancava un vero e proprio classico del genere, Ghost world di Daniel Clowes. E così l’ho comprato in lingua originale ed eccomi qui a commentarlo.
L’impatto – innanzitutto dal punto di vista linguistico e in secondo luogo dal punto di vista narrativo – non è stato semplicissimo.
Il volume si articola infatti in capitoli che si configurano quasi come episodi in sé conchiusi, ma esiste un filo narrativo che li unisce tutti insieme, richiamando personaggi ed eventi citati nei capitoli precedenti. Il linguaggio è esemplato su quello degli adolescenti e dunque si presenta a tratti peculiare e gergale, ma nello stesso tempo comunica una forte sensazione di realismo.
Le protagoniste sono Enid e Rebecca, due adolescenti alle soglie del college, molto amiche ma anche molto diverse: Enid è anticonvenzionale, cinica e inquieta, Rebecca è più timida e insicura, in fondo più tradizionale.
Enid e Rebecca si divertono ad andare in giro per le strade della loro città (totalmente anonima), frequentano fast food e negozi altrettanto anonimi. Parlano di quello che gli succede, degli strani personaggi che incontrano o che in qualche modo vengono in contatto con la loro vita, si costruiscono – come spesso gli adolescenti fanno – un proprio universo emotivo e di pensieri non sempre facile da interpretare.
In questo ghost world in cui spesso solo Enid e Rebecca si comprendono veramente, le due amiche dovranno affrontare il passaggio alla vita adulta e le nuove sfide che questa pone alla loro amicizia: le scelte di studio, il possibile trasferimento in un’altra città, l’amore per un ragazzo.
Le loro strade finiranno tristemente per divergere e le responsabilità della vita adulta spazzeranno via i discorsi bizzarri, gli scherzi, il desiderio di essere originali e controcorrente a tutti i costi.
La lettura di questo graphic novel lascia un po’ spiazzati, con un vago senso di straniamento, che alla fine si traduce in una qualche sensazione di tristezza, perché da un lato non necessariamente ci si riconosce nelle protagoniste (lontane da me temporalmente e culturalmente), dall’altro inevitabilmente ci si identifica in alcuni sentimenti universali che trasversalmente accomunano gli adolescenti di tutte le epoche e di tutti i luoghi.
Alla fine un po’ ci sentiamo presi in giro da Daniel Clowes, e un po’ anche intimamente capiti.
Voto: 3/5
lunedì 2 febbraio 2015
Mastrantonio / Gioia Gentile
Mastrantonio / Gioia Gentile. Roma: Agapantos, 2014.
Questa volta parlo del primo (e spero non ultimo!) romanzo della mia amica Gioia Gentile e consentirete che per una volta io non metta voti, perché non sarebbe in ogni caso elegante.
Però è un piacere dedicare al volume una recensione nel mio blog.
Ho seguito la gestazione del romanzo nei racconti di Gioia, ma - pur sapendo che esso si ispira a storie familiari - non potevo davvero immaginare che forma avrebbe preso la narrazione. E così, dopo il gentile omaggio di una copia del volume, l'ho letto quasi tutto d'un fiato.
Devo dire che sono rimasta colpita - ma non meravigliata! - della qualità linguistica del romanzo, che è scritto non solo in maniera ineccepibile, ma anche gradevole e coinvolgente per il lettore.
Ho inoltre ammirato il coraggio dell'autrice - alla sua prima prova letteraria lunga - nel costruire non solo una trama articolata, con numerosi personaggi, ma anche una costruzione narrativa complessa, che conduce il lettore avanti e indietro nel tempo (all'interno di una struttura sostanzialmente circolare) e in luoghi diversi dell'Italia al seguito dei suoi personaggi.
La storia ruota intorno al personaggio di Mastrantonio, un uomo vissuto a cavallo tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, che dopo aver avuto un figlio, Manfredo, dalla prima moglie, si sposa con Ernesta, dalla quale ha numerosi figli. Mastrantonio, che si occupa di restauri e costruzioni, insegue principalmente i soldi e la bella vita e in nome di questi è disposto alle peggiori nefandezze anche nei confronti della sua famiglia.
Alla fine il romanzo si trasforma quasi in un giallo, che si svelerà soltanto al momento in cui tutti i figli di Ernesta e Mastrantonio saranno stati convocati al capezzale di Manfredo.
Bello il modo in cui la piccola storia di questa famiglia semplice che viene dalla provincia abruzzese si innesta e si incrocia con la grande storia degli avvenimenti che attraversano l'Italia, innanzitutto la Grande Guerra, ma anche i terremoti di Avezzano e poi quello delle Marche, l'emergere della figura di Padre Pio da Pietrelcina.
Certo in qualche passaggio si avverte di trovarsi di fronte a una scrittrice che - pur possedendo molti strumenti - non ha ancora una totale padronanza dei trucchi del mestiere, in particolare dal punto di vista degli equilibri narrativi. Talvolta il racconto crea aspettative su alcuni eventi e alcune situazioni o personaggi che poi non sono del tutto soddisfatte nel prosieguo della lettura, così come accade che alcune parentesi in alcuni casi durino troppo a lungo, in altri si aprano e si chiudano troppo velocemente lasciando un po' spiazzati.
Complessivamente, una lettura interessante e una prova di scrittura già parecchio matura, per la quale non posso che complimentarmi con Gioia!
Questa volta parlo del primo (e spero non ultimo!) romanzo della mia amica Gioia Gentile e consentirete che per una volta io non metta voti, perché non sarebbe in ogni caso elegante.
Però è un piacere dedicare al volume una recensione nel mio blog.
Ho seguito la gestazione del romanzo nei racconti di Gioia, ma - pur sapendo che esso si ispira a storie familiari - non potevo davvero immaginare che forma avrebbe preso la narrazione. E così, dopo il gentile omaggio di una copia del volume, l'ho letto quasi tutto d'un fiato.
Devo dire che sono rimasta colpita - ma non meravigliata! - della qualità linguistica del romanzo, che è scritto non solo in maniera ineccepibile, ma anche gradevole e coinvolgente per il lettore.
Ho inoltre ammirato il coraggio dell'autrice - alla sua prima prova letteraria lunga - nel costruire non solo una trama articolata, con numerosi personaggi, ma anche una costruzione narrativa complessa, che conduce il lettore avanti e indietro nel tempo (all'interno di una struttura sostanzialmente circolare) e in luoghi diversi dell'Italia al seguito dei suoi personaggi.
La storia ruota intorno al personaggio di Mastrantonio, un uomo vissuto a cavallo tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, che dopo aver avuto un figlio, Manfredo, dalla prima moglie, si sposa con Ernesta, dalla quale ha numerosi figli. Mastrantonio, che si occupa di restauri e costruzioni, insegue principalmente i soldi e la bella vita e in nome di questi è disposto alle peggiori nefandezze anche nei confronti della sua famiglia.
Alla fine il romanzo si trasforma quasi in un giallo, che si svelerà soltanto al momento in cui tutti i figli di Ernesta e Mastrantonio saranno stati convocati al capezzale di Manfredo.
Bello il modo in cui la piccola storia di questa famiglia semplice che viene dalla provincia abruzzese si innesta e si incrocia con la grande storia degli avvenimenti che attraversano l'Italia, innanzitutto la Grande Guerra, ma anche i terremoti di Avezzano e poi quello delle Marche, l'emergere della figura di Padre Pio da Pietrelcina.
Certo in qualche passaggio si avverte di trovarsi di fronte a una scrittrice che - pur possedendo molti strumenti - non ha ancora una totale padronanza dei trucchi del mestiere, in particolare dal punto di vista degli equilibri narrativi. Talvolta il racconto crea aspettative su alcuni eventi e alcune situazioni o personaggi che poi non sono del tutto soddisfatte nel prosieguo della lettura, così come accade che alcune parentesi in alcuni casi durino troppo a lungo, in altri si aprano e si chiudano troppo velocemente lasciando un po' spiazzati.
Complessivamente, una lettura interessante e una prova di scrittura già parecchio matura, per la quale non posso che complimentarmi con Gioia!
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