Qualche anno fa la mia amica tedesca che vive a Berlino L. mi aveva mandato per posta (lei ama questo modo antico di comunicare) il CD di Emily Wells Symphonies: Dreams, Memories & Parties, accompagnato da un bigliettino scritto a mano che diceva che era andata ad ascoltarla dal vivo e le era piaciuta moltissimo.
Lì per lì ho ascoltato un po' la musica di questa cantante, poi il suo nome è finito in un angolino del mio cervello. Quando i ragazzi di Unplugged in Monti hanno annunciato il suo concerto al Black Market una lucina si è accesa e mi sono ricordata di quel bigliettino e di quella musica, cosicché mi sono subito prenotata.
Il palco della piccola saletta concerti del Black Market è affollato più che mai: tastiere, sintetizzatori, registratori, tamburi, violino e - sorpresa - un videoproiettore (assicurato in qualche modo a un tavolinetto) che proietta immagini sullo sfondo.
Verso le nove e mezza arriva Emily Wells, che senza indugi comincia a suonare il suo violino e ci dà subito un assaggio di quello che sarà la serata. Personalmente trovo che sia riduttivo chiamarlo concerto, perché quella di Emily Wells è una vera e propria performance, in cui non solo Emily canta e suona diversi strumenti, ma utilizzando tutto quello che ha a disposizione crea basi, realizza loop e costruisce vere e proprie sinfonie, mentre sullo sfondo passano immagini vintage anch'esse montate in piccoli loop.
Il risultato è fatto di armonie e di disarmonie, di melodie e di affastellamenti di suoni, di dolcezza e di asprezza, e ci trascina in universi di senso ed emotivi molto differenti.
Di tanto in tanto Emily si interrompe e parla con il pubblico. Dice di essere in Italia per la prima volta, ci parla della sua fidanzata, dedica una canzone al suo amico Jesse. Sembra felice di essere qui insieme a noi, e il pubblico la ricambia con affetto. Ogni tanto prende un bicchiere e beve qualcosa che sembrerebbe proprio whisky!
Ci propone diverse canzoni, vecchie e nuove, in particolare quelle del suo ultimo lavoro Promise, e poi va via sorridente. Ma il pubblico la richiama a gran voce, cosicché ci offre un ultimo assaggio della sua musica prima di lasciare definitivamente il palco e mescolarsi alle persone che affollano il bar del Black Market.
Voto: 3,5/5
sabato 30 aprile 2016
giovedì 28 aprile 2016
Hamlet, National Theatre Live
Non c'è niente da dire. I britannici sono veramente bravi e questa cosa di registrare in alta definizione lo spettacolo teatrale Hamlet interpretato da Benedict Cumberbatch e proiettarlo nelle sale di tutto il mondo mi è sembrata un'idea geniale, nonché una cosa davvero fantastica.
Certo, sarebbe stato bello vedere dal vivo questa strepitosa messinscena della tragedia shakespeariana, ma la possibilità di poterne godere sul grande schermo è da applauso.
Una proiezione di circa tre ore: prima l'intervista al protagonista, poi i due atti della tragedia con l'intervallo.
La storia la conoscete (a me in realtà ogni volta che la vedo mi sembra di vederla la prima volta, ma io mi sento un po' Dory): il principe Hamlet, dopo la morte del padre e il matrimonio dello zio con la madre, incontra lo spirito del padre che gli rivela di essere stato assassinato da suo fratello. Da questo momento Hamlet sarà ossessionato dal bisogno di vendicare questo assassinio, in un'escalation di eventi che sconvolgono la vita del piccolo regno di Danimarca.
La potenza di questa messa in scena risiede fondamentalmente nei seguenti fattori: l'allestimento (la scenografia, i costumi, le musiche), gli attori (su tutti un grandioso Benedict Cumberbatch capace di interpretare magistralmente un personaggio tragico e folle e ironico come Hamlet, conferendogli anche la giovinezza necessaria a dare senso a questo personaggio) e l'idea di ambientare la tragedia in un tempo/non tempo. Vero è che scenografia, parte delle musiche e dei costumi fanno pensare agli anni 40-50, ma in realtà la sensazione è che la scelta registica sia stata quella di introdurre dettagli che richiamino epoche molto diverse fino alla contemporaneità, a suggellare l'universalità di questa storia e la sua appartenenza ad ogni epoca.
In definitiva, all'interno di una fedeltà sostanziale all'originale shakespeariano, in particolare nei testi, l'Hamlet diretto da Lyndsey Turner allarga lo sguardo per mostrarne la vibrante contemporaneità.
Vi assicuro (e ve lo dice una che lo ha visto dalle 21 a mezzanotte e trenta, dopo un'intera giornata di lavoro) che la visione non vi annoierà neppure per un secondo e vi terrà incollati alla sedia, facendovi apprezzare e guardare sotto una nuova luce quanto già conoscevate di Amleto e scoprire visuali del tutto nuove.
Davvero un grande spettacolo.
Voto: 4/5
Certo, sarebbe stato bello vedere dal vivo questa strepitosa messinscena della tragedia shakespeariana, ma la possibilità di poterne godere sul grande schermo è da applauso.
Una proiezione di circa tre ore: prima l'intervista al protagonista, poi i due atti della tragedia con l'intervallo.
La storia la conoscete (a me in realtà ogni volta che la vedo mi sembra di vederla la prima volta, ma io mi sento un po' Dory): il principe Hamlet, dopo la morte del padre e il matrimonio dello zio con la madre, incontra lo spirito del padre che gli rivela di essere stato assassinato da suo fratello. Da questo momento Hamlet sarà ossessionato dal bisogno di vendicare questo assassinio, in un'escalation di eventi che sconvolgono la vita del piccolo regno di Danimarca.
La potenza di questa messa in scena risiede fondamentalmente nei seguenti fattori: l'allestimento (la scenografia, i costumi, le musiche), gli attori (su tutti un grandioso Benedict Cumberbatch capace di interpretare magistralmente un personaggio tragico e folle e ironico come Hamlet, conferendogli anche la giovinezza necessaria a dare senso a questo personaggio) e l'idea di ambientare la tragedia in un tempo/non tempo. Vero è che scenografia, parte delle musiche e dei costumi fanno pensare agli anni 40-50, ma in realtà la sensazione è che la scelta registica sia stata quella di introdurre dettagli che richiamino epoche molto diverse fino alla contemporaneità, a suggellare l'universalità di questa storia e la sua appartenenza ad ogni epoca.
In definitiva, all'interno di una fedeltà sostanziale all'originale shakespeariano, in particolare nei testi, l'Hamlet diretto da Lyndsey Turner allarga lo sguardo per mostrarne la vibrante contemporaneità.
Vi assicuro (e ve lo dice una che lo ha visto dalle 21 a mezzanotte e trenta, dopo un'intera giornata di lavoro) che la visione non vi annoierà neppure per un secondo e vi terrà incollati alla sedia, facendovi apprezzare e guardare sotto una nuova luce quanto già conoscevate di Amleto e scoprire visuali del tutto nuove.
Davvero un grande spettacolo.
Voto: 4/5
martedì 26 aprile 2016
Turin Brakes (+ Dog Byron), Chiesa Evangelica Metodista, Unplugged in Monti, Church Session, 14 aprile 2016
Inizierò dalla fine per farvi capire di che tipo di concerto si è trattato.
Dopo la sessione principale preparata dal gruppo, i Turin Brakes sono stati richiamati sul palco tre volte (e dico tre!) per eseguire ancora qualche pezzo, e hanno offerto anche una versione intima e totalmente unplugged di una loro canzone all'entusiastico pubblico riunito nella Chiesa evangelica metodista.
Il concerto dei Turin Brakes è stato dunque decisamente un successo, con un entusiasmo alle stelle sul palco e tra il pubblico.
A dimostrazione del fatto che i quattro britannici che hanno iniziato la loro avventura musicale quando erano veramente ragazzini, nel lontano 1999, per iniziativa dei due amici Olly Knights e Gale Paridjanian, continuano a riscuotere consensi e successo anche adesso che hanno quaranta e passa anni. Il pubblico rispecchia la loro carriera ormai quasi ventennale e a seguirli ci sono persone di tutte le età ma soprattutto quarantenni e ultraquarantenni.
Il concerto è preceduto dall'opening degli italianissimi Dog Byron, tre musicisti in formazione classica (una chitarra, un basso e una batteria), che fanno una musica dalle sonorità grunge e malinconiche, anche grazie alla voce graffiata del leader del gruppo Max Trani. I Dog Byron ci propongono alcune canzoni del loro repertorio e la bella cover di Lovesong dei The Cure. Siamo inoltre tutti orgogliosi quando ci dicono che saranno loro l'opening ufficiale dei Turin Brakes in tutto il tour europeo.
A seguire salgono sul palco i Turin Brakes nella loro tipica formazione a quattro, con i due frontmen alle chitarre e voce, Olly e Gale, affiancati dal bassista e dal batterista alle loro spalle. Cominciano a inanellare una serie di canzoni tratte sia dal loro ultimo album Lost property, sia dai precedenti, e l'atmosfera si fa via via sempre più calda e trascinante, fino a culminare nell'esecuzione di alcuni loro successi tra cui ad esempio Pain killer (Summer rain), Last chance, Future boy.
Man mano che il tempo passa i musicisti (e in particolare Olly Knights), inizialmente molto seri e compassati, si sciolgono sempre di più e si fanno anche più loquaci tra di loro e con il pubblico, dando vita anche a gag molto divertenti.
Al termine del concerto è evidente che il pubblico non li lascerà andare tanto facilmente. Quindi dopo il bis di rito, dovranno tornare ancora una seconda volta per un'esecuzione unplugged davanti al palco e infine una terza volta di fronte a un pubblico che ormai è quasi tutto in piedi.
Divertimento e qualità musicale assicurati.
Un'unica nota, ma del tutto personale. Le loro canzoni e la loro musica, sicuramente realizzate con competenza ed entusiasmo, erano probabilmente nuove quando i Turin Brakes si affacciarono alla scena musicale internazionale. Oggi, a vent'anni di distanza, la sensazione di aver fatto in qualche modo l'abitudine a questo tipo di sonorità è molto forte ed è stato difficile per me apprezzare completamente l'originalità e l'unicità di un'esperienza musicale come questa.
Il loro segno musicale è certamente riconoscibile, ma anche in qualche misura annacquato da tutta la musica dello stesso tipo che si è sentita in questi anni fino a diventare un pochino banale. Il che non toglie niente ovviamente alle qualità musicali di questi artisti ormai maturi e che certe sonorità le hanno inventate e non copiate e ripetute, e che ancora oggi sono in grado di offrire uno spettacolo musicale di questo tipo.
Voto: 3,5/5
Dopo la sessione principale preparata dal gruppo, i Turin Brakes sono stati richiamati sul palco tre volte (e dico tre!) per eseguire ancora qualche pezzo, e hanno offerto anche una versione intima e totalmente unplugged di una loro canzone all'entusiastico pubblico riunito nella Chiesa evangelica metodista.
Il concerto dei Turin Brakes è stato dunque decisamente un successo, con un entusiasmo alle stelle sul palco e tra il pubblico.
A dimostrazione del fatto che i quattro britannici che hanno iniziato la loro avventura musicale quando erano veramente ragazzini, nel lontano 1999, per iniziativa dei due amici Olly Knights e Gale Paridjanian, continuano a riscuotere consensi e successo anche adesso che hanno quaranta e passa anni. Il pubblico rispecchia la loro carriera ormai quasi ventennale e a seguirli ci sono persone di tutte le età ma soprattutto quarantenni e ultraquarantenni.
Il concerto è preceduto dall'opening degli italianissimi Dog Byron, tre musicisti in formazione classica (una chitarra, un basso e una batteria), che fanno una musica dalle sonorità grunge e malinconiche, anche grazie alla voce graffiata del leader del gruppo Max Trani. I Dog Byron ci propongono alcune canzoni del loro repertorio e la bella cover di Lovesong dei The Cure. Siamo inoltre tutti orgogliosi quando ci dicono che saranno loro l'opening ufficiale dei Turin Brakes in tutto il tour europeo.
A seguire salgono sul palco i Turin Brakes nella loro tipica formazione a quattro, con i due frontmen alle chitarre e voce, Olly e Gale, affiancati dal bassista e dal batterista alle loro spalle. Cominciano a inanellare una serie di canzoni tratte sia dal loro ultimo album Lost property, sia dai precedenti, e l'atmosfera si fa via via sempre più calda e trascinante, fino a culminare nell'esecuzione di alcuni loro successi tra cui ad esempio Pain killer (Summer rain), Last chance, Future boy.
Man mano che il tempo passa i musicisti (e in particolare Olly Knights), inizialmente molto seri e compassati, si sciolgono sempre di più e si fanno anche più loquaci tra di loro e con il pubblico, dando vita anche a gag molto divertenti.
Al termine del concerto è evidente che il pubblico non li lascerà andare tanto facilmente. Quindi dopo il bis di rito, dovranno tornare ancora una seconda volta per un'esecuzione unplugged davanti al palco e infine una terza volta di fronte a un pubblico che ormai è quasi tutto in piedi.
Divertimento e qualità musicale assicurati.
Un'unica nota, ma del tutto personale. Le loro canzoni e la loro musica, sicuramente realizzate con competenza ed entusiasmo, erano probabilmente nuove quando i Turin Brakes si affacciarono alla scena musicale internazionale. Oggi, a vent'anni di distanza, la sensazione di aver fatto in qualche modo l'abitudine a questo tipo di sonorità è molto forte ed è stato difficile per me apprezzare completamente l'originalità e l'unicità di un'esperienza musicale come questa.
Il loro segno musicale è certamente riconoscibile, ma anche in qualche misura annacquato da tutta la musica dello stesso tipo che si è sentita in questi anni fino a diventare un pochino banale. Il che non toglie niente ovviamente alle qualità musicali di questi artisti ormai maturi e che certe sonorità le hanno inventate e non copiate e ripetute, e che ancora oggi sono in grado di offrire uno spettacolo musicale di questo tipo.
Voto: 3,5/5
giovedì 21 aprile 2016
Echo / Terry Moore
Echo / Terry Moore; trad. di Leonardo Favia. Milano: Bao Publishing, 2013.
Avevo su uno scaffale i primi due volumi di Strangers in paradise, ma tra le mille cose da leggere, non era mai arrivato il momento opportuno per attaccarli. E così L., che già mi aveva prestato quelli, mi ha portato anche Echo suggerendomi di cominciare da questo.
E così, per quella strana magia che ci ispira in un certo momento a prendere in mano un libro e ci cattura nel suo mondo, ho iniziato a leggere- e ho finito in tre densissime serate - questo graphic novel, pubblicato dall’autore statunitense Terry Moore inizialmente in trenta puntate, raccolte però in un unico volume da Bao Publishing.
Echo è un libro ambientato in un futuro forse non lontanissimo, nel quale gli esperimenti con l’energia nucleare sono andati molto avanti e hanno consentito la realizzazione di una lega speciale, in grado di connettersi stabilmente al corpo umano e di essere in qualche modo governata dai flussi emotivi in funzione distruttiva o costruttiva a seconda dei casi. Come in qualunque racconto di fantascienza che si rispetti, uno strumento come questo può rappresentare l’occasione di un progresso senza precedenti per l’umanità, oppure nelle mani sbagliate un rischio per la sua stessa sopravvivenza.
In questo caso, tutto inizia quando i “cattivi” di un istituto di ricerca eliminano Annie, la giovane ricercatrice che stava studiando la lega e ne stava testando le applicazioni positive, allo scopo di sperimentarne un uso bellico. In questa occasione, per un caso del tutto fortuito, parte della lega cade su Julie, una giovane fotografa che sta divorziando dal marito e ha una sorella in un ospedale psichiatrico dopo che ha perso l’intera famiglia. Dal momento in cui la lega comincia a formare un tutt’uno con il suo corpo, Julie si troverà suo malgrado al centro dell’attenzione di molte persone e si accorgerà non del tutto consapevolmente dei poteri a sua disposizione. Nella fuga per impedire che i “cattivi” tornino in possesso della lega e poi per impedire i loro devastanti esperimenti, Julie entrerà in contatto con Dillon, il fidanzato di Annie, e Ivy, un agente speciale inizialmente al servizio del centro di ricerca che ben presto comprenderà da che parte stare.
I punti di forza di Echo sono fondamentalmente due: la storia appassionante, che tiene incollati alle pagine del graphic novel (non mi sorprende che i diritti siano già stati acquistati da una casa di produzione cinematografica per farne un film), e i personaggi, in particolare Julie, Dillon e Ivy, degli antieroi simpatici e buffi, che l’autore guarda costantemente con occhio benevolo, ma anche fortemente ironico. La drammaticità degli eventi è frequentemente allentata da intermezzi umoristici che scaturiscono principalmente dal modo di essere di questi personaggi e dalla loro curiosa interazione.
A tratti Terry Moore tende a strafare e ho avuto la sensazione che alcuni elementi della narrazione siano un po’ forzati, però il risultato finale è un eccellente mix di convenzionale e anticonvenzionale, che rende la lettura prevedibile e al contempo sorprendente in tutto il suo dispiegarsi.
Quando si dice una vera lettura di svago, capace di creare interesse e divertimento, senza produrre mai – o quasi - cali di attenzione.
La maggiore debolezza del fumetto – e direi a questo punto di Terry Moore - è il tratto grafico e la costruzione dell’impaginato, che a differenza della narrazione appaiono piuttosto convenzionali e ripetitivi e non presentano mai veri e propri guizzi capace di risvegliare l’attenzione estetica del lettore. Ma del resto non si può avere tutto e – come ho già avuto modo di ricordare altrove – spesso con i graphic novel accade che quando la narrazione è di alto profilo i disegni risultino deludenti, e ancora più spesso il contrario.
Voto: 3,5/5
Avevo su uno scaffale i primi due volumi di Strangers in paradise, ma tra le mille cose da leggere, non era mai arrivato il momento opportuno per attaccarli. E così L., che già mi aveva prestato quelli, mi ha portato anche Echo suggerendomi di cominciare da questo.
E così, per quella strana magia che ci ispira in un certo momento a prendere in mano un libro e ci cattura nel suo mondo, ho iniziato a leggere- e ho finito in tre densissime serate - questo graphic novel, pubblicato dall’autore statunitense Terry Moore inizialmente in trenta puntate, raccolte però in un unico volume da Bao Publishing.
Echo è un libro ambientato in un futuro forse non lontanissimo, nel quale gli esperimenti con l’energia nucleare sono andati molto avanti e hanno consentito la realizzazione di una lega speciale, in grado di connettersi stabilmente al corpo umano e di essere in qualche modo governata dai flussi emotivi in funzione distruttiva o costruttiva a seconda dei casi. Come in qualunque racconto di fantascienza che si rispetti, uno strumento come questo può rappresentare l’occasione di un progresso senza precedenti per l’umanità, oppure nelle mani sbagliate un rischio per la sua stessa sopravvivenza.
In questo caso, tutto inizia quando i “cattivi” di un istituto di ricerca eliminano Annie, la giovane ricercatrice che stava studiando la lega e ne stava testando le applicazioni positive, allo scopo di sperimentarne un uso bellico. In questa occasione, per un caso del tutto fortuito, parte della lega cade su Julie, una giovane fotografa che sta divorziando dal marito e ha una sorella in un ospedale psichiatrico dopo che ha perso l’intera famiglia. Dal momento in cui la lega comincia a formare un tutt’uno con il suo corpo, Julie si troverà suo malgrado al centro dell’attenzione di molte persone e si accorgerà non del tutto consapevolmente dei poteri a sua disposizione. Nella fuga per impedire che i “cattivi” tornino in possesso della lega e poi per impedire i loro devastanti esperimenti, Julie entrerà in contatto con Dillon, il fidanzato di Annie, e Ivy, un agente speciale inizialmente al servizio del centro di ricerca che ben presto comprenderà da che parte stare.
I punti di forza di Echo sono fondamentalmente due: la storia appassionante, che tiene incollati alle pagine del graphic novel (non mi sorprende che i diritti siano già stati acquistati da una casa di produzione cinematografica per farne un film), e i personaggi, in particolare Julie, Dillon e Ivy, degli antieroi simpatici e buffi, che l’autore guarda costantemente con occhio benevolo, ma anche fortemente ironico. La drammaticità degli eventi è frequentemente allentata da intermezzi umoristici che scaturiscono principalmente dal modo di essere di questi personaggi e dalla loro curiosa interazione.
A tratti Terry Moore tende a strafare e ho avuto la sensazione che alcuni elementi della narrazione siano un po’ forzati, però il risultato finale è un eccellente mix di convenzionale e anticonvenzionale, che rende la lettura prevedibile e al contempo sorprendente in tutto il suo dispiegarsi.
Quando si dice una vera lettura di svago, capace di creare interesse e divertimento, senza produrre mai – o quasi - cali di attenzione.
La maggiore debolezza del fumetto – e direi a questo punto di Terry Moore - è il tratto grafico e la costruzione dell’impaginato, che a differenza della narrazione appaiono piuttosto convenzionali e ripetitivi e non presentano mai veri e propri guizzi capace di risvegliare l’attenzione estetica del lettore. Ma del resto non si può avere tutto e – come ho già avuto modo di ricordare altrove – spesso con i graphic novel accade che quando la narrazione è di alto profilo i disegni risultino deludenti, e ancora più spesso il contrario.
Voto: 3,5/5
martedì 19 aprile 2016
La corte
Xavier Racine (Fabrice Luchini) è il Presidente della Corte d'Assise di Saint-Omer, separato da poco, con un'esistenza grigia (ad eccezione della sciarpa rossa che porta sempre al collo) e abitudini immodificabili, ligio al dovere e alle regole, ma poco incline ai rapporti umani. È noto nell'ambiente giudiziario come "il giudice a due cifre" perché gli imputati non escono mai con meno di 10 anni di condanna dai processi che lui presiede.
In questo caso Racine è chiamato a presiedere il giudizio contro un padre che si presume abbia ucciso la figlia di sette mesi colpendola con i suoi anfibi. Sembrerebbe un caso come un altro, di quelli che - come dice Racine a un certo punto - mettono in evidenza come la giustizia non ambisca a scoprire la verità (perché la verità la sanno solo i genitori che erano presenti alla morte della bambina), ma a far applicare le leggi. L'elemento che spariglia le carte è però la presenza tra i giurati di Ditte Lorensen-Coteret (Sidse Babett Knudsen), l'anestesista che qualche tempo prima si è presa cura di Xavier quando questi era ricoverato in seguito a un incidente.
Ditte è una donna molto bella, e soprattutto è l'opposto di Xavier: sorridente, luminosa, empatica, incline alla relazione con gli altri. Xavier ne è affascinato fin dall'incontro in ospedale, e l'irrompere di Ditte nella fredda aula del tribunale apre una crepa nella prevedibilità e ripetitività dei suoi comportamenti. Una specie di scongelamento che a poco a poco increspa l'apparenza irreprensibile del giudice, in qualche modo anticipata da quella caduta accidentale (causata dall'influenza) che gli sporca il cappotto. E quel sorriso che compare sul volto di Racine alla fine del film è la pennellata perfetta che completa il bozzetto di quest'uomo.
La corte è un film che racconta un solo uomo, il giudice Racine appunto, ma lo fa attraverso gli innumerevoli volti delle persone che popolano l'aula del tribunale: i giurati popolari, gli imputati e i testimoni, che portano ciascuno la propria espressività e specificità, magistralmente trasformata in disegni e acquerelli da un uomo seduto nel pubblico.
In fondo quello di Christian Vincent è un film di ritratti, non ritratti fatti di dettagli, bensì schizzi che colgono l'aspetto caratterizzante di ognuno, senza nessuna presunzione di una conoscenza approfondita. Su tutti il ritratto di Racine, certamente quello più articolato e complesso, ma anch'esso pur sempre uno schizzo che lascia molti interrogativi e dubbi. D'altronde, esattamente come nell'aula di tribunale che Racine presiede, così come al cinema e forse finanche nella vita quando incrociamo per un tempo breve un'altra persona senza poterne approfondire davvero la conoscenza, non ha senso ambire alla verità, bensì dobbiamo sforzarci di cogliere il significato a volte lieve, ma non per questo meno denso di conseguenze, degli incontri, anche di quelli più fuggevoli.
Un film piccolo, sommesso, sottovoce, un acquerello delicato e pieno di sfumature, che non pretende di insegnarci niente, bensì solo di farci apprezzare l'irriducibilità della complessità che ciascuno di noi rappresenta.
Voto: 3,5/5
In questo caso Racine è chiamato a presiedere il giudizio contro un padre che si presume abbia ucciso la figlia di sette mesi colpendola con i suoi anfibi. Sembrerebbe un caso come un altro, di quelli che - come dice Racine a un certo punto - mettono in evidenza come la giustizia non ambisca a scoprire la verità (perché la verità la sanno solo i genitori che erano presenti alla morte della bambina), ma a far applicare le leggi. L'elemento che spariglia le carte è però la presenza tra i giurati di Ditte Lorensen-Coteret (Sidse Babett Knudsen), l'anestesista che qualche tempo prima si è presa cura di Xavier quando questi era ricoverato in seguito a un incidente.
Ditte è una donna molto bella, e soprattutto è l'opposto di Xavier: sorridente, luminosa, empatica, incline alla relazione con gli altri. Xavier ne è affascinato fin dall'incontro in ospedale, e l'irrompere di Ditte nella fredda aula del tribunale apre una crepa nella prevedibilità e ripetitività dei suoi comportamenti. Una specie di scongelamento che a poco a poco increspa l'apparenza irreprensibile del giudice, in qualche modo anticipata da quella caduta accidentale (causata dall'influenza) che gli sporca il cappotto. E quel sorriso che compare sul volto di Racine alla fine del film è la pennellata perfetta che completa il bozzetto di quest'uomo.
La corte è un film che racconta un solo uomo, il giudice Racine appunto, ma lo fa attraverso gli innumerevoli volti delle persone che popolano l'aula del tribunale: i giurati popolari, gli imputati e i testimoni, che portano ciascuno la propria espressività e specificità, magistralmente trasformata in disegni e acquerelli da un uomo seduto nel pubblico.
In fondo quello di Christian Vincent è un film di ritratti, non ritratti fatti di dettagli, bensì schizzi che colgono l'aspetto caratterizzante di ognuno, senza nessuna presunzione di una conoscenza approfondita. Su tutti il ritratto di Racine, certamente quello più articolato e complesso, ma anch'esso pur sempre uno schizzo che lascia molti interrogativi e dubbi. D'altronde, esattamente come nell'aula di tribunale che Racine presiede, così come al cinema e forse finanche nella vita quando incrociamo per un tempo breve un'altra persona senza poterne approfondire davvero la conoscenza, non ha senso ambire alla verità, bensì dobbiamo sforzarci di cogliere il significato a volte lieve, ma non per questo meno denso di conseguenze, degli incontri, anche di quelli più fuggevoli.
Un film piccolo, sommesso, sottovoce, un acquerello delicato e pieno di sfumature, che non pretende di insegnarci niente, bensì solo di farci apprezzare l'irriducibilità della complessità che ciascuno di noi rappresenta.
Voto: 3,5/5
domenica 17 aprile 2016
Micah P. Hinson (+ DOLA). Monk, 13 aprile 2016
Quando arrivo al Monk e mi siedo in giardino a sorseggiare la mia birra c'è ancora pochissima gente. Dopo un po', da una porticina della sala concerti, esce Micah P. Hinson con la sua andatura barcollante e il bastone in mano, con cui poi inizia a giocare tenendolo in equilibrio su un dito. Qualcuno gli si avvicina, gli fa i complimenti, poi comincia a chiacchierare con un musicista. Nel frattempo, sempre dalla sala concerti, esce una donna con un passeggino. Sono la moglie e il figlio di Micah; lui dà un bacio ad Ashley, che poi si allontana col bambino.
Dopo un pochino Micah torna dentro e le porte della sala concerti si aprono per il pubblico. Io sono lì subito in prima fila con la mia macchina fotografica.
Il tempo che si riunisca un po' di pubblico e sale sul palco DOLA, un musicista italianissimo, che dice di essere parte dello staff del Monk. DOLA ci suona un po' delle sue canzoni e ci diverte tra una canzone e l'altra parlando al microfono in un modo per cui non si capisce niente, e lui lo sa benissimo e si prende in giro da solo. Le canzoni sono gradevoli e DOLA è bravo, oltre ad avere anche un certo seguito nel pubblico.
Alla fine dell'opening, dopo una breve pausa, sale sul palco Micah insieme a una band formata da un bassista e un batterista, Francesco e Simone, italianissimi, di casa Monk, con cui Micah dirà di aver provato non più di 4 giorni. A un certo punto si inserirà anche un violinista ad aggiungere ulteriori sonorità alle canzoni.
Nel presentare il concerto di oggi (Micah è un gran chiacchierone, ama moltissimo parlare con il pubblico, come avevo già notato nella Church session cui avevo assistito), ci dice che oggi avremo la versione più loud che abbiamo mai sentito delle sue canzoni. Ha infatti con sé solo la chitarra elettrica e la prima canzone è un tripudio di musica che ci dà già la misura di quello che ascolteremo.
Micah sembra in gran forma e anche i nostri musicisti gli stanno dietro con perizia e coraggio. Bellissime le esecuzioni di Beneath the rose, Don't you forget, Patience e nel mezzo c'è anche lo spazio per una canzone suonata full band che ricorda addirittura ai ritmi balcanici.
Nel frattempo Micah parla molto tra una canzone e l'altra: all'inizio chiede silenzio al pubblico (dicendo che comunque il peggior pubblico resta quello americano!), poi il silenzio arriva naturale, ci racconta la storia che sta dietro le sue canzoni, il rapporto con la sua famiglia e quello con il suo amato e odiato Texas, e verso la fine ci spiega come a lui cui tutti i medici hanno detto che un figlio non l'avrebbe potuto avere è nato un figlio che ora sta in albergo con sua moglie e che è un po' un miracolo, e sa con certezza che anche lui diventerà una persona piena e bella.
In questo mix di musica e parole che si fa a tratti magico, Micah fuma un numero imprecisato di sigarette con l'immancabile bocchino nero, e lo fa mentre parla e canta, ma anche questo in fondo ci sta dentro un personaggio sfaccettato e complesso come lui, con una storia personale a tratti devastante, con questo aspetto che è a metà strada tra l'innocenza di un bambino e la follia di un tossico. Sarà anche per questo che quando si va a un suo concerto non si sa mai cosa ci aspetta per davvero, perché Micah è umorale e il suo stato interiore condiziona la sua musica. Ma quando il momento è buono (e forse questo figlio fa sì che lo sia) la sua chitarra e la sua voce roca diventano davvero magiche. E per questo non si vorrebbe mai smettere di ascoltarlo e il pubblico a gran voce lo chiama sul palco per un lungo bis.
Voto: 4/5
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venerdì 15 aprile 2016
Howe Gelb (+ Umberto Maria Giardini), Chiesa Evangelica Metodista, Unplugged in Monti, Church Session, 5 aprile 2016
Con il mese di aprile riprende a tutta birra la stagione dei concerti, e io - un po' incoscientemente - ho deciso che non me ne perdo quasi nessuno!
Si inizia con una Church Session di Unplugged in Monti (alla Chiesa Evangelica Metodista) di cui sono protagonisti Umberto Maria Giardini e Howe Gelb.
Questa volta il pubblico del concerto - rispetto alle mie esperienze precedenti - ha un'età media più elevata, certamente giustificata dallo stile e dall'età dei musicisti che si esibiranno sul palco.
Il primo praticamente non lo conoscevo affatto prima del concerto. Si presenta sul palco con un abbigliamento quasi da mormone e accompagnato da due musicisti, uno alla chitarra, Marco Marzo Maracas e uno alle tastiere e al basso, Michele Zanni. Inizia a cantare nel suo modo potente e rarefatto al contempo, e inanella una decina di canzoni che al mio orecchio, che non conosce la sua musica, fanno uno strano effetto, perché mi sembrano oscillare tra la canzone melodica popolare italiana e un cantautorato raffinato e intellettuale.
Verso la fine della sua session, molto apprezzata dal pubblico, ci dice che ha voluto dedicare questa serata in buona parte a un progetto passato, ossia ai suoi esordi musicali con il nome di Moltheni, sebbene non manchino anche canzoni tratte dai suoi ultimi album.
Il palco elegantemente calcato da Umberto Maria Giardini viene poi ceduto - dopo una breve pausa - a Howe Gelb, con i suoi stivali da cowboy e il suo cappellino da baseball. Il leader dei Giant Sand ci dice che questa sera vuole proporci una piano session, perché avvicinandosi ormai ai sessant'anni, si è innamorato della musica jazz e ha deciso di pubblicare un album di questo genere.
Si siede dunque al pianoforte a coda che sta a fianco del palco e inizia a suonare una serie di canzoni che rievocano le atmosfere degli anni Cinquanta e Sessanta, cimentandosi in uno stile quasi da crooner. Certamente, la cosa lascia un po' spiazzato il pubblico che si aspettava la proposta di qualche successo di Gelb e dei Giant Sand eseguito alla chitarra. Ciononostante il pubblico segue Gelb nella sua nuova passione jazz in religioso silenzio, anche se quando il musicista si alza, si toglie la giacca e imbraccia la chitarra mi sembra di cogliere negli appassionati un momento di eccitazione e un sospiro di sollievo.
La seconda metà della sua sessione è dunque dedicata al suo repertorio più proprio, quello in cui la chitarra diventa protagonista nonché lo stile Americana prende il sopravvento.
Non ho mai visto Howe Gelb dal vivo (ho solo guardato alcuni video su Internet), ma nel complesso ho la sensazione che stasera non sia in gran forma né particolarmente ispirato. La sua sessione finisce infatti quasi all'improvviso e il pubblico - un po' disorientato - non chiede neppure il bis.
Uscendo dalla Chiesa Evangelica resta la sensazione che il vero protagonista stasera sia stato quello che doveva fare solo da opening e comprimario, Umberto Maria Giardini, che si è fatto apprezzare per la sua eleganza e per la cura della sua musica.
Per me un inizio della stagione primavera-estate di musica dal vivo decisamente in salita.
Voto: 3/5
Si inizia con una Church Session di Unplugged in Monti (alla Chiesa Evangelica Metodista) di cui sono protagonisti Umberto Maria Giardini e Howe Gelb.
Questa volta il pubblico del concerto - rispetto alle mie esperienze precedenti - ha un'età media più elevata, certamente giustificata dallo stile e dall'età dei musicisti che si esibiranno sul palco.
Il primo praticamente non lo conoscevo affatto prima del concerto. Si presenta sul palco con un abbigliamento quasi da mormone e accompagnato da due musicisti, uno alla chitarra, Marco Marzo Maracas e uno alle tastiere e al basso, Michele Zanni. Inizia a cantare nel suo modo potente e rarefatto al contempo, e inanella una decina di canzoni che al mio orecchio, che non conosce la sua musica, fanno uno strano effetto, perché mi sembrano oscillare tra la canzone melodica popolare italiana e un cantautorato raffinato e intellettuale.
Verso la fine della sua session, molto apprezzata dal pubblico, ci dice che ha voluto dedicare questa serata in buona parte a un progetto passato, ossia ai suoi esordi musicali con il nome di Moltheni, sebbene non manchino anche canzoni tratte dai suoi ultimi album.
Il palco elegantemente calcato da Umberto Maria Giardini viene poi ceduto - dopo una breve pausa - a Howe Gelb, con i suoi stivali da cowboy e il suo cappellino da baseball. Il leader dei Giant Sand ci dice che questa sera vuole proporci una piano session, perché avvicinandosi ormai ai sessant'anni, si è innamorato della musica jazz e ha deciso di pubblicare un album di questo genere.
Si siede dunque al pianoforte a coda che sta a fianco del palco e inizia a suonare una serie di canzoni che rievocano le atmosfere degli anni Cinquanta e Sessanta, cimentandosi in uno stile quasi da crooner. Certamente, la cosa lascia un po' spiazzato il pubblico che si aspettava la proposta di qualche successo di Gelb e dei Giant Sand eseguito alla chitarra. Ciononostante il pubblico segue Gelb nella sua nuova passione jazz in religioso silenzio, anche se quando il musicista si alza, si toglie la giacca e imbraccia la chitarra mi sembra di cogliere negli appassionati un momento di eccitazione e un sospiro di sollievo.
La seconda metà della sua sessione è dunque dedicata al suo repertorio più proprio, quello in cui la chitarra diventa protagonista nonché lo stile Americana prende il sopravvento.
Non ho mai visto Howe Gelb dal vivo (ho solo guardato alcuni video su Internet), ma nel complesso ho la sensazione che stasera non sia in gran forma né particolarmente ispirato. La sua sessione finisce infatti quasi all'improvviso e il pubblico - un po' disorientato - non chiede neppure il bis.
Uscendo dalla Chiesa Evangelica resta la sensazione che il vero protagonista stasera sia stato quello che doveva fare solo da opening e comprimario, Umberto Maria Giardini, che si è fatto apprezzare per la sua eleganza e per la cura della sua musica.
Per me un inizio della stagione primavera-estate di musica dal vivo decisamente in salita.
Voto: 3/5
martedì 12 aprile 2016
Una giornata particolare / con Giulio Scarpati e Valeria Solarino
Una giornata particolare / con Giulio Scarpati e Valeria Solarino. Ambra Jovinelli, 7 aprile 2016
Un biglietto comprato talmente tanto tempo fa che quasi mi ero dimenticata di questo appuntamento. E come sempre accade in questi casi, lo spettacolo è in una settimana pienissima di impegni e la stessa sera c’è anche un concerto che avrei voluto seguire.
A suo tempo mi aveva incuriosita questa riproposizione in chiave teatrale del film famosissimo di Ettore Scola, Una giornata particolare, interpretato da una Sofia Loren e un Marcello Mastroianni in stato di grazia. Mi incuriosisce il fatto che all’adattamento teatrale abbia collaborato lo stesso Scola prima di morire, nonché il fatto che a interpretarlo ci siano due attori molto conosciuti e popolari in ambito televisivo e cinematografico come Giulio Scarpati e Valeria Solarino, che però hanno un’attenzione particolare per il linguaggio teatrale.
Non ho visto il film. Ne conosco la storia e alcune scene che sono entrate nell’immaginario collettivo, come quella sulla terrazza dove ci sono le lenzuola stese.
So dunque che la storia si presta perfettamente a un adattamento teatrale ed è quasi strano che non sia nata a teatro. Una giornata particolare rispetta infatti quell’unità di tempo e di luogo che è tipica del teatro. Siamo a Roma, precisamente in un condominio dove vivono sia Antonietta con la sua famiglia numerosa (il marito fascistissimo e i sei figli), sia Gabriele, un ex radiocronista, epurato perché omosessuale. È il 6 maggio 1938, la data della visita di Hitler a Roma e dell’incontro con Mussolini. La città è interamente mobilitata per la grande parata, cui parteciperanno anche il marito e i figli di Antonietta, che si trova dunque sola a casa. All’inseguimento di un pappagallino fuggito dalla gabbia la donna si accorge del suo dirimpettaio e gli chiede aiuto. Da qui l’inizio di un dialogo e poi di un rapporto che si fa via via più intimo, fino a far emergere non solo il dolore e l’inevitabile destino di Gabriele ma anche l’insoddisfazione di Antonietta.
Tutto ciò avviene nella stessa giornata e i due protagonisti si muovono tra i due appartamenti e il terrazzo condominiale.
Questo adattamento teatrale, che dura un’ora e mezza (poco meno del film), mi dicono sia estremamente fedele alla versione cinematografica, e a me che non ho visto l’originale viene a questo punto voglia di fare il confronto, anche per apprezzare le differenze delle interpretazioni.
Non avendo la possibilità di una comparazione con le interpretazioni di Mastroianni e della Loren, i due interpreti non mi sono dispiaciuti. La Solarino mi pare cresca sempre di più a teatro, e in questo ruolo di donna schiva e ignorante che a poco a poco tira fuori la ricchezza e la complessità del suo mondo interiore, nonché l’infelicità della solitudine sembra particolarmente a suo agio. Di Giulio Scarpati, pur bravo, non ho amato la recitazione molto teatrale, che - come spesso accade - mi toglie un po’ di empatia e di partecipazione ai sentimenti dei protagonisti.
Bella anche la scenografia, con i due appartamenti ricostruiti uno sopra l’altro e illuminati, ovvero oscurati, a seconda del momento narrativo, ma nella scena finale trasformati in due lati dello stesso livello del palcoscenico a rappresentare – secondo me – l’avvicinamento di questi due mondi prima totalmente paralleli e ora in qualche modo connessi.
Chi ha visto il film fa notare che la riproposizione teatrale non aggiunge molto e non ha né un legame specifico con il presente, né risponde alla necessità di riportare l’attenzione su un capolavoro dimenticato, visto che Una giornata particolare è ancora ben presente nella memoria di chi c’era quando il film è uscito e anche nell’immaginario di chi è venuto dopo. E probabilmente è vero, però tutto sommato a me che il film non l’ho visto ha fatto venire voglia di vederlo, per contestualizzare le poche scene famose in una narrazione certamente più articolata. E questo è già un senso.
Voto: 3/5
Un biglietto comprato talmente tanto tempo fa che quasi mi ero dimenticata di questo appuntamento. E come sempre accade in questi casi, lo spettacolo è in una settimana pienissima di impegni e la stessa sera c’è anche un concerto che avrei voluto seguire.
A suo tempo mi aveva incuriosita questa riproposizione in chiave teatrale del film famosissimo di Ettore Scola, Una giornata particolare, interpretato da una Sofia Loren e un Marcello Mastroianni in stato di grazia. Mi incuriosisce il fatto che all’adattamento teatrale abbia collaborato lo stesso Scola prima di morire, nonché il fatto che a interpretarlo ci siano due attori molto conosciuti e popolari in ambito televisivo e cinematografico come Giulio Scarpati e Valeria Solarino, che però hanno un’attenzione particolare per il linguaggio teatrale.
Non ho visto il film. Ne conosco la storia e alcune scene che sono entrate nell’immaginario collettivo, come quella sulla terrazza dove ci sono le lenzuola stese.
So dunque che la storia si presta perfettamente a un adattamento teatrale ed è quasi strano che non sia nata a teatro. Una giornata particolare rispetta infatti quell’unità di tempo e di luogo che è tipica del teatro. Siamo a Roma, precisamente in un condominio dove vivono sia Antonietta con la sua famiglia numerosa (il marito fascistissimo e i sei figli), sia Gabriele, un ex radiocronista, epurato perché omosessuale. È il 6 maggio 1938, la data della visita di Hitler a Roma e dell’incontro con Mussolini. La città è interamente mobilitata per la grande parata, cui parteciperanno anche il marito e i figli di Antonietta, che si trova dunque sola a casa. All’inseguimento di un pappagallino fuggito dalla gabbia la donna si accorge del suo dirimpettaio e gli chiede aiuto. Da qui l’inizio di un dialogo e poi di un rapporto che si fa via via più intimo, fino a far emergere non solo il dolore e l’inevitabile destino di Gabriele ma anche l’insoddisfazione di Antonietta.
Tutto ciò avviene nella stessa giornata e i due protagonisti si muovono tra i due appartamenti e il terrazzo condominiale.
Questo adattamento teatrale, che dura un’ora e mezza (poco meno del film), mi dicono sia estremamente fedele alla versione cinematografica, e a me che non ho visto l’originale viene a questo punto voglia di fare il confronto, anche per apprezzare le differenze delle interpretazioni.
Non avendo la possibilità di una comparazione con le interpretazioni di Mastroianni e della Loren, i due interpreti non mi sono dispiaciuti. La Solarino mi pare cresca sempre di più a teatro, e in questo ruolo di donna schiva e ignorante che a poco a poco tira fuori la ricchezza e la complessità del suo mondo interiore, nonché l’infelicità della solitudine sembra particolarmente a suo agio. Di Giulio Scarpati, pur bravo, non ho amato la recitazione molto teatrale, che - come spesso accade - mi toglie un po’ di empatia e di partecipazione ai sentimenti dei protagonisti.
Bella anche la scenografia, con i due appartamenti ricostruiti uno sopra l’altro e illuminati, ovvero oscurati, a seconda del momento narrativo, ma nella scena finale trasformati in due lati dello stesso livello del palcoscenico a rappresentare – secondo me – l’avvicinamento di questi due mondi prima totalmente paralleli e ora in qualche modo connessi.
Chi ha visto il film fa notare che la riproposizione teatrale non aggiunge molto e non ha né un legame specifico con il presente, né risponde alla necessità di riportare l’attenzione su un capolavoro dimenticato, visto che Una giornata particolare è ancora ben presente nella memoria di chi c’era quando il film è uscito e anche nell’immaginario di chi è venuto dopo. E probabilmente è vero, però tutto sommato a me che il film non l’ho visto ha fatto venire voglia di vederlo, per contestualizzare le poche scene famose in una narrazione certamente più articolata. E questo è già un senso.
Voto: 3/5
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