Un weekend padovano mi dà la possibilità di andare a vedere questa mostra di fotografia di cui avevo letto sul giornaletto in distribuzione sulle Frecce (che ogni tanto a qualcosa serve!).
La mostra, curata da Walter Guadagnini, cogliendo l'occasione del centenario della Prima guerra mondiale, racconta - attraverso circa 350 scatti - il rapporto tra fotografia e guerra. Si tratta di una mostra che non punta tanto all'estetica fotografica e ai grandi nomi di fotografi (anche se non mancano né l'una né gli altri), bensì a indagare i molteplici modi in cui la fotografia si relaziona con la guerra, per documentarla, per ricostruirla, per raccontare le storie delle persone e dei luoghi, per fare propaganda, per denunciare.
Si parte da una prima sala che ci introduce pienamente al tema, con alcune foto che rappresentano la guerra civile americana (ma sono in realtà ricostruzioni recenti), una grande foto simbolica di due proiettili fusi, e un'altra foto che mostra una nuvola di fumo lontana in un paese del medio oriente.
Da qui in poi si procede in ordine sostanzialmente cronologico. Si parte dalle prime testimonianze fotografiche relative alla prima guerra mondiale (anche stereoscopiche e di carattere documentaristico) per passare al periodo tra le due guerre, al durante e dopo la seconda guerra mondiale, fino ad arrivare - nelle ultime sale - ai conflitti più vicini ai nostri tempi, dalla guerra del Vietnam, a quella in Algeria, nella ex Jugoslavia, in Congo, in Libano e in Ucraina.
Si susseguono soluzioni e scelte fotografiche molteplici, ottimamente introdotte da pannelli esplicativi e descrittivi che preparano nella maniera migliore alla visione delle immagini nelle loro varie forme e nei loro numerosi significati.
Alla fine passa il messaggio che non dobbiamo pensare alla fotografia come a una documentazione o rappresentazione fedele della realtà, perché fotografare significa scegliere un punto di vista, a volte manipolare, e in ogni caso sempre trasferire un messaggio, che non è mai né neutro né veramente oggettivo.
Bella mostra, che richiede tempo e forse un doppio passaggio in alcune sale. Bello anche il palazzo che la ospita, nonostante un personale non proprio simpaticissimo!
Voto: 3/5
domenica 29 marzo 2015
venerdì 27 marzo 2015
Il faro / Paco Roca
Il faro / Paco Roca. Latina: Tunué, 2012.
Questo lavoro di Paco Roca si inserisce nello stesso contesto storico-culturale de I solchi del destino. Anche in questo caso infatti sullo sfondo si svolge la guerra civile che insanguinò la Spagna tra il 1936 e il 1939.
Mentre però ne I solchi del destino la guerra civile e il conflitto mondiale successivo sono, a buon diritto, protagonisti assoluti della storia, qui invece gli avvenimenti storici restano in secondo piano per lasciare spazio a una piccola vicenda: quella del giovanissimo Francisco, che indossa la divisa dei repubblicani, e del guardiano del faro dove Francisco arriva fortunosamente per mare dopo essere fuggito al fuoco dei nazionalisti.
Il faro è un omaggio alla forza dei sogni e dell’immaginazione, e dunque al potere evocativo della letteratura che in particolare ha trovato nel mare un protagonista straordinario delle sue storie di libertà, di riscatto e di salvezza.
Francisco – pur giovanissimo – non crede già più ai sogni, provato dalla dura esperienza della guerra, ma l’anziano guardiano del faro lo aiuterà a comprendere che vale sempre la pena inseguire i propri sogni, cercare la propria felicità, perché è solo sognandola che la si può costruire o incontrare.
Quella de Il faro è una storia ben disegnata – come è nello stile di Paco Roca – ma anche narrativamente gradevole per il contenuto di speranza che porta con sé.
Una piccola storia che fa bene al cuore.
Voto: 3/5
Questo lavoro di Paco Roca si inserisce nello stesso contesto storico-culturale de I solchi del destino. Anche in questo caso infatti sullo sfondo si svolge la guerra civile che insanguinò la Spagna tra il 1936 e il 1939.
Mentre però ne I solchi del destino la guerra civile e il conflitto mondiale successivo sono, a buon diritto, protagonisti assoluti della storia, qui invece gli avvenimenti storici restano in secondo piano per lasciare spazio a una piccola vicenda: quella del giovanissimo Francisco, che indossa la divisa dei repubblicani, e del guardiano del faro dove Francisco arriva fortunosamente per mare dopo essere fuggito al fuoco dei nazionalisti.
Il faro è un omaggio alla forza dei sogni e dell’immaginazione, e dunque al potere evocativo della letteratura che in particolare ha trovato nel mare un protagonista straordinario delle sue storie di libertà, di riscatto e di salvezza.
Francisco – pur giovanissimo – non crede già più ai sogni, provato dalla dura esperienza della guerra, ma l’anziano guardiano del faro lo aiuterà a comprendere che vale sempre la pena inseguire i propri sogni, cercare la propria felicità, perché è solo sognandola che la si può costruire o incontrare.
Quella de Il faro è una storia ben disegnata – come è nello stile di Paco Roca – ma anche narrativamente gradevole per il contenuto di speranza che porta con sé.
Una piccola storia che fa bene al cuore.
Voto: 3/5
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lunedì 23 marzo 2015
L'amore molesto / Elena Ferrante
L'amore molesto / Elena Ferrante. Roma: Edizioni e/o, 1992.
Dopo aver finito di leggere la quadrilogia de L'amica geniale, sono voluta tornare alle origini del fenomeno Elena Ferrante, ossia al suo primo libro, L'amore molesto, che non avevo mai letto.
Si tratta - al contrario degli ultimi - di un libricino piccolo, concentrato e compatto, che racconta la storia di Amalia, una donna trovata annegata con la sola biancheria intima indosso, attraverso le parole e la ricostruzione della figlia Delia.
L'aspetto che questo primo libro della Ferrante ha certamente in comune con i più recenti è un'angoscia strisciante, un senso di sconfitta e di dolore inevitabile. Mi ha colpito che vent'anni prima de L'amica geniale la disgregazione di sé, la "smarginatura", che diventerà uno dei tratti caratterizzanti di Lila, sia già un aspetto forte dei personaggi della Ferrante.
Ma - se possibile - L'amore molesto è persino più claustrofobico e soffocante di quanto non riescano a essere alcuni passaggi della recente quadrilogia, dove forse il contrappunto dialettico tra Elena e Lila consente in qualche modo di aprire spiragli nell'atmosfera densa in cui a volte si fa fatica a respirare.
La stessa cosa si può dire per la scrittura: alcuni tratti e caratteristiche si riconoscono in nuce in questo primo romanzo; però quella scrittura che - pur mantenendo intensità e complessità - ne L'amica geniale si fa più distesa, direi più accessibile (qualcuno ha parlato addirittura di stile da romanzo di appendice), ne L'amore molesto è ostica, spigolosa, dura, per niente compiacente, forse per effetto di un'immaturità linguistica o forse per una durezza intrinseca che si è andata sciogliendo con gli anni.
La storia, poi, è un viaggio nelle viscere di un legame madre-figlia, che si gioca sulla dinamica continuità/discontinuità.
Una figlia, Delia, che vuole segnare la propria distanza e alterità fisica ed emotiva da una madre, Amalia, dotata di una naturale sensualità di cui al contempo è vittima e anche manovratrice. Una figlia che vorrebbe disconoscere il legame affettivo e di sangue, ma che dovrà fare un viaggio interiore negli abissi della propria memoria e del proprio essere fino a ritrovarci il segno indelebile delle proprie origini e anche di una colpa incancellabile e inconfessabile, persino a se stessa.
L'amore molesto è un libro per nulla compiacente e compiaciuto, a cui non ci si affeziona, ma che scava in profondità, senza lasciare vie di fuga. Delia e Amalia (e gli uomini che le circondano) sono personaggi ruvidi (a tratti detestabili), in cui non vogliamo identificarci e da cui - come la stessa Delia - cerchiamo di prendere le distanze, ma che alla fine ci rivelano il lato oscuro di noi stessi, quello con il quale inevitabilmente dobbiamo confrontarci.
Voto: 3,5/5
Dopo aver finito di leggere la quadrilogia de L'amica geniale, sono voluta tornare alle origini del fenomeno Elena Ferrante, ossia al suo primo libro, L'amore molesto, che non avevo mai letto.
Si tratta - al contrario degli ultimi - di un libricino piccolo, concentrato e compatto, che racconta la storia di Amalia, una donna trovata annegata con la sola biancheria intima indosso, attraverso le parole e la ricostruzione della figlia Delia.
L'aspetto che questo primo libro della Ferrante ha certamente in comune con i più recenti è un'angoscia strisciante, un senso di sconfitta e di dolore inevitabile. Mi ha colpito che vent'anni prima de L'amica geniale la disgregazione di sé, la "smarginatura", che diventerà uno dei tratti caratterizzanti di Lila, sia già un aspetto forte dei personaggi della Ferrante.
Ma - se possibile - L'amore molesto è persino più claustrofobico e soffocante di quanto non riescano a essere alcuni passaggi della recente quadrilogia, dove forse il contrappunto dialettico tra Elena e Lila consente in qualche modo di aprire spiragli nell'atmosfera densa in cui a volte si fa fatica a respirare.
La stessa cosa si può dire per la scrittura: alcuni tratti e caratteristiche si riconoscono in nuce in questo primo romanzo; però quella scrittura che - pur mantenendo intensità e complessità - ne L'amica geniale si fa più distesa, direi più accessibile (qualcuno ha parlato addirittura di stile da romanzo di appendice), ne L'amore molesto è ostica, spigolosa, dura, per niente compiacente, forse per effetto di un'immaturità linguistica o forse per una durezza intrinseca che si è andata sciogliendo con gli anni.
La storia, poi, è un viaggio nelle viscere di un legame madre-figlia, che si gioca sulla dinamica continuità/discontinuità.
Una figlia, Delia, che vuole segnare la propria distanza e alterità fisica ed emotiva da una madre, Amalia, dotata di una naturale sensualità di cui al contempo è vittima e anche manovratrice. Una figlia che vorrebbe disconoscere il legame affettivo e di sangue, ma che dovrà fare un viaggio interiore negli abissi della propria memoria e del proprio essere fino a ritrovarci il segno indelebile delle proprie origini e anche di una colpa incancellabile e inconfessabile, persino a se stessa.
L'amore molesto è un libro per nulla compiacente e compiaciuto, a cui non ci si affeziona, ma che scava in profondità, senza lasciare vie di fuga. Delia e Amalia (e gli uomini che le circondano) sono personaggi ruvidi (a tratti detestabili), in cui non vogliamo identificarci e da cui - come la stessa Delia - cerchiamo di prendere le distanze, ma che alla fine ci rivelano il lato oscuro di noi stessi, quello con il quale inevitabilmente dobbiamo confrontarci.
Voto: 3,5/5
mercoledì 18 marzo 2015
La grande odalisca / Vivès; Ruppert e Mulot
La grande odalisca / Vivès; Ruppert e Mulot; colori di Isabelle Merlet. Milano: Bao Publishing, 2014.
Quelli della mia generazione si ricorderanno certamente il cartone animato Occhi di gatto e immagino che, mentre lo dico, ciascuno di loro starà canticchiando dentro di sé la famosa sigla.
Si tratta di tre sorelle molto belle che insieme formano una banda intenta ai furti delle opere d'arte e che si firmano appunto "Occhi di gatto", come il nome del bar che una di loro gestisce.
Ebbene, con questo divertissement a fumetti firmato dal mio beniamino Bastien Vivès (che ne ha scritto la sceneggiatura) e da Florent Ruppert e Jérôme Mulot (che hanno realizzato i disegni) sostanzialmente ci si muove dalle parti di Occhi di gatto. Qui la banda è inizialmente formata da due amiche, Carole e Alex (scopriremo solo alla fine come si sono conosciute), caratterialmente molto diverse (tanto è granitica e votata alla solitudine la prima, quanto è romantica e volubile la seconda), ma perfettamente complementari e in qualche modo unite indissolubilmente nella scelta di una vita avventurosa nell'illegalità. Per il colpo più difficile, il furto della Grande Odalisca di Ingres dal Louvre, il duo si arricchirà di una terza componente, Sam, una motociclista con molta tristezza nel cuore.
La grande odalisca è un invito a lasciarsi andare alla bellezza dell'avventura nel contesto di un'amicizia tutta al femminile che acquista mille sfumature (non di grigio!) e appassiona perché dietro le immagini spettacolari (quasi cinematografiche) di questo fumetto di grande formato e di elegante fattura ci sono sempre i sentimenti delle persone e le gioie e i dolori delle relazioni interpersonali.
Da questo punto di vista Vivès non si smentisce mai. E al contempo dimostra una versatilità e una poliedricità altamente apprezzabili.
La frase con cui il volume è stato lanciato "Nella vita, non è quel che fai che conta di più. È con chi lo fai" può riferirsi in fondo sia a questa affascinante e indimenticabile banda criminale, sia al gruppo di artisti che ha messo insieme le proprie competenze per realizzare questa bella opera fumettistica.
Voto: 3/5
Quelli della mia generazione si ricorderanno certamente il cartone animato Occhi di gatto e immagino che, mentre lo dico, ciascuno di loro starà canticchiando dentro di sé la famosa sigla.
Si tratta di tre sorelle molto belle che insieme formano una banda intenta ai furti delle opere d'arte e che si firmano appunto "Occhi di gatto", come il nome del bar che una di loro gestisce.
Ebbene, con questo divertissement a fumetti firmato dal mio beniamino Bastien Vivès (che ne ha scritto la sceneggiatura) e da Florent Ruppert e Jérôme Mulot (che hanno realizzato i disegni) sostanzialmente ci si muove dalle parti di Occhi di gatto. Qui la banda è inizialmente formata da due amiche, Carole e Alex (scopriremo solo alla fine come si sono conosciute), caratterialmente molto diverse (tanto è granitica e votata alla solitudine la prima, quanto è romantica e volubile la seconda), ma perfettamente complementari e in qualche modo unite indissolubilmente nella scelta di una vita avventurosa nell'illegalità. Per il colpo più difficile, il furto della Grande Odalisca di Ingres dal Louvre, il duo si arricchirà di una terza componente, Sam, una motociclista con molta tristezza nel cuore.
La grande odalisca è un invito a lasciarsi andare alla bellezza dell'avventura nel contesto di un'amicizia tutta al femminile che acquista mille sfumature (non di grigio!) e appassiona perché dietro le immagini spettacolari (quasi cinematografiche) di questo fumetto di grande formato e di elegante fattura ci sono sempre i sentimenti delle persone e le gioie e i dolori delle relazioni interpersonali.
Da questo punto di vista Vivès non si smentisce mai. E al contempo dimostra una versatilità e una poliedricità altamente apprezzabili.
La frase con cui il volume è stato lanciato "Nella vita, non è quel che fai che conta di più. È con chi lo fai" può riferirsi in fondo sia a questa affascinante e indimenticabile banda criminale, sia al gruppo di artisti che ha messo insieme le proprie competenze per realizzare questa bella opera fumettistica.
Voto: 3/5
lunedì 16 marzo 2015
Mario Dondero. Roma, Terme di Diocleziano, 19 dicembre 2014 – 22 marzo 2015
È una bellissima domenica di marzo, con un cielo azzurrissimo e un’aria che tende al tiepido. Cosa c’è di meglio che andare a vedere una bella mostra di fotografia in una location fantastica, come è quella delle Terme di Diocleziano (proprio di fronte alla Stazione Termini)?
Per me che pure ormai vivo a Roma da più di 12 anni le terme sono una scoperta. Un posto immenso che, sebbene spogliato degli splendidi marmi che lo ricoprivano, trasmette perfettamente l’idea dell’eccezionalità del luogo. Tra l’altro le strutture romane si mescolano e si fondono con costruzioni di tempi ben più recenti, come ad esempio il chiostro su disegno michelangiolesco collegato alla basilica di Santa Maria degli Angeli. Per non parlare del museo e dei numerosissimi reperti e statue che potremmo guardare per ore.
Però il tempo a nostra disposizione non è molto e così – dopo qualche foto in questo splendido scenario - ci dirigiamo verso le sale dove è ospitata la mostra di Mario Dondero. Come spessissimo mi accade, non avevo mai sentito parlare prima di questo fotografo ed ero stata attirata soprattutto dalla bellissima foto della locandina e dalla frase di Ryszard Kapuściński che è stata scelta per raccontare la mostra: “Bisogna voler bene per fare belle foto”, in cui mi riconosco moltissimo.
La mostra – preceduta da un video che ci introduce al fotografo – è ricchissima di foto e copre tutta la lunghissima carriera di Dondero, dagli anni Cinquanta fino ai giorni nostri, dalle foto di persone comuni fatte per strada in tutto il mondo ai ritratti di personaggi famosi che hanno fatto la storia di questi ultimi sessant’anni, dalle foto per così dire sociali a quelle che testimoniano dei grandi eventi che hanno caratterizzato la storia dell’umanità in questo periodo.
Dondero è stato presente ovunque ci fosse da documentare o testimoniare situazioni e vicende che hanno cambiato il corso degli eventi. Ma soprattutto è sempre stato attento a cogliere l’umanità di chi stava davanti al suo obiettivo, fosse una persona qualunque oppure un grande artista o intellettuale.
Le immagini del fotografo genovese non sono sempre esteticamente impeccabili, non puntano necessariamente al massimo impatto visivo, però sono sempre in grado di raccontare delle storie e di stare dentro gli eventi con un punto di vista molto preciso che il fotografo non ha mai negato.
Nel complesso, la mostra è interessante e certamente centra l’obiettivo di incuriosire lo spettatore rispetto all’opera di Dondero. Però sul piano dell’allestimento si poteva certamente fare di meglio: innanzitutto nella selezione e nell’organizzazione delle foto, che sono tantissime e che sembrano a volte un po’ mescolate alla rinfusa piuttosto che organizzate secondo un vero criterio intellegibile; in secondo luogo le foto sono spesso scollate dai loro supporti di forex e le luci non sono messe in modo tale da consentire la migliore visione. Diciamo che si tratta di una mostra certamente realizzata a costi contenuti.
In ogni caso, il suo allestimento - nella misura in cui consente di scoprire le terme di Diocleziano e anche di venire a contatto con fotografi meno noti - deve essere certamente salutato con favore.
Voto: 3/5
Per me che pure ormai vivo a Roma da più di 12 anni le terme sono una scoperta. Un posto immenso che, sebbene spogliato degli splendidi marmi che lo ricoprivano, trasmette perfettamente l’idea dell’eccezionalità del luogo. Tra l’altro le strutture romane si mescolano e si fondono con costruzioni di tempi ben più recenti, come ad esempio il chiostro su disegno michelangiolesco collegato alla basilica di Santa Maria degli Angeli. Per non parlare del museo e dei numerosissimi reperti e statue che potremmo guardare per ore.
Però il tempo a nostra disposizione non è molto e così – dopo qualche foto in questo splendido scenario - ci dirigiamo verso le sale dove è ospitata la mostra di Mario Dondero. Come spessissimo mi accade, non avevo mai sentito parlare prima di questo fotografo ed ero stata attirata soprattutto dalla bellissima foto della locandina e dalla frase di Ryszard Kapuściński che è stata scelta per raccontare la mostra: “Bisogna voler bene per fare belle foto”, in cui mi riconosco moltissimo.
La mostra – preceduta da un video che ci introduce al fotografo – è ricchissima di foto e copre tutta la lunghissima carriera di Dondero, dagli anni Cinquanta fino ai giorni nostri, dalle foto di persone comuni fatte per strada in tutto il mondo ai ritratti di personaggi famosi che hanno fatto la storia di questi ultimi sessant’anni, dalle foto per così dire sociali a quelle che testimoniano dei grandi eventi che hanno caratterizzato la storia dell’umanità in questo periodo.
Dondero è stato presente ovunque ci fosse da documentare o testimoniare situazioni e vicende che hanno cambiato il corso degli eventi. Ma soprattutto è sempre stato attento a cogliere l’umanità di chi stava davanti al suo obiettivo, fosse una persona qualunque oppure un grande artista o intellettuale.
Le immagini del fotografo genovese non sono sempre esteticamente impeccabili, non puntano necessariamente al massimo impatto visivo, però sono sempre in grado di raccontare delle storie e di stare dentro gli eventi con un punto di vista molto preciso che il fotografo non ha mai negato.
Nel complesso, la mostra è interessante e certamente centra l’obiettivo di incuriosire lo spettatore rispetto all’opera di Dondero. Però sul piano dell’allestimento si poteva certamente fare di meglio: innanzitutto nella selezione e nell’organizzazione delle foto, che sono tantissime e che sembrano a volte un po’ mescolate alla rinfusa piuttosto che organizzate secondo un vero criterio intellegibile; in secondo luogo le foto sono spesso scollate dai loro supporti di forex e le luci non sono messe in modo tale da consentire la migliore visione. Diciamo che si tratta di una mostra certamente realizzata a costi contenuti.
In ogni caso, il suo allestimento - nella misura in cui consente di scoprire le terme di Diocleziano e anche di venire a contatto con fotografi meno noti - deve essere certamente salutato con favore.
Voto: 3/5
mercoledì 11 marzo 2015
La teoria del tutto
A dire la verità eravamo arrivate al Barberini convinte di vedere Vizio di forma, il nuovo film di Paul Thomas Anderson, in lingua originale. E invece ogni tanto si sbaglia pure Trovacinema e così – indecise se rimetterci in motorino oppure prendere dei popcorn e sederci in poltrona – abbiamo scelto la seconda opzione.
Del resto, come giustamente faceva notare C., si trattava di scegliere tra la “fattaggine” psichedelica di Anderson e la probabilissima melensaggine del film su Hawking, in pratica due cose che non sono esattamente al top del nostro gradimento. E quindi abbiamo scelto la comodità.
Il film ha confermato perfettamente le nostre aspettative, e per quanto mi riguarda l’ho trovato esattamente come l’avevo immaginato.
Due attori protagonisti molto bravi, Eddie Redmayne nei panni di Stephen Hawking, e Felicity Jones nei panni della moglie Jane.
Una storia vera molto bella ed edificante, quella appunto di Hawking che mentre faceva il dottorato in fisica all’Università di Cambridge scoprì di essere affetto da SLA (sclerosi laterale amiotrofica) e di avere solo due anni di vita. Da qui in poi ci viene raccontata non solo e non tanto la storia di Hawking come studioso e autore di numerosi testi di riferimento sul tempo e sulle origini dell’universo, ma anche e soprattutto la sua vicenda umana: l’amore con cui Jane gli sta accanto prima come moglie e madre dei suoi tre figli e poi come amica, l’intelligenza, l’ironia e la dolcezza di quest’uomo la cui caparbietà e voglia di vivere gli hanno permesso di tener testa alla sua malattia e lo vedono ancora oggi protagonista di battaglie scientifiche.
L’insieme è costruito in maniera molto convenzionale, come vuole un vero melò di alto profilo e di grande effetto, che infatti – anche grazie a una colonna sonora alquanto straziante – strappa più volte le lacrime.
Un classico film che sarebbe stato perfetto per una serata casalinga davanti alla televisione e che certamente dimostra il mestiere del regista, James Marsh, e la qualità della confezione hollywoodiana. E che però non riesce mai veramente a uscire dal suo stesso recinto, perfetto nel rispettare fino in fondo un copione già noto.
Gli va indubbiamente riconosciuto il merito di stimolare curiosità e di suscitare interesse, ma dal punto di vista cinematografico appare come un prodotto in qualche modo “vecchio”, quello che sarebbe stato un grande film negli anni Novanta, ma che oggi ha il sapore del già visto.
Toccherà andare a vedere il film di Anderson, anche solo per capire gli estremi che l’universo cinematografico americano è in grado di toccare.
Voto: 3/5
Del resto, come giustamente faceva notare C., si trattava di scegliere tra la “fattaggine” psichedelica di Anderson e la probabilissima melensaggine del film su Hawking, in pratica due cose che non sono esattamente al top del nostro gradimento. E quindi abbiamo scelto la comodità.
Il film ha confermato perfettamente le nostre aspettative, e per quanto mi riguarda l’ho trovato esattamente come l’avevo immaginato.
Due attori protagonisti molto bravi, Eddie Redmayne nei panni di Stephen Hawking, e Felicity Jones nei panni della moglie Jane.
Una storia vera molto bella ed edificante, quella appunto di Hawking che mentre faceva il dottorato in fisica all’Università di Cambridge scoprì di essere affetto da SLA (sclerosi laterale amiotrofica) e di avere solo due anni di vita. Da qui in poi ci viene raccontata non solo e non tanto la storia di Hawking come studioso e autore di numerosi testi di riferimento sul tempo e sulle origini dell’universo, ma anche e soprattutto la sua vicenda umana: l’amore con cui Jane gli sta accanto prima come moglie e madre dei suoi tre figli e poi come amica, l’intelligenza, l’ironia e la dolcezza di quest’uomo la cui caparbietà e voglia di vivere gli hanno permesso di tener testa alla sua malattia e lo vedono ancora oggi protagonista di battaglie scientifiche.
L’insieme è costruito in maniera molto convenzionale, come vuole un vero melò di alto profilo e di grande effetto, che infatti – anche grazie a una colonna sonora alquanto straziante – strappa più volte le lacrime.
Un classico film che sarebbe stato perfetto per una serata casalinga davanti alla televisione e che certamente dimostra il mestiere del regista, James Marsh, e la qualità della confezione hollywoodiana. E che però non riesce mai veramente a uscire dal suo stesso recinto, perfetto nel rispettare fino in fondo un copione già noto.
Gli va indubbiamente riconosciuto il merito di stimolare curiosità e di suscitare interesse, ma dal punto di vista cinematografico appare come un prodotto in qualche modo “vecchio”, quello che sarebbe stato un grande film negli anni Novanta, ma che oggi ha il sapore del già visto.
Toccherà andare a vedere il film di Anderson, anche solo per capire gli estremi che l’universo cinematografico americano è in grado di toccare.
Voto: 3/5
domenica 8 marzo 2015
Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi. Milano, Palazzo della Ragione, 13 novembre 2014-8 marzo 2015
Un weekend milanese mi regala la possibilità di vedere in extremis questa mostra fotografica dedicata a Walter Bonatti.
Ci arrivo senza sapere praticamente nulla di questo personaggio. Scopro solo lì che Bonatti era sostanzialmente un amante dell’avventura, dell’esplorazione e della scoperta.
La sua storia comincia con le imprese alpinistiche degli anni Cinquanta e Sessanta, alcune delle quali anche molto controverse (come la scalata del K2 e quella del Pilone centrale), e prosegue come reporter ed esploratore per conto del settimanale “Epoca” negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
Le foto in mostra al Palazzo della Ragione di Milano sono quelle che risalgono agli anni dei reportage realizzati in giro per il mondo, sebbene nella primissima sala ci venga raccontata – anche attraverso degli oggetti e dei video – la sua carriera di alpinista.
Le foto sono state scattate ad ogni angolo del pianeta, di solito nei luoghi più sperduti e inaccessibili, quelli che Bonatti in assoluto preferiva. Per questo si tratta – come dice il titolo della mostra – di fotografie dai grandi spazi. Alcune sono veramente spettacolari e lasciano a bocca aperta non solo e non tanto per la bellezza di certi luoghi della terra, ma anche per il coraggio che ha portato quest’uomo a sfidare il rischio, il pericolo e persino la morte in nome del piacere della scoperta e dell’avventura.
La particolarità di queste foto consiste nel fatto che nella maggior parte dei casi in esse compare lo stesso Bonatti, cosa che può risultare curiosa se si considera che la maggior parte dei suoi viaggi fu svolta in solitaria. Dopo visto un certo numero di fotografie incredibili, un cartello ci spiega che – a parte pochi casi nei quali furono coinvolte nell’atto del fotografare persone che Bonatti incontrava – nella maggior parte delle circostanze si trattava di autoscatti che il fotografo realizzava anche a una grande distanza grazie a un complesso sistema di telecomandi con e senza fili che lui stesso aveva progettato.
Bello anche l’angolo dedicato ai fumetti realizzati a partire dalle avventure e dalle fotografie di Bonatti, in cui un paio di video animano le strisce disegnate con protagonista Bonatti rendendo i suoi viaggi veri e propri racconti d’avventura, al pari di quelli di Tex Willer.
La sensazione di essere venuti a contatto con un personaggio davvero singolare, un po' narcisista forse, ma certamente inimmaginabile al di fuori del suo tempo e di una cultura che in qualche modo spingeva ad infrangere le regole e a esplorare se stessi e il mondo, è particolarmente forte al termine della mostra.
Ma – pur in una temperie socio-culturale forse distante da quella di Bonatti – riconosciamo in lui un carattere immanente della specie umana, il desiderio della scoperta e la volontà di confrontarsi e di superare i propri limiti, nonché quella aspirazione alla libertà che solo la grandezza della natura incontaminata può trasmettere.
Davvero suggestiva ed evocativa.
Voto: 3,5/5
Ci arrivo senza sapere praticamente nulla di questo personaggio. Scopro solo lì che Bonatti era sostanzialmente un amante dell’avventura, dell’esplorazione e della scoperta.
La sua storia comincia con le imprese alpinistiche degli anni Cinquanta e Sessanta, alcune delle quali anche molto controverse (come la scalata del K2 e quella del Pilone centrale), e prosegue come reporter ed esploratore per conto del settimanale “Epoca” negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
Le foto in mostra al Palazzo della Ragione di Milano sono quelle che risalgono agli anni dei reportage realizzati in giro per il mondo, sebbene nella primissima sala ci venga raccontata – anche attraverso degli oggetti e dei video – la sua carriera di alpinista.
Le foto sono state scattate ad ogni angolo del pianeta, di solito nei luoghi più sperduti e inaccessibili, quelli che Bonatti in assoluto preferiva. Per questo si tratta – come dice il titolo della mostra – di fotografie dai grandi spazi. Alcune sono veramente spettacolari e lasciano a bocca aperta non solo e non tanto per la bellezza di certi luoghi della terra, ma anche per il coraggio che ha portato quest’uomo a sfidare il rischio, il pericolo e persino la morte in nome del piacere della scoperta e dell’avventura.
La particolarità di queste foto consiste nel fatto che nella maggior parte dei casi in esse compare lo stesso Bonatti, cosa che può risultare curiosa se si considera che la maggior parte dei suoi viaggi fu svolta in solitaria. Dopo visto un certo numero di fotografie incredibili, un cartello ci spiega che – a parte pochi casi nei quali furono coinvolte nell’atto del fotografare persone che Bonatti incontrava – nella maggior parte delle circostanze si trattava di autoscatti che il fotografo realizzava anche a una grande distanza grazie a un complesso sistema di telecomandi con e senza fili che lui stesso aveva progettato.
Bello anche l’angolo dedicato ai fumetti realizzati a partire dalle avventure e dalle fotografie di Bonatti, in cui un paio di video animano le strisce disegnate con protagonista Bonatti rendendo i suoi viaggi veri e propri racconti d’avventura, al pari di quelli di Tex Willer.
La sensazione di essere venuti a contatto con un personaggio davvero singolare, un po' narcisista forse, ma certamente inimmaginabile al di fuori del suo tempo e di una cultura che in qualche modo spingeva ad infrangere le regole e a esplorare se stessi e il mondo, è particolarmente forte al termine della mostra.
Ma – pur in una temperie socio-culturale forse distante da quella di Bonatti – riconosciamo in lui un carattere immanente della specie umana, il desiderio della scoperta e la volontà di confrontarsi e di superare i propri limiti, nonché quella aspirazione alla libertà che solo la grandezza della natura incontaminata può trasmettere.
Davvero suggestiva ed evocativa.
Voto: 3,5/5
mercoledì 4 marzo 2015
Decamerone. Vizi, virtù, passioni / Stefano Accorsi. Teatro Ambra Jovinelli, 19 febbraio - 1 marzo 2015
La profonda crisi economica, ma anche morale e sociale, che stiamo attraversando ha improvvisamente riportato in auge e reso attuale uno dei classici della nostra letteratura, il Decamerone di Boccaccio. E così non solo i fratelli Taviani lo portano al cinema, ma quasi contemporaneamente Marco Baliani ne realizza un adattamento per il teatro di cui è protagonista Stefano Accorsi (a sua volta impegnato nella risposta di grandi autori classici italiani, prima Ariosto, ora Boccaccio e prossimamente Machiavelli).
Il legame con l’attualità è subito esplicito ed è quella pestilenza che, mentre al tempo di Boccaccio portava la morte su Firenze al punto da spingere un gruppo di teatranti sulle colline per sfuggirle, oggi rende l’aria pesante e irrespirabile, suscitando il desiderio di evasione attraverso il racconto e, mediante questo, la possibilità di una rinnovata dimensione sociale.
L’allestimento scenografico è molto bello. Sulla scena un carrozzone, quello che porta in giro la compagnia di teatranti protagonisti del Decamerone, ma che all’occorrenza si apre per mostrare, si chiude per nascondere, diventa proscenio o barriera, insomma cuore di tutto ciò che accade sul palcoscenico.
Stefano Accorsi è Panfilo, il capocomico della compagnia di teatranti, e colui che dà il via alla sequenza delle sette novelle scelte da Baliani e rappresentate in scena.
Nella prima novella è proprio lui il narratore della novella di frate Alberto che si traveste da angelo Gabriele per poter godere delle grazie della sciocca e vanesia donna Lisetta, ma finirà ridicolizzato nella pubblica piazza.
Nella seconda novella Accorsi diventa un marito gelosissimo che a torto dubita della moglie e la tiene segregata in casa, finendo in conclusione tradito per causa della sua stessa gelosia.
La terza novella è quella di Lisabetta e dei suoi fratelli che – scoperto l’amore corrisposto di lei per il garzone – gli tendono un agguato e lo uccidono. Ma a Lisabetta l’innamorato verrà in sogno indicandole il luogo dove è sepolto, dove lei recupererà la testa che metterà in un vaso in cui pianterà il basilico.
Protagonista della quarta, famosissima, novella è Masetto da Lamporecchio, il giardiniere mutolo che lavorando in un convento susciterà i desideri delle suore.
Quinta arriva la novella di Tancredi e Ghismunda, la meno agita di quelle rappresentate, fatta soprattutto di racconti e figure fisse.
Si torna a ridere nella sesta novella dedicata allo scherzo che Buffalmacco e il compare Bruno tendono all’ingenuo Calandrino. E infine i racconti si chiudono con la storia di Ricciardo che è disposto a donare il suo cavallo, unico bene che gli è rimasto, per amore.
Al termine dello spettacolo è d’obbligo dire che Stefano Accorsi è pirotecnico nel modo di recitare e di tenere il palcoscenico, ed è certamente supportato da una compagnia di ottima qualità. Il risultato è brillante e gradevole, e lo spettacolo si fa certamente vedere con piacere.
Spiace un po’ il tentativo, a volte un po’ banale e semplicistico, di commentare le novelle nel passaggio dall’una all’altra, esplicitando così una morale o un collegamento con i vizi contemporanei che forse sarebbe stato più opportuno lasciare allo spettatore.
L’esperimento però va premiato nel suo complesso, nella misura in cui riesce in una divulgazione non scontata, bensì attenta e rispettosa (anche in una scelta linguistica non filologica, ma in qualche modo in linea con lo spirito del testo), della grande opera del Boccaccio.
Voto: 3/5
Il legame con l’attualità è subito esplicito ed è quella pestilenza che, mentre al tempo di Boccaccio portava la morte su Firenze al punto da spingere un gruppo di teatranti sulle colline per sfuggirle, oggi rende l’aria pesante e irrespirabile, suscitando il desiderio di evasione attraverso il racconto e, mediante questo, la possibilità di una rinnovata dimensione sociale.
L’allestimento scenografico è molto bello. Sulla scena un carrozzone, quello che porta in giro la compagnia di teatranti protagonisti del Decamerone, ma che all’occorrenza si apre per mostrare, si chiude per nascondere, diventa proscenio o barriera, insomma cuore di tutto ciò che accade sul palcoscenico.
Stefano Accorsi è Panfilo, il capocomico della compagnia di teatranti, e colui che dà il via alla sequenza delle sette novelle scelte da Baliani e rappresentate in scena.
Nella prima novella è proprio lui il narratore della novella di frate Alberto che si traveste da angelo Gabriele per poter godere delle grazie della sciocca e vanesia donna Lisetta, ma finirà ridicolizzato nella pubblica piazza.
Nella seconda novella Accorsi diventa un marito gelosissimo che a torto dubita della moglie e la tiene segregata in casa, finendo in conclusione tradito per causa della sua stessa gelosia.
La terza novella è quella di Lisabetta e dei suoi fratelli che – scoperto l’amore corrisposto di lei per il garzone – gli tendono un agguato e lo uccidono. Ma a Lisabetta l’innamorato verrà in sogno indicandole il luogo dove è sepolto, dove lei recupererà la testa che metterà in un vaso in cui pianterà il basilico.
Protagonista della quarta, famosissima, novella è Masetto da Lamporecchio, il giardiniere mutolo che lavorando in un convento susciterà i desideri delle suore.
Quinta arriva la novella di Tancredi e Ghismunda, la meno agita di quelle rappresentate, fatta soprattutto di racconti e figure fisse.
Si torna a ridere nella sesta novella dedicata allo scherzo che Buffalmacco e il compare Bruno tendono all’ingenuo Calandrino. E infine i racconti si chiudono con la storia di Ricciardo che è disposto a donare il suo cavallo, unico bene che gli è rimasto, per amore.
Al termine dello spettacolo è d’obbligo dire che Stefano Accorsi è pirotecnico nel modo di recitare e di tenere il palcoscenico, ed è certamente supportato da una compagnia di ottima qualità. Il risultato è brillante e gradevole, e lo spettacolo si fa certamente vedere con piacere.
Spiace un po’ il tentativo, a volte un po’ banale e semplicistico, di commentare le novelle nel passaggio dall’una all’altra, esplicitando così una morale o un collegamento con i vizi contemporanei che forse sarebbe stato più opportuno lasciare allo spettatore.
L’esperimento però va premiato nel suo complesso, nella misura in cui riesce in una divulgazione non scontata, bensì attenta e rispettosa (anche in una scelta linguistica non filologica, ma in qualche modo in linea con lo spirito del testo), della grande opera del Boccaccio.
Voto: 3/5
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