È la seconda volta che vado ad vedere i Notwist dal vivo. La prima volta risale ormai a diversi anni fa; era il 2010 quando andai ad ascoltare il loro concerto al Circolo degli Artisti, luogo che da allora è diventato una tappa fissa per i miei appuntamenti musicali.
A quel tempo ero rimasta folgorata dall'album Neon Golden che avevo ascoltato a ripetizione e che grazie a questi ragazzoni tedeschi mi aveva fatto avvicinare alla musica elettronica che di solito non amo. All'uscita del loro nuovo album, Close to the glass, dopo un lungo silenzio, volevo capire se i fratelli Markus e Michael Acher avessero ancora qualcosa da dire in un panorama musicale in cui non ci sono quasi più margini per l'originalità. E devo dire che i Notwist sono riusciti nella difficile impresa di mantenersi fedeli e coerenti con il loro stile, assolutamente riconoscibile soprattutto in alcuni brani, ma anche di rinnovarsi e di proporre sonorità in parte nuove.
E così quando ho scoperto che avrebbero suonato all'Auditorium mi sono precipitata a comprare i biglietti. Ci vado con V. e una volta lì scopriamo che la sala è piena di giovani musicisti ed ex musicisti campani che V. conosce perfettamente, una rappresentanza nutrita di un mondo musicale che si ritrova intorno a una band che ha segnato un pezzo della storia della musica alternativa.
Dopo l'opening di Jel, sono sul palco i Notwist, attrezzati con un gioco di luci - montate sugli strumenti musicali e su altri elementi - di grande effetto scenico. La sensazione che trasmettono non è cambiata. Sono ragazzoni silenziosi, il cui leader si limita a pochissime parole finalizzate di solito a introdurre la canzone che si apprestano a suonare, ormai non più giovanissimi, ma ancora capaci di esprimere sul palco una grande qualità musicale e una straordinaria energia, alternata ad un'infinita tenerezza.
I due fratelli sono i frontmen, l'uno con le sue chitarre e la sua voce flautata, l'altro con i suoi telecomandi wii con cui aziona effetti sonori alla console e balla a tempo. In seconda linea, bassista, chitarrista/tastierista, batterista e soprattutto il ragazzone biondo allo xilofono che è il più agitato e coreografico del gruppo, e tra le altre cose ci delizia utilizzando due archetti per far vibrare e suonare in maniera non convenzionale lo xilofono.
Ci suonano gran parte dei brani del nuovo album (tra gli altri Into another tune, 7 hour drive, Casino e soprattutto la bellissima Run run run), ma non fanno mancare al pubblico alcuni grandi classici del loro repertorio, come la bellissima Neon Golden e l'intramontabile Consequence.
Dopo circa un'ora e mezza di grande musica, escono dal palco per tornarvi dopo pochi minuti a grande richiesta, entusiasmando il pubblico con qualche brano ancora. Certo, in casi come questi, l'Auditorium rappresenta quasi un limite, più che un valore aggiunto, innanzitutto perché le fotografie vanno fatte a tradimento visto che in teoria fotografare è proibito (perché poi?) e soprattutto perché si è tutti lì seduti composti, cosa che va benissimo ovviamente per un concerto di musica classica, ma è assolutamente innaturale per un concerto come questo dove si dovrebbe ballare e stare tutti insieme intorno al palco.
Comunque, serata bellissima e concerto di grande impatto emotivo.
Voto: 4/5
martedì 22 aprile 2014
giovedì 17 aprile 2014
Piccola patria
Quello di Alessandro Rossetto è un notevolissimo esordio al lungometraggio di tipo non documentaristico, sebbene lo sguardo del documentarista abituato ad osservare la realtà con l'occhio attento non tanto alla narrazione, quanto al naturale fluire delle cose e ai piccoli dettagli si riconosca e sia sommamente apprezzabile.
A dire la verità, in questo film si alternano e si contrappongono due sguardi: uno molto interno e vicino ai personaggi protagonisti di questa storia, e uno alto e distaccato, piatto direi, che inquadra i luoghi in maniera asettica mostrando un paesaggio in cui campagna e città si mescolano con esiti a volte improbabili. A questi due modi di osservare il reale corrispondono anche due differenti commenti musicali: al primo fanno da accompagnamento le canzoni da feste di paese e quelle in dialetto veneto - molto belle - cantate dalla protagonista (la bravissima Maria Roveran), il secondo fa tutt'uno con i canti del coro dei Crodaioli di Bepi de Marzi, un coro di tipo alpino che - come nelle tragedie greche - sembra essere un protagonista esterno della storia, quello che la guarda da lontano e tristemente la commenta senza esserne coinvolto.
Del resto, l'impianto narrativo deve molto ai toni della tragedia greca, anche se qui ci troviamo in un piccolissimo angolo del nostro Nordest, dalle parti di un grosso albergo con piscina che si affaccia su un'arteria di comunicazione stradale molto trafficata e che confina con una grossa fattoria dove si allevano cavalli e mucche. Tutt'intorno campi coltivati interrotti da capannoni industriali, strade e tangenziali. In questo mondo stagnante si agitano e si intrecciano le vite di Luisa (Maria Roveran) e Renata (Roberta Da Soller), giovani cameriere dell'albergo, amiche, entrambe alla ricerca - sebbene in modi diversi - di una boccata d'ossigeno dall'universo soffocante e senza stimoli nel quale si muovono. Intorno a loro la comunità albanese cui appartiene Bilal, il fidanzato di Luisa, i genitori di Luisa, gli amici gretti e razzisti del padre di Luisa.
In realtà, in questo film non ci sono buoni né cattivi: ci sono solo persone che fanno i conti con le loro origini, con un presente difficile e non sempre comprensibile, con le difficoltà economiche, con l'assenza di bellezza e tenerezza di vite vuote o svuotate. Luisa è in fondo ancora un'adolescente senza pregiudizi né giudizi su se stessa e sul mondo, ma anche incapace di valutare appieno le conseguenze delle proprie azioni; Renata ama manipolare il mondo circostante e i soldi non le dispiacciono; Bilal è un ragazzo pulito e onesto, inevitabilmente contiguo a un mondo di illegalità che non gli appartiene; la madre di Luisa è una madre un po' bambina, forse non del tutto all'altezza del suo ruolo; il padre è un uomo triste e rancoroso, che ha bisogno di trovare capri espiatori esterni alla tristezza della sua condizione; l'amico del padre, Rino, è un infelice che cerca compensazioni al proprio non sentirsi uomo.
Questa umanità derelitta, a fronte della bravata di Renata e con la complicità un po' assente di Luisa, innesca una reazione a catena che fa divampare l'incendio e porta dritti verso la tragedia, pure quella soffocata nell'atmosfera ovattata di un mondo abbandonato a se stesso, in cui quel dio che ogni domenica si va a incontrare in chiesa è solo l'ultimo, inutile tentativo della ricerca di un senso ormai smarrito della propria esistenza.
Voto: 4/5
A dire la verità, in questo film si alternano e si contrappongono due sguardi: uno molto interno e vicino ai personaggi protagonisti di questa storia, e uno alto e distaccato, piatto direi, che inquadra i luoghi in maniera asettica mostrando un paesaggio in cui campagna e città si mescolano con esiti a volte improbabili. A questi due modi di osservare il reale corrispondono anche due differenti commenti musicali: al primo fanno da accompagnamento le canzoni da feste di paese e quelle in dialetto veneto - molto belle - cantate dalla protagonista (la bravissima Maria Roveran), il secondo fa tutt'uno con i canti del coro dei Crodaioli di Bepi de Marzi, un coro di tipo alpino che - come nelle tragedie greche - sembra essere un protagonista esterno della storia, quello che la guarda da lontano e tristemente la commenta senza esserne coinvolto.
Del resto, l'impianto narrativo deve molto ai toni della tragedia greca, anche se qui ci troviamo in un piccolissimo angolo del nostro Nordest, dalle parti di un grosso albergo con piscina che si affaccia su un'arteria di comunicazione stradale molto trafficata e che confina con una grossa fattoria dove si allevano cavalli e mucche. Tutt'intorno campi coltivati interrotti da capannoni industriali, strade e tangenziali. In questo mondo stagnante si agitano e si intrecciano le vite di Luisa (Maria Roveran) e Renata (Roberta Da Soller), giovani cameriere dell'albergo, amiche, entrambe alla ricerca - sebbene in modi diversi - di una boccata d'ossigeno dall'universo soffocante e senza stimoli nel quale si muovono. Intorno a loro la comunità albanese cui appartiene Bilal, il fidanzato di Luisa, i genitori di Luisa, gli amici gretti e razzisti del padre di Luisa.
In realtà, in questo film non ci sono buoni né cattivi: ci sono solo persone che fanno i conti con le loro origini, con un presente difficile e non sempre comprensibile, con le difficoltà economiche, con l'assenza di bellezza e tenerezza di vite vuote o svuotate. Luisa è in fondo ancora un'adolescente senza pregiudizi né giudizi su se stessa e sul mondo, ma anche incapace di valutare appieno le conseguenze delle proprie azioni; Renata ama manipolare il mondo circostante e i soldi non le dispiacciono; Bilal è un ragazzo pulito e onesto, inevitabilmente contiguo a un mondo di illegalità che non gli appartiene; la madre di Luisa è una madre un po' bambina, forse non del tutto all'altezza del suo ruolo; il padre è un uomo triste e rancoroso, che ha bisogno di trovare capri espiatori esterni alla tristezza della sua condizione; l'amico del padre, Rino, è un infelice che cerca compensazioni al proprio non sentirsi uomo.
Questa umanità derelitta, a fronte della bravata di Renata e con la complicità un po' assente di Luisa, innesca una reazione a catena che fa divampare l'incendio e porta dritti verso la tragedia, pure quella soffocata nell'atmosfera ovattata di un mondo abbandonato a se stesso, in cui quel dio che ogni domenica si va a incontrare in chiesa è solo l'ultimo, inutile tentativo della ricerca di un senso ormai smarrito della propria esistenza.
Voto: 4/5
martedì 15 aprile 2014
Neil Halstead e Mark Kozelek, Roma, Circolo degli artisti, 3-4 aprile 2014
In una memorabile due giorni il Circolo degli Artisti ha ospitato i concerti di due dei più importanti rappresentati dell'indie folk internazionale, l'inglese Neal Halstead, già animatore degli Slowdive e dei Mojave 3 e ora lanciato nella carriera da solista, e l'americano Mark Kozelek, anch'egli in passato leader dei Red House Painters e ora dei Sun Kil Moon, nonché solista incline a collaborazioni con altri artisti (si vedano gli album con Jimmy Lavalle e i Desert Shore).
Nel caso di Neil Halstead l'ultimo lavoro, Palindrome Hunches, risale ormai già a un paio di anni fa, mentre per quanto riguarda Mark Kozelek è appena uscito Benji a firma dei Sun Kil Moon, un album da molti considerato il capolavoro della sua carriera.
La vicinanza temporale tra questi due concerti, quasi certamente casuale, è in realtà provvidenziale nella misura in cui ricostruisce una specie di ideale continuità o quanto meno di contatto tra questi due artisti; Neal Halstead infatti, pur affondando le proprie radici nel cantautorato di Nick Drake, con la sua musica si muove al di fuori dei confini del folk britannico rievocando scenari americani, che trovano totale compimento nelle sonorità di Mark Kozelek.
Le due serate sono per me – mio malgrado – molto diverse, sebbene invece l’atmosfera dei due concerti sia parecchio somigliante. Alla serata con Neal Halstead arrivo piena di energia con la mia macchina fotografica e il mio nuovo obiettivo al collo e sono – come di consueto – nelle primissime file. Dopo l’apertura degli strumentali Junkfood, in pochi minuti il palco è pronto per Halstead che ha con sé solo la chitarra, l’armonica da bocca e i pedali per gli effetti alla chitarra.
Neil ha il suo ormai inseparabile cappellino di lana con pon pon, e capelli e barba tali che sembrano non aver visto un barbiere da mesi. La sua voce e la sua musica sono però come sempre suadenti e rapidamente conquistano un pubblico attento e competente. Neal suona molto dal suo vastissimo repertorio di canzoni, attingendo parecchio ai suoi album da solista, ma anche qualcosa al repertorio degli Slowdive e dei Mojave 3, anche su richiesta di alcune persone del pubblico.
La chitarra gli dà qualche problema nell’accordatura e Neal scherza con il pubblico di questo e altro. Il concerto scivola via emozionante e fluido, fino alla sua ultima canzone, cui segue un immancabile bis in cui il cantautore ci regala ancora 2-3 pezzi. La ciliegina sulla torta per me è la possibilità di una foto con lui dopo il concerto, che chiude una serata quasi perfetta.
Ben diversa la situazione con Kozelek. Il pomeriggio di venerdì mi assale un virus intestinale che mi abbatte fino quasi alle dieci di sera, tanto che sto per rinunciare. Poi una fugace sensazione di recupero mi fa prendere il motorino per correre ad ascoltare quello che resta del concerto. La sala è piena, non gremita (più della sera precedente, ma meno che in altre circostanze), ma inevitabilmente sono confinata un po’ indietro e nonostante io tenti di sfruttare i passaggi che mi si parano dinanzi riesco ad arrivare circa a mezza sala. D’altra parte numerosi cartelli avvisano che su richiesta del cantante non è consentito scattare fotografie e girare video, cosicché non avrei neppure potuto godere di una posizione più ravvicinata per fare le mie fotografie (motivo per cui in questo post non c'è neppure una foto di questo secondo concerto!).
La sala è piena della voce di Mark, e delle sue melodie un po’ cantilenanti, che – se non si comprendono le parole – si fa fatica ad apprezzare in pieno. Kozelek è infatti un cultore della parole e delle storie da raccontare, e la sua musica sostanzialmente non esiste sganciata dai suoi contenuti, spesso tristi, ma raccontati in maniera non depressa bensì fatalistica, consci dell’inevitabilità dei dolori della vita umana.
Il cantautore chiacchiera e scherza - un po' cinicamente - con il pubblico, che nella prima metà della sala è fatto soprattutto di appassionati conoscitori, mentre si fa più generico e disattento, quasi annoiato nella seconda metà. Certo quella di Kozelek non è una musica facile, tanto più quando è tenuta in piedi solo da una chitarra e dal fiume di parole con cui l’autore ci sommerge.
Alla fine, personalmente sono molto contenta di aver sfidato il virus intestinale per essere presente al Circolo anche oggi. E senza dubbio mi porterò dietro la memoria sonora e visiva delle atmosfere malinconiche di questi due cantanti, nonché le suggestioni che aprono nella mente l’immagine dei grandi paesaggi americani e anche delle province tristi, e di società rimaste ferme nel tempo, di cui per qualche ora sono diventate protagoniste le storie raccontate da Neal Halstead e Mark Kozelek.
Voto: 4/5
Nel caso di Neil Halstead l'ultimo lavoro, Palindrome Hunches, risale ormai già a un paio di anni fa, mentre per quanto riguarda Mark Kozelek è appena uscito Benji a firma dei Sun Kil Moon, un album da molti considerato il capolavoro della sua carriera.
La vicinanza temporale tra questi due concerti, quasi certamente casuale, è in realtà provvidenziale nella misura in cui ricostruisce una specie di ideale continuità o quanto meno di contatto tra questi due artisti; Neal Halstead infatti, pur affondando le proprie radici nel cantautorato di Nick Drake, con la sua musica si muove al di fuori dei confini del folk britannico rievocando scenari americani, che trovano totale compimento nelle sonorità di Mark Kozelek.
Le due serate sono per me – mio malgrado – molto diverse, sebbene invece l’atmosfera dei due concerti sia parecchio somigliante. Alla serata con Neal Halstead arrivo piena di energia con la mia macchina fotografica e il mio nuovo obiettivo al collo e sono – come di consueto – nelle primissime file. Dopo l’apertura degli strumentali Junkfood, in pochi minuti il palco è pronto per Halstead che ha con sé solo la chitarra, l’armonica da bocca e i pedali per gli effetti alla chitarra.
Neil ha il suo ormai inseparabile cappellino di lana con pon pon, e capelli e barba tali che sembrano non aver visto un barbiere da mesi. La sua voce e la sua musica sono però come sempre suadenti e rapidamente conquistano un pubblico attento e competente. Neal suona molto dal suo vastissimo repertorio di canzoni, attingendo parecchio ai suoi album da solista, ma anche qualcosa al repertorio degli Slowdive e dei Mojave 3, anche su richiesta di alcune persone del pubblico.
La chitarra gli dà qualche problema nell’accordatura e Neal scherza con il pubblico di questo e altro. Il concerto scivola via emozionante e fluido, fino alla sua ultima canzone, cui segue un immancabile bis in cui il cantautore ci regala ancora 2-3 pezzi. La ciliegina sulla torta per me è la possibilità di una foto con lui dopo il concerto, che chiude una serata quasi perfetta.
Ben diversa la situazione con Kozelek. Il pomeriggio di venerdì mi assale un virus intestinale che mi abbatte fino quasi alle dieci di sera, tanto che sto per rinunciare. Poi una fugace sensazione di recupero mi fa prendere il motorino per correre ad ascoltare quello che resta del concerto. La sala è piena, non gremita (più della sera precedente, ma meno che in altre circostanze), ma inevitabilmente sono confinata un po’ indietro e nonostante io tenti di sfruttare i passaggi che mi si parano dinanzi riesco ad arrivare circa a mezza sala. D’altra parte numerosi cartelli avvisano che su richiesta del cantante non è consentito scattare fotografie e girare video, cosicché non avrei neppure potuto godere di una posizione più ravvicinata per fare le mie fotografie (motivo per cui in questo post non c'è neppure una foto di questo secondo concerto!).
La sala è piena della voce di Mark, e delle sue melodie un po’ cantilenanti, che – se non si comprendono le parole – si fa fatica ad apprezzare in pieno. Kozelek è infatti un cultore della parole e delle storie da raccontare, e la sua musica sostanzialmente non esiste sganciata dai suoi contenuti, spesso tristi, ma raccontati in maniera non depressa bensì fatalistica, consci dell’inevitabilità dei dolori della vita umana.
Il cantautore chiacchiera e scherza - un po' cinicamente - con il pubblico, che nella prima metà della sala è fatto soprattutto di appassionati conoscitori, mentre si fa più generico e disattento, quasi annoiato nella seconda metà. Certo quella di Kozelek non è una musica facile, tanto più quando è tenuta in piedi solo da una chitarra e dal fiume di parole con cui l’autore ci sommerge.
Alla fine, personalmente sono molto contenta di aver sfidato il virus intestinale per essere presente al Circolo anche oggi. E senza dubbio mi porterò dietro la memoria sonora e visiva delle atmosfere malinconiche di questi due cantanti, nonché le suggestioni che aprono nella mente l’immagine dei grandi paesaggi americani e anche delle province tristi, e di società rimaste ferme nel tempo, di cui per qualche ora sono diventate protagoniste le storie raccontate da Neal Halstead e Mark Kozelek.
Voto: 4/5
martedì 8 aprile 2014
The Grand Budapest Hotel
Grazie alla rassegna cinematografica organizzata dal MAXXI di Roma ho potuto vedere in anteprima e soprattutto in lingua originale l'ultimo, mirabolante film di Wes Anderson, The Grand Budapest Hotel.
Se non avete mai visto un film di Anderson, forse non è esattamente il film dal quale cominciare! Perché The Grand Budapest Hotel è in qualche modo Anderson all'ennesima potenza, l'apoteosi del suo cinema, una quintessenza di tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti, che allo sguardo di chi gli si avvicina per la prima volta può risultare spiazzante e in buona parte incomprensibile.
Vedere un film di Anderson è come salire su una antica giostra, dalla quale il mondo intorno non solo sembra improvvisamente proiettato in un passato imprecisato, e forse in qualche modo solo immaginato, ma subisce anche una forma di accelerazione e distorsione, che lo rende in buona parte innaturale e lontano.
Altrove ho già scritto che pur vedendo sullo schermo persone in carne e ossa si ha la sensazione di essere immersi in un cartone animato o di assistere a una puntata sui generis delle "comiche" alla maniera di Buster Keaton.
Ebbene tutto questo trova in The Gran Budapest Hotel una delle sue manifestazioni più alte e più articolate, da molteplici punti di vista. Innanzitutto per il contributo di un cast all stars (da Ralph Fiennes a Jude Law, da Willem Dafoe a Jason Swartzmann, da Bill Murray a Edward Norton, da Adrien Brody a Mathieu Amalric e moltissimi altri, tra cui una menzione va fatta per lo sconosciuto Tony Revolori che interpreta il co-protagonista da giovane), che si mette completamente al servizio della vena immaginifica di Anderson; in secondo luogo per l'esplosione di invenzione scenografiche che punteggia l'intero film; infine per la narrazione che ne è protagonista, una storia raccontata dal suo protagonista e rielaborata da uno scrittore nel suo libro, quella di Gustave H. (Joseph Fiennes), lo straordinario concierge del Gran Budapest Hotel.
Questa focalizzazione sull'atto del narrare - e dunque sulla parola - è certamente l'elemento prevalente in questo film, che sembra infatti trasmettere il piacere del racconto, la sua capacità di creare universi e mondi immaginati, al di là di qualunque realismo.
Dentro questa narrazione decisamente sopra le righe (una specie di fiaba noir ipercolorata), i dialoghi introducono a volte non solo gag e battute fulminanti, ma anche - sotto un'apparente illogicità - riflessioni profonde su questioni di grande attualità e interesse.
Un film davanti al quale rimanere a bocca aperta, continuamente sollecitati dalle invenzioni di Anderson; oppure davanti al quale annoiarsi e sbadigliare, per non esserci entrati in contatto.
E qui la debolezza del film dal mio punto di vista: la quasi totale incapacità di creare empatia con lo spettatore. Rispetto alla tenerezza di Moonrise Kingdom, The Grand Budapest Hotel lascia sì strabiliati, ma anche in buona parte indifferenti. E questo, per quanto mi riguarda, toglie molto alla visione di un film.
Forse Anderson si è fatto prendere un po' la mano dalla confezione e dallo script, ma ha lasciato un pochino a casa quel tocco di sensibilità di cui pure sappiamo essere straordinariamente capace.
Voto: 3/5
Se non avete mai visto un film di Anderson, forse non è esattamente il film dal quale cominciare! Perché The Grand Budapest Hotel è in qualche modo Anderson all'ennesima potenza, l'apoteosi del suo cinema, una quintessenza di tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti, che allo sguardo di chi gli si avvicina per la prima volta può risultare spiazzante e in buona parte incomprensibile.
Vedere un film di Anderson è come salire su una antica giostra, dalla quale il mondo intorno non solo sembra improvvisamente proiettato in un passato imprecisato, e forse in qualche modo solo immaginato, ma subisce anche una forma di accelerazione e distorsione, che lo rende in buona parte innaturale e lontano.
Altrove ho già scritto che pur vedendo sullo schermo persone in carne e ossa si ha la sensazione di essere immersi in un cartone animato o di assistere a una puntata sui generis delle "comiche" alla maniera di Buster Keaton.
Ebbene tutto questo trova in The Gran Budapest Hotel una delle sue manifestazioni più alte e più articolate, da molteplici punti di vista. Innanzitutto per il contributo di un cast all stars (da Ralph Fiennes a Jude Law, da Willem Dafoe a Jason Swartzmann, da Bill Murray a Edward Norton, da Adrien Brody a Mathieu Amalric e moltissimi altri, tra cui una menzione va fatta per lo sconosciuto Tony Revolori che interpreta il co-protagonista da giovane), che si mette completamente al servizio della vena immaginifica di Anderson; in secondo luogo per l'esplosione di invenzione scenografiche che punteggia l'intero film; infine per la narrazione che ne è protagonista, una storia raccontata dal suo protagonista e rielaborata da uno scrittore nel suo libro, quella di Gustave H. (Joseph Fiennes), lo straordinario concierge del Gran Budapest Hotel.
Questa focalizzazione sull'atto del narrare - e dunque sulla parola - è certamente l'elemento prevalente in questo film, che sembra infatti trasmettere il piacere del racconto, la sua capacità di creare universi e mondi immaginati, al di là di qualunque realismo.
Dentro questa narrazione decisamente sopra le righe (una specie di fiaba noir ipercolorata), i dialoghi introducono a volte non solo gag e battute fulminanti, ma anche - sotto un'apparente illogicità - riflessioni profonde su questioni di grande attualità e interesse.
Un film davanti al quale rimanere a bocca aperta, continuamente sollecitati dalle invenzioni di Anderson; oppure davanti al quale annoiarsi e sbadigliare, per non esserci entrati in contatto.
E qui la debolezza del film dal mio punto di vista: la quasi totale incapacità di creare empatia con lo spettatore. Rispetto alla tenerezza di Moonrise Kingdom, The Grand Budapest Hotel lascia sì strabiliati, ma anche in buona parte indifferenti. E questo, per quanto mi riguarda, toglie molto alla visione di un film.
Forse Anderson si è fatto prendere un po' la mano dalla confezione e dallo script, ma ha lasciato un pochino a casa quel tocco di sensibilità di cui pure sappiamo essere straordinariamente capace.
Voto: 3/5
mercoledì 2 aprile 2014
Piccolo trattato sulle verità dell’esistenza / Fred Vargas
Piccolo trattato sulle verità dell’esistenza / Fred Vargas; trad. di Margherita Botto. Torino: Einaudi, 2013.
Sapete che adoro Fred Vargas. In particolare, sono un’appassionata della serie di gialli che vede come protagonista l’ispettore Adamsberg. E in questo momento soffro un po’ di crisi di astinenza, visto che sembra che la Vargas abbia esaurito quello che aveva da dire su questo personaggio e il suo mondo, con mio grande rammarico.
Così, accolgo con entusiasmo la proposta di A. di leggere un volumetto della Vargas che si intitola Piccolo trattato sulle verità dell’esistenza. Ovviamente non si tratta di un giallo e non è neppure una scrittura recente dell’autrice visto che l’edizione originale risale al 2001. Però evidentemente la Einaudi ha pensato bene di venire in soccorso di chi come me attendeva di leggere qualcosa di questa scrittrice.
Abituata ai gialli di Adamsberg, sono rimasta un po’ stupita del tono e della scrittura di questo “piccolo trattato”, che è una specie di divertissement letterario che Fred Vargas deve aver scritto in un momento un po’ sconsolato della sua esistenza, probabilmente a seguito della fine di una storia importante.
E così mi sono immaginata la nostra autrice che – come del resto faccio io stessa qualche volta – comincia a scrivere all’impazzata sui tasti del computer tutto quello che le passa per la testa e che le serve a esorcizzare il proprio stato d’animo. E lo fa scegliendo un tono fortemente autoironico, prendendosi in giro in tutte le sue piccolezze e la sua effettiva incapacità di affrontare le inevitabili avversità dell’esistenza, in particolare quelle di carattere amoroso.
Con la scusa di regalarci perle di saggezza sull’esistenza, Fred Vargas ci spiega quanto – nonostante tutte le esperienze attraverso le quali passiamo – siamo e restiamo totalmente sprovvisti degli strumenti necessari per affrontare le nostre fragilità.
Qua e là qualche interessante elemento di riflessione emerge e all’interno del tono di amara levità che caratterizza il volumetto si incontra qualche affondo nella profondità delle pieghe della nostra esistenza.
Ma non aspettatevi molto altro da questo libro. E non dimenticate – mentre lo leggete – che in fondo si è trattato del necessario riempitivo che una scrittrice si è data per colmare lo spazio di tempo utile per arrivare ad accettare l’allontanamento della persona amata. Lo facciamo tutti. La Vargas lo ha fatto a suo modo.
Voto: 2,5/5
Sapete che adoro Fred Vargas. In particolare, sono un’appassionata della serie di gialli che vede come protagonista l’ispettore Adamsberg. E in questo momento soffro un po’ di crisi di astinenza, visto che sembra che la Vargas abbia esaurito quello che aveva da dire su questo personaggio e il suo mondo, con mio grande rammarico.
Così, accolgo con entusiasmo la proposta di A. di leggere un volumetto della Vargas che si intitola Piccolo trattato sulle verità dell’esistenza. Ovviamente non si tratta di un giallo e non è neppure una scrittura recente dell’autrice visto che l’edizione originale risale al 2001. Però evidentemente la Einaudi ha pensato bene di venire in soccorso di chi come me attendeva di leggere qualcosa di questa scrittrice.
Abituata ai gialli di Adamsberg, sono rimasta un po’ stupita del tono e della scrittura di questo “piccolo trattato”, che è una specie di divertissement letterario che Fred Vargas deve aver scritto in un momento un po’ sconsolato della sua esistenza, probabilmente a seguito della fine di una storia importante.
E così mi sono immaginata la nostra autrice che – come del resto faccio io stessa qualche volta – comincia a scrivere all’impazzata sui tasti del computer tutto quello che le passa per la testa e che le serve a esorcizzare il proprio stato d’animo. E lo fa scegliendo un tono fortemente autoironico, prendendosi in giro in tutte le sue piccolezze e la sua effettiva incapacità di affrontare le inevitabili avversità dell’esistenza, in particolare quelle di carattere amoroso.
Con la scusa di regalarci perle di saggezza sull’esistenza, Fred Vargas ci spiega quanto – nonostante tutte le esperienze attraverso le quali passiamo – siamo e restiamo totalmente sprovvisti degli strumenti necessari per affrontare le nostre fragilità.
Qua e là qualche interessante elemento di riflessione emerge e all’interno del tono di amara levità che caratterizza il volumetto si incontra qualche affondo nella profondità delle pieghe della nostra esistenza.
Ma non aspettatevi molto altro da questo libro. E non dimenticate – mentre lo leggete – che in fondo si è trattato del necessario riempitivo che una scrittrice si è data per colmare lo spazio di tempo utile per arrivare ad accettare l’allontanamento della persona amata. Lo facciamo tutti. La Vargas lo ha fatto a suo modo.
Voto: 2,5/5
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