Kafka sulla spiaggia / Murakami Haruki; trad. di Giorgio Amitrano. Torino: Einaudi, 2013.
Mi accosto alfine anche a uno dei libri più noti di Murakami Haruki che sono forse una delle ultime persone a non aver letto (di lui ho letto soltanto L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio). Vari amici nel tempo me ne hanno parlato, anche in termini entusiastici ma con la lettura per me è sempre così. Deve arrivare il momento giusto.
E quel momento è arrivato.
Ho iniziato a leggere Kafka sulla spiaggia un po' in sordina. Poche pagine a sera e all'inizio in alcuni casi ho dovuto anche rileggere.
Poi durante i giorni della presenza di mio padre a Roma, mentre lui guardava la televisione io ho cominciato a leggere più a lungo e più intensamente. E a un certo punto non mi sono più staccata.
Ci sono delle caratteristiche di Murakami - e probabilmente della cultura giapponese in generale - che potrebbero non essermi congeniali, ossia tutta la componente magica, spirituale e soprannaturale. Non a caso uno dei miei problemi con la narrativa sudamericana è proprio questo: non riesco a metabolizzare il loro ricorso all'elemento magico. Però incredibilmente in Murakami questo aspetto non mi dà fastidio. Mi sento molto come Hoshino, il personaggio forse più "normale" del libro, che di fronte alle situazioni sempre più incredibili e assurde che si trova a vivere, dopo un breve stupore iniziale, finisce per rassegnarsi e accettare di non poter capire, comportandosi come se in tutta questa stranezza non ci fosse nulla di strano.
Insomma seguo con passione crescente la vicenda di Tamura Kafka, il ragazzo quindicenne scappato di casa per cercare sua madre o forse per trovare la propria identità, e quelle di Nakata, un signore che ha problemi di ritardo mentale a causa di un incidente misterioso occorsogli da bambino, ma che ha poteri eccezionali come quello di parlare con i gatti e di far piovere delle cose dal cielo.
Le loro storie saranno destinate fatalmente a incontrarsi dopo aver proceduto a lungo in parallelo e lo faranno in un luogo altamente simbolico, la biblioteca Komura dove Kafka troverà ospitalità e la cui direttrice è la signora Saeki.
Intorno ai due personaggi principali una serie di comprimari altrettanto importanti. Oltre al già citato Hoshino che accompagna Nakata, ci sono il bibliotecario Oshima e la giovane Sakura.
La narrazione prosegue in modo via via più appassionante, sebbene Murakami non ci spieghi tutto e semini indizi e ipotesi che non vengono mai confermate né lo saranno fino al termine del romanzo.
Alla conclusione della lettura ognuno potrà dunque darsi le proprie spiegazioni e interpretare la storia secondo la propria sensibilità.
Nel complesso, la lettura di Kafka sulla spiaggia è stata un'esperienza conturbante e che non lascia indifferenti.
Voto: 3,5/5
mercoledì 27 settembre 2023
lunedì 25 settembre 2023
Freibad
Dopo essere venuta a conoscenza del Karawan Fest in occasione della proiezione del film Toubab al Goethe Institut mi ero ripromessa quest'anno di andare a vedere almeno un film. E così la penultima sera di programmazione, io e C. andiamo a vedere Freibad, il film della regista tedesca Doris Dörrie, presente per un confronto con il pubblico.
La regista ci dirà che l'ispirazione del film le è venuta dopo aver letto una breve notizia sul fatto che in una piscina all'aperto per sole donne a Friburgo c'erano state delle situazioni di conflitto tra donne di diversa provenienza etnica e religiosa.
E di fatto, di questo parla il film: siamo in una piscina all'aperto in piena estate. La piscina è gestita da una donna che passa tutto il tempo ad allenarsi e a fare pesi, la cui bagnina è una ragazza nera e il cui chiosco è gestito da un uomo in vesti femminili. Tra le frequentatrici abituali della piscina ci sono due amiche tedesche (una ex cantante avanti con gli anni e ormai spiantata, femminista in modo radicale e al contempo razzista di ritorno, e una cattolica ricca e sola, che introduce il suo cane di soppiatto in una carrozzina), una famiglia di donne musulmane di diverse generazioni e con diversi atteggiamenti nei confronti dei dettami della religione e delle scelte sul vestiario, una giovane ragazza in carne che ha un interesse per una delle giovani musulmane. Già la convivenza tra questi diversi soggetti non è pacifica, ma quando in piscina arrivano delle donne arabe, molto ricche e coperte di tuniche nere dalla testa ai piedi, la situazione esplode.
Il tono del film della Dörrie è decisamente da commedia, a tratti addirittura comico, ma questo approccio leggero non nasconde nessuna delle contraddizioni sottostanti e che riguardano tutte le protagoniste della storia.
La domanda di sottofondo è una domanda di grande attualità, ossia "A chi appartiene il corpo delle donne?", solo che in questo caso non ci sono uomini a pretendere di decidere per loro, dal momento che ci troviamo all'interno di una enclave totalmente femminile, cosicché quello che accade è che sono le donne stesse a essere ciascuna convinta di quale sia la cosa giusta e a voler applicare soluzioni univoche a chiunque. La libertà che tutte professano si scontra con il fatto che ognuna ha un atteggiamento giudicante verso l'altra, non riconoscendo di fatto una vera libertà di scelta.
Nel complesso il film non punta a essere un prodotto raffinato, e tra situazioni divertenti e in parte macchiettistiche, canzoni estive spensierate e poetiche e rilassate pause notturne in una piscina vuota nel passaggio da un giorno all'altro, mette sul piatto tanti temi che non hanno risposte semplici né scontate, e ci chiamano tutte in causa, costringendoci a riflettere sulla limitatezza e sui rischi di qualunque posizione univoca che si scontra e sempre si scontrerà con la varietà e la complessità del reale, man mano che le nostre società diventano più composite e articolate.
Voto: 3/5
La regista ci dirà che l'ispirazione del film le è venuta dopo aver letto una breve notizia sul fatto che in una piscina all'aperto per sole donne a Friburgo c'erano state delle situazioni di conflitto tra donne di diversa provenienza etnica e religiosa.
E di fatto, di questo parla il film: siamo in una piscina all'aperto in piena estate. La piscina è gestita da una donna che passa tutto il tempo ad allenarsi e a fare pesi, la cui bagnina è una ragazza nera e il cui chiosco è gestito da un uomo in vesti femminili. Tra le frequentatrici abituali della piscina ci sono due amiche tedesche (una ex cantante avanti con gli anni e ormai spiantata, femminista in modo radicale e al contempo razzista di ritorno, e una cattolica ricca e sola, che introduce il suo cane di soppiatto in una carrozzina), una famiglia di donne musulmane di diverse generazioni e con diversi atteggiamenti nei confronti dei dettami della religione e delle scelte sul vestiario, una giovane ragazza in carne che ha un interesse per una delle giovani musulmane. Già la convivenza tra questi diversi soggetti non è pacifica, ma quando in piscina arrivano delle donne arabe, molto ricche e coperte di tuniche nere dalla testa ai piedi, la situazione esplode.
Il tono del film della Dörrie è decisamente da commedia, a tratti addirittura comico, ma questo approccio leggero non nasconde nessuna delle contraddizioni sottostanti e che riguardano tutte le protagoniste della storia.
La domanda di sottofondo è una domanda di grande attualità, ossia "A chi appartiene il corpo delle donne?", solo che in questo caso non ci sono uomini a pretendere di decidere per loro, dal momento che ci troviamo all'interno di una enclave totalmente femminile, cosicché quello che accade è che sono le donne stesse a essere ciascuna convinta di quale sia la cosa giusta e a voler applicare soluzioni univoche a chiunque. La libertà che tutte professano si scontra con il fatto che ognuna ha un atteggiamento giudicante verso l'altra, non riconoscendo di fatto una vera libertà di scelta.
Nel complesso il film non punta a essere un prodotto raffinato, e tra situazioni divertenti e in parte macchiettistiche, canzoni estive spensierate e poetiche e rilassate pause notturne in una piscina vuota nel passaggio da un giorno all'altro, mette sul piatto tanti temi che non hanno risposte semplici né scontate, e ci chiamano tutte in causa, costringendoci a riflettere sulla limitatezza e sui rischi di qualunque posizione univoca che si scontra e sempre si scontrerà con la varietà e la complessità del reale, man mano che le nostre società diventano più composite e articolate.
Voto: 3/5
venerdì 22 settembre 2023
James Yorkston e Nina Persson. Unplugged in Monti, Industrie fluviali, 7 settembre 2023

Si tratta di una location intima e raccolta, una terrazza in mezzo alle case, che ha decisamente un suo fascino.
Stasera a esibirsi sono James Yorkston e Nina Persson, cantante dei The Cardigans, i quali hanno realizzato insieme, col supporto della The Second Hand Orchestra, l'album The great white eagle, che ovviamente avevo comprato appena si era saputo del concerto e avevo ascoltato un paio di volte.

La serata inizia con la presentazione del suo romanzo Il libro dei Gaeli, pubblicato in Italia dalla Jimenez edizioni. La presentazione consta della lettura alternata di alcuni brani in lingua originale da parte di Yorkston e degli stessi brani nella traduzione italiana. Devo dire che al termine della lettura ne sono rimasta incuriosita e affascinata e non escludo in futuro di comprare e leggere il libro.
Al termine della presentazione Yorkston annuncia che il concerto inizierà dopo venti minuti, e infatti puntualissimi alle 21,15 salgono sul palco lui e Nina Persson. La Persson duetta con Yorkston utilizzando la sua bellissima voce, mentre Yorkston oltre a cantare si divide tra la tastiera e la chitarra.

Durante le prime esecuzioni accompagnate dalla chitarra, si capisce che con questo strumento c'è qualcosa che non va. Effettivamente ci dirà dopo lo stesso Yorkston che lui per pigrizia non si porta dietro i suoi strumenti, che dunque gli vengono messi a disposizione dall'organizzazione. Quindi accade che talvolta ha strumenti bellissimi che vorrebbe portarsi a casa e altre volte ha strumenti che lasciano molto a desiderare, e stasera è questo il caso.

Dopo un'oretta di concerto che alterna momenti molto belli e canzoni molto gradevoli ad altre un pochino meno entusiasmanti, i due ci annunciano che suoneranno altre tre canzoni compreso il bis, e poi ci saluteremo. Per chi vuole ci sarà modo di incontrarsi al banchetto di vendita dei dischi e del libro.
Così prima delle 22,30 io e F. siamo già per strada, il che alla fine, considerando la nostra veneranda età, è ormai un grosso valore aggiunto ;-)
Voto: 3/5
mercoledì 20 settembre 2023
A caro prezzo (Bella ciao) / Baru

Conoscevo già il fumettista francese Baru e avevo già letto alcune sue cose, con interesse alterno. Non sapevo però che Hervé Barulea (il vero nome di Baru) fosse di origine italiana.
Lo scopro attraverso questi tre volumi pubblicati da Oblomov, A caro prezzo (Bella ciao).
I tre volumi prendono spunto da storie familiari - parenti vicini e meno vicini, ma in alcuni casi anche persone al di fuori della cerchia familiare - per raccontare la presenza degli italiani nella storia francese nel corso del Novecento, presenza importante per l'economia del paese, talvolta eroica (per la partecipazione degli Italiani alla guerra accanto ai francesi), ma non sempre ben accetta e tollerata, come accade purtroppo in ogni fase della storia e in ogni luogo quando arrivano persone di diversa provenienza.

Il volume fa un uso raffinato del colore, dando allo stesso un ruolo preciso nella narrazione, e non a caso gli intermezzi in cui compare l'autore sono in bianco e nero a segnare lo stacco.
Nonostante questo, devo ammettere che ho fatto un po' fatica a seguire tutti i vari elementi narrativi, e talvolta mi trovavo a chiedermi chi fosse il personaggio e se si trattasse di qualcuno già incontrato o di qualcuno di nuovo. Quando al termine del terzo volume compare una specie di albero genealogico illustrato della famiglia di origine di Baru, con molti dei personaggi raccontati nei tre volumi, devo ammettere che ho pensato che avrei preferito avere questo aiuto fin dal principio per non perdermi nella narrazione.

Sul piano dei contenuti la storia dei rapporti tra francesi e italiani in terra di Francia è di grandissimo interesse e ripropone all'attenzione collettiva temi di stringente attualità, come le migrazioni e il razzismo, che nel tempo cambiano solo protagonisti e destinatari, ma sono sempre presenti. È solo quando una popolazione arrivata dall'esterno diventa "trasparente" (ossia si confonde con quella locale e non viene più notata) che l'integrazione si può dire conclusa, ma di solito questo avviene appunto "a caro prezzo", e tra l'altro per popolazioni che hanno caratteristiche fisiche nettamente differenti spesso non avviene mai.
Sul medesimo tema è uscito un film di animazione, realizzato in stop-motion, dal titolo Manodopera, sul quale a questo punto mi è venuta una certa curiosità.
Voto: 3/5
lunedì 18 settembre 2023
Io capitano
Matteo Garrone ha la capacità di fare film tutti molto diversi l'uno dall'altro, mantenendo però una poetica coerente e riconoscibile. Basta guardare la sua filmografia, anche solo quella più recente (Reality, Il racconto dei racconti, Dogman, Pinocchio), per rendersene conto.
Con Io capitano Garrone si misura con qualcosa di più grande di lui e forse di tutti noi: il viaggio di due ragazzi senegalesi da Dakar all'Europa dei loro sogni. Si tratta di Seydou (il bravissimo Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Farr), cugini sedicenni che da mesi lavorano di nascosto dalle rispettive madri per mettere da parte i soldi per partire verso l'Europa, con l'idea di realizzare il sogno di diventare cantanti e firmare gli autografi ai bianchi (della bellissima e non scontata colonna sonora diverse canzoni sono cantate proprio dai protagonisti). E così i due escono dal Senegal e attraverso il Mali e il Niger arrivano in Libia, vivendo situazioni terribili che li separeranno per poi farli ricontrare a Tripoli prima di imbarcarsi per l'Italia.
Garrone sa di avere a che fare con una materia incandescente e difficilissima, che facilmente gli può esplodere tra le mani, così sceglie la strada del romanzo di formazione e di avventura (Seydou è inizialmente un ragazzo timido e insicuro, e non è del tutto convinto di partire, ma alla fine saprà farsi carico dell'amico ferito e della responsabilità di guidare il barchino carico di migranti verso l'Italia). Quello di Garrone è un romanzo di formazione che affonda le sue radici nella letteratura epica e popolare - dall'Odissea allo stesso Pinocchio oggetto del suo precedente film - e in quanto viaggio letterario può concedersi scelte visive e narrative che guardano appunto alla letteratura oltre - e prima ancora - che alla realtà.
Quello che voglio dire è che Io capitano non è un documentario e non vuole essere guardato come tale, pur essendo basato sui racconti di chi quel viaggio l'ha fatto veramente (Kouassi Pli Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke e Siaka Doumbia) e pur proponendo alcuni passaggi particolarmente realistici e crudi (penso all'incontro con i predoni nel deserto del Niger, o alle sequenze nelle carceri libiche).
Il regista però non vuole capitalizzare solo sulla sofferenza e sulle emozioni forti, e per questo utilizza il filtro letterario per permetterci di osservare e partecipare in modo non scontato e forse anche più razionale. Quelli che sono dunque citati da alcuni come difetti del film, in particolare la rappresentazione un po' stereotipata del Senegal e della vita da cui i due ragazzi provengono, l'ingenuità che caratterizza loro e molti di quelli che fanno il viaggio con loro, l'estetizzazione delle immagini (la fotografia di Paolo Carnera è davvero strepitosa), la semplificazione di alcuni passaggi, le sequenze oniriche, sono secondo me scelte deliberate e perfettamente coerenti con lo stile letterario e non propriamente documentaristico di questo film. E - sempre a mio avviso - funzionano benissimo e raggiungono perfettamente il loro scopo, cioè quello di farci empatizzare con il giovane Seydou e di farci comprendere i suoi stati d'animo, trasformando il protagonista in un vero e proprio "eroe letterario", ma anche aiutandoci a visualizzare ciò che accade prima di quella barca alla deriva nel Mediterraneo. Certo, se Garrone avesse scelto la via del documentario probabilmente avremmo assistito a una vicenda molto più traumatizzante e tragica, ma il regista decide di coltivare la speranza e inseguire il sogno di Seydou; a conferma di questo e a merito ulteriore del film, il protagonista non parte perché costretto a scappare da casa sua, non è poverissimo, non deve fare i conti con la guerra, però nondimeno ha diritto come tutti a inseguire altrove un miglioramento delle sue condizioni e una vita diversa da quella che lo attende.
Il lieto fine è come quello delle fiabe, in cui la storia finisce quando il protagonista ha superato lo scoglio narrativo che il suo creatore ha scelto, ma della vita che lo aspetta e delle ulteriori e inevitabili sofferenze future non sappiamo nulla. Solo che in questo caso quello che attende Seydou e Moussa, una volta arrivati vivi in Italia dopo mille sofferenze e peripezie, è sotto i nostri occhi e nelle nostre orecchie praticamente tutti i giorni, e non è certo una strada in discesa.
Voto: 3,5/5
Con Io capitano Garrone si misura con qualcosa di più grande di lui e forse di tutti noi: il viaggio di due ragazzi senegalesi da Dakar all'Europa dei loro sogni. Si tratta di Seydou (il bravissimo Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Farr), cugini sedicenni che da mesi lavorano di nascosto dalle rispettive madri per mettere da parte i soldi per partire verso l'Europa, con l'idea di realizzare il sogno di diventare cantanti e firmare gli autografi ai bianchi (della bellissima e non scontata colonna sonora diverse canzoni sono cantate proprio dai protagonisti). E così i due escono dal Senegal e attraverso il Mali e il Niger arrivano in Libia, vivendo situazioni terribili che li separeranno per poi farli ricontrare a Tripoli prima di imbarcarsi per l'Italia.
Garrone sa di avere a che fare con una materia incandescente e difficilissima, che facilmente gli può esplodere tra le mani, così sceglie la strada del romanzo di formazione e di avventura (Seydou è inizialmente un ragazzo timido e insicuro, e non è del tutto convinto di partire, ma alla fine saprà farsi carico dell'amico ferito e della responsabilità di guidare il barchino carico di migranti verso l'Italia). Quello di Garrone è un romanzo di formazione che affonda le sue radici nella letteratura epica e popolare - dall'Odissea allo stesso Pinocchio oggetto del suo precedente film - e in quanto viaggio letterario può concedersi scelte visive e narrative che guardano appunto alla letteratura oltre - e prima ancora - che alla realtà.
Quello che voglio dire è che Io capitano non è un documentario e non vuole essere guardato come tale, pur essendo basato sui racconti di chi quel viaggio l'ha fatto veramente (Kouassi Pli Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke e Siaka Doumbia) e pur proponendo alcuni passaggi particolarmente realistici e crudi (penso all'incontro con i predoni nel deserto del Niger, o alle sequenze nelle carceri libiche).
Il regista però non vuole capitalizzare solo sulla sofferenza e sulle emozioni forti, e per questo utilizza il filtro letterario per permetterci di osservare e partecipare in modo non scontato e forse anche più razionale. Quelli che sono dunque citati da alcuni come difetti del film, in particolare la rappresentazione un po' stereotipata del Senegal e della vita da cui i due ragazzi provengono, l'ingenuità che caratterizza loro e molti di quelli che fanno il viaggio con loro, l'estetizzazione delle immagini (la fotografia di Paolo Carnera è davvero strepitosa), la semplificazione di alcuni passaggi, le sequenze oniriche, sono secondo me scelte deliberate e perfettamente coerenti con lo stile letterario e non propriamente documentaristico di questo film. E - sempre a mio avviso - funzionano benissimo e raggiungono perfettamente il loro scopo, cioè quello di farci empatizzare con il giovane Seydou e di farci comprendere i suoi stati d'animo, trasformando il protagonista in un vero e proprio "eroe letterario", ma anche aiutandoci a visualizzare ciò che accade prima di quella barca alla deriva nel Mediterraneo. Certo, se Garrone avesse scelto la via del documentario probabilmente avremmo assistito a una vicenda molto più traumatizzante e tragica, ma il regista decide di coltivare la speranza e inseguire il sogno di Seydou; a conferma di questo e a merito ulteriore del film, il protagonista non parte perché costretto a scappare da casa sua, non è poverissimo, non deve fare i conti con la guerra, però nondimeno ha diritto come tutti a inseguire altrove un miglioramento delle sue condizioni e una vita diversa da quella che lo attende.
Il lieto fine è come quello delle fiabe, in cui la storia finisce quando il protagonista ha superato lo scoglio narrativo che il suo creatore ha scelto, ma della vita che lo aspetta e delle ulteriori e inevitabili sofferenze future non sappiamo nulla. Solo che in questo caso quello che attende Seydou e Moussa, una volta arrivati vivi in Italia dopo mille sofferenze e peripezie, è sotto i nostri occhi e nelle nostre orecchie praticamente tutti i giorni, e non è certo una strada in discesa.
Voto: 3,5/5
venerdì 15 settembre 2023
Oppenheimer
Meno male che arrivo praticamente per ultima a vedere e a parlare del film di Christopher Nolan, perché dopo che è stato già detto tutto e il contrario di tutto su Oppenheimer io tutto sommato mi sento libera di non prendere posizione.
Eh sì perché ormai su Internet e sui social funziona così: prima arrivano quelli per cui il film è un capolavoro assoluto e non potete perderlo perché è un film strepitoso, poi - dopo che sono passati tutti questi - arrivano i detrattori che lo smontano fino alle fondamenta. E così non resta sostanzialmente più nulla.
Per quanto mi riguarda posso dire che Oppenheimer con le sue tre ore di proiezione non mi ha praticamente mai annoiata e questo è già un grande risultato.
È forse il film migliore di Nolan? Secondo me no. Ma non è nemmeno inutile e inguardabile.
È un film fatto con la maestria che non si può fare a meno di riconoscere al regista britannico, ed è un film che, pur essendo coerente con la sua filmografia, è in fondo il suo più lineare e classico. Non so se dipenda dal libro da cui è tratto (e che io non conosco), ma nonostante i flashback e le linee narrative parallele è uno dei film meno cervellotici di Nolan. Tra l'altro ha un impianto classicissimo da legal movie, in quanto al centro ci sono due dibattimenti, quello di cui fu oggetto Oppenheimer e che portò a negargli il nulla osta per la sicurezza nazionale a causa dei suoi legami con il comunismo, e quello di cui fu oggetto Lewis Strauss, ex presidente della Commissione per l'energia atomica degli Stati Uniti e candidato a un posto di ministro nel gabinetto del governo americano.
Su queste due linee temporali si innestano i flashback che raccontano da un lato la storia di Oppenheimer e del progetto Manhattan, dall'altro il legame tra Oppenheimer e Lewis Strauss.
Cillian Murphy è un perfetto interprete del protagonista grazie al fatto che il suo sguardo e il suo atteggiamento contengono quella giusta dose di ambiguità capace di rendere il protagonista trasparente e sfuggente al contempo.
La vicenda umana e professionale di Oppenheimer è certamente affascinante e chi ha elementi conoscitivi maggiori potrà cogliere spunti ulteriori all'interno del film. Intorno alla figura dello scienziato Nolan addensa il complesso tema del rapporto tra teoria e pratica, nonché tra studi accademici, ambizioni individuali e interessi della politica. A me è piaciuto molto l'accenno iniziale al fatto che in uno scienziato come Oppenheimer non meno importante della scienza sono gli interessi per settori come la letteratura, la musica, l'arte, questione che viene però poi abbandonata nel prosieguo del racconto.
In generale resta, al termine della visione del film, la sensazione che molte cose Nolan faccia appena in tempo ad accennarle senza poi veramente approfondirle, tanto da risultare semplificate se non addirittura poco credibili.
Ci sono invece aspetti su cui si concentra totalmente la sua attenzione e la scrupolosità diventa massima, ad esempio la scena del test Trinity, che è sicuramente il punto più alto del climax ascendente della narrazione, lunghissimo momento di silenzio e di respiro trattenuto dopo due ore di film bombardato di una musica presente in maniera fin troppo significativa. Ed è una scena davvero strepitosa e destinata a rimanere nella memoria del cinema.
Per il resto si tratta di cinema di alto livello che però secondo me non introduce nessun elemento interpretativo davvero nuovo.
Merita, ma senza risultare indimenticabile.
Voto: 3,5/5
Eh sì perché ormai su Internet e sui social funziona così: prima arrivano quelli per cui il film è un capolavoro assoluto e non potete perderlo perché è un film strepitoso, poi - dopo che sono passati tutti questi - arrivano i detrattori che lo smontano fino alle fondamenta. E così non resta sostanzialmente più nulla.
Per quanto mi riguarda posso dire che Oppenheimer con le sue tre ore di proiezione non mi ha praticamente mai annoiata e questo è già un grande risultato.
È forse il film migliore di Nolan? Secondo me no. Ma non è nemmeno inutile e inguardabile.
È un film fatto con la maestria che non si può fare a meno di riconoscere al regista britannico, ed è un film che, pur essendo coerente con la sua filmografia, è in fondo il suo più lineare e classico. Non so se dipenda dal libro da cui è tratto (e che io non conosco), ma nonostante i flashback e le linee narrative parallele è uno dei film meno cervellotici di Nolan. Tra l'altro ha un impianto classicissimo da legal movie, in quanto al centro ci sono due dibattimenti, quello di cui fu oggetto Oppenheimer e che portò a negargli il nulla osta per la sicurezza nazionale a causa dei suoi legami con il comunismo, e quello di cui fu oggetto Lewis Strauss, ex presidente della Commissione per l'energia atomica degli Stati Uniti e candidato a un posto di ministro nel gabinetto del governo americano.
Su queste due linee temporali si innestano i flashback che raccontano da un lato la storia di Oppenheimer e del progetto Manhattan, dall'altro il legame tra Oppenheimer e Lewis Strauss.
Cillian Murphy è un perfetto interprete del protagonista grazie al fatto che il suo sguardo e il suo atteggiamento contengono quella giusta dose di ambiguità capace di rendere il protagonista trasparente e sfuggente al contempo.
La vicenda umana e professionale di Oppenheimer è certamente affascinante e chi ha elementi conoscitivi maggiori potrà cogliere spunti ulteriori all'interno del film. Intorno alla figura dello scienziato Nolan addensa il complesso tema del rapporto tra teoria e pratica, nonché tra studi accademici, ambizioni individuali e interessi della politica. A me è piaciuto molto l'accenno iniziale al fatto che in uno scienziato come Oppenheimer non meno importante della scienza sono gli interessi per settori come la letteratura, la musica, l'arte, questione che viene però poi abbandonata nel prosieguo del racconto.
In generale resta, al termine della visione del film, la sensazione che molte cose Nolan faccia appena in tempo ad accennarle senza poi veramente approfondirle, tanto da risultare semplificate se non addirittura poco credibili.
Ci sono invece aspetti su cui si concentra totalmente la sua attenzione e la scrupolosità diventa massima, ad esempio la scena del test Trinity, che è sicuramente il punto più alto del climax ascendente della narrazione, lunghissimo momento di silenzio e di respiro trattenuto dopo due ore di film bombardato di una musica presente in maniera fin troppo significativa. Ed è una scena davvero strepitosa e destinata a rimanere nella memoria del cinema.
Per il resto si tratta di cinema di alto livello che però secondo me non introduce nessun elemento interpretativo davvero nuovo.
Merita, ma senza risultare indimenticabile.
Voto: 3,5/5
mercoledì 13 settembre 2023
Estate / Ali Smith
Estate / Ali Smith; trad. di Federica Aceto. Roma: Edizioni SUR, 2021.
Ed eccomi di nuovo alla tetralogia dedicata da Ali Smith alle stagioni. Dopo aver letto Autunno e Primavera affronto - nella mia estate 2023 - appunto Estate. Non ho ben capito se sto leggendo i libri nell'ordine giusto, o in ordine sparso, ma poco male visto che ciascun romanzo è autoconcluso e si può certamente leggere indipendentemente dagli altri, anche se ci sono degli elementi che li attraversano trasversalmente.
Come per altri volumi della serie, anche in questo caso la narrazione è articolata in tre parti: la prima parte è fondamentalmente dedicata alla famiglia Greenlaw, in particolare alla madre Grace, separata dal marito il quale vive nella casa a fianco con la nuova compagna Ashley, la figlia sedicenne Sacha, ambientalista convinta e sensibile ai temi sociali, e il figlio tredicenne Robert, un piccolo genio che non si sa se convintamente o provocatoriamente si fa portavoce della retorica nazionalista e razzista propria del governo nazionale.
I Greenlaw incontreranno poi la coppia formata da Charlotte e Art, creatori di contenuti per il web, e per loro tramite entreranno in contatto con l'ultracentenario Daniel e la sua assistente Elizabeth, personaggi già presenti nel romanzo Autunno.
Nel procedere della narrazione, com'è tipico della Smith, si parla del presente - la pandemia, la Brexit, le uscite di Boris Johnson, le derive contemporanee in tema di migranti e non solo, l'assurdità dei meccanismi dei social - ma anche del passato, nello specifico di vicende (l'internamento degli stranieri in Gran Bretagna allo scoppio della seconda guerra mondiale), di personaggi (l'artista e regista Lorenza Mazzetti), di opere (il Racconto d'inverno di Shakespeare), di storie personali (in particolare quella di Einstein).
Ne viene fuori un racconto affascinante che - nonostante confermi quello stile narrativo della Smith che non sempre apprezzo per il suo essere in parte involuto - risulta molto più disteso e coinvolgente per il lettore, o almeno questo è quanto ho percepito io.
Leggere i romanzi di Ali Smith - che piacciano molto, come è stato per me in questo caso, o meno, come è stato per me con altri suoi lavori - è sempre un'esperienza interessante, perché da un lato ci fa riflettere mettendoci sotto gli occhi alcuni orrori e insensatezze della contemporaneità, dall'altro ci fa conoscere vicende e personaggi poco noti, capaci di suscitare la nostra curiosità.
Lo stile - come sempre - alterna prosaicità ed elegia, e tra questi due poli oscillano anche i personaggi, che in questo caso, forse ancor più che in altri, sono sfaccettati, complessi e multidimensionali.
Non posso che concludere questa recensione con una citazione relativa all'estate che mi è piaciuta molto e che vale la pena di condividere:
Ed eccomi di nuovo alla tetralogia dedicata da Ali Smith alle stagioni. Dopo aver letto Autunno e Primavera affronto - nella mia estate 2023 - appunto Estate. Non ho ben capito se sto leggendo i libri nell'ordine giusto, o in ordine sparso, ma poco male visto che ciascun romanzo è autoconcluso e si può certamente leggere indipendentemente dagli altri, anche se ci sono degli elementi che li attraversano trasversalmente.
Come per altri volumi della serie, anche in questo caso la narrazione è articolata in tre parti: la prima parte è fondamentalmente dedicata alla famiglia Greenlaw, in particolare alla madre Grace, separata dal marito il quale vive nella casa a fianco con la nuova compagna Ashley, la figlia sedicenne Sacha, ambientalista convinta e sensibile ai temi sociali, e il figlio tredicenne Robert, un piccolo genio che non si sa se convintamente o provocatoriamente si fa portavoce della retorica nazionalista e razzista propria del governo nazionale.
I Greenlaw incontreranno poi la coppia formata da Charlotte e Art, creatori di contenuti per il web, e per loro tramite entreranno in contatto con l'ultracentenario Daniel e la sua assistente Elizabeth, personaggi già presenti nel romanzo Autunno.
Nel procedere della narrazione, com'è tipico della Smith, si parla del presente - la pandemia, la Brexit, le uscite di Boris Johnson, le derive contemporanee in tema di migranti e non solo, l'assurdità dei meccanismi dei social - ma anche del passato, nello specifico di vicende (l'internamento degli stranieri in Gran Bretagna allo scoppio della seconda guerra mondiale), di personaggi (l'artista e regista Lorenza Mazzetti), di opere (il Racconto d'inverno di Shakespeare), di storie personali (in particolare quella di Einstein).
Ne viene fuori un racconto affascinante che - nonostante confermi quello stile narrativo della Smith che non sempre apprezzo per il suo essere in parte involuto - risulta molto più disteso e coinvolgente per il lettore, o almeno questo è quanto ho percepito io.
Leggere i romanzi di Ali Smith - che piacciano molto, come è stato per me in questo caso, o meno, come è stato per me con altri suoi lavori - è sempre un'esperienza interessante, perché da un lato ci fa riflettere mettendoci sotto gli occhi alcuni orrori e insensatezze della contemporaneità, dall'altro ci fa conoscere vicende e personaggi poco noti, capaci di suscitare la nostra curiosità.
Lo stile - come sempre - alterna prosaicità ed elegia, e tra questi due poli oscillano anche i personaggi, che in questo caso, forse ancor più che in altri, sono sfaccettati, complessi e multidimensionali.
Non posso che concludere questa recensione con una citazione relativa all'estate che mi è piaciuta molto e che vale la pena di condividere:
"Ma è l'estate che è così. L'estate è camminare lungo una strada proprio come questa, verso il buio e verso la luce allo stesso tempo. Perché l'estate non è soltanto un racconto allegro. Perché non può esistere nessun racconto allegro senza l'oscurità.
E in effetti, a dirla tutta, l'estate non è altro che un finale immaginato. Ci dirigiamo istintivamente verso questo finale come se ci fosse un senso. Per tutto l'anno la cerchiamo, la aspettiamo, ci muoviamo verso di lei come fosse un orizzonte che contiene la promessa di un tramonto. Siamo costantemente alla ricerca della foglia che si apre, del calore che si apre, della promessa che presto, un giorno, potremo distenderci e lasciare che l'estate faccia di noi quel che vuole; un giorno non lontano il mondo ci tratterà bene. Come se davvero fosse possibile un finale più benevolo, anzi, non solo come se fosse possibile, ma come se fosse addirittura assicurato, come se esistesse un'armonia naturale che prima o poi si spanderà ai tuoi piedi, che si srotolerà come un paesaggio baciato dal sole che è lì solo per te. Come se il senso del tempo che ti è dato di trascorrere sulla terra stesse tutto nello stiracchiare felicemente ogni muscolo del tuo corpo sull'erba calda, con un lungo stelo di quell'erba in bocca.
Senza pensieri.
Che pensieri che le vengono.
L'estate.
Il Racconto d'estate.
Non esiste un'opera con questo titolo, Grace.
Non ci cascare.
La più breve ed elusiva di tutte le stagioni, quella che rifugge da ogni responsabilità - perché l'estate fugge e non ce ne sta in mano nulla, se non pezzetti, frammenti, momenti, lampi di memoria delle cosiddette, o immaginarie, estati perfette, quelle estati che non sono mai esistite. [...]
E così ne piangiamo la morte mentre la stiamo ancora vivendo. [...]
Sono nel cuore dell'estate eppure non riesco a toccarne il cuore."
Voto: 4/5
E in effetti, a dirla tutta, l'estate non è altro che un finale immaginato. Ci dirigiamo istintivamente verso questo finale come se ci fosse un senso. Per tutto l'anno la cerchiamo, la aspettiamo, ci muoviamo verso di lei come fosse un orizzonte che contiene la promessa di un tramonto. Siamo costantemente alla ricerca della foglia che si apre, del calore che si apre, della promessa che presto, un giorno, potremo distenderci e lasciare che l'estate faccia di noi quel che vuole; un giorno non lontano il mondo ci tratterà bene. Come se davvero fosse possibile un finale più benevolo, anzi, non solo come se fosse possibile, ma come se fosse addirittura assicurato, come se esistesse un'armonia naturale che prima o poi si spanderà ai tuoi piedi, che si srotolerà come un paesaggio baciato dal sole che è lì solo per te. Come se il senso del tempo che ti è dato di trascorrere sulla terra stesse tutto nello stiracchiare felicemente ogni muscolo del tuo corpo sull'erba calda, con un lungo stelo di quell'erba in bocca.
Senza pensieri.
Che pensieri che le vengono.
L'estate.
Il Racconto d'estate.
Non esiste un'opera con questo titolo, Grace.
Non ci cascare.
La più breve ed elusiva di tutte le stagioni, quella che rifugge da ogni responsabilità - perché l'estate fugge e non ce ne sta in mano nulla, se non pezzetti, frammenti, momenti, lampi di memoria delle cosiddette, o immaginarie, estati perfette, quelle estati che non sono mai esistite. [...]
E così ne piangiamo la morte mentre la stiamo ancora vivendo. [...]
Sono nel cuore dell'estate eppure non riesco a toccarne il cuore."
Voto: 4/5
lunedì 11 settembre 2023
La bella estate
Mi dispiace sempre tanto non poter parlare bene di un film, perché – come sanno quei pochi che leggono questo mio blog – andare al cinema è una delle cose che mi piacciono di più al mondo. In questo caso, poi, non solo ho usufruito di un’anteprima gratuita durante l’estate romana, ma avevo anche letto recensioni piuttosto positive.
Il film – come esplicitamente indicato nei titoli di testa - è liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Cesare Pavese. Siamo negli anni Trenta, a Torino, dove comincia a essere sempre più evidente la presenza del regime fascista, che però rimane sullo sfondo del racconto. Ginia (Yile Yara Vianello, che secondo me assomiglia un sacco a Steffi Graf da giovane :-D ) si è trasferita dalla campagna a Torino per lavorare in un atelier di moda e vive insieme al fratello. Durante una gita con altri amici, Ginia conosce Amelia (Deva Cassel), una ragazza più grande e molto più disinibita, che si guadagna da vivere facendo la modella per i pittori di Torino. Insieme ad Amelia, Ginia si affaccia a un mondo per lei sconosciuto e a parti di sé fino a quel momento silenziose, conoscerà il sesso e forse anche l’amore.
Che dire? Non mi va di sparare a zero, ma il film ha decisamente troppi difetti per i miei gusti, a partire dalle attrici e dagli attori. La Vianello la salvo, ma la Cassel non l'ho proprio apprezzata: gioca tutto sulla sua bellezza – che certo è parte importante del suo personaggio – però decisamente non è sufficiente. Appena apre bocca la già limitata credibilità del film si va a far benedire. In generale, forse anche a causa di una sceneggiatura che lascia un po’ a desiderare e di una narrazione un po’ meccanica, la chimica tra gli attori a mio modesto parere è praticamente zero, oltre al fatto che la maggior parte di loro risultano troppo puliti, moderni, leccati per essere credibili come giovani degli anni Trenta. Si fa dunque fatica a immedesimarsi in Ginia, sebbene la sua formazione sentimentale abbia tratti di universalità.
Non ho visto Fiore gemello, il precedente film della regista Laura Luchetti, ma ne leggo positivamente. Quindi a questo punto non so se La bella estate sia semplicemente un passo falso (almeno dal mio punto di vista), ovvero si tratti di un modo di narrare con cui non mi trovo in sintonia.
Peccato!
Voto: 1,5/5
Il film – come esplicitamente indicato nei titoli di testa - è liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Cesare Pavese. Siamo negli anni Trenta, a Torino, dove comincia a essere sempre più evidente la presenza del regime fascista, che però rimane sullo sfondo del racconto. Ginia (Yile Yara Vianello, che secondo me assomiglia un sacco a Steffi Graf da giovane :-D ) si è trasferita dalla campagna a Torino per lavorare in un atelier di moda e vive insieme al fratello. Durante una gita con altri amici, Ginia conosce Amelia (Deva Cassel), una ragazza più grande e molto più disinibita, che si guadagna da vivere facendo la modella per i pittori di Torino. Insieme ad Amelia, Ginia si affaccia a un mondo per lei sconosciuto e a parti di sé fino a quel momento silenziose, conoscerà il sesso e forse anche l’amore.
Che dire? Non mi va di sparare a zero, ma il film ha decisamente troppi difetti per i miei gusti, a partire dalle attrici e dagli attori. La Vianello la salvo, ma la Cassel non l'ho proprio apprezzata: gioca tutto sulla sua bellezza – che certo è parte importante del suo personaggio – però decisamente non è sufficiente. Appena apre bocca la già limitata credibilità del film si va a far benedire. In generale, forse anche a causa di una sceneggiatura che lascia un po’ a desiderare e di una narrazione un po’ meccanica, la chimica tra gli attori a mio modesto parere è praticamente zero, oltre al fatto che la maggior parte di loro risultano troppo puliti, moderni, leccati per essere credibili come giovani degli anni Trenta. Si fa dunque fatica a immedesimarsi in Ginia, sebbene la sua formazione sentimentale abbia tratti di universalità.
Non ho visto Fiore gemello, il precedente film della regista Laura Luchetti, ma ne leggo positivamente. Quindi a questo punto non so se La bella estate sia semplicemente un passo falso (almeno dal mio punto di vista), ovvero si tratti di un modo di narrare con cui non mi trovo in sintonia.
Peccato!
Voto: 1,5/5
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