giovedì 16 gennaio 2025

Gabriele Basilico. Roma. Museo nazionale romano, Palazzo Altemps, 21 dicembre 2024

Approfitto della mostra Gabriele Basilico. Roma organizzata dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, in collaborazione con il Museo Nazionale Romano – Palazzo Altemps, il MUFOCO – Museo di Fotografia Contemporanea e l’Archivio Basilico, e curata da Matteo Balduzzi e Giovanna Calvenzi, per andare a visitare questa dimora aristocratica nel pieno centro di Roma (a due passi da piazza Navona) che ospita il Museo nazionale romano.

Pensavo di trovare la fila all’ingresso in questo sabato natalizio post-prandiale e invece alla mostra c’è pochissima gente: buon per noi, ma non tanto per la mostra. Poi è vero che la mostra ha appena aperto e forse deve ancora beneficiare del passaparola.

Superato l’ingresso sono subito conquistata dalla bellezza di Palazzo Altemps, sia dal punto di vista architettonico sia per l’esposizione delle collezioni all’interno delle sale di cui si compone.

Mi piace molto questo allestimento che vede sale abbastanza vuote con statue collocate in posizioni strategiche che le valorizzano e permettono di apprezzarle in tutta la loro bellezza.

Camminando per il palazzo ci si perde dunque piacevolmente mentre si ammirano le collezioni Altemps, Boncompagni Ludovisi, Mattei, Del Drago, le sculture Jandolo, Veneziani, Brancaccio, la raccolta egizia, i celebri affreschi Pallavicini Rospigliosi, le opere provenienti da rinvenimenti eccezionali e recuperate dal mercato antiquario, nonché la raccolta archeologica di Evan Gorga, eccentrico collezionista d’inizio Novecento.

Un’esperienza davvero unica nel suo genere.

In queste sale è possibile contestualmente ammirare le opere di Hannu Palosuo che fanno parte della mostra temporanea What If e soprattutto le fotografie di Gabriele Basilico dedicate alla città di Roma e frutto di oltre venti incarichi ricevuti tra il 1985 e il 2011. Sono oltre cinquanta le fotografie esposte, molte di grandi dimensioni, altre in formati più piccoli, esposte queste ultime in una teca centrale della sala principale della mostra. Una parete è occupata dai provini a contatto da cui provengono le foto le cui stampe sono esposte nel percorso espositivo.

Conoscevo e apprezzavo già Basilico: forse proprio per questo non sono rimasta stupita dalle foto in mostra. Mi ha invece colpito il corridoio con le grandi fotografie a colori dedicate al corso del fiume Tevere all’interno della città, decisamente diverse dal resto della produzione del fotografo e dunque sorprendenti, oltre che molto belle.

In conclusione, suggerisco la visita alla mostra come esperienza complessiva, per chi non conosce Palazzo Altemps e/o per chi non conosce Gabriele Basilico: in entrambi i casi se ne uscirà arricchiti.

Potrebbe essere un bel modo per trascorrere un pomeriggio festivo.

Voto: 3/5

martedì 14 gennaio 2025

Hors-saison = Le occasioni dell’amore

L'ultima sera prima delle mie ferie natalizie vado un'ultima volta al cinema, approfittando della proiezione del film di Stéphane Brizé al Nuovo Sacher alla presenza del regista e di Alba Rorhwacher, protagonista insieme a Guillaume Canet.

Brizé l'avevo scoperto qualche anno fa con il film Un altro mondo, terzo di una trilogia dedicata al mondo del lavoro e agli effetti perversi del capitalismo e del neoliberismo.

Quel film mi era piaciuto molto ed ero dunque curiosa di vedere questo nuovo lavoro, in cui il regista pare spostarsi su un piano completamente diverso, quello della commedia romantica.

In realtà è soprattutto il titolo italiano, Le occasioni dell'amore, a farcelo pensare, mentre già il titolo originale, Hors saison, mi pare più complesso e meno facilmente interpretabile.

Siamo in Bretagna. Laurent (Guillaume Canet) arriva in un grande albergo a forma di nave per una settimana di talassoterapia fuori stagione, e dunque nel periodo dell'anno in cui in albergo ci sono solo persone anziane e le strade del paese sono quasi deserte, mentre pioggia e vento popolano le giornate. Laurent è un attore piuttosto famoso che a poche settimane dalla prima dello spettacolo in cui farebbe il suo debutto a teatro si è ritirato, per paura di non essere all'altezza e di fare una figuraccia. Questa decisione lo ha mandato in crisi innescando uno stato di malinconia ai limiti della depressione.

Mentre è in questo paese a piangersi addosso gli arriva un messaggio di Alice (Alba Rorhwacher), la ragazza con cui stava 15 anni prima e che aveva lasciato quando la sua carriera stava decollando.

I due si incontrano, misurando il tempo che è passato e le scelte che ognuno di loro ha fatto consapevolmente o inconsapevolmente.

L'incontro con Laurent sarà per Alice l'occasione di fare i conti con la sua vita, di mettere in discussione le proprie scelte ma anche di riabbracciarle in maniera più risolta. Laurent invece avrà l'opportunità grazie ad Alice di sentirsi ascoltato e accolto, di smettere di piangersi addosso e provare a essere sincero con sé stesso e con gli altri.

Come ci dice il regista Brizé, dopo tanti film incentrati sulla disillusione e sulla delusione, qualcosa lo ha spinto a fare un film di ricostruzione, perché Laurent e Alice, in un momento che per entrambi è di crisi esistenziale e personale, in un certo senso si riparano reciprocamente grazie a questi pochi giorni di condivisione profonda.

Il film di Brizé è intriso di una densissima malinconia, accentuata inevitabilmente dalla location in una località balneare filmata nel periodo invernale e dal forte potenziale malinconico, ma al contempo esso è pieno del fascino dei due protagonisti, nonché attraversato dalla speranza e dalla possibilità effettiva che la vita offra nuove occasioni o nuove riletture del presente.

Ironia e malinconia, tristezza e gioia convivono in questo film esattamente come nella vita e ci arrivano pienamente grazie al perfetto equilibrio tra ambientazione, sceneggiatura e bravura degli attori.

Una storia che avrebbe potuto essere banale nella sua semplicità diventa un racconto intimo e ricco di sorprese.

Voto: 3,5/5


domenica 12 gennaio 2025

L’ibisco viola / Chimamanda Ngozi Adichie

L’ibisco viola / Chimamanda Ngozi Adichie; trad. di Maria Giuseppina Cavallo. Torino: Einaudi, 2016.

Sono al quarto libro di Chimamanda Ngozi Adichie e al terzo romanzo. Sto andando un po' a ritroso nel tempo, ma il mio giudizio su di lei non cambia.

Oltre alla pregevolezza della scrittura, per me i suoi romanzi sono l'occasione di scoprire un mondo e una cultura lontani da me, che non conosco e che rischio di giudicare senza avere elementi interpretativi.

Non voglio certo dire che leggere i suoi libri colmi la mia ignoranza (personalmente penso che noi occidentali medi capiamo poco e niente della storia e della situazione degli stati africani), ma certamente mi rende più consapevole della complessità e della molteplicità di sfaccettature che caratterizzano la realtà. Inoltre, quelle della Ngozi Adichie sono storie molto belle e raccontate molto bene, a cui non si può fare a meno di affezionarsi.

Ne L'ibisco viola si racconta una doppia storia di coming of age, quelle della quindicenne Kambili e di suo fratello maggiore Jaja. Tutto si svolge nell'arco di due settimane, tra quella prima della domenica delle Palme e quella dopo.

Kambili e Jaja vivono con il padre Eugene e la madre a Engunu. Il padre è il proprietario dell'unico giornale indipendente del Paese, costantemente sotto attacco da parte del governo in una situazione di instabilità politica massima, nonché un uomo ricco e grande benefattore per l'intera comunità. La sua immagine pubblica è dunque integerrima, se non addirittura idolatrata dai suoi concittadini.

In casa però Eugene impone a moglie e figli uno stile di vita ispirato al cattolicesimo più integralista e conservatore, e quando qualcuno di loro contravviene ai dettami della Chiesa così come interpretati dal padre non esita a sottoporli a violenze fisiche e psicologiche.

Tutto cambia nel momento in cui Kambili e Jaja vanno a Nsukka a trascorrere qualche giorno con zia Ifeoma e i suoi figli. Qui i due ragazzi scoprono la possibilità di una vita completamente diversa, fatta di indipendenza, di libertà, di apertura mentale e di senso di responsabilità individuale, e per Kambili sarà anche il momento della scoperta dell'amore.

Il ritorno a casa costituirà il momento della verità e innescherà le azioni che cambieranno il corso degli eventi.

Un libro che non può lasciare indifferenti, dentro il quale si leggono in filigrana molti temi che caratterizzano la storia più o meno recente della Nigeria, legati in particolare alle conseguenze del colonialismo.

Si conferma per me la bella sensazione che nei libri della Ngozi Adichie si mescolano elementi di specificità culturale e contingenze storico-geografiche, che fa sempre bene provare a capire, e sentimenti universali che attraversano tutte le culture e accomunano tutti gli esseri umani indipendentemente da qualunque altro fattore e che confermano e sviluppano la nostra capacità di empatia.

Fatevi un regalo e leggete i libri di questa scrittrice.

Voto: 3,5/5

venerdì 10 gennaio 2025

Trieste è bella di notte

Approfitto di una serata speciale organizzata presso il Centre Saint Louis di Roma da Medici Senza Frontiere per recuperare questo documentario realizzato da Matteo Calore, Stefano Collizzolli, Andrea Segre.

Il documentario è stato girato al confine tra Italia e Slovenia, sulla cosiddetta rotta balcanica, tra il 2020 e il 2021, quando è stata introdotta e applicata diffusamente in quell’area la procedura delle riammissioni informali. In pratica, gli immigrati arrivati sul territorio italiano che avrebbero dovuto essere identificati e avere la possibilità di fare domanda d’asilo venivano rimandati indietro senza che niente di tutto ciò venisse fatto.

A seguito delle ripetute notizie su questo tipo di procedura, i registi hanno deciso di proporre un approfondimento sulla situazione della rotta balcanica, raccontando con le parole degli stessi migranti – di diverse nazionalità – le loro storie, migranti che affrontano questo viaggio (che può durare anche molti anni) tentando poi quello che tutti chiamano il “game”, ossia il superamento del confine verso uno stato dell'Unione Europea.

La realtà di questi migranti che tentano di raggiungere l’Europa via terra mi era in parte già nota non solo grazie alle fonti di informazioni, ma soprattutto grazie al film Life is (not) a game, in cui la street artist romana Laika si recava personalmente nella zona di quello che era il campo profughi di Lipa, in Bosnia, andato a fuoco a dicembre del 2020 e entrava in relazione con alcune persone coinvolte nel game.

Ascolto dunque nel film di Calore, Collizzoli e Segre parole, storie, considerazioni che evidentemente si ripetono uguali per persone diverse, fatte salve le differenze individuali e a volte il differente esito della loro vicenda.

Recentemente avevo anche visto Green border, il film che Agnieszka Holland ha dedicato alle storie dei migranti che, provenendo sempre dalla rotta balcanica, tentano di entrare in Europa dal confine tra Bielorussia e Polonia.

Le scene, i maltrattamenti, la disumanità, ma anche alcuni piccoli spiragli di speranza, di bellezza e di umanità, si ripetono identici, raccontandoci di un’Europa che si comporta come un fortino sotto assedio, e che sul fronte delle politiche migratorie rifiuta di adottare politiche comuni e di ragionare in maniera più collaborativa e più accogliente.

Tutti noi continuiamo a vivere le nostre vite – più o meno privilegiate – mentre ai nostri confini si consumano quotidianamente tragedie delle quali non vogliamo occuparci e che ci basta siano messe sotto il tappeto della nostra ipocrisia collettiva.

Nella nostra piccineria collettiva so, però, con ragionevole certezza, che la storia a un certo punto uscirà dagli argini che continuiamo a costruirle intorno e su questo, come su altri problemi collettivi, travolgerà tutto e tutti.

Ogni tanto sinceramente me lo auguro.

Voto: 3,5/5


mercoledì 8 gennaio 2025

Franco Fontana. Retrospective. Museo dell’Ara Pacis, 16 dicembre 2024

Un giro in centro in una fredda, ma soleggiata, domenica pomeriggio mi offre l’occasione di andare a visitare – a pochi giorni dall’apertura – la retrospettiva dedicata dal Museo dell’Ara Pacis alla produzione fotografica di Franco Fontana.

Ormai dieci anni fa avevo avuto la possibilità di visitare una mostra di Fontana a Venezia, e qualche tempo dopo avevo anche partecipato a una lezione del grande fotografo modenese a Palazzo Merulana a Roma.

In quel periodo ero talmente affascinata dalla sua fotografia che avevo comprato alcuni suoi libri fotografici, in particolare quelli dei paesaggi (colorati e astratti) che lo hanno reso famoso presso il grande pubblico.

Nel frattempo la mia fotografia si è evoluta e i miei interessi si sono ampliati e in parte spostati, cosicché mi ha fatto particolarmente piacere poter ripercorrere la carriera fotografica di questo maestro e verificare – se ancora ne avessi avuto bisogno – che tutti i fotografi, anche e soprattutto quelli veri, pur continuando a raccontare fondamentalmente sé stessi attraverso la fotografia, evolvono e cambiano, foss’anche solo perché ciascuno di noi cambia nel tempo.

Nella mostra dell’Ara Pacis, che - come tutte le mostre allestite in questo spazio museale - ha l’unico difetto, a causa del tipo di spazi a disposizione, di non rendere del tutto intellegibile il percorso (lasciando dei dubbi al visitatore sulla sequenza della visita), si ha la possibilità di ripercorrere tutta la carriera del fotografo, ammirando non solo le parti più famose della sua produzione (i paesaggi naturali e urbani, i frammenti, gli asfalti, i nudi ecc.), ma anche serie meno conosciute (per esempio quelle di street photography e di fashion photography) e più recenti (per esempio le foto nonché il video realizzato durante un viaggio a Cuba, i reportage sulle grandi strade, la Route 66, l’Appia, il Cammino di Compostela).

In una piccola saletta c’è anche la possibilità di ascoltare e vedere un’intervista al fotografo, che appare ancora lucidissimo nonostante l’età e ci aiuta a comprendere ancora meglio il suo approccio alla fotografia, che ha visto il colore come scelta identitaria, tanto più perché utilizzato in un’epoca in cui la fotografia artistica era interamente in bianco e nero.

Il percorso della mostra è affascinante e suggestivo, e va riconosciuto lo sforzo di garantire la massima accessibilità per persone con disabilità. In particolare, sono disponibili lungo il percorso alcune versioni delle fotografie più famose di Fontana accessibili per persone non vedenti (la Biblioteca astratta a cura di Fabio Fornasari, una specie di traduzione delle foto in forma materica), realizzate in collaborazione con l’Istituto dei ciechi Cavazza di Bologna.

Devo dire però che per me la parte più sorprendente della mostra è risultata quella che espone le stampe originali su pellicola Kodak Ektachrome: foto di formato piccolo e piccolissimo, con i colori un po’ sbiaditi, che quasi non sembrano arrivare dallo stesso fotografo di cui ammiriamo le foto nelle altre sale, ma che hanno un fascino davvero speciale. D’altro canto, sono invece rimasta un po’ perplessa di fronte ad alcune stampe in grande formato che guardate da lontano sono di impatto, ma già a una media distanza risultano poco leggibili.

Comunque una mostra imperdibile per gli appassionati di fotografia.

Voto: 3,5/5

lunedì 6 gennaio 2025

Flow - Un mondo da salvare

Ed eccomi di nuovo al Cinema dei piccoli a recuperare un altro cartone animato di cui ho sentito parlare tanto bene, presentato nella sezione Un certain regard di Cannes e probabile candidato agli Oscar.

Si tratta di Flow, il film diretto dal regista lettone Gints Zilbalodis, che racconta di un mondo (post-apocalittico?) in cui la natura ha preso il sopravvento su tutto e si alternano fasi in cui le acque risalgono fino a coprire quasi interamente le terre emerse e fasi in cui le acque si ritirano riportando alla luce le terre sottostanti (e i residui di una qualche società umana, sebbene di umani non se ne veda neppure l’ombra). Protagonista è un gatto nero che – di fronte al sollevamento delle acque - guidato dalla sua istintiva paura dell’acqua, cerca di rifugiarsi in punti sempre più alti e infine si lancia in una barca a vela un po’ malandata, dove si è rifugiato un capibara. Ben presto la barca – una specie di nuova arca di Noè – diventa un rifugio per altri animali, un lemure, un cane, una specie di cicogna, tutti accomunati dalla necessità di sopravvivere, ma con caratteristiche personali e di specie molto diverse e spesso in conflitto tra di loro.

In una narrazione completamente priva di dialoghi, in cui gli animali si esprimono solo con i loro versi e le loro azioni, seguiremo questa improbabile combriccola in tutte le avventure che dovrà attraversare e superare per potersi salvare. E in queste avventure ognuno di loro sarà chiamato ad affrontare i propri limiti e comprendere che “nessuno si salva da solo” e che solo la tolleranza verso gli altri e la messa a fattor comune delle differenze consentono di affrontare le diverse situazioni che si presentano. Emerge inoltre un’ulteriore suggestione: di fronte a un mondo in cui la natura ha preso il sopravvento, le leggi della natura – talvolta anche spietate - governano tutto e, nel flusso del cambiamento, rimettono continuamente in discussione gli equilibri raggiunti. In questo scenario la lotta per la pura sopravvivenza può essere superata solo grazie all’attenzione verso l’altro e accettando il cambiamento.

La cosa straordinaria del film di Zilbalodis sta nel fatto che, durante la visione del film, non si sente – nemmeno per un minuto – la mancanza dei dialoghi, perché la forza delle immagini, delle azioni e delle espressioni dei protagonisti, nonché il supporto della colonna sonora (realizzata dallo stesso regista insieme al connazionale Rihards Zaļupe), riescono a veicolare non solo gli sviluppi della trama, ma anche sentimenti ed emozioni.

Credo che in un film come questo la parola – tanto più in quanto data agli animali – avrebbe trasformato un racconto poetico e pieno di suggestioni in un prodotto banale e dozzinale. La scelta del regista valorizza invece contesto e protagonisti “costringendo” gli spettatori grandi e piccoli a concentrarsi su dettagli e relazioni e offrendo loro la possibilità di lasciarsi andare all’aspetto emozionale della narrazione.

Da vedere assolutamente per chi ama gli animali – e magari ha anche animali domestici – ma consigliatissimo a chi voglia fare un’esperienza cinematografica animata un po’ diversa dagli ormai un po’ ripetitivi cartoni Disney e Dreamworks.

Voto: 4/5


lunedì 30 dicembre 2024

La stanza accanto

Il nuovo film di Almodovar, La stanza accanto, vincitore del Leone d’oro a Venezia, è il primo lungometraggio americano del regista spagnolo.

Dunque, dentro un involucro in cui si riconoscono molti elementi dell’estetica e della poetica almodovariana (in particolare gli arredi, i colori, le musiche, alcune tematiche), il film segna una cesura rispetto alla sua cinematografia spagnola, non foss’altro perché ambientato negli Stati Uniti (New York e dintorni, sebbene le location siano in parte spagnole) ed è recitato in inglese da due attrici di lingua inglese, Julianne Moore e Tilda Swinton.

La storia è presto detta. Martha (Tilda Swinton) ha un cancro che – dopo vari tentativi di cure alternative – non le lascia scampo, e dunque ha deciso di morire prima che sia la malattia a portarla via. Lei che è stata corrispondente di guerra e ha visto in faccia la morte tante volte ma mai da sola, vuole affrontare questo momento avendo qualcuno accanto. Esclusa la figlia con cui non ha un buon rapporto e le amiche più intime che non accettano questo ruolo, si rivolge a Ingrid (Julianne Moore), una vecchia amica che ha rincontrato da poco. Nonostante Ingrid abbia appena scritto un libro in cui esprime la sua paura della morte, la donna accetta. Così Martha e Ingrid si trasferiscono in una casa a due ore dalla città, in mezzo ai boschi, che sarà l’ultima dimora di Martha perché lei lì deciderà il momento in cui prendere la pillola che si è procurata.

La stanza accanto è una specie di manifesto “politico” di Almodovar, innanzitutto sul tema della libertà di scelta rispetto alla morte, ma il regista si esprime anche su temi quali il cambiamento climatico, il neoliberismo senza freni, l’ascesa delle forze ultraortodosse e conservatrici. Si parla di morte individuale, ma anche di declino sociale, e questo rende inevitabilmente l’atmosfera cupa e – complice la colonna sonora di Alberto Iglesias – a tratti quasi hitchcockiana. Alla fine però, di fronte all’evento vero e proprio, la morte appare molto più naturale e meno temibile di quello che pensiamo, e in fondo il percorso narrativo è quasi riconciliante e alla fine anche pieno di speranza.

Il personaggio di Martha è granitico, inossidabile nelle sue convinzioni, parla sempre come dichiarasse una tesi precisa, e la recitazione ingessata – forse volutamente – di Tilda Swinton accentua questa sensazione, però rende questo personaggio poco realistico e in fondo poco empatico.

Il vero personaggio cruciale del film di Almodovar secondo me è quello di Ingrid, e rispetto a lei si può davvero parlare di un romanzo di formazione, che in questo caso non è – come siamo abituati – il passaggio alla vita adulta, ma quel passaggio altrettanto fondamentale nella vita individuale che è l’accettazione della morte. Il coming of age classico consiste nell’accettare la “morte” del proprio sé bambino, questo coming of age adulto consiste nell’accettare la fine della propria vita.

Da questo punto di vista Julianne Moore è strepitosa nel rappresentare attraverso il suo corpo e il suo volto questo percorso. E questa per me è la parte migliore del film.

Se però allargo lo sguardo al di là della figura di Ingrid e dell’interpretazione della Moore, mi sembra che il film di Almodovar perda mordente, si faccia didascalico e rigido, lontano anni luce dai film che personalmente ho amato di più, come ad esempio Dolor y gloria.

Credo che il Leone d’oro veneziano – come hanno detto altri – sia primariamente un omaggio alla carriera del regista; pur avendo apprezzato La stanza accanto, non lo ritengo il film migliore del regista, regista che comunque dal mio punto di vista non è di quelli che o si amano o si odiano, bensì ha offerto nella sua carriera tante versioni diverse del suo cinema, pur mantenendo una sostanziale coerenza di fondo. E di questo gli va dato atto.

Voto: 3,5/5


venerdì 27 dicembre 2024

La luce della costiera

Ravello
Con S., A. e I. organizziamo quest’anno un weekend lungo nella penisola sorrentina, in un periodo dell’anno di assoluta bassa stagione (metà novembre), pensando sia anche l’unico possibile per visitare questa zona.

Arriviamo a Salerno in treno da Roma il venerdì all’ora di pranzo, e andiamo a prendere la nostra auto a noleggio alla Salernorental. La città ci accoglie con un vento gelido, che per fortuna si calmerà nei giorni successivi.

Dopo una breve colazione, ci dirigiamo subito verso Vietri sul mare, la città delle ceramiche, dove facciamo una passeggiata nel centro semivuoto, e I. compra un cappellino di lana per contrastare il vento.

Vietri sul mare
Da qui in poi il nostro percorso segue la costiera, toccando Cetara, Minori e Ravello.

A Cetara parcheggiamo sul porto, e mangiamo un’ottima pizza al ristorante-pizzeria Marepizza, dopo una piccola passeggiata e un po’ di foto sulla spiaggia cittadina, su cui svetta la torre di Cetara e un cielo nuvoloso molto scenografico.

A Minori, il paese di Sal De Riso, facciamo una bella passeggiata nelle stradine del centro storico, e poi ci fermiamo un pochino sul molo, il tempo di decidere dove dirigerci per chiudere la nostra giornata.

Ravello
Decidiamo di salire a Ravello, e devo dire che non non avremmo potuto fare una scelta migliore. Ravello è bellissima, e la luce del tramonto la valorizza ancora di più. Saliamo su per le scale e percorriamo le vie del centro storico praticamente deserte, fino ad arrivare – grazie al suggerimento di un’amica di I. – a Villa Cimbrone, dove è possibile entrare per una visita dei giardini pagando il biglietto di ingresso. In realtà il sito chiude dopo un’ora, ma noi decidiamo di entrare lo stesso e dirigerci subito, attraverso il grande giardino, alla Terrazza dell’Infinito, un posto magico, meditativo, dove – insieme ai busti che adornano la terrazza – si può godere di una magnifica vista e perdersi nell’azzurro del mare e nei colori del cielo al tramonto. Ritornando sui nostri passi potremo anche ammirare la luna sorgere dietro le montagne, che ci offre un altro spettacolo meraviglioso.

Terrazza dell'Infinito, Ravello
Da Ravello andiamo verso il nostro alloggio, che si trova non lontano da Furore: si tratta di un complesso turistico realizzato sul costone della montagna e direttamente a picco sul mare. In realtà arriviamo che è già buio e dunque non ci rendiamo perfettamente conto del contesto: lo scopriremo in tutto il suo splendore la mattina successiva al risveglio, quando dalle nostre finestre ci affacceremo direttamente sul mare, e potremo ammirare la bellissima luce invernale del mattino intrufolarsi magicamente negli interni.

Per la cena abbiamo prenotato da Baccofurore, dove prendiamo il menu degustazione con qualche variazione e integrazione, più un’ottima bottiglia di vino locale. Tutto squisito, e al termine del pasto scopriamo che ci spettano quattro piatti del buon ricordo, che alla fine devolveremo a S. a beneficio di una sua amica che li colleziona.

Amalfi
Il giorno seguente facciamo un tratto di strada a ritroso per recuperare Amalfi, che abbiamo saltato il giorno prima. Colazione con graffe, babà e cioccolata calda da Pansa, sulla piazza principale. Nonostante il costo, ci alziamo contenti e soddisfatti.

Poi passeggiata nelle strade del centro e visita alla cattedrale di Amalfi, con il suo bellissimo chiostro.

Riprendendo il giro della costiera, ci fermiamo per vedere il fiordo di Furore che sta oltre il nostro alloggio, e poi ci spostiamo verso Positano. Qui, nonostante qualche tentativo, non riusciamo a parcheggiare in paese e dunque proseguiamo oltre fino a una terrazza panoramica da dove possiamo ammirare la cittadina dall’alto godendo del suo incredibile fascino. Fino a che un grande autobus non scarica un gruppone di turisti cinesi che invadono la terrazza, costringendoci ad abbandonarla 😉.

Nei pressi di Positano
A questo punto è ora di pranzo, e scegliamo di andare a Lo stuzzichino a Sant’Agata sui Due Golfi, ristorante molto rinomato e amato dai locali, che A. e I. già conoscevano e che ci vogliono far provare. Ne usciamo estremamente soddisfatte (tra pesce, zuppe, pasta) e intenzionate a tornarci alla prossima occasione.

Dopo pranzo ci allunghiamo verso San Costanzo: si tratta di una chiesetta che sta in cima a un promontorio, a cui si arriva dopo una mezz’oretta di passeggiata dal punto dove è possibile parcheggiare la macchina. Man mano che si sale verso la chiesetta si capisce di trovarsi davvero tra i due golfi e quando si è alla chiesetta, lo sguardo spazia tutto intorno: davanti a noi uno sperone di roccia che si allunga nel mare, davanti al quale c’è l’isola di Capri, di cui si intravedono a sinistra i faraglioni; a destra il golfo di Napoli e le isole di Ischia e Procida, a sinistra il golfo di Salerno. Uno spettacolo davvero incredibile, tra l’altro in una giornata luminosissima e soleggiata.

San Costanzo
Dopo un breve passaggio a Nerano, praticamente deserta e un po’ spettrale perché il sole è già dietro la montagna e il paese è quasi completamente all’ombra, ci spostiamo verso Sorrento, dove abbiamo un appartamento tutto per noi in una zona periferica della cittadina, andando verso Sant’Agnello. In realtà Sorrento è una cittadina piuttosto piccola e dunque anche non soggiornando in centro con una passeggiatina di una decina di minuti ci arriviamo facilmente.

Decidiamo però di andare prima verso punta Marinella a vedere il panorama sul golfo di Napoli e sulla cittadina che si sviluppa su alte scogliere, ma pur apprezzando il fascino delle luci notturne, non riusciamo a cogliere tutti gli elementi del paesaggio e siamo d’accordo che ci torneremo con la luce del giorno.

Golfo di Napoli visto da Sorrento
Ci spostiamo dunque nel centro dove ci affacciamo al vallone dei mulini, camminiamo per le strade del centro storico, ci affacciamo dal balcone della villa comunale, poi – stanchi – cerchiamo un posto dove andare a mangiare. Tra le varie opzioni considerate scegliamo infine Da Bob Cook & Fish, dove mangiamo bene pur senza vette irraggiungibili.

La mattina seguente – domenica – scendiamo per colazione ma tutti i bar sono chiusi. Camminando camminando arriviamo fino a Sant’Agnello dove finalmente troviamo un bar/pasticceria aperto (da Pina) e riusciamo a fare la nostra colazione. Quindi torniamo a punta Marinella, come già avevamo deciso. È una giornata limpida e calda, e la passeggiata è molto bella: questa volta riusciamo anche a godere di una vista sul golfo di Napoli e sul Vesuvio davvero mozzafiato.

Porto di Salerno
A questo punto ripartiamo per Salerno, riconsegniamo la macchina, e facciamo un giro nel centro, pieno di gente che fa shopping. Andiamo a pranzo al Vicolo della neve, suggerito da un’amica, ma direi che non ne rimaniamo particolarmente colpite. Tra l’altro volevamo la pizza, ma a pranzo non la fa e non ci sembra che fosse scritto da nessuna parte. Dopo una passeggiata sul lungomare riprendiamo il treno, e le nostre strade si dividono. 

Io e S. facciamo una sosta a Napoli, per andare a trovare delle amiche e per fare un giretto in centro il lunedì mattina: Pio Monte della Misericordia per vedere Caravaggio, Santa Chiara, e due tentativi falliti di andare a vedere la sacrestia del Vasari e la chiesa di San Giovanni a Carbonara, entrambi chiusi.

Napoli
La nostra gita campana si conclude con un carico di mozzarella di bufala (davvero eccezionale) e altri prodotti del caseificio Petrella che ha un punto vendita nel pieno centro storico della città. Bisognerebbe tornare a Napoli anche solo per quello! Ma in realtà dopo questo piccolo assaggio ci è rimasta la voglia di esplorare la città più ampiamente, quindi contiamo di riorganizzare il più presto possibile.