lunedì 18 marzo 2024

Any Other (+ Tutto Piange). Circolo Arci Angelo Mai, 2 marzo 2024

È la quarta volta che ascolto dal vivo Any Other, il progetto musicale di Adele Nigro (aka Adele Altro), che è ormai al terzo album (se non si considera l'EP Four covers).

Avevo preso il nuovo album stillness, stop: you have a right to remember appena uscito, ma l'ascolto si è fatto intensivo negli ultimi giorni prima del concerto. Devo dire che durante questi ripetuti ascolti mi sono detta più volte che il progetto Any Other cresce ad ogni nuova uscita, o quanto meno (visto che non sono una vera esperta di musica) a me va piacendo sempre di più.

Personalmente ho un rapporto strano con Any Other: ho tutti i suoi dischi, l'ho ascoltata dal vivo quasi tutte le volte che è venuta a Roma, la sua è una musica di cui riconosco il valore ma che - una volta passato il concerto - non riesco ad ascoltare tantissimo, pur riconoscendone le qualità e il respiro internazionale.

Mi pare che con l'ultimo album le caratteristiche che hanno fatto apprezzare il progetto Any Other a livello nazionale e internazionale si siano finalmente coniugate per me con la vera piacevolezza dell'ascolto.

Poi certo i concerti sono in parte un'altra cosa, che è poi la grandezza dei musicisti veri. Tra l'altro Any Other si circonda sempre di musicisti giovani e bravi, che - a parte la certezza della presenza del sodale Marco Giudici - cambiano da disco a disco e da concerto a concerto, ma regalano sempre esecuzioni di grandissimo livello.

In questo caso, per esempio abbiamo Giulio Stermieri alle tastiere, Arianna Pasini al synth e alle chitarre, Nicholas Remondino alla batteria e Marco Giudici al basso (lui l'ho sentito suonare praticamente qualunque strumento con la medesima semplicità e capacità).

L'opening del concerto - prima che Any Other salga sul palco è affidato a Tutto piange (aka Virginia Tepatti), di cui sta per uscire il primo disco - prodotto per l'appunto da Adele Altro - per l'etichetta 42 Records, la stessa di Any Other.

La giovane cantante e musicista, accompagnata da un chitarrista, ci fa ascoltare alcune sue canzoni, e ci comunica tutta l'emozione di esibirsi di fronte al numeroso pubblico dell'Angelo Mai, nel quale si nasconde anche suo padre. Sonorità e testi sono molto interessanti, e il pubblico - all'interno del quale ci sono sicuramente anche suoi amici - apprezza molto questo avvio di serata.

Salgono poi sul palco Adele e gli altri musicisti, che aprono il concerto cantando a cappella tutti insieme l'inizio di Second Thought prima di posizionarsi ciascuno al suo strumento e trasformare il canto nudo in musica arrangiata. Seguono alcune canzoni dell'ultimo album tra cui Zoe's seeds, Awful Thread, If I don't care, nonché Capricorn No dall'album Two, geography. A questo punto tutta la band abbandona il palco, e Adele chiama Virginia Tepatti per eseguire insieme la cover di Waiting di Angel Olsen (molto bella) e poi da sola Mother goose, sempre da Two, geography. Quando tutta la band risale sul palco ci attendono Geography, Something, Travelling Hard, Extra episode e Sonnet #4. Arrivati a tre canzoni dalla fine, Adele ci ricorda che loro non fanno il bis, e che per chi ci è affezionato faccia finta che siano usciti dal palco e rientrati su richiesta - a gran voce - del pubblico.

Ogni esecuzione della band è un'esperienza musicale a sé: gli arrangiamenti e le interpretazioni sono molto diverse da quelle incise nel disco, spesso anche la durata mi pare differente. Si privilegiano i cambi di ritmo, l'alternanza di melodia e forme di cacofonie, suoni sussurrati e crescendo musicali che producono quasi un muro del suono. Io sono troppo ignorante musicalmente per dire di più, e non a caso a volte faccio anche fatica a star dietro alle scelte di Any Other, ma - dall'altro lato - ne riconosco le eccellenti qualità e capisco perché questa ragazza sta facendo molta strada, e non solo in Italia.

Adele conferma l'impressione che già avevo avuto in precedenti concerti, cioè alterna un atteggiamento di quasi durezza e cipiglio, soprattutto nell'esecuzione delle canzoni, che poi però si scioglie in tenerezza e dolcezza appena ce n'è l'occasione.

Bel concerto, nonché per me prima occasione per andare all'Angelo Mai, una delle location romane che ancora mi mancava.

Voto: 3,5/5

venerdì 15 marzo 2024

All of us strangers = Estranei

Pur avendo diretto diversi film, per me il nome di Andrew Haigh è legato a un film che ho amato particolarmente, Weekend, una specie di distillato di una storia d'amore, concentrata tra le quattro mura di un appartamento nel tempo limitato di un fine settimana, l'incontro tra due sconosciuti che in un weekend riescono a condividere quanto in altre circostanze potrebbe richiedere anni o non accadere mai, ma che alla fine rimane confinato in quello spazio e in quel tempo e forse proprio per questo funziona.

A distanza di più di 10 anni da quel film (nel mezzo ce ne sono stati altri per me meno memorabili) mi fiondo al cinema Troisi (dove a presentare il film c'è Jonathan Bazzi) a vedere il suo All of us strangers = Estranei, che sembra in parte richiamarsi a Weekend nel parlarci anche in questo caso dell'incontro di due uomini soli, Adam (Andrew Scott) e Harry (Paul Mescal).

Durante la visione capisco però che, nonostante i punti di contatto, siamo lontani da quel film e che con All of us strangers Haigh ci conduce in territori inesplorati, misteriosi e sfuggenti.

Adam vive in un grande palazzo ai confini di Londra, sta scrivendo una sceneggiatura ambientata nel 1987, ma fa fatica a procedere nella scrittura, trascinandosi nel suo appartamento in preda a un'inerzia che confina con la depressione e a un profondo senso di solitudine.

Un giorno, uscendo dall'edificio dove vive poiché è scattato l'allarme antincendio, si accorge che nel suo palazzo - incredibilmente deserto - solo una finestra è accesa e c'è un uomo che lo osserva dall'alto. Si tratta di Harry che va a bussare alla sua porta, piuttosto sbronzo e con una bottiglia di whisky in mano, in cerca di compagnia. Adam non lo fa entrare. Nei giorni successivi comincia ad aprire scatole con ricordi della sua infanzia, probabilmente alla ricerca di ispirazione, e dopo aver visto la foto della casa dove abitava con i suoi genitori, morti in un incidente stradale quando lui aveva 12 anni, decide di tornare lì. Sorprendentemente in quella casa i suoi genitori abitano ancora, cristallizzati com'erano prima di morire, e volenterosi di conoscere il figlio che hanno perduto e capire cosa è diventato. Dopo questa prima visita, Adam torna più volte a trovare i suoi genitori, avviando un dialogo che gli è mancato a causa della perdita, e al contempo - in seguito a un nuovo, fortuito, incontro con Harry - inizia una storia con quest'ultimo. Da qui la vicenda evolverà in direzioni imprevedibili e misteriose, fino al sorprendente - e forse catartico - finale.

In All of us strangers - liberamente ispirato al romanzo Strangers del giapponese Yaichi Tamada (e la giapponesità secondo me si vede tutta) - il confine tra il reale e il soprannaturale è molto labile, e - tenendo conto che il protagonista è spesso in uno stato di alterazione, una febbre che lo accompagna per quasi tutto il film, nonché in un trip da ketamina - l'onirico, l'immaginato, il desiderato dialogano continuamente con la realtà.

Esco dal cinema un po' delusa e dicendo che ho fatto fatica a immedesimarmi emotivamente con il protagonista. Mentre mi si annunciavano grandi pianti, io non sono invece riuscita a empatizzare e a sentire su di me le forti emozioni che attraversano il film. Poi, chiacchierando con le mie amiche all'uscita e ancora il giorno dopo con un altro amico che l'ha visto contemporaneamente a me, tutta una serie di elementi si sono sedimentati e la mia percezione è cambiata. Anche i sentimenti e le emozioni sono arrivati a scoppio ritardato, forse perché lì per lì me ne sono quasi difesa.

Ho così cominciato a sentire lo stato psicologico di quest'uomo, il cui sviluppo emotivo è stato spezzato a 12 anni dalla tragica morte dei suoi genitori (con annesso senso di colpa per non essere stato con loro). Un uomo che dunque non ha avuto la possibilità di farsi adulto nel confronto con loro e di sviluppare la propria autonoma personalità e fare le proprie scelte in quel naturale percorso di allontanamento/avvicinamento, rifiuto/accettazione, che caratterizza il rapporto genitori/figli. Un uomo che è in debito di cura e affetto, e che per questo non riesce a restituirne, autocondannandosi alla solitudine. E il fatto che sia gay è solo un accidente che non cambia molto il senso complessivo della narrazione (sebbene si parli anche di come sia cambiato nel tempo l'approccio all'omosessualità).

Una volta capito il finale del film e riletto lo stesso secondo una specifica chiave interpretativa (che non posso rivelare ma di cui troverete di tutto online), il film mi si è poi dispiegato in tutte le sue mille sfaccettature. Le letture e le spiegazioni possibili di quello che vediamo sullo schermo sono molteplici, e tutte più o meno plausibili, perché quando si varca la soglia del reale e si entra nei territori del subconscio o - che in fondo è lo stesso - in quelli del sogno, le suggestioni sono tante quante le nostre capacità di immaginazione, e ciascuna getta luce su un dettaglio o un aspetto diverso della narrazione. E così dentro ci ho visto finalmente quella catarsi di cui il mio amico M. mi ha parlato, quella che io ho interpretato come un ricongiungimento al proprio bambino interiore ferito, il passaggio definitivo dal ricercare la cura al prendersi cura. Resta però una catarsi che non riscatta l'abisso emotivo del film, che non può sfuggire alla constatazione che siamo e restiamo tutti estranei gli uni agli altri, cosicché il presunto potere dell'amore (richiamato più volte dalla canzone omonima che è la preferita di Adam) è solo illusorio e in qualche modo consolatorio rispetto alla nostra solitudine e caducità.

Ci sarebbero tante altre cose da osservare, da dire, da commentare, contenutistiche e stilistiche, ma ho già forse scritto troppo. Però sono molto contenta di aver dato a questo film il tempo di sedimentarsi e trovare senso dentro di me, senza liquidarlo rapidamente con la sensazione acerba dell'uscita dalla sala.

Voto: 3,5/5



mercoledì 13 marzo 2024

Top girls / di Caryl Churchill; regia di Monica Nappo. Teatro Vascello, 23 febbraio 2024

Dopo aver visto qualche anno fa al Teatro India Settimo cielo (con la regia di Giorgina Pi), Caryl Churchill è diventata una delle drammaturghe che volentieri continuo a seguire a teatro per scoprirne le opere. A questo giro, oltre alla possibilità di conoscere un'altra sua opera, ha fatto presa su di me anche la regia di Monica Nappo, attrice da me molto apprezzata che sempre più spesso si cimenta in regie teatrali.

Top girls è un'opera rappresentata per la prima volta nel 1982, dunque è stata scritta non molto dopo l'ascesa di Margaret Thatcher a Primo Ministro del Regno Unito, la prima di sesso femminile, ma con un approccio conservatore e neoliberista.

Ed è su una donna (e sulle donne in generale) che Caryl Churchill vuole riflettere con questo testo. Al centro c'è Marlene (la bravissima Sara Putignano), una donna in carriera che ha appena ricevuto una promozione importante nell'agenzia di collocamento Top girls nella quale lavora. Nel primo atto assistiamo a una cena in un ristorante di lusso, dove Marlene per festeggiare ha invitato alcune importanti donne del passato (storico o letterario), da Isabella Bird, scrittrice e esploratrice scozzese del XIX secolo, a Lady Nijo, cortigiana giapponese del XIII secolo e poi monaca, dalla papessa Giovanna (assurta al soglio pontificio nel IX secolo travestita da uomo), a Dull Gret, la Margherita la pazza del quadro di Brugel, fino a Griselda, personaggio letterario di Boccaccio e Chaucer, nota per la sua totale sottomissione al marito.

In questa prima parte i personaggi, alternandosi e talvolta sovrapponendosi, raccontano le loro storie e le loro differenti visioni dell'essere donne e delle relazioni con le altre donne e soprattutto con gli uomini. Si tratta di un prologo affascinante (tra l'altro con abiti di scena molto belli) che però un po' mi spiazza, non capisco bene chi è la protagonista Marlene e perché c'è questa cena.

Al secondo atto, la vicenda comincia ad acquisire contorni più precisi. Siamo infatti nell'agenzia Top girls dove appunto Marlene è appena diventata dirigente a scapito di un collega di nome Howard, la cui moglie andrà da Marlene a lamentarsi del lavoro "sottratto" al marito. Mentre nell'agenzia vanno avanti i colloqui con donne che cercano lavoro o vogliono cambiare quello che hanno con varie motivazioni, assistiamo anche alle chiacchiere e alle dinamiche di ufficio che vedono protagoniste alcune colleghe di Marlene. Intanto, altrove, due ragazzine, la quindicenne Angie e la più piccola Kit, giocano insieme, nascondendosi da Joyce (la bravissima Valentina Banci), la madre di Angie. Scopriremo ben presto che Angie è la nipote di Marlene e Joyce è sua sorella, rimasta a vivere nel paese di provincia da cui anche Marlene proviene.

Dopo la visita a sorpresa di Angie a Londra nell'ufficio di Marlene, nel terzo atto quest'ultima torna nel suo paese e va a trovare la sorella Joyce ed Angie. In un acceso confronto, Marlene e Joyce parleranno del loro rapporto e delle scelte che hanno fatto, emergeranno i rancori e i rimpianti, gli opposti punti di vista politici, e a poco a poco alcune verità sepolte saranno riportate alla luce.

Top girls è uno spettacolo molto diverso per impianto rispetto a Settimo cielo, ma si riconosce un terreno di fondo comune, che trae ispirazione dal passaggio epocale che la Gran Bretagna stava vivendo al momento della loro scrittura, ossia la svolta neoliberista imposta alla politica e alla società inglese dall'avvento al potere della prima donna chiamata a ricoprire il ruolo di Primo ministro. 

Questa diventa l'occasione per riflettere sui ruoli della donna, sulle aspettative della società nei suoi confronti, sulle sue aspirazioni, sulle ingiustizie sociali, ma la Churchill rifugge qualunque semplificazione e - come già era evidente in Settimo cielo - evita in tutti modi di attribuire a categorie definite qualità positive e negative in maniera aprioristica. Dunque, pur nella consapevolezza della complessità storica e contemporanea della condizione femminile, in parte legata anche alle specificità biologiche e psicologiche, le donne restano per la Churchill esseri umani, con tutte le contraddizioni che li contraddistinguono.

Il cast tutto al femminile, nel quale oltre alle già citate Sara Putignano e Valentina Banci ricordiamo la stessa Nappo nonché Corinna Andreutti, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Martina De Santis e Simona De Sarno, tiene benissimo il palco e riesce a creare empatia con il pubblico sia nel registro drammatico che in quello più ironico.

Voto: 3,5/5

lunedì 11 marzo 2024

Anna Cappelli / di Annibale Ruccello; con Giada Prandi. Teatro Cometa Off, 27 febbraio 2024

I venticinque lettori (cit.) che seguono il mio blog sanno che ormai da un po' di anni ho sviluppato una passione per il teatro di Annibale Ruccello, drammaturgo napoletano purtroppo scomparso prematuramente per un incidente stradale nel 1986. Io e la mia amica F. inseguiamo dunque a Roma tutte le rappresentazioni delle sue opere, e così abbiamo già visto due messe in scena di Ferdinando, nonché Notturno di donna con ospiti e Le cinque rose di Jennifer.

Anna Cappelli mancava all'appello, nonostante - scopro solo a ridosso dello spettacolo - il testo sia stato messo in scena molte volte e interpretato da grandi attrici, tra cui Anna Marchesini (la sua interpretazione, molto virata sul registro ironico, si trova su YouTube) e la grande Maria Paiato (che spero tanto che lo riporti in scena a Roma).

Il merito di farci vedere a teatro Anna Cappelli è del Cometa Off (teatro che mancava ai nostri giri teatrali). Lo spettacolo è diretto da Renato Chiocca e interpretato da Giada Prandi.

La storia - ambientata negli anni Sessanta - è quella appunto di Anna Cappelli, una giovane donna trasferitasi da Orvieto a Latina per lavorare in un ufficio come impiegata. Si tratta di un monologo, ma in realtà non lo è strettamente, dal momento che le parti in cui si articola la storia sono sempre dei dialoghi in cui Anna si rivolge a un interlocutore: in un paio di casi la padrona di casa dove Anna alloggia, la signora Minervini, e nei restanti casi Tonino Guerra, il ragioniere del suo ufficio con cui Anna inizia una storia e con cui va a convivere. Di questi dialoghi però noi ascoltiamo solo la voce di Anna e intuiamo risposte e parole dell'interlocutore dalle parole e dalle espressioni di Anna.

Il testo - a differenza degli altri di Ruccello - è in italiano, sebbene sia punteggiato di espressioni colloquiali o che derivano dal dialetto.

La storia è una specie di parabola, di discesa agli inferi della follia. Anna vive in una stanza della casa della signora Minervini con cui condivide la cucina, ma ovviamente sogna una casa tutta per sé. Lavora in ufficio dove gestisce delle pratiche e dove conosce il ragioner Tonino Guerra. Dopo uno scambio in cui Tonino fa molti complimenti ad Anna, i due cominciano a frequentarsi e decidono di andare a vivere insieme nella grande casa dove Tonino vive da solo con la vecchia governante. Ma Tonino non ne vuole sapere di sposarsi e Anna, fingendo una leggerezza sul tema che non ha, accetta la convivenza sperando che si tratti di una soluzione temporanea. Quando Tonino decide di lasciarla per trasferirsi a lavorare in Sicilia, vendendo anche la casa, Anna vede crollare tutta la sua vita, rispetto alla quale ha già dovuto accettare molti compromessi, e sprofonda in una lucida follia dagli esiti imprevedibili.

La messa in scena a cui assisto è molto essenziale: Anna si muove dentro e fuori una struttura a forma di cubo senza pareti, e le varie fasi della sua vicenda (nonché parti dello spettacolo) sono identificati da uno specifico outfit: all'inizio ha un grembiule su un vestito, poi ha solo il vestito con un foulard, poi ancora ha un cappotto, quindi resta in sottoveste, e a un certo punto sfila le mutandine. Questo progressivo spogliarsi è ovviamente metafora del suo consegnarsi a un uomo e a una prospettiva di vita, che la rendono progressivamente senza difese e sempre più fragile. La follia è la naturale conseguenza dello sgretolarsi di questa prospettiva che lascia Anna senza praticamente più nulla a cui aggrapparsi.

Dentro il personaggio di Anna c'è sicuramente il rapporto uomo-donna, ma anche molti altri temi, quello della provincia, dei rapporti con la famiglia e con le origini, delle convenzioni sociali, dei desideri, e soprattutto della solitudine, che è poi tema trasversale alle opere di Ruccello. E tutti questi temi sono declinati alla maniera tipica del drammaturgo napoletano, ossia dentro un registro che è un mix inscindibile di dramma e commedia, che ogni regista e ogni attrice possono scegliere di declinare in modo leggermente diverso, più ironico (come nel caso della Marchesini), ovvero più cupo e drammatico (vedi il caso della Paiato), o - ancora - più naif come nel caso della Prandi.

Lo spettacolo è molto ben allestito e costruito (per scenografia, luci, musiche ecc.) e devo dire che Giada Prandi risulta molto convincente, nella sua scelta naturalistica di fondo che non disdegna però dei momenti di "forzatura" espressiva.

Ruccello conferma con Anna Cappelli (ultima opera consegnata in SIAE prima della morte) la sua grandezza, che si manifesta nella estrema varietà dei contenuti delle sue opere e nella straordinaria modernità che le caratterizzano, forse grazie alla sua capacità di indagare con finezza e acume nelle pieghe più nascoste dei sentimenti umani. Ed è proprio grazie a questa ricchezza e modernità che le sue opere possono essere portate in scena ancora oggi (e sicuramente anche in futuro) senza risultare mai sorpassate e dando la possibilità agli attori e alle attrici di trovare sempre nuove chiavi interpretative.

Voto: 3,5/5

venerdì 8 marzo 2024

Zone of interest = La zona di interesse

Si inizia con una scena bucolica: una famiglia piuttosto numerosa (cinque figli, due maschi e tre femmine, di cui l’ultima piccolissima) sta facendo un picnic e un bagno in riva a un fiume in una bella giornata d’estate. A fine giornata, quando ormai si è fatto buio, gli Höss tornano nella loro bella casa per iniziare il giorno dopo una nuova settimana di lavoro (per il padre), di scuola (per i figli), e di gestione della casa e della figlia piccola (per la madre). Eppure un’inquietudine profonda ci attraversa fin dai primi minuti mentre osserviamo la vita di questa “normale” famiglia tedesca degli anni Quaranta.

Lo stato di inquietudine ce lo ha già suggerito il regista Jonathan Glazer facendo iniziare il film con uno schermo nero sul quale per lunghissimi secondi sono montati dei suoni che non sono una musica, ma non sono nemmeno strettamente suoni umani. Qualcosa che spiazza e ci mette a disagio.

Lo stato di disagio si amplifica man mano che la storia va avanti e si capisce che il comandante Höss dirige il campo di concentramento di Auschwitz e la sua casa confina con il lager, anzi ne condivide il muro di cinta, dove sua moglie sta cercando di far crescere piante e fiori per nascondere il grigio cemento.

La vita degli Höss è quasi una vita modello, la famiglia tedesca “perfetta” come poteva apparire nelle pubblicità di quegli anni, salvo che questo quadro così pulito e nitido – come Glazer cerca di sottolineare anche cinematograficamente – mostra abbastanza presto delle crepe, degli elementi dissonanti, delle incongruenze. La tranquilla vita degli Höss si svolge su un fondo sonoro che è fatto di rumori, spari, grida, che si percepiscono distintamente ma in lontananza. Dietro il muro – nelle riprese più ampie – si intravedono le ciminiere e i fumi che emettono. Durante la notte, il cielo si accende di rosso e l’odore che si diffonde è nauseabondo, anche se non tutti sembrano farci caso. La natura non è così bucolica come appare: il fiume in cui il comandante sta pescando e i figli stanno facendo il bagno viene invaso da una marea di cenere; i campi in cui fanno la loro passeggiata a cavallo sono battuti dalle SS all’inseguimento di gente in fuga o nascosta tra le frasche. Hedwig (la sempre più straordinaria Sandra Hüller) riceve "misteriosamente" a casa oggetti (vestiario e altro) che in parte tiene per sé, in parte “regala” a governanti e baby sitter. I figli giocano nel giardino e in piscina da soli o con altri bambini, tra giochi normali e altri più strani, che tradiscono una strisciante inquietudine che cozza con la presunta normalità della situazione.

Di tanto in tanto durante la narrazione della vita degli Höss, le immagini vengono risucchiate nello schermo (nero, rosso o bianco a seconda dei casi) quasi a segnare delle pause di riflessione, e talvolta, durante la notte, le immagini in positivo si trasformano in strane immagini in negativo (tipo girato notturno a infrarossi) la cui protagonista è una ragazza che porta delle mele o delle pere da qualche parte (capiremo poi dove).

Il trasferimento del comandante Höss (molto bravo Christian Friedel) a Oranienburg mette in crisi il quadro familiare idilliaco, ma come accadrebbe in qualunque famiglia: Rudolf insegue le sue ambizioni lavorative e la sua carriera, mentre Hedwig vuole rimanere con i figli nella casa che si è costruita con tanto amore e dove sta crescendo i suoi bambini.

La zona di interesse è il nome tecnico che veniva dato all’area che si estendeva intorno ai campi di concentramento nazisti. Ma in questo caso la zona di interesse può significare tante altre cose. Ognuno dei personaggi della storia raccontata da Glazer (ispirandosi al romanzo di Martin Amis) si chiude nella propria zona di interesse, concentrando le proprie emozioni e il proprio sguardo solo all’interno di essa, e tagliando fuori tutto il resto. Vale per Rudolf, per Hedwig, per i figli (per quanto parzialmente inconsapevoli), e per tutte le persone che gli ruotano intorno.

Ma Zone of interest non è solo un anomalo film sull’Olocausto, in cui l’orrore si materializza potentissimo senza vedere mai quello che accade all’interno del campo di concentramento, bensì è un film sull’essere umano e forse anche un film sul presente.

Guardandolo mi sono ricordata una cosa che racconto spesso della mia esperienza di persona andata via dal suo paesello per vivere in una grande città: dopo un po’ di anni che vivevo a Roma, in occasione della visita di persone della mia famiglia che ancora vivono al paesello, ero rimasta ‘stupita’ dal fatto che loro erano colpiti e non indifferenti alla presenza dei mendicanti per strada e alle cose più o meno anomale e più o meno brutte che accadono nelle strade della città, mentre io quasi non le vedevo più, concentrata sulla mia vita quotidiana, sulle mie cose, sulla mia sopravvivenza.

Senza che questo suoni come una giustificazione, penso che l’essere umano abbia una soglia di assuefazione, superata la quale cose che fino a un certo momento ci colpivano emotivamente diventano un “rumore bianco”, un rumore di sottofondo che finiamo per non sentire/vedere più (non a caso nel film, l’unica persona che va via all’improvviso senza dare spiegazioni è la madre di Hedwig che è venuta a trovare la figlia, ma che non riesce a convivere con l’orrore che vede e sente oltre il muro).

Ebbene, se applichiamo al nostro presente questa riflessione, un presente nel quale siamo continuamente bombardati di orrore, nel quale i media e soprattutto i social media fanno a gara per attirare la nostra attenzione alzando continuamente l’asticella emotiva e puntando alla profondità delle viscere delle persone, c'è da chiedersi: quanto è forte il “rumore bianco” nel quale viviamo e di cui non ci accorgiamo? Quanto siamo diventati e diventeremo sempre più indifferenti a quello che accade intorno a noi? Esiste un antidoto a tutto questo?

Perché è evidente che non basta l’indignazione, che non basta la consapevolezza, non basta la razionalità, perché poi alla fine le nostre vite devono andare avanti e, anche se non siamo direttamente responsabili del male inferto ad altri (nemmeno Hedwig lo è), non siamo molto diversi dalla famiglia Höss.

Non scomoderei la parola “capolavoro” come molti hanno fatto, ma Zone of interest è un film che resta scolpito negli occhi e nella mente dello spettatore.

Voto: 4/5



mercoledì 6 marzo 2024

Storia di un oblio / regia di Roberto Andò; con Vincenzo Pirrotta. Teatro India, 22 febbraio 2024

Avevamo in calendario questo spettacolo, ma eravamo molto indecise se andare a vederlo. Poi una promozione del Teatro India ci ha convinte ad acquistare i biglietti, e alla fine ne siamo state contente.

Lo spettacolo teatrale è tratto dal romanzo omonimo di Laurent Mauvignier che prende spunto da un fatto di cronaca: la morte di un uomo per mano dei vigilantes di un supermercato a seguito del furto di una lattina di birra. 
Una morte insensata che diventa occasione di riflessione sulla posizione di debolezza di determinate categorie di persone, un po' marginali rispetto alla società, e sullo spropositato esercizio della forza da parte di chi detiene un potere, per quanto piccolo, giustificato dall'ossessione sociale per l'ordine.

Roberto Andò affida questo monologo alla fisicità di Vincenzo Pirrotta, che quando arriviamo a teatro è già sul palco, seduto su una sedia, con le mani sul volto, mentre al centro del palco campeggia un parallelepipedo sul quale c'è un sacco chiuso, come quelli che si vedono negli obitori. Tutto intorno sono disposte delle sedie, su cui prende posto una parte del pubblico, comprese noi, oltre al pubblico normalmente seduto in platea.

Il personaggio di Pirrotta è quello del fratello dell'uomo ammazzato di botte per aver rubato una lattina di birra, ed è dunque il veicolo sia della narrazione su come sono andati i fatti sia dell'impatto emotivo della vicenda, in un crescendo di disperazione che chiama in causa le persone sedute intorno al palco, esseri umani cui si chiede di essere non solo spettatori, ma partecipi.

In questa escalation il momento culminante si raggiunge quando il protagonista tira fuori da una tasca del sacco che copre il cadavere la sua foto, da mostrare a ciascuno degli astanti, e si tratta della famosa foto di Stefano Cucchi, morto a causa del pestaggio in caserma, vicenda che la storia raccontata da Mauvignier e avvenuta in Francia riporta alla mente per il pubblico italiano.

Ma ovviamente di casi simili se ne potrebbero ricordare molti altri, tutti sintomo di una totale sproporzione tra l'azione del presunto colpevole e la reazione dei "tutori dell'ordine", tale da giungere alle estreme conseguenze.

Lo spettacolo di Roberto Andò, nella sua semplicità e grazie all'interpretazione molto sentita di Vincenzo Pirrotta, funziona bene e arriva in tutta la sua portata emotiva.

Non so se aggiunge niente di nuovo a cose che conosciamo e abbiamo già visto, ma è bene non spegnere mai i riflettori su temi come questo che purtroppo continuano ad attraversare e ad inquinare le nostre società.

Voto: 3/5

lunedì 4 marzo 2024

Smoke sauna - I segreti della sorellanza

Smoke sauna è un documentario estone che la regista Anna Hints ha dedicato a un luogo (una sauna costruita in mezzo ai boschi vicino a Võru, in Estonia) e alle sue frequentatrici (tutte donne), che stagione dopo stagione si ritrovano in questo luogo dove l'intimità dei corpi favorisce lo scambio e la costruzione di un senso di sorellanza.

Il documentario segue una struttura molto iterativa, attraversando le stagioni, e mostrando le operazioni di preparazione della sauna, la vita al suo interno e le conversazioni tra le donne, e infine le scene all'esterno che valorizzano il rapporto diretto con la natura.

Centrali in questo racconto sono i corpi delle donne, che vediamo quasi sempre nudi, ma che sono filmati senza alcuna morbosità bensì con lo sguardo benevolo e partecipe di una donna che è in grado di apprezzare e valorizzare tutti i corpi con tutte le loro imperfezioni. Da questo punto di vista - anche tenendo conto della difficoltà tecnica di riprendere questi corpi in un ambiente piccolo e buio, in cui le fonti di luce sono poche e fioche - la regista fa un lavoro straordinario trasformando ogni immagine in una tela caravaggesca, in cui a seconda dei casi la luce si concentra sui volti, sulle schiene, sui seni, sui piedi o su altri dettagli, spesso lasciando in ombra tutto il resto. Su questi corpi, di cui vengono via via illuminati e valorizzati dettagli, ascoltiamo le parole di queste donne che raccontano le loro storie: storie d'amore, di dolore, di passione, di sesso, di maternità, di malattia, di violenza.

Non si tratta di un film adatto a tutti i palati, e lo dico riferendomi sia al ritmo che ai contenuti, ma che in me ha comunque suscitato un certo interesse e connesse riflessioni.

In particolare, al termine della visione riflettevo sul fatto che, mentre il luogo e l'istituto della sauna sono qualcosa di completamente estraneo alla nostra cultura - e quindi inevitabilmente noi italiani che guardiamo questo film facciamo fatica a capire il rapporto di queste donne con questo luogo, e personalmente faccio anche fatica a pensare a un luogo più familiare alla nostra cultura che assolva alla medesima funzione (forse non c'è) -, le cose che queste donne si dicono risultano assolutamente allineate alle esperienze nostre o delle donne che appartengono al nostro mondo, a conferma del fatto che le storie delle donne attraversano quasi intatte confini geografici e culturali e che dunque esiste una specificità della condizione femminile e problematiche relative contro ogni tentativo di negazione.

Non una visione facile (soprattutto - almeno per quanto mi riguarda - per la componente di rito ancestrale e magico che emerge a più riprese), ma sicuramente una visione interessante.

Voto: 3/5



venerdì 1 marzo 2024

Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma. Galleria Borghese, 18 febbraio 2024

Nell'ultimo weekend di programmazione della mostra - e dopo aver preso i biglietti quasi un mese prima - riusciamo ad andare a vedere la mostra su Rubens alla Galleria Borghese, che è anche l'occasione di tornare a visitare la Galleria stessa.

La mostra si concentra innanzitutto sul rapporto di Rubens con i modelli antichi, che il pittore fiammingo osserva e studia quasi ossessivamente, riflettendo sul concetto di naturalismo e di imitazione, in secondo luogo indaga le relazioni della sua pittura con gli esempi rinascimentali e con i lavori dei contemporanei, tra cui Bernini e Caravaggio.

Per sviluppare questi temi la mostra si articola in otto sezioni: Il mito del Barocco, Rubens e la storia, Corpi drammatici, Corpi statuari, Rubens e Caravaggio, La nascita della scultura 'pittorica', Il tocco di Pigmalione, Rubens e Tiziano.

In ciascuna di queste sezioni si ha la possibilità di osservare non solo quadri, bensì anche disegni di Rubens, spesso disegni che traggono ispirazione da altre opere (anche di tipo scultoreo), e che poi il pittore reinterpreta e traduce su tela in modi a volte inaspettati. Sculture, pitture e disegni convivono negli stessi ambienti dandoci l'occasione di guardare comparativamente opere differenti che si influenzano vicendevolmente e in qualche modo acquistano significati inediti nell'essere messi in relazione.

Le varie sezioni della temporanea sono disseminate tra le stanze dei due piani della Galleria Borghese, cosicché - mentre si segue l'esposizione su Rubens - si ha l'occasione di ripassare in rassegna molte altre straordinarie opere di grandi artisti (da Bernini a Canova, da Tiziano a Raffaello) che in questo museo raggiungono livelli di concentrazione davvero importanti.

Purtroppo - forse anche perché è l'ultimo giorno di apertura - c'è tantissima gente e tantissimi gruppi in visita guidata, cosicché non ci si riesce a godere sempre tutto con tranquillità, ma avendo un po' pazienza e tornando nelle stesse sale più volte la mostra e le collezioni si godono appieno.

Viste le mie scarse competenza in materia, non sono in grado di dire molto di più di questo, né di offrire punti di vista originali, ma posso dire che lasciandosi andare al piacere dello sguardo e dell'osservazione non si esce certo dal museo delusi.

Voto: 3,5/5