mercoledì 22 marzo 2023

Micah P. Hinson. Monk, 7 marzo 2023

È la sesta volta che vado a un concerto di Micah P. Hinson, e di queste almeno tre al Monk, luogo di Roma che amo molto.

Rispetto alle altre volte arrivo molto più preparata: l'ultimo disco, I lie to you, mi è piaciuto già al primo ascolto, e da quel momento l'ho ascoltato innumerevoli volte fino a imparare a memoria alcune delle canzoni. Lo stile è quello a cui Micah ci ha abituati, ma a questo giro gli arrangiamenti sono davvero spettacolari e dentro c'è molta Italia. Il disco è nato infatti in Irpinia, in seguito alla partecipazione di Micah al festival musicale organizzato da Vinicio Capossela, lo Sponz Fest, e gli arrangiamenti sono di Alessandro "Asso" Stefana (il chitarrista di Capossela). È proprio quest'ultimo che - insieme al bravo batterista Paolo Mongardi - accompagna Micah nel suo tour.

A questo giro, il chitarrista americano, originario di Memphis e poi cresciuto in Texas - come del resto lui stesso tiene tutte le volte a sottolineare -, si presenta sul palco con una specie di tuta da meccanico e una acconciatura da nativo americano (di cui rivendica le ascendenze). Dopo un po' di canzoni, Micah indossa un cappello con una piuma che completa questo quadro un po' eccentrico.

La formula adottata per il concerto è quella di cantare gruppi di 2-3 canzoni dal nuovo album, alternate a vecchi successi e cover. La maggior parte delle canzoni sono accompagnate dai due musicisti: Stefana in particolare svolge il ruolo di polistrumentista suonando il basso, la chitarra, la tastiera, l'armonica da bocca e la steel guitar. Su alcune canzoni Micah P. Hinson resta da solo sul palco con la sua chitarra acustica (ci dice che quella con la scritta "This machine kills fascists" si è purtroppo rotta e l'ha dovuta buttar via) e la sua voce, che sembra provenire dalle profondità della terra.

L'ultimo album viene eseguito interamente. Il pubblico si scalda sull'esecuzione della cover di John Denver Please daddy, don't get drunk for Christmas, su cui poi Micah commenta che è curioso come questa canzone coinvolga il pubblico in un clima quasi festoso, sebbene abbia un contenuto non certo allegro. Del resto - aggiunge - ciò è proprio del potere di manipolazione della musica, che può orientare le nostre reazioni e sentimenti in un senso o nell'altro nonostante i testi e i messaggi da essi veicolati.

Io apprezzo particolarmente l'esecuzione di Carelessly e What does it matter now (una delle mie canzoni preferite dell'album), nonché quella di On the way home (to Abilene), che proviene da un album precedente. Gli arrangiamenti sono a tratti davvero entusiasmanti e ci si incanta non solo ad ascoltare Micah che canta, ma anche a guardare e ascoltare i tre musicisti nelle loro esecuzioni.

Tra una canzone e l'altra - come è tipico dei suoi concerti - Micah chiacchiera con il pubblico, passando da temi molto gravi ad altri decisamente più scherzosi e leggeri, con questo dimostrando di non essere solo il poeta maledetto del folk americano (con le sue stramberie e i suoi tic).

Al termine del concerto è rimasta fuori una canzone per me centrale dell'album, forse la più bella, You and me, ma sono sicura che Micah ce la regalerà nel dovuto e richiestissimo bis. E infatti eccolo di nuovo sul palco a cantare questo struggente pezzo e poi di nuovo con i musicisti a trascinarci nella cover di una scatenata ballata country, con cui Micah certifica la sua ascendenza musicale e si colloca idealmente in continuità con i grandi nomi del genere "americana".

Ascoltando Micah si sente tutta la polvere e la solitudine delle grandi lande americane, con i loro paesini opprimenti e privi di prospettive, dove il sogno americano si infrange contro forme di devastazione umana e familiare più o meno gravi. Non ho potuto fare a meno di collegare il concerto cui ho assistito alla lettura attualmente in corso del libro Il caos da cui veniamo di Tiffany McDaniel, che proprio di questa provincia americana desolata e di persone spezzate ci racconta con grande profondità.

I concerti di Micah P. Hinson non andrebbero mai persi.

Voto: 4,5/5

lunedì 20 marzo 2023

Arturo / Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich. San Venanzio di Galliera, Auditorium Scuola Giovanni XXIII, 4 marzo 2023

Agorà è la rassegna teatrale organizzata dall'Unione Reno Galliera, un ente che associa diversi Comuni della provincia di Bologna.

È nell'ambito di questa rassegna che - durante un mio weekend bolognese - vado a vedere lo spettacolo Arturo, scritto, diretto e interpretato da Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich.

I due sono accomunati dal fatto di aver perso i rispettivi padri alcuni anni fa, e lo spettacolo è sostanzialmente un modo di ricostruirne la memoria e fare i conti con la perdita, ma trasformando un sentimento individuale in un'esperienza collettiva e condivisa.

All'ingresso della sala alla maggior parte degli spettatori viene consegnato un foglietto bianco e una penna, e ad alcuni un foglietto scuro che porta già scritta una frase e un gessetto. A questi ultimi sarà dato un grosso pezzo di puzzle con la superficie scrivibile con un gessetto, su cui ciascuno di loro dovrà completare la frase che ha trovato scritta sul foglietto nero. Ad una sola persona viene consegnata una scatolina, che scopriremo poi contenere delle date.

Lo spettacolo scorre così come un flusso di ricordi e di pensieri, a cui si aggiungono le interazioni tra i due protagonisti, e poi anche i pensieri scritti dagli spettatori sui foglietti bianchi e quelli dei pezzi di puzzle, che parzialmente modificano l'andamento dello spettacolo e i suoi contenuti.

Il nome del titolo, Arturo, non corrisponde al nome di nessuno dei due padri, ma è più che altro un elemento evocativo, che al principio dello spettacolo viene ricondotto in particolare alla stella omonima, che è una delle più luminose del cielo.

Quello di Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich è uno spettacolo semplice e poco pretenzioso, ma che proprio per questo risulta sincero e per niente retorico, e ottiene sicuramente un risultato interessante, quello di mettere in connessione i ricordi e di far parlare le generazioni attraverso un'esperienza che - in modo diversi - appartiene a tutti, ossia il rapporto con il proprio padre.

Personalmente ho apprezzato parecchio, e sono rimasta più soddisfatta di questo piccolo spettacolo che di tanti spettacoli più roboanti che personalmente ho trovato molto meno capaci di questo di trasmettere emozioni e senso.

Voto: 3,5/5

venerdì 17 marzo 2023

Benedetta

Recensendo Elle, il film che Verhoeven dopo diversi anni di assenza dal grande schermo aveva portato in sala nel 2017, mettevo in evidenza la poliedricità del regista olandese, che davvero nella sua carriera ha praticato un po' tutti i generi, pur rimanendo sostanzialmente fedele ad alcune caratteristiche di fondo del suo cinema.

Con quest'ultimo film, Benedetta, Verhoeven si avventura addirittura nei territori del romanzo storico o della storia romanzata, raccontando la storia della monaca teatina Benedetta Carlini, a partire dal libro di Judith C. Brown intitolato Atti impuri. Vita di una monaca lesbica nell'Italia del Rinascimento.

Siamo a Pescia, agli inizi del XVII secolo. Benedetta - a seguito di un voto dei suoi genitori - entra da bambina nel convento delle Teatine, del quale diventa a un certo punto badessa. La donna ha delle estasi mistiche che portano con sé dei problemi fisici e che le infondono un'aura soprannaturale. Quando le viene affiancata la giovane Bartolomea il confine tra misticismo ed erotismo si fa sempre più labile, e Benedetta viene sottoposta a un processo per appurare la natura dei suoi comportamenti.

Su questo nucleo storico ricostruito dalla Brown, Verhoeven imbastisce un film che personalmente mi ha suscitato più ilarità che interesse. La ricostruzione storica è approssimativa e a tratti grottesca (mi è sembrato di vedere uno sceneggiato mal realizzato degli anni Ottanta); la storia - che la Brown affronta con rigore e delicatezza, a quanto dicono le recensioni che ho letto - viene caricata di eccessi e vouyerismo gratuito alla maniera di Verhoeven; i possibili elementi di riflessione che la vicenda potrebbe suscitare sono accennati e poi abbandonati; le attrici (che certo non sono le ultime arrivate, vedi Charlotte Rampling e Virginie Efira) appaiono le macchiette di sé stesse. L'esito è poco credibile, risibile e decisamente poco interessante nel suo complesso. Sembra quasi che Verhoeven abbia cercato l'occasione giusta per applicare l'erotismo a un contesto religioso, per scandalizzare con sequenze dichiaratamente blasfeme (le visioni che Benedetta ha dei suoi incontri con Gesù, l'uso di una statuetta in legno della Madonna come dildo, ecc.)

Io non so che film abbia visto l'autrice della recensione per il sito MyMovies, visto che sta al capo diametralmente opposto al mio, ma sul cinema si sa che i giudizi possono divergere.

A me sono sembrate due ore del mio tempo sinceramente buttate. Posso dire di essermi fatta due risate, ma le mie due risate non credo giustifichino la visione di questo film.

Voto: 1/5




mercoledì 15 marzo 2023

Pour un oui ou pour un non / con Franco Branciaroli e Umberto Orsini. Teatro Argentina, 1 marzo 2023

Pour un oui ou pour un non è un testo del 1982 di Nathalie Sarraute, scrittrice francese di origine russa che non conoscevo prima di questa circostanza, ma che scopro essere una delle grandi voci del teatro - e non solo - francese.

Sono due mostri sacri del teatro italiano, Franco Branciaroli e Umberto Orsini, diretti da Pier Luigi Pizzi, a portare in scena per il pubblico italiano questo lavoro, che racconta il momento di rottura di una amicizia di vecchia data. I due protagonisti, dopo un periodo di allontanamento, si ritrovano a casa di uno dei due (una casa con grandi librerie piene di libri) per confrontarsi sui motivi che li hanno allontanati. L'ospite (Franco Branciaroli) cerca - più o meno bonariamente - di indagare sui motivi dell'allontanamento dell'amico, mentre il padrone di casa (Umberto Orsini) appare reticente. A poco a poco i contorni di questo allontanamento si svelano: al centro non c'è un evento eclatante, ma quella che potrebbe essere un'incomprensione (un nonnulla, come l'espressione francese che dà il titolo all'opera Pour un oui ou pour un non suggerisce), su cui si sono costruiti rancori, illazioni, sensi di colpa e molto altro. La conversazione, che finisce per coinvolgere anche un'altra coppia di amici, cui i due si rivolgono telefonicamente, diventa sempre più tesa e ambigua, fino all'inquietante epilogo.

Il tema è molto interessante, e il testo sicuramente affascinante. Tra l'altro è una conversazione in cui mi sarei tranquillamente potuta immedesimare. Purtroppo però tutto ciò non accade. Il modo di recitare di Branciaroli mi risulta eccessivamente impostato e teatrale fin dal principio, e pure la recitazione di Orsini - sicuramente un po' più realistica - non mi convince del tutto. In generale il loro modo di stare sul palco e di interagire mi risulta un po' rigido e tutto sommato non perfettamente coerente con il testo.

Leggo che i due hanno voluto moltissimo portare quest'opera a teatro da protagonisti. E di questo certamente bisogna riconoscergli il merito. Però personalmente nei due ruoli ci avrei visto degli attori di mezza età, perché - non so se per una mia non corretta interpretazione - mi è sembrato che l'autrice a quel tipo di figura facesse riferimento nella scrittura.

Sicuramente la capacità di Branciaroli e soprattutto di Orsini (che ha quasi 89 anni) di tenere da soli il palco, mostrando un'agilità e una capacità recitativa ammirevoli, non va taciuta. Purtroppo però il risultato è che lo spettacolo mi è scivolato addosso senza lasciarmi molto.

Voto: 2,5/5

lunedì 13 marzo 2023

Laggiù qualcuno mi ama

A settant’anni dalla nascita di Massimo Troisi esce in sala il documentario a lui dedicato da Mario Martone, un regista sempre più immerso nella sua napoletanità e al contempo sempre più capace di parlare all’universalità delle persone, come già evidente nel precedente Nostalgia.

È chiaro fin dal titolo che quello di Martone è un vero e proprio omaggio a un personaggio che è stato capace di conquistare i cuori di tutti coloro che lo hanno “incontrato” nella loro vita, un racconto della sua carriera artistica dagli esordi fino all’ultimo film, ma anche un’esplorazione della sua personalità sfaccettata e complessa, grazie anche alle testimonianze delle persone che gli sono state vicine, in particolare Anna Pavignano, a lungo sua compagna e fedele co-sceneggiatrice.

La narrazione si sviluppa attraverso immagini di repertorio dei suoi spettacoli teatrali, dei lavori televisivi e dei suoi film, ma anche e soprattutto attraverso interviste a persone che l’hanno conosciuto e ad altri che, pur non avendolo mai incontrato, ne sono stati profondamente influenzati, nonché attraverso materiali inediti (audio, fotografie, appunti manoscritti). Questi ultimi, in particolare, gettano luce sul processo creativo di Troisi e confermano la complessità e la densità della sua comicità profondamente malinconica, che mentre crea una ideale linea di continuità con autori colti come Truffaut (con cui Martone sottolinea i punti di contatto) lo rende anche profondamente popolare e riconoscibile da un vasto pubblico. La sua gestualità – che Martone non manca di inseguire attraverso le sue opere – è diventata iconica, così come alcune delle “gag” dei suoi film possono essere a buon diritto considerate patrimonio collettivo.

Il regista non nasconde l’ammirazione per Troisi e non ne tace l’eccezionalità nella veste di regista, autore e attore; d’altra parte, Martone non dimentica che Troisi è uno degli straordinari prodotti di un’epoca d’oro per la scena artistica napoletana, che in quegli anni portò alla ribalta autori e testi destinati a diventare dei capisaldi nella cultura del nostro paese.

È dunque un piacere, intriso di struggente nostalgia, questo viaggio che Martone ci fa fare nella vita e nella personalità di un artista che non ha mai smesso di scandagliare l’animo umano e di riflettere sui sentimenti, celebrando la vita nella sua entusiasmante insondabilità.

Le immagini che Martone dedica alla proiezione di un film di Troisi organizzata a Roma all’aperto dai ragazzi del cinema America (quelli che a lui hanno intitolato il cinema aperto qualche anno fa) sono il testimone che il regista mette con fiducia e speranza nelle mani delle nuove generazioni perché continuino a far conoscere l’opera di Massimo a quanti verranno e tengano viva la sua eredità.

Voto: 3,5/5



venerdì 10 marzo 2023

Life is (not) a game

Presentato alla Festa del cinema di Roma del 2022 (ma sfuggito alla mia programmazione), esce ora in sala questo documentario che il regista e co-sceneggiatore Antonio Valerio Spera ha dedicato alla street artist romana Laika, che in realtà definisce sé stessa una poster-attacchina.

I suoi lavori, alcuni dei quali famosissimi (per esempio l'abbraccio di Giulio Regeni a Patrick Zacky), sono infatti prodotti che mescolano stili e arti: la pittura, la fotografia, l'oggettistica, il fumetto. Di solito si presentano sotto forma di "poster" che Laika durante la notte - aiutata da alcuni amici - affigge sul muro che ha designato. Sono lavori che spesso hanno una vita breve, perché i poster vengono quasi sempre rimossi molto rapidamente, soprattutto quando hanno come soggetti personaggi politici oppure quando sollevano questioni controverse. Le opere di Laika vivono però attraverso le loro riproduzioni ("l'opera d'arte nell'era della riproducibilità tecnica") realizzate in primis da lei stessa con la sua macchina fotografica e in secundis dai pochi fortunati che riescono a catturarne l'immagine nelle poche ore/giornate che riesce a sopravvivere nel suo luogo originario.

Laika appartiene al gruppo degli street artist che ha scelto la via dell'anonimato: in video e per strada appare sempre con una maschera e una parrucca rossa a caschetto e vestita con una tuta bianca o una tenuta da lavoro. Nel film anche la sua voce è distorta per impedirne il riconoscimento.

Ma tutto questo fa parte del contesto. Andando al contenuto del fim, il documentario si propone di approfondire e far conoscere soprattutto il punto di vista di Laika e il significato che la street artist attribuisce al proprio lavoro. Ne viene fuori il ritratto di un'artista consapevole e molto impegnata e attenta sul piano politico e sociale. I suoi lavori sono sempre la manifestazione di una voce critica/ironica/pungente/stimolante sui fatti dell'attualità, dai più spinosi a quelli apparentemente più leggeri. Il suo campo di azione è Roma in via privilegiata, ma Laika ha portato i suoi lavori anche in altre città d'Italia e all'estero, per rendere ancora più significativa la sua azione e darle maggiore risonanza.

In particolare l'ultima parte del film è dedicata al suo viaggio nella zona del campo profughi di Lipa, nel nord della Bosnia, quello andato a fuoco nel dicembre del 2020, e ai suoi contatti con i migranti sulla rotta via terra verso l'Italia. Si tratta sicuramente della parte emotivamente più intensa del documentario, e anche quella che lascia maggiormente l'amaro in bocca rispetto al senso di sconfitta, di inutilità e di impossibilità di cambiare le cose. Ne sono uscita un po' frustrata personalmente, ma anche ammirata rispetto alla tenacia e alla caparbietà di Laika, e in fondo di tutti gli attivisti che continuano a lavorare per gli obiettivi in cui credono senza farsi scoraggiare dall'enormità dei problemi e dalla inevitabile limitatezza della loro azione.

Voto: 3,5/5



giovedì 9 marzo 2023

Tutto chiede salvezza / Daniele Mencarelli. Milano: Mondadori, 2020.

Quanto tutti ne hanno cominciato a parlare perché è uscita la serie (di cui però non ho letto un gran bene), mi sono finalmente decisa a leggere il libro autobiografico di Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza.

Il libro contiene il racconto della settimana che Daniele, intorno ai suoi vent'anni, trascorse in un reparto psichiatrico in cui fu ricoverato dopo un TSO, ossia un trattamento sanitario obbligatorio, seguìto a uno scoppio d'ira violento.

Daniele ha una storia di dipendenza tossicologica e di instabilità emotiva, a cui lui stesso e nemmeno i numerosi dottori e psichiatri a cui si è rivolto hanno saputo dare un nome. Si tratta di una specie di ipersensibilità che gli fa avvertire amplificati la gioia e i dolori della vita quotidiana, anche attraverso forme accentuate di empatia con il mondo circostante, nonché una specie di metafisico ma anche molto concreto male di vivere, un malessere per l'assenza di senso dell'esistenza, un'ansia profonda per la caducità umana.

Ebbene, nel reparto psichiatrico, Daniele si trova fianco a fianco con persone che pure si portano dietro i loro drammi personali e le loro storie: Madonnina, che appena entrato gli dà fuoco ai capelli, Alessandro che guarda un punto lontano e non reagisce ad alcuno stimolo, Gianluca, omosessuale bipolare rifiutato dalla famiglia, Mario, un maestro elementare allontanato da moglie e figlia per i suoi comportamenti violenti, Giorgio, un ragazzone che si porta dietro un trauma infantile.

In questo universo composito e complesso, e non certo semplice, Daniele e gli altri ospiti del reparto devono interfacciarsi con gli infermieri e le infermiere e con i medici che si alternano nei turni. Le interazioni sono un mix di comprensione, conflitto, vicinanza, freddezza, scambio e silenzio, all'interno del quale Daniele trova affetto, supporto e senso. Il micromondo del reparto psichiatrico è una piccola scuola di vita che rispecchia le ingiustizie e le insensatezze del mondo, ma anche l'importanza delle relazioni umane.

Un libro, quello di Mencarelli, che si legge in un paio di giorni, che fa sorridere e commuovere, ma che non pretende di dire e/o insegnare grandi verità, ma solo la necessità del rispetto per le storie individuali e il superamento dei pregiudizi nei confronti degli altri, che sono quasi sempre il frutto della non conoscenza.

Mencarelli scrittore conferma una sensibilità individuale fatta di grande empatia, anche se da un lato il suo approccio escatologico in bilico tra lo spirituale e il religioso e dall'altro la semplicità del libro - che a volte rischia la semplificazione - mi hanno tenuto emotivamente un pochino distante e non mi hanno prodotto quell'emozione sottopelle che a molti altri ha fatto apprezzare questa lettura.

Voto: 3/5

lunedì 6 marzo 2023

Holy spider

Forse Holy spider non è originale e spiazzante come Border – Creature di confine, il precedente film di Ali Abbasi, però è un film ancora più necessario.

Dopo un film ispirato al testo di uno scrittore svedese e in parte debitore nei confronti della cultura scandinava, il regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi sposta lo sguardo verso il suo paese di origine, quello che ha lasciato molti anni fa, l’Iran, per raccontare una vicenda ispirata alla storia vera di Saeed Hanaei, il serial killer delle prostitute che operò a Mashad tra il 2000 e il 2001.

In realtà il film inizia come un thriller/poliziesco classico di finzione, e la triste verità di quello che ci viene raccontato è rivelata solo alla fine, prima dei titoli di coda.

La storia, nella sua essenza, potrebbe essere ambientata ovunque: Saeed (Mehdi Bajestani) è un reduce di guerra, marito e padre di tre figli, il quale esce la notte per adescare per strada prostitute che poi ammazza in casa strangolandole. Una giovane giornalista, Rahimi (la luminosa Zahra Amir Ebrahimi, giusta vincitrice del premio per la migliore interpretazione femminile a Cannes) arriva dalla città per capirne di più su questi omicidi, e inizia a indagare mettendo a rischio la propria stessa vita.

Ciò che rende questo racconto diverso da altri classici film incentrati su serial killer e dalle trame tutto sommato molto simili è l’ambientazione e il contesto nel quale si svolge. Siamo in Iran, in una città la cui vita ruota attorno a un santuario che è meta di pellegrinaggio, e Saeed è un fanatico religioso, convinto di fare la volontà di Allah ripulendo le strade da donne indegne, e proprio per questo cerca visibilità e seguito. Saeed si muove in un contesto profondamente maschilista e bigotto, nel quale la religione informa e condiziona ogni aspetto della vita individuale e sociale.

La giovane Rahimi, che proviene da Teheran e ha subìto sulla propria pelle gli effetti del maschilismo tossico e violento, si muove nelle pieghe di questo caso con determinazione e sprezzo del pericolo, ma anche con compassione e intelligenza. L’andamento dell’indagine prima e il suo esito dopo sono un viaggio nell’orrore di un paese dominato da uomini autorizzati a spadroneggiare e di donne trattate come oggetti. Un paese le cui istituzioni – ampiamente conniventi se non ispiratrici dei più biechi sentimenti popolari – fanno esclusivamente i propri interessi, strumentalizzando gli individui e scaricandoli quando necessario.

La sequenza finale in cui Rahimi, mentre è nell’autobus che la riporterà a Teheran, riguarda sulla sua videocamera le immagini girate a casa di Saeed che hanno come protagonista il figlio maggiore di quest'ultimo - che ha non più di 12 anni - sono agghiaccianti, un vero e proprio pugno nello stomaco, che danno molto da riflettere sulla responsabilità collettiva del perpetuarsi di questa società profondamente tossica.

Uscendo dal cinema si riesce solo a pensare a quanto siamo fortunate noi donne che non siamo nate e non viviamo in un posto come l’Iran, e si avverte anche la frustrazione e l’impotenza di fronte a un mondo le cui malattie sembrano non avere cura.

Zahra Amir Ebrahimi è interprete perfetta di questa figura di donna che non si vuole sentire inferiore a nessuno e vuole combattere il sistema, e illumina lo schermo con la sua presenza per tutta la durata del film. Conoscere (solo a posteriori nel mio caso) la sua storia personale (un video intimo è stato diffuso pubblicamente in Iran ed è dovuta per questo fuggire in Francia dove attualmente vive), è soltanto un elemento che suggella la forza del suo personaggio.

Voto: 3,5/5