mercoledì 31 maggio 2023

La crepa / Carlos Spottorno; Guillermo Abril

La crepa / Carlos Spottorno; Guillermo Abril; trad. di Francesca Bianchi; introduzione di Fabio Geda. Torino: add editore, 2017.

La crepa è un libro di grande formato di cui è difficile classificare il genere: il suo contenuto è infatti un reportage "a fumetti", la cui base è rappresentata dalle fotografie realizzate da Carlos Spottorno e dai testi realizzati dal giornalista Guillermo Abril. Lo definiamo reportage a fumetti, perché le foto non sono riprodotte come tali, bensì sono modificate per ottenere un effetto disegnato.

Si tratta di qualcosa di particolarmente originale e che possiamo affermare non essere solo un vezzo estetico, in quanto questa operazione grafica è in grado di conferire alla narrazione visiva (e di conseguenza testuale) una carica emotiva e una profondità particolari, in linea con i temi trattati.

Il libro nasce dai viaggi realizzati da Spottorno e Abril alle frontiere dell'Unione Europea (in Marocco, Turchia, Lampedusa, Ungheria, Ucraina, Finlandia), lì dove persone provenienti da altri continenti e luoghi fanno il tentativo (o meglio gli infiniti tentativi) di entrare in Europa, trovandosi di fronte a muri fisici e di altro genere ed essendo costretti ad affrontare esperienze estreme, in alcuni casi andando incontro alla morte.

La crepa è quella che si sta creando ai confini dell'Unione Europea e che si allarga sempre di più, mettendo in discussione i valori stessi su cui essa è stata fondata. Il racconto di Spottorno e Abril è di grande impatto e fascino perché i due ci trasmettono un racconto dal vivo e per immagini di cosa accade in questi luoghi e riportano anche i pensieri e i punti di vista dei protagonisti, non solo i migranti, ma anche gli operatori delle ONG, nonché le forze militari e i rappresentanti delle istituzioni su questi territori. È dall'incrocio tra questi punti di vista che emergono riflessioni, interpretazioni ed elementi conoscitivi in certi casi anche originali. In particolare, mi ha colpito il reportage proveniente dal confine terrestre orientale dell'Unione Europea che permette di capire - molto meglio di tantissimi telegiornali - il ruolo e il significato strategico dell'Ucraina, dentro il quale c'è buona parte della spiegazione della guerra in corso da oltre un anno.

Altri confini sono per noi più noti e per certi versi familiari: penso al Mediterraneo e a Lampedusa, ma non è mai la stessa cosa ascoltare la versione massificata di notizie spot da parte dei media e un racconto dal vivo che cerca di collocare gli eventi all'interno di un quadro più complessivo.

Per quanto mi riguarda è stata una lettura appassionante e illuminante, che consiglio a tutti e che potrebbe stare bene anche in occasioni di approfondimento da fare in ambiente scolastico o in altri contesti formativi e informativi.

Voto: 4/5

lunedì 29 maggio 2023

La più selvaggia sete, la più selvaggia fame. Monologo sulla resistenza partigiana / Roberto Mercadini. Libreria Harmonia mundi, 27 aprile 2023

E tre! 

Dopo aver scoperto Mercadini nel monologo sull'Orlando Furioso al Monk, sono ormai alla mia terza volta ai suoi spettacoli, e alla mia seconda volta alla Libreria Harmonia Mundi, dove già avevo ascoltato il monologo su Leonardo e Michelangelo.

Questa volta Mercadini (in prossimità della Festa della Liberazione del 25 aprile) si presenta al pubblico romano con un monologo dedicato alla resistenza partigiana che lui stesso ci dice essere uno dei suoi primi.

Si tratta di un testo - che pur in perfetto "stile mercadiniano" - è un po' diverso dal solito e, non a caso, lo stesso Mercadini cerca di spiegarcelo all'inizio dello spettacolo, dicendoci che quella della resistenza partigiana è una strana storia, in cui gli opposti si mescolano, il tragico vira in comico - e viceversa - in pochi istanti, e i protagonisti sono difficili da far convergere all'interno di una narrazione coerente.

Perché fondamentalmente è di storie di individui che Mercadini ci parla, storie raccolte - come lui stesso ci dice - mediante interviste e letture, e poi riportate a noi con lo stile unico e inimitabile del cantastorie cesenate. In questo caso, poiché molti dei protagonisti provengono dalle sue terre di origine, Mercadini può anche esibirsi nel suo dialetto e nei suoi modi di dire che rendono ancora più divertente e interessante la sua narrazione.

Ne viene fuori un racconto che dà conto della confusione e di alcune forme di ingenuità che hanno caratterizzato quel periodo, ma anche della follia nazi-fascista, delle violenze perpetrate e alfine dell'importanza della resistenza, anche lì dove non sia stata perfettamente consapevole nelle sue motivazioni e obiettivi.

Sempre bravo Mercadini, anche se si capisce bene che questo è un monologo degli inizi, forse un pochino più acerbo di alcuni più recenti, in cui il narratore ha ulteriormente affinato la tecnica.

Voto: 3/5

giovedì 25 maggio 2023

Il dio bambino / di Giorgio Gaber e Sandro Luporini; con Fabio Troiano. Teatro Ambra Jovinelli, 26 aprile 2023

Il dio bambino è un testo teatrale scritto nel 1993 da Giorgio Gaber e Sandro Luporini (il terzo dopo Parlami d'amore Mariù e Il grigio) e ora portato in scena con la regia di Giorgio Gallione e l'interpretazione di Fabio Troiano.

Come spesso mi accade, ho selezionato lo spettacolo sul cartellone agganciata da un solo elemento (in questo caso la presenza di Fabio Troiano, attore che apprezzo molto) e senza sapere quasi null'altro. A dire la verità nemmeno sapevo che Giorgio Gaber, oltre che cantautore, fosse stato anche drammaturgo e avesse perseguito insieme a Luporini una particolare poetica narrativa.

Sono stata per questo tanto più contenta di scoprire ancora una volta qualcosa di non conosciuto per me.

L'opera di Gaber e Luporini ha come protagonista un uomo di mezza età che in un lungo flashback ci racconta il suo incontro e la sua storia d'amore con Cristiana, conosciuta in gioventù, poi soffiata a un amico, fino ad arrivare al matrimonio e ai due figli, e tornare a un presente in parte pacificato, in parte puntellato di dubbi e di domande.

Non c'è niente di straordinario in questo racconto: tutto è molto ordinario, e - proprio per questo - molti, soprattutto rappresentanti del genere maschile, potranno riconoscersi ed empatizzare con questo personaggio che alterna grandi entusiasmi a momenti di disincanto. La sua caratteristica principale sembra quella di essere sempre in bilico tra l'adolescenza e l'età adulta, desideroso di leggerezza e libertà da un lato, ma inevitabilmente chiamato ad assumersi le responsabilità connesse a un lungo rapporto di coppia e all'essere padre. Il nostro antieroe a più riprese sceglie la via della fuga reale o mentale per sottrarsi alle pesantezze dell'esistenza e al cadere delle illusioni.

Sarà il diventare padre inaspettatamente e in modo piuttosto rocambolesco a traghettare (forse?) il protagonista definitivamente verso l'età adulta e a conferirgli la consapevolezza che le cose della vita non sono sempre mutevoli e spesso non corrispondono alle nostre aspettative, e sta dunque alla nostra capacità di adattamento creativo e costruttivo alla realtà la possibilità di cogliere le cose positive che ha da offrirci.

Fabio Troiano è molto bravo nel rendere questo personaggio in fondo banale e al contempo universale, rendendocelo a tratti simpatico, ma anche non nascondendocene le piccolezze e l'immaturità. Sul palco, dei tavoli e delle sedie messe in disordine e oggetti buttati per terra alla rinfusa, come dopo una festa: forse metafora dello stato d'animo del protagonista che pare non rassegnarsi alla fine della giovinezza. Sul fondo del palco viene tirato su in vari momenti un fondale argentato, che spesso segna le fasi più "brillanti" della vita del protagonista, ma che a volte cade per terra fragorosamente riportandolo alla realtà. A più riprese il monologo è interrotto o integrato da spezzoni di canzoni di Giorgio Gaber, con la loro vena mista di malinconia e ironia, esattamente come questo spettacolo.

Voto: 3/5

martedì 23 maggio 2023

Uno spettacolo di fantascienza. Quante ne sanno i trichechi / Liv Ferracchiati. Teatro India, 19 aprile 2023

Era un po' che non vedevo in cartellone uno spettacolo di Liv Ferracchiati (complice sicuramente la pandemia) così sono stata molto contenta di ritrovarlo nella programmazione del Teatro India di quest'anno.

Avevo conosciuto Liv Ferracchiati nel 2019 con la Trilogia dell'identità e ne ero stata conquistata, per questo ho continuato a seguirlo nel suo percorso teatrale fino ad arrivare a quest'ultimo lavoro Uno spettacolo di fantascienza. Quante ne sanno i trichechi, che porta in scena insieme ad Andrea Cosentino e Petra Valentini.

In questo spettacolo ritornano più o meno prepotentemente o sotto traccia i temi cari alla poetica di Ferracchiati: l'identità e le categorie in cui siamo costretti, il discorso generazionale, l'autoironia (il refrain sull'assenza di una voce Wikipedia su sé stesso è davvero esilarante), la crisi del teatro e delle sue forme, ma in questo spettacolo si affaccia anche il tema della crisi climatica e del rischio di estinzione dell'umanità.

I trichechi del titolo sono infatti quelli che rotolano giù da una banchisa di ghiaccio del Polo Nord e che devono essere portati in salvo da una rompighiaccio. Ma questo è solo uno dei filoni "narrativi" (se di narrazione si può parlare negli spettacoli di Ferracchiati), perché l'autore non rinuncia e anzi in un certo senso sviluppa all'ennesima potenza la sua tendenza al metateatrale, il suo racconto-non racconto, la ricerca del nonsense.

Il protagonista di questo spettacolo è lo stesso dell'ultimo lavoro, Commedia con schianto, che non solo non ha trovato una risposta alle sue domande esistenziali e nemmeno alla propria particolare visione del futuro del teatro, ma che probabilmente deve fare i conti con un'incertezza persino maggiore, quella che ha a che fare con la stessa sopravvivenza dell'umanità.

Liv naviga nell'agitato mare di queste incertezze cercando di sopravvivere grazie all'ironia e all'autoironia, combattuto tra il desiderio di fare qualcosa e di combattere le proprie battaglie e quello altrettanto potente di arrendersi alle cose come sono con un certo fatalismo.

Personalmente la interpreto come la battaglia di un passaggio cruciale dell'età, quello tra la giovinezza e l'età adulta, che può durare anche tantissimi anni e può spingersi molto avanti nell'età anagrafica. Anzi dirò di più, forse questo muoversi sul crinale tra idealismo e cinismo è in qualche modo la vera battaglia della vita, quella che ci fa oscillare tra la ricerca di senso e la constatazione che un senso non esiste, se non quello che gli diamo giorno per giorno e che forse vale solo per noi.

Esco divertita e malinconica, come spesso accade dopo gli spettacoli di Liv Ferracchiati, ma anche contenta di aver visto un teatro pieno di gente di tutte le età, e soprattutto tanti giovani, a riconferma del fatto che non è del tutto vero che il teatro non è più cosa per giovani, ma che certo teatro e certa programmazione non attira persone al di sotto di una certa età.

Voto: 3/5

domenica 21 maggio 2023

Il sol dell'avvenire

Dell'ultimo film di Nanni Moretti si è già detto di tutto, cosicché sarebbe sciocco da parte mia pensare di poter dire o aggiungere qualcosa di vagamente originale, tanto più che non sono mai stata una fan di Moretti e non sono un'esperta della sua filmografia, e dunque - pur intuendoli - non ho nemmeno riconosciuto dettagliatamente le citazioni e autocitazioni.

Rispetto dunque al film - anzi al metafilm, in quanto parla di un regista che sta girando un film sul partito comunista italiano nel 1956 mentre succedono una serie di cose nella sua vita privata - non ho moltissimo da dire. A tratti mi ha divertito, facendomi ridere e sorridere, in particolare in occasione dei camei di Renzo Piano, Corrado Augias e Chiara Valerio, e per certi versi mi ha anche commosso per quella senile tendenza (che un po' già mi appartiene, e che forse Moretti ha da sempre) a insistere su alcuni concetti e princìpi, che in parte sono anche sue idiosincrasie.

Quindi mi soffermerò su un aspetto soltanto, che in fondo considero il vero merito del film.

Erano anni che non mi capitava di sentire e leggere tante persone diverse che contemporaneamente parlano dello stesso film, che inevitabilmente sono andate a vedere al cinema, visto che Moretti è contrario alla distribuzione sulle piattaforme di streaming. Probabilmente la mia impressione nasce anche dal fatto di trovarmi all'interno di una specifica bolla: penso infatti che sia soprattutto un certo "popolo di sinistra" (se questa espressione ha ancora un senso) a essere andato a vedere in massa Il sol dell'avvenire al cinema e una parte - invero importante - di esso abbia sentito il desiderio di parlarne sui giornali, sui social, su Internet e tra amici.

Ora, dal mio punto di vista - quello di una persona che, in maniera del tutto amatoriale, scrive di film che guarda quasi esclusivamente al cinema e che ha la sensazione che i film che vede siano stati visti da un numero infinitesimale di persone e spesso non in contemporanea con me (perché altri li vedono molto prima o dopo sulle piattaforme), mentre parti importanti della mia bolla parlano di prodotti che io non so cosa siano - questa sensazione "antica" di condividere (non necessariamente fisicamente, ma almeno virtualmente) una visione con una parte della comunità è davvero molto bella.

Di fronte a una società tribale, con interessi sempre più frammentati - che la rete (anche per fortuna!) ha consentito di condividere con la propria nicchia -, ritrovarsi improvvisamente dentro una comunità più ampia - e certo anche cacofonica - che parla dello stesso oggetto mi è sembrata una sensazione strana, in parte entusiasmante e in parte fastidiosa (forse proprio perché non ci siamo più abituati).

Comunque, Nanni Moretti ha il merito di aver creato questa occasione, e in qualche modo di averci davvero riportato indietro nel tempo. Forse si tratta di uno di quelli entusiasmi un po' retrò prima che tutto cambi definitivamente e completamente, ma tutto sommato godiamocelo, visto che non è detto che ce ne saranno altri ;-)

Voto: 3/5


venerdì 12 maggio 2023

Il caos da cui veniamo / Tiffany McDaniel

Il caos da cui veniamo / Tiffany McDaniel; trad. di Lucia Olivieri. Roma: Edizioni di Atlantide, 2018.

Il caos da cui veniamo è la storia della famiglia Lazarus, in un arco di tempo che va dagli anni Cinquanta ai Settanta circa, raccontata dalla voce di Bitty, la penultima figlia, personaggio ispirato alla madre dell'autrice Tiffany McDaniel. I Lazarus sono il capofamiglia Landon, un nativo americano che per indole e cultura è un gran raccontatore di storie magiche, ma ha vissuto sulla propria pelle tutte le brutture del razzismo, la moglie Alka, una donna traumatizzata e indurita dagli abusi subiti fin da bambina nella famiglia di origine e che riversa la sua affettività devastata sui propri figli, e appunto i loro sei figli, Leland, Fraya, Flossie, Hawthorne, Bitty e Trustin, la cui vita è segnata fin da piccoli da un contesto di disagio sociale e psicologico. Dopo varie peregrinazioni nella provincia americana, i Lazarus finiscono a Breathed, Ohio, il luogo dove è poi ambientato L'estate che sciolse ogni cosa, con cui la McDaniel nelle ultime pagine di questo romanzo crea una vera e propria continuità introducendo il personaggio dell'avvocato Autopsy Bliss.

Il caos da cui veniamo è il racconto di una serie di vite spezzate, danneggiate, traumatizzate, devastate, in cui la catena dell'orrore e della tragedia appare implacabile e sembra non risparmiare nessuno. Nessuno è innocente, nessuno può dirsi estraneo all'orrore che lo circonda anche quando non ne è direttamente responsabile, e al contempo su nessuno cade una condanna totalmente priva di compassione, perché Tiffany McDaniel ci fa sentire i suoi personaggi sempre da una prospettiva interna costringendoci a fare i conti con i loro sentimenti e impedendoci di prendere completamente le distanze o di sentirci totalmente estranei. La cosa però più straordinaria è che questo cumulo di macerie umane che sono i Lazarus e che in fondo è l'intera cittadina di Breathed è attraversata da una poesia e da un lirismo capaci di trasformare le ceneri di questa devastazione in anelito di vita. E questo avviene attraverso il potere salvifico delle storie, quelle che racconta Landon e quelle che Bitty insegue da quando è bambina e che la porteranno lontano dalla sua famiglia e da Breathed.

È come se attraverso il suo romanzo Tiffany McDaniel abbracciasse e ci invitasse ad abbracciare il caos da cui tutti - in misure e forme diverse - veniamo, quel caos di cui siamo vittime e corresponsabili, perché il male che subiamo e l'amore che non riceviamo spesso diventano moneta con cui noi stessi ripaghiamo gli altri. In questo caos siamo però chiamati a riconoscere gli squarci di bellezza che a volte l'attraversano, a comprendere i modi di vivere il dolore, e a salvare gli sforzi di sopravvivenza. Le pagine finali in cui Bitty racconta la morte del padre, e che vengono dopo centinaia di pagine di crudezza a tratti intollerabile sono di una tenerezza disarmante e strabordanti di un affetto che riempie il cuore.

A me i libri di Tiffany McDaniel piacciono molto e in periodi di frustrazione da lettura mi riconciliano con le storie scritte; anche se sono esperienze emotivamente molto impegnative - o forse proprio per questo - mi ricordano quanto la letteratura ci aiuti a comprendere noi stessi e gli altri molto più in profondità di qualunque altro strumento espressivo.

Voto: 4/5

mercoledì 10 maggio 2023

L'appuntamento = The happiest man in the world

"Questo non è un film, è un'esperienza": la frase pronunciata alla fine del film dall'anziana spettatrice seduta dietro di me mi pare riassuma perfettamente la sensazione che si prova durante la visione de L'appuntamento (The happiest man in the world), il nuovo film di Teona Strugar Mitevska, la regista di Scopje che si era imposta all'attenzione con il film Dio è donna e si chiama Petrunya.

Con questo nuovo film la regista macedone va a indagare negli interstizi - nemmeno tanto nascosti - di una ferita ancora aperta nella società balcanica, quella della guerra civile seguita alla morte di Tito e al disgregarsi della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia per effetto delle spinte secessioniste interne. La guerra ha occupato gli interi anni Novanta, ma la Mitevska ci dimostra - a partire da una vicenda in fondo piccola - che le conseguenze della guerra attraversano pericolosamente la società balcanica ancora oggi.

Protagonista de L'appuntamento è Asja (Jelena Kordic), una donna di 45 anni che ha deciso di partecipare a un incontro organizzato da un'associazione che aiuta le persone a trovare un partner; Asja ha persino selezionato preventivamente su Internet il profilo della persona con cui condividerà le attività della giornata, e questa persona è Zoran (Adnan Omerovic), un suo coetaneo.

Ben presto però Asja scoprirà che Zoran è l'uomo che quando lei aveva sedici anni, durante il conflitto, sparò contro la sua casa e la sua famiglia, il responsabile delle ferite di cui ancora porta i segni sul corpo e che l'aveva quasi uccisa. Quando l'amara verità emerge - fondamentalmente per volontà dello stesso Zoran che sembra volersi liberare di questo peso insostenibile che si porta dentro e che gli ha rovinato la vita - la giornata prende una piega completamente diversa dal previsto, innescando prima un gioco a tratti imprevedibile tra vittima e carnefice, poi contagiando anche gli altri partecipanti all'incontro e portando alla luce gli orrori che hanno vissuto e che, sotto la cenere, non hanno ancora perso la loro carica devastante.

Le attività previste nel corso della giornata e finalizzate a far interagire costruttivamente i partecipanti deflagrano dunque rapidamente in un gioco al massacro, in cui ognuno sembra avere le proprie ottime ragioni di rancore, dolore, disperazione, infelicità.

Tutto però - compresa la telecamera della regista - ruota intorno al rapporto tra Asja e Zoran, impegnati in un confronto molto più sfaccettato e meno lineare di quello che si potrebbe immaginare. È indubbio che Asja è la vittima, in quanto è colei che è stata ferita, mentre Zoran è il carnefice che imbracciava il fucile, ma in una guerra - sempre insensata per sua stessa definizione e tanto più nel caso in cui sia civile e metta contro persone che prima vivevano fianco e fianco - questa distinzione è davvero così semplice come possiamo pensare? E quanto ci vuole perché la rabbia della vittima la trasformi a sua volta in carnefice, perpetuando all'infinito un conflitto nel quale alla fine si esce tutti sconfitti?

La Mitevska ci propone una realtà che è molto più complessa da interpretare di quanto pensiamo: è vero che Asja porta i segni della guerra sul suo corpo, ma in fondo parla di una vita a suo modo soddisfacente, di un lavoro, di viaggi e di famiglia, mentre Zoran i segni della guerra li porta nella sua mente, perché non è riuscito a fare pace con il suo passato da militare e la sua vita è un fallimento, punteggiato di tentativi di suicidio. E non direi che la Mitevska con questo suggerisca la 'banale' strada di un perdono praticamente impossibile e che probabilmente non cambierebbe il corso degli eventi, bensì una specie di accettazione rassegnata di quello che è stato e la volontà precisa di voltare quella pagina. Non a caso Asja troverà un momento catartico solo nello scatenato ballo in mezzo a una festa di giovani, ritrovando per un attimo la leggerezza perduta troppo presto, ma anche amalgamandosi a una folla che quel passato doloroso non l'ha vissuto e che ne è psicologicamente estranea.

Da un punto di vista cinematografico, la regista porta all'estremo la tendenza già sperimentata con il film precedente di stare addosso ai personaggi e ai loro movimenti, in buona parte con una telecamera a mano, a volte di girargli attorno ossessivamente, il che amplifica la sensazione di destabilizzazione e di nausea che fluisce attraverso la narrazione. Del resto, fin dalla prima inquadratura del film, la Mitevska crea un senso di insicurezza e di angoscia, mostrandoci con un'inquadratura verticale (simile a quella ripresa con un cellulare) un uomo - lo stesso Zoran - che si affaccia da un palazzo, non sappiamo bene perché (forse per suicidarsi o solo per osservare?); subito dopo, l'inquadratura si allarga tornando orizzontale e vediamo, al di sotto del palazzo da cui è affacciato l'uomo, un'area di cantiere dove è in corso l'abbattimento di vecchie case e attraverso la quale sta passando Asja per andare al suo appuntamento.

Aveva ragione la signora dietro di me: il film di Teona Strugar Mitevska è una vera e propria esperienza.

Voto: 3,5/5


lunedì 8 maggio 2023

Fink (+ An early bird). Monk, 17 aprile 2023

È la terza volta che vado ad ascoltare dal vivo Fink, un musicista che non seguo assiduamente ma che ogni volta che mi capita di ascoltare apprezzo molto. In questo caso la scelta di suonare al Monk mi ha fatto acquistare il biglietto senza remore e già da qualche settimana avevo iniziato ad ascoltare la sua raccolta IIUII (It Isn't Until It Is), che è una raccolta dei suoi brani del periodo 2006-2016 e che Fink sta portando in giro per l'Europa con un tour di oltre 50 date, il Solo Acoustic Tour.

La nota di colore consiste nel fatto che dovevo andare a vedere il concerto da sola, ma lunedì è ospite da me la mia amica V., la quale però non ha preso il biglietto e quando si decide a comprarlo sembrerebbe che il concerto è soldout. Alla fine viene comunque con me al Monk a bere una birra prima del concerto e in modo più o meno rocambolesco riesce ad entrare, godendosi anche lei questa magnifica ora e mezza di musica.

An early bird, aka Stefano De Stefano
L'opening del concerto è affidato al cantante napoletano Stefano De Stefano, nome d'arte An early bird, che ci propone un piccolo assaggio del suo repertorio classicamente indie folk, che ci propone con l'accompagnamento di chitarra e armonica da bocca. Gradevole, ma per me senza entusiasmi.

Il concerto di Fink (al secondo Fin Greenall) inizia puntualmente intorno alle 22. Sul palco c'è già tutta la strumentazione, in particolare tre chitarre - che Fink alternerà nel corso della serata, riservando qualche parola in più alla più vecchia (di cui ci dice che ha un suono vintage, che probabilmente questo sarà il suo ultimo tour, e che magari la rivende su ebay :-D ) - un paio di chitarre elettriche, un basso e due violini che saranno suonati da Tomer Moked che lo accompagna in questo tour.

L'atmosfera si scalda fin dall'esecuzione della prima canzone (che se non ricordo male è stata Sort of Revolution), che ci restituisce un cantante e musicista in grandissima forma e che ne ha fatta di strada dai tempi del suo esordio come DJ. La cosa che colpisce di più è come in questa formazione tutto sommato minimale e suonando un paio di strumenti alla volta il suono che ne esce è denso, ricco, avvolgente come se sul palco ci fosse molto di più e molto altro.

Fink è britannico (viene da Brighton), ma le sue sonorità si muovono spesso nei territori del folk e del blues (nella recensione a uno dei precedenti concerti dicevo che mi sembrava che alcune sue canzoni venissero dai campi di cotone dell'America profonda). La mia amica V. - che sicuramente ne capisce di musica molto più di me, che invece vado solo a sensazione di pelle - sottolinea il groove della musica di Fink, che io non so neanche bene cosa sia ma l'idea stessa mi piace molto.

Quello che sicuramente so è che le canzoni di Fink possono avere durate variabili a seconda dell'esecuzione, e che si sviluppano per ripetizioni e improvvisazioni, producendo un effetto che già in altra circostanza ho definito ipnotico (e forse questo un po' rimanda al passato da dj del musicista).

Comunque, in questa ora e mezza di grande musica, Fink ci delizia con tanti dei suoi pezzi più famosi, da Looking too closely a Walkin' in the sun, da This is the thing a Warm shadow. Il pubblico è rapito dalla sua musica, e lo stesso Fink ringrazia dell'attenzione e della concentrazione che gli è stata riservata, complimentandosi anche con la qualità del suono.

Il Monk si conferma una delle piazze musicali romane più interessanti nella forma e nei contenuti, e sono ben contenta che riesca ancora ad attirare in questa città - per molti versi ormai fuori da alcuni circuiti di musica dal vivo (che si fermano solo a Milano) - musicisti e cantanti come appunto Fink.

Per altre foto del concerto vedi il mio progetto su Behance.  

Voto: 4/5

domenica 7 maggio 2023

Le cinque rose di Jennifer / di Annibale Ruccello, regia di Gabriele Russo, con Daniele Russo. Teatro Vascello, 15 aprile 2023

Dopo aver scoperto, ormai ben cinque anni fa, la drammaturgia di Annibale Ruccello con Ferdinando, io e F. abbiamo costantemente inseguito la rappresentazione delle sue opere nei teatri romani.

L’autore napoletano, scomparso tragicamente in un incidente stradale nel 1986 a soli 30 anni, era uno dei principali rappresentanti del nuovo teatro napoletano, e nella sua vita sfortunatamente breve era riuscito già a imporsi all’attenzione del pubblico e della critica con un piccolo (ma significativo se si considera la sua età) numero di opere. Il tempo ne ha consacrato la grandezza e ha confermato la straordinaria modernità dei suoi testi.

Per quanto mi riguarda la scoperta del teatro di Ruccello è stata l’innesco di una serie di importanti scoperte e passioni: è inseguendo Ruccello nello spettacolo Notturno di donna con ospiti che ho conosciuto il grande Arturo Cirillo, è andando a vedere gli spettacoli con Cirillo che ho conosciuto la drammaturgia di un altro esponente del teatro napoletano degli anni Ottanta, Giuseppe Patroni Griffi, ed è sempre per il tramite di Ruccello che ci siamo avvicinate anche a Enzo Moscato e, sebbene non del tutto consapevolmente, ad alcune opere di Manlio Santanelli.

Fin dalla prima conoscenza con il teatro di Ruccello ho iniziato a sentir parlare de Le cinque rose di Jennifer, la sua prima opera rappresentata, e ho desiderato poterla vedere a teatro. Finalmente quest’anno il Teatro Vascello mi offre questa mette in cartellone quest’opera, anzi fa ancora di più, offrendomi la possibilità di partecipare alla presentazione dell’edizione critica del testo, a cura di Vincenzo Caputo, presente insieme a Pasquale Sabbatino (direttore della collana), Carlo De Nonno (compositore ed erede di Ruccello), Daniele Russo e Sergio Del Prete (interpreti dello spettacolo).

Daniele Russo è interprete napoletano che già conoscevo per averlo visto protagonista di un paio di spettacoli teatrali per la regia di Alessandro Gassman, ma qui è diretto da suo fratello Gabriele Russo, insieme al quale e alla sorella Roberta dirige il teatro Bellini di Napoli.

A livello narrativo Le cinque rose di Jennifer mi ha richiamato alla mente sia Scende giù per Toledo, di Patroni Griffi, sia Scannasurice, di Enzo Moscato, tutti aventi come protagonista un travestito dei bassi napoletani, a conferma della comunanza di orizzonti che caratterizza questi autori.

Nell’opera di Ruccello la protagonista è Jennifer, che è in casa in attesa della telefonata di Franco, l’uomo del quale si è innamorata. Mentre al telefono di Jennifer arrivano molteplici telefonate, spesso destinate ad altre persone a causa di un guasto alla linea, alla radio si alternano le telefonate delle ascoltatrici, le canzoni di Mina, Patti Pravo, Milva, Romina Power, e le notizie che riguardano un serial killer che uccide travestiti nel quartiere.

Come la Rosalinda Sprint di Patroni Griffi, Jennifer è un personaggio che oscilla tra l’esilarante e il dolente fino ad arrivare al tragico, e che dietro la sfrontatezza e la capacità di sdrammatizzare, amplificata dalla sua napoletanità, nasconde una profonda solitudine, un desiderio di affetto e di considerazione continuamente frustrato, una vera e propria angoscia esistenziale che sarà portata all’esasperazione prima dal dialogo con la vicina di casa e poi dalla temporanea mancanza di corrente e di linea telefonica.

Sulla scena, Daniele Russo è una Jennifer dalla fisicità straordinaria, il cui volto è una maschera napoletana che si fa sempre più grottesca, e dimostra un’eccezionale capacità empatica, realizzando così appieno le potenzialità del testo di Ruccello di produrre nello spettatore una forte immedesimazione. La presenza nell’ombra di Sergio Del Prete, a impersonare una specie di alter ego, coscienza alterata o essenza sentimentale di Jennifer, contribuisce a potenziare il gradiente emotivo dello spettacolo e il senso di claustrofobia che lo caratterizza e che è reso evidente da una scenografia in cui la stanza di Jennifer è un cerchio con un confine definito, fuori della quale si muove soltanto la sua coscienza riflessa impersonata da Del Prete, ovvero la versione “onirica” o la personificazione dei pensieri della stessa Jennifer.

Negli ultimi tempi mi capita spesso al teatro di avere momenti di calo dell’attenzione, se non di vero e proprio abbiocco, tanto che comincio a pensare che sia colpa della vecchiaia, ma questo spettacolo mi tiene desta dal primo all’ultimo minuto, trascinandomi in stati emotivi diversi e contrapposti, cui mi abbandono con fiducia ed entusiasmo.

E così non posso che sottoscrivere quanto aveva detto nella presentazione il curatore dell’edizione critica, Vincenzo Caputo, ossia che a distanza di oltre 40 anni, e nonostante gli elementi scenici datati (la radio, il telefono a disco), il testo di Ruccello mantiene intatta la sua potenza e conferma la sua inscalfita modernità, data anche da una costruzione della drammaturgia in chiave fortemente cinematografica, in cui sono colpita – tra le altre cose - dall’uso diegetico ed extradiegetico della musica.

Voto: 4/5

giovedì 4 maggio 2023

Lazarus / di David Bowie e Enda Walsh. Teatro Argentina, 13 aprile 2023

Vado a vedere questo spettacolo con un gruppo di colleghe per festeggiare il compleanno di C., grande fan di David Bowie, e che per l'occasione mi aveva prestato qualche settimana prima il dvd de L'uomo che cadde sulla terra, film con David Bowie tratto dal romanzo di Walter Tevis, di cui Lazarus rappresenterebbe il seguito narrativo (ma questo lo capisco solo quando vedo lo spettacolo).

Allora, innanzitutto sgombriamo il campo da possibili fraintendimenti: io di David Bowie non so praticamente nulla e della sua musica conosco solo i pezzi più famosi, che sono poi anche quelli che riconosco durante lo spettacolo, Heroes, Absolute beginners, Life on Mars.

Quindi, fare la recensione di Lazarus è per me un'impresa praticamente impossibile, a cui non mi sottraggo solo per dovere di cronaca, e infatti solo cronaca farò.

Innanzitutto Lazarus è l'opera rock realizzata dallo stesso David Bowie con la collaborazione del drammaturgo irlandese Enda Walsh di cui il regista Valter Malosti ha voluto fortemente mettere in scena la versione italiana, avvalendosi di un cast di primo piano in cui spiccano la presenza di Manuel Agnelli (nel ruolo del protagonista) e di Casadilego (la giovane cantante italiana che nel film fa il ruolo della "ragazza" e che regala alcune splendide performance vocali, prima tra tutte quella di Life on Mars).

L'allestimento è sontuoso: al centro della scena una pedana rotante, che è il piccolo mondo chiuso nel quale vive Newton e nel quale entrano gli altri protagonisti nei diversi momenti del racconto, sul fondo del palco un enorme schermo - a sua volta circondato da altri schermi più piccoli che moltiplicano e distorcono le immagini che vediamo nel grande - su cui vengono proiettate sottotrame e storie parallele, nonché video a commento di quello che accade in scena; ai lati del palco delle pedane rialzate dove trovano posto i musicisti.

Molto in sintesi Lazarus racconta dell'alieno Newton che - ormai rimasto intrappolato sulla terra - vive una vita di solitudine e disperazione, aggrappato ma anche devastato dal ricordo del suo amore Mary-Lou, mentre intorno gli si muovono altre figure reali e immaginate, tra cui in particolare la governante innamorata di lui senza speranza, il killer Valentine, e appunto la Ragazza.

Che dire dal mio punto di vista? Ho apprezzato molto la musica dal vivo e le esecuzioni (alcune in particolare mi sono sembrate davvero splendide), meno invece la costruzione narrativa complessiva, essendomi rimasta la sensazione di una serie di canzoni tenute insieme da una struttura narrativa molto esile. D'altra parte credo che questa sia una caratteristica tipica del genere "opera rock" più che un limite in sé di questo lavoro, e probabilmente sono io ad avere qualche remora nei confronti di questo tipo di proposta.

Altro non posso e non voglio dire, dal momento che - come già anticipato - non sono sicuramente la persona più titolata a parlare.

Alla fine per me è stata comunque una bella esperienza e una gradevolissima serata.

Voto: 3,5/5

martedì 2 maggio 2023

Antonio Ligabue. Conversano, Castello Aragonese, 10 aprile 2023

Durante i giorni di una Pasqua pugliese che meteorologicamente fa pensare più all’inverno che alla primavera nella quale ci troviamo, io e mia sorella decidiamo di andare a vedere la mostra in corso al Castello Aragonese di Conversano (e che durerà fino all’inizio di ottobre di quest’anno) dedicata ad Antonio Ligabue.

Sul pittore e scultore di origine bellunese, ma nato in Svizzera e vissuto dalla tarda adolescenza in poi nella bassa reggiana, avevo visto qualche anno fa il film di Giorgio Diritti, Volevo solo nascondermi, magistralmente interpretato da Elio Germano.

Di Antonio Ligabue (che aveva cambiato il cognome del patrigno Laccabue per l'odio che nutriva verso di lui) sapevo dunque già parecchie cose, ma proprio per questo mi ha fatto particolarmente piacere vedere dal vivo una sessantina delle sue opere, tra cui anche qualche scultura.

La mostra allestita a Conversano permette di approfondire parallelamente - anche grazie all'audioguida - il percorso personale e artistico di Ligabue durante tutta la sua evoluzione. Seguiamo così la sua carriera artistica dagli esordi al riconoscimento pubblico e contemporaneamente ne approfondiamo i momenti della vita, i difficili rapporti con la famiglia e in generale con il mondo circostante, il disagio psichico, i ricoveri negli ospedali psichiatrici, la nostalgia per la Svizzera, la passione per le moto Guzzi, le stranezze e la genialità.

Attraverso le opere esposte abbiamo la possibilità di conoscere i filoni tematici che gli furono più cari, in particolare gli animali (sia quelli di fattoria che quelli esotici, spesso ritratti in scene di lotta, le cui espressioni Ligabue spesso riproduceva col suo volto per trarne ispirazione), la vita rurale, i paesaggi (soprattutto quelli dell'amata Svizzera), gli autoritratti (soprattutto a mezzo busto, ma anche a figura intera).

Col passare del tempo la sua pittura si fece non solo tecnicamente sempre più matura, ma soprattutto più dinamica ed espressionista, e i colori sempre più accesi e pastosi.

Nelle sale della mostra anche qualche scultura, che riflette lo stesso approccio carnale e quasi viscerale proprio della sua pittura (l'artista masticava la materia - la creta del Po - con cui realizzava le sculture) e ne ripete soggetti e pose.

L'arte come spazio di espressione dei propri turbamenti e momento di allentamento delle tensioni della propria psiche disturbata è un leitmotiv che - come si sa - accomuna diversi artisti. Personalmente aver visto una dopo l'altra, a distanza di poco tempo, la mostra di Van Gogh a Roma e quella di Ligabue mi ha fatto percepire alcuni elementi che accomunano trasversalmente i due artisti, sia sul piano della vicenda personale - i problemi psichici e la condizione di solitudine - sia sul piano tecnico - l'amore per i colori e la pastosità degli stessi.

Certamente i soggetti rappresentati sono molto diversi, così come la varietà e la complessità dei temi e delle forme espressive. Soprattutto, Ligabue - pur in una vita non certo fortunata - ebbe però la "fortuna" di ottenere un riconoscimento della sua arte e non ebbe mai dubbi sul valore della sua opera, mentre invece Van Gogh morì senza praticamente aver mai venduto i suoi quadri e ottenuto un riscontro esterno della sua grandezza, il che è ovviamente paradossale se si pensa a quanto le sue opere sono oggi onnipresenti nelle forme più diverse, in un revival che non è eccessivo definire pop.

Voto: 4/5