La cavalcata dei morti / Fred Vargas; trad. di Margherita Botto. Torino: Einaudi, 2011.
Bentornata, Fred!
Viene proprio voglia di esclamare così durante tutta la lettura de La cavalcata dei morti. Sì, perché devo ammettere che l'ultimo romanzo della Vargas pubblicato da Einaudi, Prima di morire addio, ambientato in Vaticano ed estraneo al mondo di Adamsberg e compagni, l'ho abbandonato dopo una cinquantina di pagine, trovandolo illeggibile e quasi insignificante.
La gioia nel ritrovare la Vargas che amo ai suoi massimi livelli (che per me sono quelli di Parti in fretta e non tornare e Sotto i venti di Nettuno) è stata grande!
La cavalcata dei morti ci offre, infatti, al meglio i due prodotti più tipici della scrittrice francese: un giallo (anzi in questo caso più di uno) ben congegnato, che affonda le radici negli studi sul Medioevo dell'autrice, ma attinge anche alla migliore tradizione giallistica ricordando a tratti certi racconti di Agatha Christie, e l'affresco umano, che qui acquista una dimensione addirittura corale.
Perché non c'è solo Adamsberg con i suoi ragionamenti sconclusionati e le sue connessioni apparentemente senza senso, non c'è solo Danglard con il suo sapere sterminato, la sua dipendenza dall'alcol e il suo attaccamento quasi morboso al commissario.
Ci sono anche tutti i componenti della squadra di Adamsberg che abbiamo imparato a conoscere ed amare in questi anni: Veyrenc con le sue ciocche rosse e i suoi versi improvvisati, il gigante buono Violette Retancourt, e poi Mercadet, Noel, Froissy...
In questo libro facciamo poi la conoscenza di Armel, detto Zerk, il figlio ventottenne che Adamsberg non pensava di avere, e ritroviamo Lucio, lo spagnolo vicino di casa, nonché l'osteopata miracoloso rinchiuso nel carcere di Fleury. E poi ci sono i personaggi di Ordebec, dove si svolge la storia: Lina, Antonin, Martin, Hyppo, Lèone, il conte e tanti altri.
Tutti così caratterizzati, osservati con una tale cura dei particolari, da apparirci vividi come se li avessimo incontrati di persona.
Manca solo Camille, nominata una volta e di sfuggita da Danglard, ormai ricordo doloroso e al contempo evanescente nella mente di Adamsberg.
La storia prende spunto dalla leggenda medievale della Schiera furiosa, un esercito di soldati semi-morti che percorre da secoli gli stessi sentieri del Nord Europa, mostrandosi solo ai prescelti e annunciando la morte di gente che ha nel suo passato azioni malvagie rimaste impunite.
Ma come sempre accade nei romanzi di Adamsberg, leggenda e superstizione sono lo strumento che gli uomini utilizzano per coprire le loro atrocità.
Bello aspettare ogni istante libero per immergersi nella storia, bella anche quella specie di nostalgia che ci coglie quando - letta l'ultima riga - sappiamo di stare di nuovo abbandonando il mondo di Adamsberg.
La sensazione che quel mondo in nostra assenza vada avanti comunque, dotato di una vita indipendente, e che a noi lettori venga offerto di tanto in tanto l'opportunità di osservarlo da una finestra, ma solo per il tempo della lettura di un romanzo, resta forte. E in qualche modo ci rassicura.
Perché sappiamo che prima o poi i nostri cammini si incroceranno di nuovo.
Voto: 4,5/5
martedì 30 agosto 2011
mercoledì 10 agosto 2011
Settanta acrilico trenta lana / Viola Di Grado
Settanta acrilico trenta lana / Viola Di Grado. Torino : E/O, 2011.
Con questo libro dichiaro terminata per questa estate la lettura di storie deprimenti!
Perché non si può certo dire che la lettura di Settanta acrilico trenta lana metta di buonumore o lasci margini ad una visione ottimistica della vita e della realtà (sebbene riconosca il ciclo di morte e rinascita).
Camelia vive a Leeds, posto che viene descritto come il concentrato dello squallore e della tristezza del mondo con i suoi lunghi inverni e le sue periferie grigie e degradate.
Qui condivide l'appartamento con la madre, chiusa nel mutismo più assoluto e nell'abbandono di sé dal momento della morte del padre, caduto in una voragine apertasi nella strada mentre era in macchina con la sua amante.
Camelia sfregia qualunque forma di bellezza la circondi (recide i petali dei fiori, taglia e rimaneggia vestiti trovati nei cassonetti) e traduce manuali per lavatrici dall'inglese all'italiano.
Un'unica passione si accenderà nella sua esistenza, quella per la lingua cinese con le sue chiavi e per Wen, il ragazzo che gliela insegna. Ma questo squarcio di speranza è destinato dolorosamente a richiudersi.
L'accostamento della giovanissima Viola Di Grado, vincitrice del Premio Campiello Opera Prima, ad Amélie Nothomb è azzeccato nella misura in cui ritroviamo nel suo libro uno sguardo cinico sul mondo e sui sentimenti, una vena dissacratoria che trova espressione soprattutto nella lingua della scrittrice, che - per qualche strana assonanza - mi ha ricordato lo stile di Chuck Palahniuk.
Non credo ci sia dubbio sul fatto che il linguaggio abbia un ruolo importante nella narrativa della Di Grado, visto che costituisce sia l'aspetto più originale del romanzo sia il tema intorno al quale ruota la storia.
Il risultato è rilevante se si considera che si tratta dell'esordio letterario di una ventitreenne, e questo spiega almeno in parte le recensioni entusiastiche che sono piovute da quasi tutta la stampa specializzata, sebbene l'opinione dei lettori parrebbe meno uniformemente positiva.
Personalmente, ne riconosco potenza narrativa e originalità (soprattutto rispetto al panorama italiano); al contempo, mi è parso eccessivo e alla fine in parte noioso nella ripetizione degli stilemi linguistici, delle metafore ardite e delle situazioni narrative. Capisco che l'eccesso è una precisa scelta della scrittrice che sembra voler sfuggire a tutti i costi alla banalità, ma mantenersi in bilico su quel filo sottile senza scadere nella vuota controfigura di se stessi è molto difficile.
Stiamo a vedere se Viola Di Grado ci riesce.
Voto: 3,5/5
Con questo libro dichiaro terminata per questa estate la lettura di storie deprimenti!
Perché non si può certo dire che la lettura di Settanta acrilico trenta lana metta di buonumore o lasci margini ad una visione ottimistica della vita e della realtà (sebbene riconosca il ciclo di morte e rinascita).
Camelia vive a Leeds, posto che viene descritto come il concentrato dello squallore e della tristezza del mondo con i suoi lunghi inverni e le sue periferie grigie e degradate.
Qui condivide l'appartamento con la madre, chiusa nel mutismo più assoluto e nell'abbandono di sé dal momento della morte del padre, caduto in una voragine apertasi nella strada mentre era in macchina con la sua amante.
Camelia sfregia qualunque forma di bellezza la circondi (recide i petali dei fiori, taglia e rimaneggia vestiti trovati nei cassonetti) e traduce manuali per lavatrici dall'inglese all'italiano.
Un'unica passione si accenderà nella sua esistenza, quella per la lingua cinese con le sue chiavi e per Wen, il ragazzo che gliela insegna. Ma questo squarcio di speranza è destinato dolorosamente a richiudersi.
L'accostamento della giovanissima Viola Di Grado, vincitrice del Premio Campiello Opera Prima, ad Amélie Nothomb è azzeccato nella misura in cui ritroviamo nel suo libro uno sguardo cinico sul mondo e sui sentimenti, una vena dissacratoria che trova espressione soprattutto nella lingua della scrittrice, che - per qualche strana assonanza - mi ha ricordato lo stile di Chuck Palahniuk.
Non credo ci sia dubbio sul fatto che il linguaggio abbia un ruolo importante nella narrativa della Di Grado, visto che costituisce sia l'aspetto più originale del romanzo sia il tema intorno al quale ruota la storia.
Il risultato è rilevante se si considera che si tratta dell'esordio letterario di una ventitreenne, e questo spiega almeno in parte le recensioni entusiastiche che sono piovute da quasi tutta la stampa specializzata, sebbene l'opinione dei lettori parrebbe meno uniformemente positiva.
Personalmente, ne riconosco potenza narrativa e originalità (soprattutto rispetto al panorama italiano); al contempo, mi è parso eccessivo e alla fine in parte noioso nella ripetizione degli stilemi linguistici, delle metafore ardite e delle situazioni narrative. Capisco che l'eccesso è una precisa scelta della scrittrice che sembra voler sfuggire a tutti i costi alla banalità, ma mantenersi in bilico su quel filo sottile senza scadere nella vuota controfigura di se stessi è molto difficile.
Stiamo a vedere se Viola Di Grado ci riesce.
Voto: 3,5/5
martedì 9 agosto 2011
Il giorno in cui non ci incontrammo / Niklas Asker
Il giorno in cui non ci incontrammo / Niklas Asker. Roma: Elliot Edizioni, 2010.
Devo confessare di aver riletto e riguardato questa graphic novel un paio di volte, perché a una prima lettura non avevo capito molto della storia, confondevo i personaggi, i nomi e i volti. Insomma, mi ha fatto l'effetto "film giapponese", in cui non riconosco gli attori, sovrappongo i personaggi e quindi alla fine non riesco a seguire il plot narrativo.
A questo punto le ipotesi sono tre:
- la mia capacità di osservazione è inesistente, soprattutto quando è il dettaglio a determinare le differenze (del resto non ero granché con la Settimana enigmistica;
- l'obiettivo dell'autore è proprio quello di sovrapporre i personaggi, i sentimenti, le scelte di vita spiazzando il lettore;
- c'è effettivamente qualche leggerezza narrativa e qualche buco/errore di sceneggiatura che rende il tutto non proprio scorrevole.
O forse la spiegazione è la somma delle tre ipotesi appena fatte.
Il risultato è che mi è stato praticamente impossibile condividere con i personaggi il pathos che il momento in cui nella vita si è chiamati a scegliere, a prendere una direzione piuttosto che un'altra determina (il titolo originale è infatti Second thoughts).
La storia è solo apparentemente semplice. I protagonisti sono Jess, una scrittrice in cerca di ispirazione per un romanzo e in crisi con la sua compagna Chloe, e John (o Andrew???), fotografo freelance innamorato di Sofia ma determinato a lasciarla.
I due si incontrano fugacemente nell'aeroporto di Stansted, mentre Jess aspetta l'aereo da New York su cui ci dovrebbe essere Chloe e John aspetta di imbarcarsi sullo stesso aereo, alla fine cancellato.
In realtà le loro vite si intrecciano e sovrappongono inconsapevolmente molto più di quanto loro stessi non immaginino, per effetto della condivisione di luoghi, situazioni, emozioni e momenti, sebbene prenderanno infine direzioni completamente diverse.
Che dire? Mi è piaciuto molto lo stile di Asker: le tavole con le soggettive di Jess che mette lo smalto ai piedi o si prepara un thè, quelle che ricostruiscono il passato mediante una sequenze di scatti di Polaroid, le tavole che rappresentano gli sguardi quasi sovrapposti dei due protagonisti o la loro condivisione emotiva (ma inconsapevole) degli eventi, le tavole piene di inchiostro nero.
Alla fine però non sono riuscita ad apprezzare completamente l'insieme, perché in una graphic novel mi aspetto che disegni, storia e contenuti emotivi trovino un'armonia che qui ho fatto fatica a riconoscere.
Ciò detto, l'esperimento è interessante e non mi meraviglia che il lavoro di Asker abbia vinto il Kolla illustrations award in patria.
Voto: 3/5
Devo confessare di aver riletto e riguardato questa graphic novel un paio di volte, perché a una prima lettura non avevo capito molto della storia, confondevo i personaggi, i nomi e i volti. Insomma, mi ha fatto l'effetto "film giapponese", in cui non riconosco gli attori, sovrappongo i personaggi e quindi alla fine non riesco a seguire il plot narrativo.
A questo punto le ipotesi sono tre:
- la mia capacità di osservazione è inesistente, soprattutto quando è il dettaglio a determinare le differenze (del resto non ero granché con la Settimana enigmistica;
- l'obiettivo dell'autore è proprio quello di sovrapporre i personaggi, i sentimenti, le scelte di vita spiazzando il lettore;
- c'è effettivamente qualche leggerezza narrativa e qualche buco/errore di sceneggiatura che rende il tutto non proprio scorrevole.
O forse la spiegazione è la somma delle tre ipotesi appena fatte.
Il risultato è che mi è stato praticamente impossibile condividere con i personaggi il pathos che il momento in cui nella vita si è chiamati a scegliere, a prendere una direzione piuttosto che un'altra determina (il titolo originale è infatti Second thoughts).
La storia è solo apparentemente semplice. I protagonisti sono Jess, una scrittrice in cerca di ispirazione per un romanzo e in crisi con la sua compagna Chloe, e John (o Andrew???), fotografo freelance innamorato di Sofia ma determinato a lasciarla.
I due si incontrano fugacemente nell'aeroporto di Stansted, mentre Jess aspetta l'aereo da New York su cui ci dovrebbe essere Chloe e John aspetta di imbarcarsi sullo stesso aereo, alla fine cancellato.
In realtà le loro vite si intrecciano e sovrappongono inconsapevolmente molto più di quanto loro stessi non immaginino, per effetto della condivisione di luoghi, situazioni, emozioni e momenti, sebbene prenderanno infine direzioni completamente diverse.
Che dire? Mi è piaciuto molto lo stile di Asker: le tavole con le soggettive di Jess che mette lo smalto ai piedi o si prepara un thè, quelle che ricostruiscono il passato mediante una sequenze di scatti di Polaroid, le tavole che rappresentano gli sguardi quasi sovrapposti dei due protagonisti o la loro condivisione emotiva (ma inconsapevole) degli eventi, le tavole piene di inchiostro nero.
Alla fine però non sono riuscita ad apprezzare completamente l'insieme, perché in una graphic novel mi aspetto che disegni, storia e contenuti emotivi trovino un'armonia che qui ho fatto fatica a riconoscere.
Ciò detto, l'esperimento è interessante e non mi meraviglia che il lavoro di Asker abbia vinto il Kolla illustrations award in patria.
Voto: 3/5
giovedì 4 agosto 2011
Energia di digestione / Silvia Colangeli
Energia di digestione / Silvia Colangeli. Ancona: Italic, 2010.
Tutto avviene in 24 ore. O meglio nulla avviene in queste 24 ore.
Pensieri, sensazioni, ricordi, che portano alla luce la storia intera della protagonista: il rapporto con il padre venuto a mancare troppo presto, l’incapacità di comprensione con la madre, una storia finita senza un perché, le amiche e gli amici a cui a volte è difficile spiegare quello che si prova.
Una vita ordinaria, non meglio né peggio di tante altre, se non fosse che la protagonista ha trasferito nel rapporto col cibo la sua volontà di sottrazione, il desiderio di riempire un vuoto facendosi essa stessa assenza.
Non si tratta però di una storia di anoressia in senso stretto.
Piuttosto potremmo dire che si tratta della storia di uno straordinario amore per la vita e per il mondo circostante di cui la protagonista si nutre attraverso gli occhi, di una partecipazione al dolore, alla stranezza, alla tenerezza, alla fatica che alimentano la sua vita e il suo immaginario e che popolano la sua realtà quotidiana e il suo mondo onirico.
La giovane protagonista vive delle briciole di umanità che attraversano le nostre giornate nell’indifferenza collettiva. Forse perché l’istinto di sopravvivenza che ci fa preservare il nostro fragile equilibrio psicologico ci impone un umanissimo egoismo, la necessità di uno sguardo rivolto su noi stessi, una sana disattenzione che ci permette di sopravvivere a quell’eccesso di stimoli emotivi che altrimenti potrebbe sopraffarci.
La nostra protagonista ci appare invece “senza pelle”, come in quelle fasi della vita in cui vogliamo mordere l’esistenza ma non abbiamo ancora le difese immunitarie per farci attraversare da cose, eventi e persone senza restarne mutilati, trasfigurati, debilitati, quando ancora la nostra personalità non ha ancora costruito le sue fondamenta e individuato i propri meccanismi di difesa.
L’energia di digestione viene dal nostro modo di mangiare il mondo che ci circonda. La nostra protagonista raccoglie briciole e morde dettagli, qualcuno inghiotte senza assaporare, qualcun altro mastica fino a triturare.
È molto più difficile imparare a nutrire la propria anima che il proprio corpo. Quest’ultimo si accontenta anche di cibo sbocconcellato o di pasti mandati giù senza gusto.
L’anima ha invece bisogno – per nutrirsi correttamente e crescere - di gustare senza avere fretta, di imparare a distinguere i sapori, di scegliere gli ingredienti migliori e le combinazioni che le sono più congeniali.
Quante anime voracemente infantili ci sono in giro, quante inaridite dal cinismo dell’esistenza, quante obese dall’ingordigia, quante assetate di sentimenti!
L’energia di digestione è quella che ci spinge ogni giorno ad appropriarci della vita nella misura in cui ci permette di riconoscere noi stessi.
Voto: 3/5
Tutto avviene in 24 ore. O meglio nulla avviene in queste 24 ore.
Pensieri, sensazioni, ricordi, che portano alla luce la storia intera della protagonista: il rapporto con il padre venuto a mancare troppo presto, l’incapacità di comprensione con la madre, una storia finita senza un perché, le amiche e gli amici a cui a volte è difficile spiegare quello che si prova.
Una vita ordinaria, non meglio né peggio di tante altre, se non fosse che la protagonista ha trasferito nel rapporto col cibo la sua volontà di sottrazione, il desiderio di riempire un vuoto facendosi essa stessa assenza.
Non si tratta però di una storia di anoressia in senso stretto.
Piuttosto potremmo dire che si tratta della storia di uno straordinario amore per la vita e per il mondo circostante di cui la protagonista si nutre attraverso gli occhi, di una partecipazione al dolore, alla stranezza, alla tenerezza, alla fatica che alimentano la sua vita e il suo immaginario e che popolano la sua realtà quotidiana e il suo mondo onirico.
La giovane protagonista vive delle briciole di umanità che attraversano le nostre giornate nell’indifferenza collettiva. Forse perché l’istinto di sopravvivenza che ci fa preservare il nostro fragile equilibrio psicologico ci impone un umanissimo egoismo, la necessità di uno sguardo rivolto su noi stessi, una sana disattenzione che ci permette di sopravvivere a quell’eccesso di stimoli emotivi che altrimenti potrebbe sopraffarci.
La nostra protagonista ci appare invece “senza pelle”, come in quelle fasi della vita in cui vogliamo mordere l’esistenza ma non abbiamo ancora le difese immunitarie per farci attraversare da cose, eventi e persone senza restarne mutilati, trasfigurati, debilitati, quando ancora la nostra personalità non ha ancora costruito le sue fondamenta e individuato i propri meccanismi di difesa.
L’energia di digestione viene dal nostro modo di mangiare il mondo che ci circonda. La nostra protagonista raccoglie briciole e morde dettagli, qualcuno inghiotte senza assaporare, qualcun altro mastica fino a triturare.
È molto più difficile imparare a nutrire la propria anima che il proprio corpo. Quest’ultimo si accontenta anche di cibo sbocconcellato o di pasti mandati giù senza gusto.
L’anima ha invece bisogno – per nutrirsi correttamente e crescere - di gustare senza avere fretta, di imparare a distinguere i sapori, di scegliere gli ingredienti migliori e le combinazioni che le sono più congeniali.
Quante anime voracemente infantili ci sono in giro, quante inaridite dal cinismo dell’esistenza, quante obese dall’ingordigia, quante assetate di sentimenti!
L’energia di digestione è quella che ci spinge ogni giorno ad appropriarci della vita nella misura in cui ci permette di riconoscere noi stessi.
Voto: 3/5
martedì 2 agosto 2011
Il gusto del cloro / Bastien Vivès
Il gusto del cloro / Bastien Vivès. Firenze: Black Velvet, 2009.
Leggere non è esattamente il verbo appropriato per questa graphic novel, meno ancora che per qualsiasi altra pubblicazione di questo genere. Forse sarebbe meglio dire “guardare”. O anzi “osservare”. È il dettaglio che fa la differenza e che comunica il senso.
Ho trovato. Il verbo giusto è “immergersi”. Anche perché siamo in una piscina, e il viaggio dalla prima all’ultima pagina di questo volume è un po’ come la lunga apnea del giovane protagonista che – mettendosi alla prova – tenta di arrivare, con un’unica nuotata subacquea, da una parte all’altra della vasca.
Un’apnea che dura poco e – al contempo – sembra non finire mai. Un’apnea che è un rapido scorrere di immagini davanti agli occhi, ma in realtà esige la lentezza necessaria a godersi ogni tavola, ogni riquadro, ogni minima variazione delle espressioni, ogni cambio di angolatura e prospettiva.
Le ambientazioni esterne rispetto alla piscina sono limitatissime, solo le sedute del protagonista presso lo studio del fisioterapista, che è poi anche colui che spinge il giovane a praticare nuoto a scopo terapeutico per la scoliosi.
Tutto avviene nei confini angusti di una vasca, spesso affollata al punto da togliere lo spazio vitale, altre volte vuota a permettere quasi di confrontarsi con l’infinito.
Un’esistenza – quella vissuta in piscina – che si colloca sempre a metà strada tra l’essere fuori dall’acqua ed essere completamente sprofondati nell’innaturale, ma affascinante verde/blu della vasca. E così anche i disegni di Vivès giocano continuamente sulla differenza tra la visione fuori dall’acqua, caratterizzata da confini netti e colori definiti, e quella sotto l’acqua, in cui la realtà appare morbida e sfumata.
Pochissime anche le parole e i dialoghi, quelli banali del protagonista con l’amico che qualche volta va con lui a nuotare e quelli un po’ impacciati con la ragazza conosciuta in piscina.
Le parole forse più importanti dell’intera storia sono quelle che la ragazza pronuncia sotto l’acqua in risposta a una domanda del giovane, e che – per quanti tentativi di decifrazione vogliamo fare – rimarranno per sempre un mistero, inghiottito in quel mondo parallelo e ovattato che si sviluppa sotto la superficie dell’acqua.
Bastien Vivès sceglie inoltre di non dare forma scritta ai pensieri dei protagonisti, cosa che pure rappresenta la più straordinaria opportunità e libertà di un disegnatore di fumetti. Preferisce lasciare al “lettore” il gusto di cogliere le sfumature, di guardare con gli occhi del protagonista, di scoprire i pensieri, le sensazioni, i sentimenti.
Forse è proprio questo il “gusto del cloro”.
Siamo ormai abituati ad associare la cultura delle immagini alla velocità, quella che caratterizza ad esempio i videoclip e molto del cinema contemporaneo.
Vivès ci restituisce il piacere della lentezza delle immagini, ci spinge a soffermarci, a “immergerci” nei pensieri.
Impossibile sfuggire a una vena malinconica cui il fumetto sembra non riuscire a sottrarsi. Ma qui la malinconia ha i toni morbidi degli acquerelli di Vivès.
Voto: 4/5
Leggere non è esattamente il verbo appropriato per questa graphic novel, meno ancora che per qualsiasi altra pubblicazione di questo genere. Forse sarebbe meglio dire “guardare”. O anzi “osservare”. È il dettaglio che fa la differenza e che comunica il senso.
Ho trovato. Il verbo giusto è “immergersi”. Anche perché siamo in una piscina, e il viaggio dalla prima all’ultima pagina di questo volume è un po’ come la lunga apnea del giovane protagonista che – mettendosi alla prova – tenta di arrivare, con un’unica nuotata subacquea, da una parte all’altra della vasca.
Un’apnea che dura poco e – al contempo – sembra non finire mai. Un’apnea che è un rapido scorrere di immagini davanti agli occhi, ma in realtà esige la lentezza necessaria a godersi ogni tavola, ogni riquadro, ogni minima variazione delle espressioni, ogni cambio di angolatura e prospettiva.
Le ambientazioni esterne rispetto alla piscina sono limitatissime, solo le sedute del protagonista presso lo studio del fisioterapista, che è poi anche colui che spinge il giovane a praticare nuoto a scopo terapeutico per la scoliosi.
Tutto avviene nei confini angusti di una vasca, spesso affollata al punto da togliere lo spazio vitale, altre volte vuota a permettere quasi di confrontarsi con l’infinito.
Un’esistenza – quella vissuta in piscina – che si colloca sempre a metà strada tra l’essere fuori dall’acqua ed essere completamente sprofondati nell’innaturale, ma affascinante verde/blu della vasca. E così anche i disegni di Vivès giocano continuamente sulla differenza tra la visione fuori dall’acqua, caratterizzata da confini netti e colori definiti, e quella sotto l’acqua, in cui la realtà appare morbida e sfumata.
Pochissime anche le parole e i dialoghi, quelli banali del protagonista con l’amico che qualche volta va con lui a nuotare e quelli un po’ impacciati con la ragazza conosciuta in piscina.
Le parole forse più importanti dell’intera storia sono quelle che la ragazza pronuncia sotto l’acqua in risposta a una domanda del giovane, e che – per quanti tentativi di decifrazione vogliamo fare – rimarranno per sempre un mistero, inghiottito in quel mondo parallelo e ovattato che si sviluppa sotto la superficie dell’acqua.
Bastien Vivès sceglie inoltre di non dare forma scritta ai pensieri dei protagonisti, cosa che pure rappresenta la più straordinaria opportunità e libertà di un disegnatore di fumetti. Preferisce lasciare al “lettore” il gusto di cogliere le sfumature, di guardare con gli occhi del protagonista, di scoprire i pensieri, le sensazioni, i sentimenti.
Forse è proprio questo il “gusto del cloro”.
Siamo ormai abituati ad associare la cultura delle immagini alla velocità, quella che caratterizza ad esempio i videoclip e molto del cinema contemporaneo.
Vivès ci restituisce il piacere della lentezza delle immagini, ci spinge a soffermarci, a “immergerci” nei pensieri.
Impossibile sfuggire a una vena malinconica cui il fumetto sembra non riuscire a sottrarsi. Ma qui la malinconia ha i toni morbidi degli acquerelli di Vivès.
Voto: 4/5
lunedì 1 agosto 2011
Le voyage d'hiver / Amélie Nothomb
Le voyage d’hiver / Amélie Nothomb. Paris: Albin Michel, 2009.
Durante la mia vacanza francese e – soprattutto – la mia sosta parigina, dopo aver finito il libro che mi ero portata in viaggio dall’Italia, Il bacio della Medusa, ho deciso di assicurarmi un supplemento di lettura acquistando in un’edicola della stazione di Paris Montparnasse questo breve romanzo di Amélie Nothomb, di cui non avevo visto traccia in Italia.
Riesco a leggere agevolmente il volume in francese, forse perdo qualche dettaglio, ma credo niente di essenziale per la comprensione della storia, i cui protagonisti sono Zoile, un elettricista incaricato dalla società parigina per cui lavora di verificare il funzionamento degli impianti di riscaldamento, Alienor, una scrittrice autistica, e Astrolabe, la sua coinquilina e assistente.
Zoile si innamora di Astrolabe, ma è un amore senza speranza perché Astrolabe non può concedergli niente in quanto votata alla sua missione e legata da un rapporto inestricabile ad Alienor.
Deluso nelle sue speranze d’amore, Zoile decide di dirottare un aereo e colpire la Tour Effeil, simbolo non solo della città di Parigi, ma anche dell’amore, in quanto – come apprendiamo dal romanzo - la sua forma di “A” fu scelta dal suo progettista come dedica alla sua donna ed è anche l’iniziale di Astrolabe e di Alienor.
Il tutto in un’atmosfera dominata dal gelo esteriore (siamo in inverno e nell’appartamento delle due donne il riscaldamento non funziona) e da quello interiore, che impedisce ai sentimenti di trovare un canale di espressione che non risulti assurdo o sopra la righe, come nella scena in cui Zoile fa mangiare alle due donne dei funghi allucinogeni per sciogliere le riserve della donna amata.
La lettura della Nothomb è sempre originale e delirantemente coinvolgente. Va detto però che il risultato della sua prolifica scrittura è a volte altalenante e non sempre all’altezza dei suoi capolavori.
In questo caso le rimprovero non tanto la sconclusionatezza della storia (che è abbastanza tipica della sua scrittura), quanto la superficialità complessiva della narrazione che non riesce mai – a mio avviso – a scuotere il lettore e, anche lì dove solleva delle domande, non stimola delle risposte.
Così, a me la storia di Zoile, Astrolabe e Alienor è rimasta attaccata alla pelle giusto il tempo necessario a completare la lettura del libro. Poi è scivolata via, come l’inverno del racconto.
E, come quando inizia la primavera dopo un rigido inverno, non si può fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.
Aspetterò un altro romanzo della Nothomb per ritrovare la sua analisi tagliente dei sentimenti e il cinismo nella rappresentazione delle relazioni umane, che restano qui sotto traccia senza mai davvero riuscire a increspare la superficie della lettura.
Voto: 2,5/5
Durante la mia vacanza francese e – soprattutto – la mia sosta parigina, dopo aver finito il libro che mi ero portata in viaggio dall’Italia, Il bacio della Medusa, ho deciso di assicurarmi un supplemento di lettura acquistando in un’edicola della stazione di Paris Montparnasse questo breve romanzo di Amélie Nothomb, di cui non avevo visto traccia in Italia.
Riesco a leggere agevolmente il volume in francese, forse perdo qualche dettaglio, ma credo niente di essenziale per la comprensione della storia, i cui protagonisti sono Zoile, un elettricista incaricato dalla società parigina per cui lavora di verificare il funzionamento degli impianti di riscaldamento, Alienor, una scrittrice autistica, e Astrolabe, la sua coinquilina e assistente.
Zoile si innamora di Astrolabe, ma è un amore senza speranza perché Astrolabe non può concedergli niente in quanto votata alla sua missione e legata da un rapporto inestricabile ad Alienor.
Deluso nelle sue speranze d’amore, Zoile decide di dirottare un aereo e colpire la Tour Effeil, simbolo non solo della città di Parigi, ma anche dell’amore, in quanto – come apprendiamo dal romanzo - la sua forma di “A” fu scelta dal suo progettista come dedica alla sua donna ed è anche l’iniziale di Astrolabe e di Alienor.
Il tutto in un’atmosfera dominata dal gelo esteriore (siamo in inverno e nell’appartamento delle due donne il riscaldamento non funziona) e da quello interiore, che impedisce ai sentimenti di trovare un canale di espressione che non risulti assurdo o sopra la righe, come nella scena in cui Zoile fa mangiare alle due donne dei funghi allucinogeni per sciogliere le riserve della donna amata.
La lettura della Nothomb è sempre originale e delirantemente coinvolgente. Va detto però che il risultato della sua prolifica scrittura è a volte altalenante e non sempre all’altezza dei suoi capolavori.
In questo caso le rimprovero non tanto la sconclusionatezza della storia (che è abbastanza tipica della sua scrittura), quanto la superficialità complessiva della narrazione che non riesce mai – a mio avviso – a scuotere il lettore e, anche lì dove solleva delle domande, non stimola delle risposte.
Così, a me la storia di Zoile, Astrolabe e Alienor è rimasta attaccata alla pelle giusto il tempo necessario a completare la lettura del libro. Poi è scivolata via, come l’inverno del racconto.
E, come quando inizia la primavera dopo un rigido inverno, non si può fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.
Aspetterò un altro romanzo della Nothomb per ritrovare la sua analisi tagliente dei sentimenti e il cinismo nella rappresentazione delle relazioni umane, che restano qui sotto traccia senza mai davvero riuscire a increspare la superficie della lettura.
Voto: 2,5/5
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