venerdì 29 dicembre 2023

La vita davanti a sé / con Silvio Orlando. Teatro Ambra Jovinelli, 29 novembre 2023

Non ho ancora letto il libro di Romain Gary, che a suo tempo ha vinto in Francia il premio Goncourt, il più importante a livello nazionale. Tra l’altro la storia è molto interessante, perché – avendo Gary già vinto il premio precedentemente con Le radici del cielo - il romanzo uscì nel 1975 sotto il nome dello scrittore Emile Ajar, pseudonimo dello stesso Gary, consentendogli così di concorrere nuovamente, visto che il regolamento del premio prevede che lo stesso scrittore non lo possa vincere due volte. La verità si è scoperta solo dopo la morte di Gary, quando La vita davanti a sé era già diventato un vero e proprio classico, tradotto in tutte le lingue del mondo.

La storia è quella di un ragazzino di dieci anni, Mohamed, detto Momò, che – in quanto figlio di una prostituta – vive, insieme ad altri bambini con la medesima storia, nella casa di Madame Rosa, la quale dopo aver abbandonato la professione si è inventata in questo nuovo ruolo.

Quella di Momo è una storia di coming of age, ma declinata all’interno di un contesto molto particolare, nel quale il bambino è un emarginato alla ricerca costante dell’attenzione e dell’affetto altrui. Si tratta dunque di una storia di acquisizione progressiva di consapevolezza di sé, ma anche di una specie di storia d’amore sui generis.

Silvio Orlando decide di portare questa storia a teatro, accompagnato sul palco solo dal commento musicale dell’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre (Simone Campa a chitarra battente e percussioni, Gianni Denitto a clarinetto e sax, Maurizio Pala fisarmonica, Cheikh Fall e Kaw Sissoko kora e djembe), che crea delle piccole pause nel flusso dei ricordi e delle parole.

Orlando si cala nei panni di questo bambino, e ne racconta la storia in prima persona, introducendo quando necessario anche le voci degli altri personaggi.

La scenografia rappresenta in forma semplificata la grande casa a Belleville, al cui quarto piano si trova l’appartamento di Madame Rosa, ma che ospita molte altre persone che vivono ai margini della città. Sul palco una poltrona e pochi altri elementi a rappresentare sia gli interni che gli esterni nei quali la storia si svolge.

Non posso dire che lo spettacolo non sia ben fatto e che Orlando non abbia fatto un buon lavoro di adattamento di questo testo alla drammaturgia teatrale, e – come sempre – anche le sue capacità interpretative non si discutono.

Devo però ammettere che lo spettacolo non mi ha conquistato. Personalmente di fronte a uno spettacolo di questo tipo non riesco a non pensare che sarebbe stato meglio leggere il romanzo e che tutto sommato la messa in scena non aggiunge niente, anzi forse toglie qualcosa alla scrittura. È chiaro che si tratta di mezzi di espressione differenti, e ognuno ha la sua specificità, e credo sia semplicistico e sicuramente non corrispondente alla realtà dire che a teatro funzionano sempre meglio i testi scritti per il teatro.

Però – che dire? – forse sono io che ho un cuore di pietra in questo momento, ma non sono riuscita a commuovermi, né a empatizzare fino in fondo, e l’interpretazione di Orlando mi ha comunque creato una distanza con il personaggio. Persino i tentativi di mescolare ironia e dramma – sicuramente caratteristica presente anche nel romanzo – per me non hanno perfettamente funzionato nello spettacolo.

Ma sicuramente si tratta di un giudizio soggettivo e parziale, visto che in giro leggo tutte recensioni piuttosto entusiastiche.
Come sempre il consiglio è di andare a vederlo, e farsi personalmente e direttamente una propria opinione.

Voto: 3/5

martedì 26 dicembre 2023

Palazzina Laf

Esordio alla regia di Michele Riondino, attore tarantino, che non a caso sceglie proprio una storia legata alla sua città per spostarsi dietro la macchina da presa.

Siamo a Taranto alla fine degli anni Novanta. Caterino Lamanna (lo stesso Michele Riondino) è un operaio dell’ILVA, che oscilla tra il frustrato e il depresso, e che di fronte alla notizia dell’ultima morte di un operaio nel complesso siderurgico reagisce dando la colpa ai sindacati. Un giorno viene avvicinato da Giancarlo Basile (il come sempre bravissimo Elio Germano), uno dei manager dell’azienda, che gli offre una promozione in cambio di un suo ruolo di informatore rispetto alle attività del sindacato e in generale a quello che accade nella fabbrica. Caterino, che vuole sposarsi con la sua compagna Anna e lasciare la fatiscente casa in campagna dove vive, accetta, e anzi ci prende gusto, tanto che Basile gli dà l’opportunità di trasferirsi alla palazzina Laf.

Questo luogo – che agli occhi degli operai è quello dove ci sono tutti coloro che non lavorano e fanno la bella vita – è in realtà un reparto di confino, dove vengono mandati tutti coloro che non scendono a compromessi o che per un motivo o per l’altro risultano non graditi al management.

Quando si trasferisce alla palazzina Laf, Caterino vive questa possibilità come l’occasione di fare finalmente la vita da nababbo, ma una volta al suo interno si accorgerà dell’orrore che vi alberga. Dipendenti dell’azienda spesso ultraqualificati, oppure con disabilità fisiche, vengono tenuti come in carcere a non fare nulla, e di tanto in tanto gli viene presentata la possibilità di un reimpiego, quasi sempre in lavori che non potrebbero fare per competenze o condizioni fisiche. Ciascuno reagisce a modo suo a questa condizione di mobbing: chi si rinchiude nel silenzio, chi dà calci e pugni al muro, chi gioca a ping pong, chi prende il sole, chi passa tutto il giorno a schiacciare scatole: il livello di frustrazione e follia è dilagante, e si riflette sulla vita personale di questi lavoratori che quasi sempre non rivelano in famiglia la condizione nella quale si trovano, dovendo dunque gestire la frustrazione in totale solitudine affettiva.

La storia emergerà più avanti grazie a un’indagine della Procura della Repubblica, e sui titoli di coda sentiremo le voci di chi nella palazzina Laf ci ha vissuto e non vuole nemmeno ricordare quello che ha passato.

A Riondino interessa riportarla all’attenzione pubblica dal dimenticatoio nella quale è caduta, e in generale riaccendere i riflettori sul tema del lavoro, delle condizioni di lavoro, dei “padroni” e del modo spesso disumano con cui gestiscono aziende e fabbriche, e non a caso il film è dedicato al giornalista tarantino Alessandro Leogrande che – nella sua purtroppo breve vita – ha indagato molto su questi fenomeni.

Al centro c’è la figura di Caterino, chiaramente un ignorante e un traditore, che vende i suoi colleghi di lavoro per una migliore condizione di vita, ma a sua volta una vittima, un poveraccio che è manipolato da coloro che detengono il potere, i quali alimentano una vera e propria lotta tra poveri. Caterino non è un personaggio simpatico, né Riondino fa niente per rendercelo tale, ma non è nemmeno un personaggio monodimensionale, e la sceneggiatura, le musiche (di Teho Teardo, con molti elementi bandistici) e il montaggio teso (di Julien Panzarasa) sono perfettamente funzionali a portare alla luce la complessità di una realtà che evidentemente Riondino conosce molto bene, il rapporto tra l’ILVA e Taranto, un legame a doppio filo che – come tutti i legami “tossici”, in questo caso in senso letterale – non può che lasciare devastazione materiale, morale ed emotiva.

Bravo e coraggioso, Michele Riondino, per aver portato questo tema e la sua città natale al centro dell’attenzione (la canzone finale, La mia terra, è di Diodato, anche lui originario di Taranto, anche se nato ad Aosta e romano di adozione).

Film quello di Riondino non scontato, non univoco, non banale, sicuramente da vedere.

Voto: 3,5/5



sabato 23 dicembre 2023

Ragazza, donna, altro / Bernardine Evaristo

Ragazza, donna, altro / Bernardine Evaristo; trad. di Martina Testa. Roma: Edizioni SUR, 2019.

E niente, ormai mi sono completamente buttata nella lettura di romanzi di scrittrici di origine africana e che hanno come protagonisti persone nere.

Non poteva mancare in questo mio innamoramento per queste voci letterarie Bernardine Evaristo. Il mio approccio con lei non poteva essere più entusiasmante.

Ragazza, donna, altro è un romanzo affascinante, che si legge con trasporto e interesse dalla prima all'ultima pagina.

Ogni capitolo è dedicato a una figura di donna, a cominciare da Amma, drammaturga nera e lesbica, che si appresta a portare in scena il suo ultimo lavoro teatrale al National Theatre che vede protagoniste delle donne nere guerriere.

Nei capitoli successivi facciamo poi la conoscenza con molte altre donne, Yazz, Carole, Bummi, Shirley, Hattie, Morgan, LaTisha, Dominique, Penelope, Grace. Alcune di loro sono imparentate (Yazz è la figlia di Amma, Bummi è la madre di Carole), altre sono collegate da rapporti di amicizia (Dominique è amica di Amma) o di altro genere (Shirley è stata l'insegnante di Carole e di LaTisha). Nell'after party e nell'epilogo finale anche le donne apparentemente non in relazione tra di loro vanno ad occupare un posto ben preciso in questo grande affresco di donne nere di varia provenienza e origine che la Evaristo ci descrive.

I singoli ritratti sono interessanti, divertenti, drammatici, ricchi di umanità, e tutti ci aiutano a comprendere meglio, a evitare i giudizi superficiali, a cogliere i punti di vista, a capire le differenze culturali e generazionali. Tutti mostrano la varietà, la complessità e la vitalità dell'universo femminile nero, in cui man mano che procediamo nella lettura non possiamo non identificarci, che non possiamo non apprezzare e amare visceralmente, anche lì dove si tratti di mondi per noi lontani, che però si rivelano molto più vicini di quello che immaginiamo.

A questo punto gli altri libri della Evaristo sono già nella mia lista dei desideri.

Voto: 4/5

mercoledì 20 dicembre 2023

Il Ministero della solitudine / lacasadargilla. Teatro Argentina, 25 novembre 2023

Torno al volo da Milano il sabato dopo una trasferta lavorativa per andare a vedere questo spettacolo - prenotato da tempo - al teatro Argentina. In realtà il biglietto lo avevo preso a suo tempo perché mi aveva incuriosito sia il titolo che la locandina dello spettacolo e perché un'amica mi aveva parlato di uno spettacolo precedente de lacasadargilla che aveva molto apprezzato. E, come sapete, io sono sempre alla ricerca di cose nuove e interessanti.

Come si legge nella brochure e su internet sul sito de lacasadargilla, nonché altrove, l'idea dello spettacolo nasce dalla suggestione legata alla creazione qualche anno fa in Gran Bretagna di un ministero così denominato.

Questa notizia diventa l'occasione per riflettere sulla contemporaneità e sulle molteplici amplificazioni di solitudini che la caratterizzano. Lo spettacolo ruota intorno a cinque personaggi: Primo, che di lavoro fa la moderazione dei social network eliminando contenuti non in linea con le policy e che condivide la vita con una Real Doll di nome Marta; F. è un apicoltore sempre a corto di soldi che si rivolge al ministero per avere un finanziamento più volte rifiutato; Alma è una ragazza ossessionata dalla fine delle cose e che vive prevalentemente confinata in casa; sua madre Teresa punta tutto sul romanzo che sta scrivendo e che si aspetta che un giorno venga pubblicato; Simone è la segretaria del Ministero della solitudine che gestisce tutte le pratiche e le relazioni che lo riguardano.

Il tutto si svolge in una scenografia al cui centro troneggia una struttura rotante a tre facce (un distributore di bevande ma anche di oggetti vari, un grande frigorifero in acciaio, una porta con il poster di un atollo), sul palco ci sono alcune sedie e tavoli, e sullo sfondo dominano delle luci al neon che conferiscono all'ambiente un'allure un po' retro, un po' anonima e un po' pop.

Le storie dei singoli personaggi (se vogliamo chiamarle storie) procedono parallelamente, e talvolta anche sovrapponendosi in una cacofonia che a tratti risulta difficile da seguire.

I personaggi hanno modi quasi robotizzati (come emerge fin dalla prima scena in cui attraversano la scena camminando più o meno velocemente e talvolta accennando dei movimenti di danza), e nel loro parlare rivelano sé stessi, ma soprattutto richiamano tutta una serie di questioni della contemporaneità (il disastro ambientale, la violenza, la sopraffazione, i social network e molto altro).

E fin qui potrebbe sembrare qualcosa di interessante. Peccato che il tutto faccia fatica a prendere senso e a decollare sul serio. La sensazione complessiva sul piano della drammaturgia è quella di un insieme di spunti presi qua e là, ma non sviluppati o poco sviluppati, e che a tratti risultano anche piuttosto banali o fintamente intellettualistici. Molti passaggi e molti elementi a me sono risultati poco comprensibili o quantomeno hanno fatto fatica a trovare un senso, e a un certo punto mi sono chiesta dove tutto questo andasse a parare. Ed effettivamente secondo me non andava a parare quasi da nessuna parte.

Alcuni spettatori vanno via durante lo spettacolo (cosa che raramente mi è capitato di vedere a teatro), al termine l'applauso è tiepido e quasi di circostanza, solo pochissime persone del pubblico urlano apprezzamenti, ma risultano poco credibili.

Non so se lo spettacolo è troppo raffinato e io non l'ho compreso, oppure è esattamente quello che mi è arrivato, ossia uno spettacolo un po' pretenzioso ma irrisolto. Poi vedo che ha anche vinto dei premi Ubu, ma - che dire - a me non è piaciuto.

Voto: 2/5

lunedì 18 dicembre 2023

El Greco. Milano, Palazzo Reale, 24 novembre 2023

In una breve puntata lavorativa a Milano, decido di fare un salto al Palazzo reale per vedere la mostra in corso dedicata a El Greco, il pittore Domínikos Theotokópoulos, nato a Creta nel 1541, poi vissuto per un periodo in Italia e infine trasferitosi in Spagna, a Toledo, dove realizza il numero maggiore delle sue opere e muore nel 1614.

Personalmente, trovo i dipinti di El Greco - pur essendo i soggetti quasi interamente a carattere religioso (del resto è difficile nella sua epoca e nei contesti nei quali opera immaginare qualcosa di diverso) - estremamente originali e diversi da tutto quello che conosciamo per quel momento storico. Le figure dipinte da El Greco hanno espressioni del volto e movimenti del corpo (oltre che colori dell'incarnato) che fanno pensare a un tratto quasi espressionista, creando una specie di disorientamento in chi guarda.

La mostra di Milano è interessante perché ci permette di comprendere meglio questa e altre caratteristiche della sua pittura, risalendo alle origini della formazione del pittore, ai modelli del suo perfezionamento in Italia e alla sua "poetica" consolidatasi in Spagna, tra l'altro nel periodo centrale della Controriforma.

El Greco nasce come pittore di icone, ma durante la permanenza in Italia - dove si trasferisce per perfezionare la tecnica e alla ricerca di committenti che purtroppo non trova - conosce alcuni maestri dell'epoca, tra cui Tiziano, Tintoretto e Michelangelo, e a loro si ispira per affinare la sua capacità di rappresentazione dei corpi, e non solo. Con il trasferimento in Spagna, dove finalmente El Greco trova dei committenti, il pittore - pur cercando di muoversi all'interno dei rigidi dettami di rappresentazione delle figure religiose previsti dalla Controriforma - sviluppa un linguaggio visivo decisamente originale e certamente molto personale, che non sempre sarà compreso dai suoi contemporanei.

La mostra milanese segue tutto il percorso del maestro e si conclude con una sala dedicata al Laocoonte, opera nella quale El Greco stravolge completamente l'iconografia del mito rappresentato nel famoso gruppo scultoreo, poi reinterpretato in maniera varia ma coerente da molti altri artisti.

Personalmente, della mostra ho apprezzato l'allestimento (con luci appropriate e un percorso chiaro), la scelta dei pezzi (compresi i pochi non di El Greco, che sono strettamente funzionali a comprendere il percorso artistico di quest'ultimo), i pannelli esplicativi completi e ricchi di spunti senza essere prolissi. Sono uscita dalla mostra sapendone certamente di più e avendo potuto apprezzare a pieno l'opera di questo pittore.

Voto: 4/5

venerdì 15 dicembre 2023

Okkervil River / Will Sheff (+ Claudia Buzzetti). Monk, 21 novembre 2023

Ed eccomi di nuovo al Monk, a distanza di meno di una settimana dal concerto di John Grant. Il mio stato d'animo è completamente diverso, perché, mentre di John Grant posso dire di essere una vera appassionata, gli Okkervil River mi risuonano solo perché molti anni fa avevo comprato un paio di CD, ma era davvero da tanto che non li ascoltavo e li avevo anche un po' persi di vista. Scopro infatti, solo in questa serata, che ormai Will Sheff non si presenta con il nome di Okkervil River, sebbene lui stesso confessi di non sapere più dove si situa il confine tra Okkervil River e Will Sheff.
 
Quando arrivo - direttamente dal lavoro - le porte della sala teatro del Monk sono già aperte e si sta già esibendo Claudia Buzzetti che fa l'opening. In realtà, scopro il suo nome solo a posteriori, ma mentre sono lì la ascolto con interesse crescente. La giovane musicista bergamasca ci propone una parte del suo repertorio che io identifico come appartenente al genere country e americana, e interpreta questo genere in maniera interessante. Scoprirò dopo - cercando notizie su di lei online - che i suoi interessi musicali spaziano dal jazz al folk, e che la Buzzetti ha una solidissima formazione musicale, che si vede e si sente tutta. L'opening è dunque già un bell'ascoltare.

Dopo un breve riallestimento del palco, arriva Will Sheff (fisicamente una via di mezzo tra John Lennon e Gesù) accompagnato da tre musicisti (chitarra elettrica, basso e batteria); lui suona la chitarra acustica, ma anche le tastiere e ovviamente canta.

In sala ci sono evidentemente molti appassionati degli Okkervil River: lo si capisce dal fatto che molti si sono posizionati davanti al palco molto tempo prima che il concerto inizi e, durante il concerto, cantano insieme a Sheff, dopo essere andati in visibilio per l'annuncio di questa o quella canzone.

Io personalmente non ricordo quasi nessuna canzone e devo dire che sono sorpresa anche dalle sonorità rock del gruppo, che ricordavo più intimista. In realtà, le due anime si alternano, quella più dirompente e ritmata, e quella più lo-fi e malinconica.

Alla fine devo dire che - come altre persone nel pubblico che, come me, sono al concerto più per curiosità che per conoscenza approfondita della musica di Will Sheff - mi godo la serata, apprezzo Sheff e i suoi musicisti e soprattutto faccio molte foto, non solo dei cantanti bensì anche del pubblico, visto che stasera sto davvero in vena.

Voto: 3,5/5

mercoledì 13 dicembre 2023

Killers of the flower moon

E finalmente pure io riesco a recuperare l'ultimo film di Martin Scorsese che, a questo giro, ha messo davvero alla prova determinazione e pazienza persino per una cinefila come me (tre ore e venti è quasi un sequestro di persona).

La trama ormai la conoscono tutti: Killers of the flower moon racconta la storia degli Osage, nativi americani che, nella seconda metà dell'Ottocento, si spostarono in Oklahoma provenendo da altri stati americani. Acquistarono la terra dai Cherokee e la scelta cadde su un'area a quel tempo poco ambita e dunque anche relativamente poco costosa.

Quando alla fine dell'Ottocento nel territorio degli Osage fu scoperto il petrolio, i componenti della comunità divennero ricchi fino a raggiungere un reddito pro capite tra i più alti degli Stati Uniti: da quel momento gli Osage cambiarono completamente il loro stile di vita, potendosi permettere case, proprietà, automobili e governanti bianche.

L'inaspettata situazione mise in allarme la comunità bianca, che infatti assegnò agli Osage dei tutor per supervisionare la gestione della loro ricchezza, e soprattutto fece emergere gli appetiti di spietati affaristi, tra cui in particolare William Hale (il personaggio interpretato nel film da Robert De Niro) e suo nipote Ernest (il personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio). Accadde così che, negli anni Venti, numerosi componenti della comunità Osage morirono in circostanze inspiegabili o sospette, e nonostante l'aumento del numero delle morti nessuna indagine seria venne condotta, anzi tutti coloro che tentarono di far emergere la verità vennero a loro volta ammazzati. Il piano era evidentemente quello di far sì che - attraverso matrimoni con le donne Osage o nel ruolo di tutor - gli americani bianchi potessero ereditare concessioni e ricchezze.

Questa è la storia raccontata da Scorsese che si concentra in particolare sulla figura di Ernest, il nipote di Bill Hale, il quale - tornato dalla guerra - viene spinto dallo zio a diventare uno degli esecutori di questo ingegnoso ed efferato piano, iniziando dal matrimonio con Mollie (Lily Gladstone), una delle numerose figlie di una famiglia Osage. In questa vicenda in cui Ernest sarà alla fine condannato all'ergastolo per il coinvolgimento diretto in numerosi omicidi, la sua figura è certamente quella più ambigua, in quanto oscilla tra quello che sembra un affetto sincero verso moglie e figli e una mancanza di scrupoli dettata da una avidità senza fine, il tutto accompagnato a una intelligenza non certo sopraffina e a una sostanziale sottomissione allo zio. La figura di Mollie, pur protagonista, rimane piuttosto silenziosa nonostante sia centrale nella svolta che porterà il Bureau of Investigation (FBI) a indagare sul caso degli Osage; Mollie sembra essere consapevole di tutto, ma non è chiaro perché continui in qualche modo ad assecondare Ernest.

In generale, nonostante l'intento di Scorsese sia certamente quello di portare allo scoperto l'enorme ingiustizia e la terribile azione che i bianchi hanno compiuto nei confronti di questa comunità, a monito delle numerose forme di razzismo e colonialismo che caratterizzano ancora la società contemporanea, a me la rappresentazione che viene fatta degli Osage non è risultata molto lusinghiera nei loro riguardi. I componenti della comunità risultano in buona parte ingenui e/o ignari di fronte agli eventi, in un modo che appare eccessivo anche rispetto a una comunità che certamente soffriva di un vero e proprio commissariamento. Insomma, pur nelle buone intenzioni a me è sembrato che il film non abbia reso completamente giustizia agli Osage, tanto più che alcuni elementi storici che sarebbero stati necessari per comprendere meglio le dinamiche interne a questa società non vengono né spiegati né chiariti, dando per scontato che lo spettatore li intuisca o si informi.

Non posso poi tacere della lunghezza davvero insostenibile del film, e lo dice una che di film lunghi e lentissimi ne vede tantissimi senza problemi. Qui a me è sembrato davvero che Scorsese non abbia voluto fare alcuno sforzo di sintesi, sebbene la narrazione non avrebbe perso una virgola della sua intensità e comprensibilità con una quarantina di minuti di meno. In questo senso il film mi è apparso proprio come il film di un vecchio e famoso regista, che fa fatica ormai a guardare al di fuori di sé stesso e a percepire la necessità di un autocontenimento.

È chiaro che parliamo di un film di Scorsese - e dunque di un film di alta qualità cinematografica - però personalmente non è un film che ho amato particolarmente.

Voto: 3/5



lunedì 11 dicembre 2023

Don McCullin a Roma; Boris Mikhailov: Ukrainian Diary. Palazzo delle esposizioni, 18 novembre 2023

Approfitto di una domenica pomeriggio in cui sono già in giro per altri motivi per andare a vedere la mostra di Don McCullin al Palazzo delle esposizioni, e con l'occasione vedo anche l'altra mostra in corso, quella dedicata al fotografo ucraino Boris Mikhailov.

Personalmente non conoscevo McCullin: scopro solo grazie alla mostra che il fotografo ha ottantotto anni e vive con la moglie nella campagna del Sormerset, e che nella sua lunga carriera è stato uno dei grandi fotografi documentaristi e di guerra. Dagli esordi e nel corso degli anni ha raccontato - con sguardo attento e soprattutto empatico - sia la realtà a lui più vicina (il quartiere nel quale viveva quando era ragazzo e altri luoghi della Gran Bretagna che hanno attraversato fasi di impoverimento, come ad esempio l'East End di Londra), sia mondi lontani e meno lontani, soprattutto in occasione di guerre (il Vietnam, la Cambogia, il Biafra, l'Irlanda del Nord e molti altri). Negli ultimi anni Mc Cullin ha deciso di ritirarsi nel Somerset dedicandosi a progetti più elegiaci, come ad esempio le foto della campagna inglese e quelle dei resti archeologici sul confine meridionale dell'ex impero romano, nelle quali però il fotografo non riesce a voltare completamente pagina rispetto alle brutture della guerra e mantiene uno sguardo in qualche modo tragico e critico.

Le oltre 250 fotografie in mostra (tutte in bianco e nero e quasi tutte stampate con le gelatine ai sali d'argento) rappresentano una straordinaria retrospettiva della sua carriera e, oltre a farci apprezzare le sue notevoli qualità tecniche, ci aiutano a entrare nella mente di un fotografo di guerra, con tutti i traumi e gli interrogativi etici che caratterizzano questo ruolo.

Attraverso le parole dello stesso McCullin - che a più riprese arricchiscono la visione delle foto - seguiamo i sentimenti contrastanti dello stesso fotografo, il quale ci dice di aver sempre ricercato l'empatia con i soggetti delle sue foto e di aver sempre scattato le foto per restituire dignità e voce a persone che spesso non ne hanno. È però evidente che, nonostante le buone intenzioni, McCullin non è uscito indenne da una carriera di fotografo di guerra, e credo non a caso abbia cercato evasione nella fotografia di paesaggio, senza però riuscire davvero a superare i traumi interiori.

Mostra bellissima, in parte rovinata - se posso dire la mia opinione - da luci non perfette che non consentono di guardare le foto nel migliore dei modi possibili.

Per quanto riguarda la mostra su Boris Mikhailov, si tratta di una sorpresa totale. Mikhailov - che ovviamente non conoscevo minimamente - è un fotografo autodidatta, ma anche un artista ucraino, che ha documentato, in modo del tutto personale e originale, i cambiamenti intervenuti nel suo paese con la fine dell'Unione Sovietica. Nel caso di Mikhailov non siamo di fronte a fotografie che puntano alla qualità tecnica ed estetica, bensì il mezzo fotografico è utilizzato in modo ironico o critico, o entrambi, a seconda dei casi. Ne vengono fuori progetti fotografici certamente anomali, in cui le foto sono spesso modificate mediante filtri, ovvero colorate a posteriori, anche a mano, e talvolta si tratta di progetti realizzati in modi forse eticamente discutibili. Del resto, Mikhailov - cresciuto in un paese nel quale la propaganda era onnipresente e la libertà di espressione praticamente inesistente - ha escogitato nel tempo modi originali per veicolare, attraverso i suoi progetti, messaggi che probabilmente sarebbero stati censurati, e più avanti ha continuato ad affinare questo suo linguaggio fino a farne una propria cifra distintiva.

Interessante scoperta, anche se sul piano fotografico non è esattamente quello che mi appassiona.

Voto: 3,5/5

martedì 5 dicembre 2023

Rumba. L'asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato / Ascanio Celestini. Romaeuropa Festival, Auditorium Parco della musica, 17 novembre 2023

Da molti anni ormai seguo con affetto Ascanio Celestini e quando vedo un suo spettacolo in programmazione a Roma non perdo mai l'occasione di andare ad ascoltarlo. Ad aprile di quest'anno ero rimasta un po' delusa dal suo spettacolo Parassiti. Un diario nei giorni del Covid-19, ma in altre circostanze avevo apprezzato moltissimo i suoi racconti (vedi, tra gli ultimi, Museo Pasolini).

Questa volta Celestini torna al pubblico con la sua formula ormai ampiamente rodata - e forse a questo punto un pochino ripetitiva - che vede la sua narrazione inserita all'interno di una scenografia minimale e accompagnata dalla fisarmonica di Gianluca Casadei, che gli fa anche da interlocutore (di fatto muto, ma che mima quanto viene pronunciato da una voce registrata).

L'oggetto dello spettacolo Rumba è innanzitutto la figura di Francesco d'Assisi, sulla cui vita il narratore vuole mettere in piedi uno spettacolo in un grande parcheggio. La storia di San Francesco è però inframmezzata dalle storie di una serie di persone che ruotano intorno a questo parcheggio: Giobbe, il magazziniere analfabeta, l'immigrato Joseph che è arrivato attraverso il deserto e il mare e che in Italia ha finito per diventare un barbone, lo zingaro che gironzola intorno al bar, tutte figure ai margini della nostra società, che in qualche modo sono idealmente collegate al giovane che lasciò tutto per vivere povero tra i poveri.

Lo spettacolo parte molto bene, e soprattutto nelle parti in cui si focalizza sulla vita di Francesco funziona, mentre invece quando la narrazione si sposta sulle vite delle persone che ruotano intorno al parcheggio del supermercato l'intensità scema per lasciare il posto a un approccio un po' troppo buonista e a contenuti già sentiti.

Uscendo dall'Auditorium rifletto sul fatto che Ascanio Celestini riesce a dare il meglio di sé quando ci racconta eventi o personaggi storici: in questo ambito il suo teatro di parola arriva potente e colpisce nel segno, perché Celestini è in grado di rendere interessanti e umanamente coinvolgenti le storie che racconta.

Quando invece i suoi testi si spostano sulla finzione e raccontano storie di persone, ho la sensazione che la retorica e il luogo comune prendano il sopravvento, cosicché anche il suo stile narrativo ne risente in negativo.

Capisco che dopo tanti anni di teatro ci sia anche il tema di mantenere viva la creatività e di continuare a essere originali, però dal mio punto di vista è indubbio che il Celestini divulgatore di eventi storici, piccoli e grandi, è capace di catturare qualunque auditorium e di sorprendere anche quando racconta una storia piuttosto nota, come quella di San Francesco, mentre il Celestini portavoce di personaggi da lui stesso creati (sebbene evidentemente ispirati alla realtà) risulti più piatto, ripetitivo e meno convincente.

Personalmente consiglierei a Celestini di tornare a indagare nella storia per portare al pubblico il suo racconto di vicende importanti ma più o meno dimenticate. Io lo andrei ad ascoltare più volentieri.

Voto: 3/5

lunedì 4 dicembre 2023

Il caftano blu

Halim (Saleh Bakri) gestisce una sartoria artigianale insieme a sua moglie Mina (Lubna Azabal) nella Medina di Salé dove i due vivono. Poiché il lavoro è tanto e Mina non sta bene nella bottega arriva come apprendista Youssef (Ayoub Missioui), un giovane che sembra amare molto il mestiere.

Tra Halim e Youssef si crea immediatamente un feeling che si trasforma presto in attrazione alla quale Halim cerca di resistere e Mina reagisce con forme di gelosia più o meno evidenti.

Il cuore della narrazione si svolge tutto in poche settimane, quelle durante le quali Halim deve terminare la realizzazione di un elegantissimo caftano blu tutto ricamato che gli è stato commissionato e le condizioni di salute di Mina si aggravano costringendola a casa. È in questa contingenza delicata che i sentimenti tra Halim, Mina e Youssef sono chiamati a rivelarsi e che ognuno di loro sceglie come interpretare l'amore e in che direzione farlo sbocciare. È di fronte all'irrerversibilità del destino che si mostra in particolare la consapevolezza e la grandezza di Mina, donna profondamente religiosa ma anche fortemente anticonvenzionale, con la mente aperta e il cuore grande.

Nonostante una condizione contraria alla sua natura (che lo porta a soddisfare i propri bisogni nei bagni pubblici), Halim ama sinceramente e intensamente Mina, e quest'ultima pur consapevole dell'orientamento di suo marito ne riconosce la generosità e la purezza d'animo, e per questo si fa artefice di un avvicinamento definitivo tra Halim e Youssef lasciando a quest'ultimo l'eredità del suo amore per il marito.

Un film visivamente bellissimo, delicato nei sentimenti, capace di trasmettere un'infinità di sfumature e di moti dell'animo attraverso piccoli gesti e espressioni del volto, prima ancora che attraverso le parole.

Peccato per il doppiaggio, ormai per me piuttosto fastidioso.

Però Maryam Touzani si dimostra autrice di grande levatura e capacità da seguire con grande attenzione.

Voto: 4/5


venerdì 1 dicembre 2023

John Grant. Monk, 15 novembre 2023

John Grant per me è sempre un appuntamento da non perdere. Anni fa per sentirlo e vederlo cantare (non solo lui a dire la verità!) ero andata fino a Londra all'All Points Festival, ma lì si era in un grande parco e Grant si esibiva su un palco dove era allestita una significativa scenografia e lui stesso avevo scelto la performance istrionica. Mi era piaciuto anche allora, ma certo al Monk già pregustavo quell'atmosfera intima che caratterizza i concerti che si tengono in questa location.

D'altra, parte, dal momento che l'ultimo album di John Grant, Boy from Michigan, risale ormai al 2021, era difficile prevedere come il musicista americano - ma ormai quasi trapiantato in Islanda - avrebbe impostato questo concerto. Certo, a me personalmente piace di più il John Grant delle ballate e delle melodie che quello dell'elettronica, ma ero preparata a qualunque cosa e contenta del solo fatto di poterlo vedere dal vivo e così da vicino. Ero infatti in prima fila e ho potuto ammirare questo omone con le mani grandi e la barbona, che nella sua musica come nel suo modo di porsi oscilla tra un'estrema delicatezza e l'energia di un panzer.

Quando però Grant canta la prima canzone, TC and the honeybear, capisco che questa sera ci sta per fare un bellissimo regalo, proponendoci un concerto che alla fine si configurerà come una specie di "best of" della sua discografia, tra l'altro con un arrangiamento intimo e potente al contempo, che vede protagonisti lui stesso (alle tastiere e al synthetizer) e il bravissimo musicista (e seconda voce) Chris Pemberton (anche lui alle tastiere e al synthetizer, alternativamente rispetto a Grant).

Il concerto inizia puntualissimo, alle 21.45, e la scaletta attraversa tutta la discografia di Grant:

TC and honeybear, The cruise room, Where dreams go to die, Grey tickles, black pressure, Touch and go, Is he strange, Outer space, Zeitgeist (un inedito che sarà contenuto nel nuovo disco che ci dice in uscita a maggio: evviva!), Marz, Glacier, Queen of Denmark, Sigourney Weaver, Global warming, Drug, e poi nel bis reclamato dal pubblico Caramel e GMF.

L'atmosfera è di religioso ascolto per questo musicista la cui voce riempie l'aria e rapisce gli ascoltatori (tutti appassionati, moltissimi muovono le labbra cantando silenziosamente tutte le parole delle sue canzoni), ma Grant è anche un gran intrattenitore e durante il concerto, oltre a presentarci quasi ogni canzone, ci racconta aneddoti e scherza col pubblico, dicendoci ad esempio quali parole ed espressioni italiane ha imparato durante questo tour, oltre a non perdere occasione per fare dell'ironia sugli americani e sulla deriva conservatrice e fascista dell'America e del mondo.

Man mano che il concerto va avanti l'emozione dell'ascolto cresce, l'atmosfera si fa sempre più calda e il rapporto con John Grant sempre più intimo.

Quando Grant ci saluta, ce ne andiamo felici e soprattutto grati di aver partecipato a questo bellissimo concerto.

Voto: 4/5

mercoledì 29 novembre 2023

Il libro delle soluzioni

Dopo nove anni dall'ultimo film, Microbo & Gasolina (e l'intermezzo della conversazione con Noam Chomsky) torna al cinema Michel Gondry, e lo fa con un film personalissimo e folle, in cui prova a raccontarci - con grande sincerità e ironia - quello che gli è capitato in questi anni, e soprattutto l'ingorgo interiore che lo ha tenuto al palo.

Al centro di questo film c'è infatti un regista, Marc Becker (il bravissimo Pierre Niney), il cui ultimo film viene bocciato dai produttori in quanto troppo cervellotico. A quel punto Marc e la sua troupe scappano via con tutto il girato e si rifugiano a casa dell'amatissima zia di Marc, in una casa di campagna.

Qui però Marc, che nel frattempo ha smesso di prendere le sue pillole contro la depressione, si rifiuta di guardare il film (di oltre quattro ore) e chiuderne la lavorazione, ma soprattutto continua a essere sopraffatto da nuove idee, più o meno balzane, che lo portano in direzioni altre, per la disperazione della sua troupe, travolta dalle sue continue follie, dal suo narcisismo, dalle sue paranoie.

In questo bailamme di situazioni, abbozzi di idee, scelte più o meno assurde, Marc ritira fuori dal cassetto quello che da ragazzino aveva chiamato "Il libro delle soluzioni", un quaderno che aveva lasciato in bianco e che ora diventa lo scrigno delle sue personali regole che dovrebbero risolvere ogni situazione.

Come i suoi collaboratori, Charlotte, Sylvia e Carlos, ch'egli sveglia nel cuore della notte e talvolta bullizza, anche noi spettatori siamo travolti da quel fiume in piena che è Marc, e ogni istante ci chiediamo dove andrà a parare, anzi se andrà a parare da qualche parte. Nel mezzo di questo flusso di follie che vanno dalla storia di animazione di una volpe che vuole aprire un salone da parrucchiera, alla costruzione di un "camiontaggio" (un camion che diventa sala di montaggio), al documentario sulla vita di una formica (sempre la stessa), alla realizzazione artigianale di una sedia (perché un uomo non è un uomo se non costruisce una sedia), si ride stupefatti e confusi e talvolta si rimane ammirati, come nella straordinaria sequenza in cui Marc, senza partitura, compone le musiche per il suo film dirigendo con i suoi movimenti un'intera orchestra.

Alla fine - e nonostante tutto - Marc si innamorerà di Gabrielle (Camille Rutheford) e ci farà un figlio, il film si farà e avrà successo, ma Marc rimarrà il genio incasinato e folle che è.

In fondo, il film di Gondry è un film su una creatività senza limiti e una genialità pura, ma ingovernabile, che diventa a volte una condanna sia per chi ne è portatore che per chi gli sta intorno, roba difficile da maneggiare, che spesso produce squilibri e paranoie, ma ovviamente anche cose straordinarie, che noi persone normali - e senza genio - non possiamo capire.

Marc mi ha fatto simpatia, rabbia e compassione, tutte insieme, mescolate, e il film mi è sembrato folle e 'inseguibile', ma anche a suo modo interessante perché ci permette di entrare nel caos della testa di una persona che a tratti sembra un alieno.

Voto: 3/5



lunedì 27 novembre 2023

Festival del cinema spagnolo e latinoamericano. Cinema Barberini, 5-12 novembre

E anche quest'anno eccomi al Festival del cinema spagnolo e latinoamericano, appuntamento che da qualche anno cerco di non perdere, convinta come sono che il cinema spagnolo abbia fatto passi da gigante negli ultimi anni. Dopo anni di sodalizio del Festival con il cinema Farnese, l'edizione di quest'anno si svolge nel rinnovato (devo dire molto bene!) cinema Barberini. Purtroppo riesco ad andare a vedere soltanto due film, ma la scelta ha funzionato almeno a metà, visto che Upon entry è stato il film più votato dal pubblico.

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Upon entry


Juan Sebastián Vasquez e Alejandro Rojas sono i registi e gli autori della sceneggiatura di Upon entry, il film presentato al Festival del cinema spagnolo e in uscita nelle sale italiane il prossimo anno. I due sono entrambi in sala, e al termine del film si rendono disponibili a chiacchierare con il pubblico, insieme a Bruna Cusì, che interpreta Elena, protagonista del film insieme a Diego (interpretato da Alberto Ammann).

Elena e Diego sono una coppia e stanno per prendere l'aereo che li porterà negli Stati Uniti, dove vogliono trasferirsi a vivere. Elena è di Barcellona, mentre Diego - che vive con lei - è di origini venezuelane.

Quando i due arrivano all'aeroporto di Newark dove hanno la coincidenza con un volo per Miami, loro destinazione finale, vanno al controllo passaporti e da lì comincia una vera e propria odissea che ben presto si trasformerà in un incubo.

Dopo il primo controllo dei passaporti, Elena e Diego vengono infatti trasferiti in un altro ufficio per una second inspection che vede gli agenti dell'aeroporto impegnati a indagare sulle reali motivazioni che portano i due in America e a scandagliare la loro vita privata e il loro passato alla ricerca di elementi che ne dimostrino la malafede. In particolare, a essere preso di mira è Diego, che ha un passaporto venezuelano e in passato aveva già tentato senza successo di trasferirsi negli Stati Uniti, tanto più che, in questa circostanza specifica, ad aver vinto la lotteria della green card è stata Elena.

Elena e Diego vengono sottoposti a veri e propri interrogatori, sia insieme che singolarmente, per confrontare le loro versioni dei fatti, i loro effetti personali (in particolare telefoni e computer) vengono sequestrati per essere analizzati, e le loro vite personali vengono passate al setaccio senza alcun rispetto nei loro confronti. L'esercizio del potere diventa rapidamente ai nostri occhi abuso, sia nei modi che nei contenuti.

Il legame tra i due giovani, che nella parte iniziale del film appare solido, viene fortemente messo alla prova dall'emergere di dettagli della vita personale più o meno significativi che gli agenti sembrano tirare fuori ad arte, cosicché soprattutto il personaggio di Diego a poco a poco emerge come meno lineare del previsto, soprattutto e primariamente agli occhi di Elena.

Durante la visione del film la tensione cresce minuto per minuto, e i sentimenti che si affacciano alla mente degli spettatori sono numerosi: si empatizza con i due giovani sottoposti a un trattamento che ha dell'ignominioso, poi ci si meraviglia dell'emergere di dettagli che sembrano modificare il quadro interpretativo, si comincia a sospettare di Diego, ma altrettanto rapidamente ci si rende conto di stare facendo il gioco degli agenti, e di cosa accadrebbe a noi per primi se ci trovassimo in una situazione del genere, situazione talmente stressante da causare nelle persone reazioni anche incongrue e/o insensate.

Di fronte alla scena finale, si resta a bocca aperta, arrabbiati, confusi e disorientati, quasi in difficoltà a prendere una posizione.

Ci diranno i due registi, entrambi di origine venezuelana, che quasi tutto quello che è raccontato nel film è frutto dell'esperienza personale vissuta da loro stessi e da persone a loro care, e sebbene l'intervistatore sottolinei come nel film non ci siano buoni né cattivi tagliati con l'accetta, i registi tengono a rimarcare il valore politico del film, che è una denuncia contro la dittatura delle frontiere e il pregiudizio legalizzato.

Un film girato in un tempo contenuto e con un budget non elevato, ma che - anche grazie alla forza della sceneggiatura, alla bravura degli attori e a un montaggio eccellente - riesce ad arrivare dritto alle emozioni degli spettatori.

Voto: 4/5



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Historias para no contar


Visto che mi sono dilungata con il precedente film, sarò breve in questa mia recensione di Historias para no contar, la commedia di Cesc Gay che racconta cinque storie di relazioni - d'amore o amicali - con una vena ironica e scanzonata, ma non per questo meno malinconica e con un retrogusto amaro.

Nella prima storia (Tengo ganas de verte) Laura (Anna Castillo) incontra al parco il suo vicino Alex (Chino Darin): poiché il cane di Laura ha qualcosa nella zampa, Alex si offre di andare a casa sua per aiutarla, ma mentre Alex è lì arriva di sorpresa il marito di Laura. Nonostante Laura e Alex non stiano facendo niente di male, Laura va nel pallone e chiude Alex nel bagno. Inizia così una commedia degli equivoci che servirà a Laura a confessare al marito di non amarlo più e di amare Alex.

Nella seconda storia (Sandra), Luis (il bravissimo Alex Brendemhül) arriva a casa degli amici Carlos (Antonio de la Torre) e Ana (María León) che lo ospitano per una notte di passaggio verso il battesimo del nipote. Luis è separato e i suoi amici si sono dati il compito di tirarlo fuori dalla solitudine, cosicché quando Luis incontra a un bar Sandra, Carlos e Ana fanno di tutti per farli rincontrare fino a quando la verità su Ana viene fuori. A quel punto Carlos e Ana assumono atteggiamenti diversi, ognuno con la propria idea di cosa sia il meglio per Luis.

La terza storia (Los martes y los jueves) ha come protagoniste tre amiche (Maribel Verdú, Alexandra Jiménez e Nora Navas) che si ritrovano a un casting, dove dopo una chiacchiera a tre per aggiornarsi reciprocamente sulle loro vite, mentre ciascuna di loro viene chiamata al provino le altre due parlano dell'altra, in una classica dinamica di amicizia competitiva.

Nel quarto episodio (Me has hecho muy feliz estos meses) un professore abbastanza avanti con l'età (José Coronado) si incontra in un bar con una giovane donna (Alejandra Onieva), sua ex studentessa con cui ha una relazione. Mentre lui vorrebbe cogliere l'occasione per chiederle di andare a vivere da lui, lei sta aspettando il momento giusto per dirgli che lo lascia.

Infine, la quinta storia (Parìs) ha come protagonisti due amici, Edu (Quim Gutierréz) e Jota (Brays Efe), che durante le loro uscite per giocare a tennis si scambiano confidenze. In particolare Edu racconta a Jota di temere che sua moglie Sofía (Verónica Echegui) sospetti il suo tradimento di qualche anno prima con un'altra donna. A partire dall'ossessione e dal senso di colpa di Edu le verità che emergeranno saranno numerose e imprevedibili.

Il film di Cesc Gay è a tratti divertente e brillante (alcuni episodi, come Sandra, sono particolarmente riusciti), ma nel complesso resta in superficie e non riesce davvero a proporre analisi psicologiche o sociologiche che vadano oltre il già visto e già sentito.

Visione leggera e divertente, ma niente di più.

Voto: 2,5/5


giovedì 23 novembre 2023

Foto/Industria. VI biennale di fotografia dell’industria e del lavoro. Bologna, Fondazione MAST, 4 novembre 2023

La rassegna di Foto/Industria, la biennale di fotografia dell'industria e del lavoro che la Fondazione MAST organizza a novembre nella città di Bologna, è dedicata quest'anno al tema del Game, ossia all'industria del gioco in fotografia.

Come due anni fa, approfitto di un weekend bolognese per visitare alcune delle mostre, dopo essermi studiata il programma. Quest'anno la mia selezione ha seguito due criteri primari, vedere mostre classiche di fotografia saltando la videoarte e le installazioni, e scegliere mostre in luoghi che non conosco in modo da scoprire anche qualcosa di nuovo.

Alla fine vedo al Museo Archeologico le mostre Las Vegas di Daniel Faust e Flippers di Olivo Barbieri, a Palazzo Boncompagni la mostra Playgrounds di Linda Fregni Nagler, a Casa Saraceni la mostra Berlin Funfair di Heinrich Zille e infine a San Giorgio in Poggiale alla biblioteca d'arte e di storia la mostra La salle de classe di Hicham Benohoud.

Las Vegas è un assemblaggio di foto che documentano gli elementi più bizzarri e incredibili della città, producendo un caleidoscopio che rappresenta una realtà che sembra artefatta ma non lo è, mentre in Flippers Barbieri racconta in immagini - d'insieme e di dettaglio - un deposito abbandonato di flippers da lui trovato nel 1977 non lontano da casa sua. Un po' come in Las Vegas, con cui questa mostra condivide la sede (e le due mostre sono tenute insieme da un documentario video realizzato da Barbieri a Las Vegas con un elicottero), anche in Flippers realtà e "finzione" si mescolano inestricabilmente (non a caso il progetto di Barbieri era piaciuto molto a Luigi Ghirri).

Playgrounds mette insieme fotografie in grande formato di parchi giochi ripresi in notturna e in bianco e nero: l'effetto è spiazzante e straniante, in quanto questi luoghi normalmente pieni di vita, di suoni e di colori, si trasformano in ambienti sospesi nel tempo e nello spazio, a tratti quasi inquietanti.

Berlin Funfair raccoglie le fotografie che Heinrich Zille scattò alle fiere berlinesi tenutesi a cavallo dell'Ottocento. Si tratta di fotografie che sono innanzitutto una testimonianza storica sia per quanto riguarda la tecnica fotografica che per quanto riguarda i soggetti; in alcuni casi anche le inquadrature, i soggetti e le scelte di questo fotografo riscoperto risultano interessanti e originali.

Infine, La salle de classe è forse la mostra - tra quelle viste - più sorprendente. Si tratta delle foto in bianco e nero che Hicham Benohoud ha scattato ai suoi studenti in classe, elaborando di volta in volta delle "scenografie" con semplici oggetti e delle pose dei ragazzi, che insieme creano situazioni surreali o che suggeriscono letture e interpretazioni del tutto personali. Molto bella anche grazie alla bellezza del contesto della sala della Biblioteca d'arte e di storia che la ospita.

Insomma, la biennale Foto/Industria si conferma una bellissima opportunità e un'occasione da non perdere per bolognesi e turisti di passaggio nella città.

Voto: 3,5/5

mercoledì 22 novembre 2023

Le signorine di Concarneau / Georges Simenon

Le signorine di Concarneau / Georges Simenon; trad. di Laura Frausin Guarino. Milano: Adelphi, 2013.

Devo ammettere che non ho mai letto nulla di Simenon, e che questa prima lettura è stata ispirata dal fatto che avevo in quel momento in programma un viaggio in Bretagna, dunque mi faceva piacere leggere un racconto ambientato in uno dei paesi che avrei visitato.

Così, praticamente per caso, sono finita su questo noir di Simenon che racconta la vicenda di Jules Guérec, un quarantenne celibe, proprietario di due pescherecci, che vive nella casa familiare insieme alle due sorelle Céline e Françoise, anch'esse non sposate (a differenza della terza sorella, Marthe, che invece si è sposata con un funzionario pubblico) e che gestiscono un negozio di corde e pellami che occupa una parte della loro stessa abitazione. Si tratta di una famiglia borghese benestante, ma nella quale vigono ferree regole di condotta personale, spesso a scapito della felicità e della realizzazione individuale.

In particolare, Jules è costantemente sotto il controllo delle sorelle, soprattutto di Céline che sembra avere un vero e proprio sesto senso nel riconoscere le bugie del fratello.

Quando una sera Jules, tornando da Quimper, investe un ragazzino e non torna indietro a verificare cosa gli sia successo, all'interno della famiglia Guérec qualcosa cambia per sempre.

Nonostante Jules decida di non raccontare niente alle sorelle e le indagini non riescano a risalire a lui, si innescano alcuni meccanismi che fanno emergere rancori sepolti sotto la cenere e desideri frustrati, cosicché gli equilibri sclerotizzatisi nel tempo cominciano a scricchiolare fino alla deflagrazione finale.

Ne viene fuori il ritratto di nucleo familiare asfittico, che si muove all'interno di un contesto sociale piccolo e provinciale, nel quale le differenze sociali ed economiche sono rilevanti e le prospettive individuali sono limitate. D'altra parte, l'evoluzione della storia dimostrerà che questi personaggi, al di fuori del contesto dal quale provengono, sono pesci fuor d'acqua, incapaci e forse nemmeno veramente interessati a cogliere le opportunità che altri mondi sembrano aprirgli, in quanto perfettamente interni e coerenti con le loro radici.

L'evento che è al centro della narrazione è dunque per Simenon semplicemente un appiglio per raccontare un contesto ambientale e umano del quale ci restituisce umori, odori e colori (o assenza di colori) in maniera estremamente vivida, nonché l'occasione per andare a esplorare le complessità della mente umana e il rapporto non univoco tra i singoli e le collettività cui appartengono.

Diciamo che pur non essendo stata per me una lettura illuminante, ho apprezzato molto lo stile e forse un piccolo seme è stato gettato per approfondire la conoscenza di Simenon.

Voto: 3/5

lunedì 20 novembre 2023

Ferdinando / Annibale Ruccello; regia di Arturo Cirillo. Teatro Parioli, 2 novembre 2023

Ferdinando è lo spettacolo con cui ho conosciuto il teatro di Annibale Ruccello quando ancora ero convinta che si trattasse di un autore ottocentesco. Da lì in poi è stata tutta una scoperta dell'opera di Ruccello e della straordinaria vitalità del teatro napoletano degli anni Settanta e Ottanta. Poco dopo aver visto Ferdinando, e proprio grazie a Ruccello ho scoperto anche Arturo Cirillo in Notturno di donna con ospiti, e anche in questo caso è stato amore a prima vista. Di lì in poi credo di non essermi persa quasi niente sia del teatro di Ruccello che delle cose portate un scena da Cirillo.

Con Ferdinando diretto da Cirillo possiamo dire che il cerchio si chiude con soddisfazione.

Ovviamente a questo giro arrivo molto più preparata e di conseguenza l'effetto del testo di Ruccello è meno dirompente.

La borbonica Clotilde (Sabrina Scuccimarra), assistita nel suo letto di finta malata dalla cugina povera Gesualda (Anna Rita Vitolo), che le fa da cameriera, e dal prete locale don Catello (lo stesso Cirillo), trascorre le sue giornate rimpiangendo l'epoca che fu e gettando veleno sullo stato e sulla lingua italiana. La sua è una personalità strabordante in cui si alternano invettive al vetriolo e un sarcasmo irresistibile. Intanto donna Gesualda, zitella forse perché senza dote, ha una tresca con don Catello che in realtà non disdegna nemmeno e forse preferisce le frequentazioni maschili. A scombinare completamente questo già instabile equilibrio arriva Ferdinando (Riccardo Ciccarelli), il giovane figlio di parenti alla lontana, rimasto senza genitori e mandato a vivere con la zia Clotilde. Ferdinando con la sua almeno apparente fragilità e i suoi modi gentili e seduttivi diventa il centro di attrazione per tutti, attivando gli appetiti sessuali di Clotilde, di don Catello e alfine anche di Gesualda, appetiti ai quali non si sottrae.

Le gelosie incrociate e le bugie creano un clima sempre più teso che condurrà all'epilogo finale nel quale la realtà si mostrerà per quella che realmente è.

Come dicevo nel precedente post su questo spettacolo, quella di Ruccello è un'amara e brillante riflessione sul rapporto tra passato e presente e una constatazione del fatto che l'avidità e la meschinità umana attraversano le epoche anche quando il contesto si trasforma completamente.

Ma al di là del "messaggio", la cosa di fronte alla quale non si può rimanere indifferenti è la vitalità e la potenza di questo testo in napoletano, antico e modernissimo, che non vede mai una battuta d'arresto e che a più riprese ci strappa risate fragorose. Non manca la vena malinconica che - dopo aver visto quasi tutti gli spettacoli di Ruccello - posso dire essere la sua cifra caratteristica, che qui aleggia nel sottofondo (i tre personaggi principali sono tutti a loro modo dolenti e condannati nelle loro solitudini e per questo Ferdinando spariglia le carte), mentre in altre opere è il cuore emotivo del racconto (vedi ad esempio Le cinque rose di Jennifer).

Personalmente sono innamorata del teatro di Ruccello, artista che va tenuto in vita con le sue opere, per diffonderlo e tramandarlo nella sua potenza narrativa.

Bello l'allestimento con la regia di Cirillo, qui misurato anche nell'interpretazione, bravissimi gli altri attori, e la Scuccimarra regge il confronto con la Gea Martire della precedente rappresentazione.

Voto: 4,5/5

venerdì 17 novembre 2023

C'è ancora domani

Vado a vedere quest'opera prima della Cortellesi trascinata dall'entusiasmo collettivo che si è sviluppato intorno ad esso. Tra l'altro ci vado un sabato sera a Bologna e nonostante i due spettacoli a 15 minuti l'uno dall'altro non saremmo entrate se non avessimo fatto il biglietto in anticipo.

Diciamo che la grande aspettativa non è mai la condizione migliore per affrontare un film (e non solo). Però in questo caso credo che la colpa non sia solo dell'aspettativa.

Già dopo una decina di minuti dall'inizio del film comincio a sospettare, e poi ad avere la certezza, di stare vedendo un film molto didascalico e meccanico nei suoi sviluppi narrativi, uno di quei film che mi aspetterei di vedere in televisione ma che al cinema mi paiono non riuscire a essere all'altezza del mezzo.

Della storia non dirò quasi nulla perché credo che ormai tutti sappiano di cosa parla: la vicenda di Delia, della sua situazione familiare, del rapporto con sua figlia, ma anche la storia dei giorni che precedettero il referendum del 2 e 3 giugno 1946.

Nonostante le ottime intenzioni di Paola Cortellesi e il lodevole messaggio di cui il film si fa tramite, per me tutto risulta fin troppo semplicistico, dalla ricostruzione della Roma del dopoguerra e delle case dei poveri, fino ad arrivare ai personaggi che - anche quando interpretati da attori notoriamente bravi, come Valerio Mastandrea ed Emanuela Fanelli - sono troppo monocordi, buoni o cattivi a seconda dei casi, cosicché risultano dal mio punto di vista poco credibili. Le scelte registiche - anche quelle apparentemente più originali, ad esempio le presunte scene di ballo che nascondono la violenza o gli inserti musicali contemporanei in alcuni momenti clou della storia, a me sono risultate ingenue e hanno fatto fatica a provocarmi un vero coinvolgimento emotivo.

Leggo a destra e a sinistra di chi ha riso e si è commosso ed è uscito toccato dal film. Gli applausi in sala si sprecano e vi ho assistito anche io.

Io però non ho vissuto niente di tutto questo, e non mi è chiaro se sia un problema mio ovvero l'effetto di ciò che le persone si aspettano dal cinema.

Ovviamente sono contenta del successo del film, che riempie le sale e porta al cinema persone che non ci andavano da tempo, ma non sono sicura che questo fenomeno sia una garanzia di futuro per il cinema o almeno del cinema come lo intendo io. O forse tutto sommato questi successi di pubblico servono proprio a garantire la sopravvivenza delle sale anche quando scelgono di proiettare pellicole più di nicchia o più complesse.

Insomma, grazie comunque alla Cortellesi. Anche se per me i film per il grande schermo sono un'altra cosa.

Voto: 2,5/5


mercoledì 15 novembre 2023

Anatomia di una caduta

Avevo già sentito parlare molto bene di questo film di Justine Triet, tra l'altro vincitore della Palma d'oro a Cannes, e dunque mi ero predisposta alla visione con grandi aspettative. Poi mi sono accorta che la regista è la stessa di Sybil, film che avevo visto un paio di anni fa e non mi era piaciuto granché, quindi sono andata al cinema con un atteggiamento neutrale, che poi è sempre la scelta migliore.

Siamo in una baita di montagna sulle Alpi francesi. Sandra Voyter (Sandra Hüller), una nota scrittrice, sta rilasciando un'intervista a una giovane studiosa per una tesi di laurea; intanto, dal piano di sopra - dove sta lavorando Samuel, il marito di Sandra - arriva una musica ad alto volume che rende sempre più difficile procedere con l'intervista. L'intervista viene interrotta, mentre Daniel (Milo Machado Graner), il figlio ipovedente undicenne della coppia, esce col suo cane-guida per una passeggiata nei boschi.

Al ritorno, Daniel trova suo padre sulla neve, morto. Poiché l'autopsia non è in grado di fornire una risposta definitiva alla dinamica della morte, e le varie ipotesi (incidente, suicidio e omicidio) sono tutte plausibili, a seguito dell'emergere di alcuni elementi, Sandra viene accusata di omicidio e processata, mentre Daniel diventa uno dei testimoni chiave, per quanto un testimone solo uditivo.

Fatto salvo il prologo che racconta l'evento da cui si dipana la narrazione, il film della Triet si struttura come un legal thriller, in quanto seguiamo lo sviluppo del processo a carico di Sandra con tanto di testimonianze, ricostruzioni, pareri di esperti, prove di vario genere ecc., attraverso il quale la vita di Sandra e Samuel viene passata al setaccio, alla ricerca di ogni più piccolo elemento a favore o contro la sua versione dei fatti. In aula si fronteggiano il pubblico ministero (Antoine Reinartz) e l'avvocato di Sandra, Vincent (Swann Arlaud), vecchio amico della stessa.

Il film tiene incollati alla sedia e non ha un attimo di cedimento, un vero meccanismo a orologeria nel quale siamo anche noi parte del pubblico che assiste al processo, anzi - meglio ancora - siamo in giuria a decidere qual è la verità e se Sandra va assolta o condannata.

Dal mio punto di vista esistono molteplici letture possibili di questo film, ma personalmente lo ritengo uno straordinario esperimento sociale sul complesso rapporto tra fatti e opinioni, tra realtà e narrazione.

A mio modo di vedere il personaggio centrale del film è Daniel, e secondo me la sua parziale cecità assume uno specifico significato non solo dal punto di vista narrativo. Di fronte alla morte del padre, fin dal principio Daniel dice che ha bisogno di capire, vuole trovare una spiegazione a quello che è successo; quando il processo volge ormai al termine ed è ormai evidente che entrambe le ipotesi, il suicidio del padre ovvero l'omicidio da parte da di Sandra, sono entrambe plausibili e sostenibili, né esiste alcuna prova risolutiva in una direzione o nell'altra, Daniel - in un dialogo con l'assistente sociale che le è stata affiancata dal tribunale - si chiede come si faccia in questi casi e Marge gli risponde che, in assenza di elementi certi, bisogna decidere quale interpretazione sposare.

Ebbene, questi due momenti ci consentono di leggere tutto il film come l'occasione per riflettere su come - rispetto a situazioni e temi complessi - si costruiscono le nostre opinioni, rispetto alle quali i fatti - lì dove sono decontestualizzati o comunque non risolutivi - finiscono per diventare un puntello della posizione che abbiamo deciso di prendere. In fondo siamo tutti come Daniel, parzialmente ciechi di fronte al reale, da cui ci giungono solo elementi conoscitivi che utilizziamo per costruirci opinioni, in buona parte radicate primariamente nella nostra sensibilità. Si tratta di un tema centrale non solo per noi come individui, bensì per la società umana tutta, tanto più in un periodo come quello in cui viviamo, in cui siamo sommersi di testimonianze, notizie, fatti, che ci danno l'illusione di conoscere la verità delle cose ma che in realtà utilizziamo sostanzialmente per farci un'opinione o meglio per rafforzare un'opinione che di fatto si nutre del nostro modo di essere. Su questo grande tema si va a innestare nel film quel mix sempre più inestricabile di eventi e narrazione degli eventi, vita reale e finzione narrativa che caratterizza la nostra contemporaneità, in un processo che tende a privilegiare sempre di più la narrazione, in quanto più accattivante e capace di produrre engagement. Se anche la letteratura diventa possibile elemento probatorio vuol dire che il confine tra realtà e racconto ha cessato di esistere.

L'aspetto che mi conferma nella mia lettura del film è che all'uscita ognuno di noi ha la sua idea su quale sia la verità, e ciascuno si è formato la sua opinione sulla base della propria sensibilità individuale, chi condizionato dalla propria tendenza all'analisi psicologica, chi da un punto di vista femminista, chi da una propensione al retropensiero. Io per prima sono stata molto condizionata dal fatto che il pubblico ministero mi ricordava tantissimo una persona che conosco e che mi è particolarmente antipatica.

Poi, certo, dentro il film c'è molto altro: una coppia borghese analizzata nei suoi elementi disfunzionali, una dinamica psicologica vittima-carnefice, un ribaltamento dei ruoli e delle rivendicazioni tra marito e moglie, una riflessione sul funzionamento dei meccanismi giudiziari, ma dal mio punto di vista questi sono tutti aspetti secondari rispetto al tema centrale del rapporto tra fatti e opinioni.

Voto: 4,5/5


lunedì 13 novembre 2023

Strange way of life

Quest'anno Almodovar ci sorprende con un film che è a tutti gli effetti un piccolo divertissement. Si tratta di un cortometraggio (dura 31 minuti), con un'ambientazione western, ispirato all'omonima canzone della cantante di fado Amalia Rodriguez, canzone che viene cantata anche in un momento topico del film.

La storia è presto detta. Silva (Pedro Pascal), dopo molti anni di lontananza, torna a trovare il suo amico di gioventù nonché ex-amante Jake (Ethan Hawke), diventato ormai sceriffo del villaggio. L'incontro tra i due farà riscoprire loro la passione mai spenta, ma i rimpianti del passato e il coinvolgimento del figlio di Pedro nell'assassinio della sua donna metteranno i due uomini uno contro l'altro, costringendoli a fare i conti con il passato e le scelte compiute.

Il fatto che Pedro Almodovar si metta alla prova con il cortometraggio potrebbe significare due cose: primo, che questo formato cinematografico ha una sua dignità alta e costituisce una sfida impegnativa anche per registi navigati; secondo, che magari si tratta di una specie di prova di Almodovar che forse un giorno potrebbe trasformarsi in un lungometraggio.

Come ben spiegato in un articolo del Post dedicato proprio ai cortometraggi, tale formato - pur essendo molto presente in alcuni contesti - in realtà è generalmente meno apprezzato dei film e delle serie tv. Non so se si tratti di questione di distribuzione o di aspettativa. Per quanto mi riguarda di fronte ai cortometraggi sono sempre presa alla sprovvista dalla fine: mi aspetto ogni volta uno sviluppo più ampio della trama e dunque alla fine resto con l'amaro in bocca e sempre un pochino insoddisfatta.

Comunque il cortometraggio di Almodovar è carino e originale, e personalmente tutto sommato spero che sia un indice del fatto che Almodovar sta per tornare sul grande schermo con un lungometraggio, cosa che senza dubbio mi renderebbe contenta.

Voto: 3/5