lunedì 31 gennaio 2022

America Latina

Il cinema Troisi, la nuova sala cinematografica realizzata come progetto dei ragazzi del cinema America, è una realtà molto interessante, perché non è solo un luogo di proiezione di film, ma anche un luogo di incontro e di dibattito, quindi uno spazio con un'anima e un'identità molto forti.

E così, da quando ho iniziato a frequentarlo, apprezzo molto la possibilità non solo di vedere dei film - sempre selezionati con grande attenzione - ma anche di partecipare agli interessanti dibattiti che spesso li accompagnano.

In questo caso al termine di America Latina ci sono i fratelli Damiano e Fabio D'Innocenzo ed Elio Germano presentati e moderati dalla scrittrice Teresa Ciabatti.

Ma andiamo con ordine, e partiamo dal film. Premetto che ho visto entrambi i film precedenti dei due registi romani, La terra dell'abbastanza e Favolacce, e in entrambi ho trovato la freschezza e l'inventiva di uno sguardo nuovo e originale. Per questo ero molto curiosa di vedere come procede il loro percorso.

America Latina è ambientato nella zona di Latina (da qui il titolo), in una villa decisamente sui generis, un po' isolata e abitata da Massimo (Elio Germano, che torna a recitare con i fratelli D'Innocenzo), un dentista con uno studio molto avviato e una bella famiglia, formata da una moglie molto amata e due figlie molto ben educate. Un giorno Massimo scende in cantina per prendere una lampadina da sostituire in casa e si ritrova in un incubo che gli sconvolgerà la vita.

Si tratta - come si comprende da questa breve sinossi - di un thriller psicologico, di cui di conseguenza non è opportuno rivelare altro, lasciando allo spettatore il piacere di scoprire cosa si nasconde dietro la superficie.

Con questo film i fratelli d'Innocenzo procedono la loro indagine sui temi che sono a loro cari, in particolare quello della famiglia, del rapporto genitori-figli (soprattutto padre/figlio) e del sogno/incubo borghese. Ma questi temi si declinano qui in modo ulteriori, anche grazie a specifiche scelte registiche e di fotografia (il mosso, i colori rosso e verde ecc.) e all'amplificarsi del loro specifico sguardo sulla realtà che definirei livido o anche storto.

L'universo immaginifico dei D'Innocenzo è macabro senza essere splatter, sebbene in esso alberghi anche una curiosa forma di ironia folle, che il dibattito successivo alla proiezione rende particolarmente evidente (anche se non è chiarissimo quanto Fabio e Damiano "ci siano o ci facciano").

Elio Germano è perfetto nel popolare questi mondi (e non a caso l'intervista mette in evidenza un'amicizia che va al di là del rapporto di lavoro) e in buona parte questo ultimo film si regge sulla sua credibilità.

Devo però dire che in America Latina lo spunto narrativo mi è parso un pochino esile e la necessità di costruirgli intorno una storia di due ore fa sì che a volte non si possa evitare un po' di noia e che alcune sottotrame appaiano un po' gratuite. 

Nel percorso cinematografico dei D'Innocenzo fin qui mi pare si osservi un progressivo allontanamento dalla realtà per spostarsi sempre di più nel proprio universo mentale (spesso popolato di mostri malinconici). Il rischio è di avvitarsi su sé stessi e di perdere in parte la propria originalità proprio nel momento in cui la si insegue di più.

Voto: 3/5


mercoledì 26 gennaio 2022

Piazza degli eroi. Teatro Argentina, 13 gennaio 2022

Piazza degli eroi è l’ultimo testo teatrale scritto da Thomas Bernhard nel 1988, non molto tempo prima della sua morte avvenuta nel febbraio 1989. È considerato il testamento politico dell’autore ed è caratterizzato da una feroce ed esplicita critica nei confronti della classe politica austriaca che, a distanza di 50 anni dal discorso di Hitler in piazza degli Eroi con l’annuncio dell’Anschluss, ossia l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, non aveva saputo prendere le distanze secondo l’autore dal passato nazista.

Ma Piazza degli eroi non è soltanto una requisitoria politica, bensì anche una storia intima, quella del professor Schuster, un intellettuale ebreo, tornato a Vienna dopo aver vissuto e insegnato in Inghilterra. Il dramma inizia dopo che il professor Schuster è morto suicida, gettandosi dalla finestra, ed è interamente incentrato sui dialoghi e sulle riflessioni in merito alla sua morte di tutti coloro che ruotavano intorno alla sua vita: la governante, signora Zittel (Imma Villa), il fratello filosofo Robert (Renato Carpentieri), le figlie (Silvia Ajelli e Francesca Cutolo), la vedova (Betti Pedrazzi, da poco vista in È stata la mano di dio).

Ciascuno di loro si interroga sui motivi del gesto del professore, finendo inevitabilmente per fare riferimento alla situazione politica dell’Austria, al dilagare del revanscismo nazista e dell’antisemitismo. Però il suicidio del professore non è solo una risposta a una situazione esterna, bensì anche una scelta individuale legata a un’età in cui si tende ad avere nostalgia del passato e si fa sempre più fatica a proiettarsi nel futuro.

Quella di Bernhard è dunque certamente una requisitoria politica - che non a caso fece molto scandalo nella Vienna dell’epoca e che spinse il drammaturgo a lasciare scritto nel proprio testamento che le sue opere non sarebbero più state rappresentate in territorio austriaco – ma è anche una commossa riflessione sulla vecchiaia in quanto età della vita non sufficientemente approfondita e sulla morte come scelta consapevole.

L’opera, mai rappresentata in Italia, viene portata in scena da Roberto Andò, con l’intento di farla conoscere al pubblico italiano in un momento in cui le derive populiste e sovraniste (termini forse un po’ impropriamente utilizzati nella traduzione) sono sempre più presenti anche nel nostro paese, e non solo, e dunque è necessario tornare a fare i conti con il passato.

I riferimenti al presente certamente non passeranno inosservati e inascoltati, ma in realtà l’operazione compiuta da Roberto Andò (e favorita dalla traduzione e adattamento di Roberto Menin) va al di là di questa lettura contemporanea (che risulta tutto sommato un po’ riduttiva e didascalica) per offrirci invece un grande spettacolo teatrale, fatto di una messa in scena molto suggestiva (molto bella la scenografia sia degli interni che degli esterni, con gli alberi appesi e le foglie che cadono incessantemente) e di grandi attori (tra tutti Renato Carpentieri che riesce a rendere credibile un personaggio di un nichilismo e di un pessimismo estremi). Molto toccante la figura del pianista invisibile, che abita il palco insieme ai protagonisti e ne suona la colonna sonora senza essere visto, ma partecipando con il suo volto e senza dire una parola ai vari momenti del dramma.

Due ore e mezza di teatro senza intervallo, se non i brevi pezzi suonati dal pianista fantasma mentre ci sono i cambi di scena, non sono uno scherzo. Io ho sofferto la prima mezz’ora, poi dall’entrata sul palcoscenico di Renato Carpentieri, anche grazie alla sua bravura, sono entrata in sintonia con questo testo così cupo, eppure così sincero nel guardare in faccia il nulla oltre la morte, e ne sono stata definitivamente conquistata.

Voto: 3,5/5

lunedì 24 gennaio 2022

È andato tutto bene

Pur considerando François Ozon uno dei registi più importanti della sua generazione, sinceramente non avrei pensato – soprattutto dopo alcuni dei suoi ultimi lavori - che fosse capace di realizzare un film asciutto e misurato come questo. Vero è che il regista francese ci ha abituati a un percorso decisamente poco prevedibile e a una varietà di approcci tale da non farci più meravigliare di niente (cosa che secondo me appartiene solo ai grandi registi).

Però in questo caso secondo me c’è qualcosa di più. Sapevo che il film è tratto dal romanzo autobiografico di Emmanuèle Bernheim, ma non sapevo che quest’ultima fosse una delle collaboratrici più strette di Ozon e che fosse morta pochi anni fa.

Penso dunque che questo film, presentato all’ultimo festival di Cannes, sia consapevolmente e totalmente un omaggio del regista a questa donna come professionista e amica, e che in questo omaggio Ozon abbia scelto di tararsi sul registro narrativo del romanzo (che intendo leggere a breve), spogliandosi dei propri stilemi e mettendosi al servizio della storia e dei suoi protagonisti.

Al centro del racconto c’è Emmanuelle (una straordinaria Sophie Marceau, che noi continuiamo ad associare alla ragazzina con gli shorts de Il tempo delle mele, e invece è attrice gigantesca capace di far passare attraverso il suo volto pensieri e sentimenti all’interno di una gamma amplissima). Un giorno la donna riceve una telefonata che le annuncia che suo padre André (l’altrettanto strepitoso André Dussolier) è stato colpito da un ictus ed è in ospedale.

Inizia qui un percorso che vede Emmanuèle, insieme alla sorella Pascale (Géraldine Pailhas), fare i conti con la volontà del padre di morire e la sua richiesta di aiuto nel realizzare questa volontà.

Siamo in un ambiente intellettualmente elevato (ad altissima intensità artistica: André è un collezionista d'arte, Emmanuèle una scrittrice, sua sorella Pascale una musicista, e la madre una scultrice) ed economicamente benestante, non condizionato da convincimenti religiosi né da impedimenti di altro genere.

Eppure la strada è tutta in salita: perché le leggi francesi non consentono l’eutanasia e dunque, anche scegliendo la Svizzera come luogo dove attuare la volontà del padre, il rischio di complicità per le due donne è alto; perché André è un vecchio testardo ed egocentrico che suscita tenerezza ma anche una profonda rabbia; perché dentro il rapporto tra André ed Emmanuèle (e Pascale) confluiscono tutti i nodi irrisolti del passato, i rancori, gli odi, le paure, le competizioni, i ricordi belli e quelli terribili; perché l’amore verso l’altra persona è l’ostacolo più grosso nell’accettare la volontà di morire della persona amata.

A questo punto si potrebbe pensare che il film di Ozon sia un racconto drammatico incentrato sul tema della morte. Sorprenderà dunque sapere e soprattutto constatare durante la visione che È andato tutto bene è un film pieno di vita e di amore per la vita, oltre che di ironia e di capacità di ridere e sorridere dell’esistenza anche nei momenti più drammatici. André è un uomo curioso, pieno di passioni, che ha scelto sempre la vita e ha vissuto pienamente, e forse proprio per questo di fronte al declino inevitabile preferisce mettere un punto.

Come ci dice Mina Welby nel dibattito che segue la proiezione del film, la scelta di morire è qualcosa di profondamente soggettivo e imprevedibile. Ci sono persone in condizioni disperate ed estreme che vogliono vivere fino all’ultimo istante che la vita gli concede, e persone che – come André – pur sapendo che la vita può regalargli ancora qualcosa di bello, vogliono poter decidere – tutto sommato senza drammi – di mettere fine all’esistenza.

È decisamente un tema non facile quello trattato nel film di Ozon, che non a caso sceglie di rimanere in un certo senso spettatore di un racconto che appartiene a un’altra persona, e che con questa scelta non pretende in alcun modo di fornire risposte universali, ma solo di tradurre in racconto cinematografico una testimonianza. Ma proprio questa scelta, che affida agli attori il compito principale di realizzare l’empatia con gli spettatori e dunque di far comprendere gli stati d’animo di ciascuno, si rivela vincente, e capace di far arrivare nel cuore di chi guarda molto più di quello che potrebbe fare un film a tema.

Da vedere assolutamente in lingua originale. Se poi, come me, avrete anche la possibilità dopo il film di ascoltare chi ha vissuto in prima persona un percorso di questo tipo, come Mina Welby, l’emozione sarà totale e soverchiante.

Voto: 4/5



venerdì 21 gennaio 2022

Orgoglio e pregiudizio. Teatro Ambra Jovinelli, 9 gennaio 2021

Dove c'è lo zampino di Arturo Cirillo si va a teatro a scatola chiusa. In questo caso, la scatola non è nemmeno davvero chiusa visto che Cirillo in questo caso si cimenta nella regia dell'adattamento teatrale (a cura di Antonio Piccolo) del classicone di Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio, oggetto di millemila adattamenti e rivisitazioni.

Io ovviamente, pur avendo letto a suo tempo il libro e avendone visti diversi adattamenti, non ricordo praticamente nulla della storia, e così quando arrivo a teatro mi faccio fare un breve riassuntino da F. che invece non solo si ricorda tutto perfettamente ma ha anche studiato.

Dunque, per chi fosse piuttosto smemorat* come me, in Orgoglio e pregiudizio protagonista è la famiglia Bennet, padre, madre e cinque figlie. Tra queste nel cuore del racconto ci sono Jane ed Elizabeth, che sono le uniche che Piccolo e Cirillo portano in scena. Le due ragazze sono in età da marito, ma la loro famiglia di origine non è particolarmente facoltosa né socialmente elevata, quindi la madre in particolare è molto preoccupata di garantirne un buon accasamento. Quando mister Bingley, un giovane celibe e facoltoso, diventa loro vicino di casa le speranza della signora Bennet si accendono, anche perché Bingley organizza un ballo in cui sono invitate anche le figlie dei Bennet e dove c'è anche un amico di Bingley, Fitzwilliam Darcy.

Da qui seguono schermaglie verbali e amorose, sottotrame, momenti divertiti e divertenti, e altri malinconici e drammatici, fino allo scioglimento finale e al lieto fine.

Lo spettacolo di Cirillo punta molto sulla coralità della rappresentazione, sottolineata anche da una scenografia fatta di quattro grandi specchi che moltiplicano le persone in scena, nascondono e rivelano, e creano l'illusione di ambienti interni ed esterni. La compagnia è fatta di 8 persone, due delle quali - lo stesso Cirillo e Giulia Trippetta - interpretano due personaggi. In particolare Cirillo si riserva il personaggio di Bennet padre e quello della zia di Darcy, Lady Catherine De Bourgh, personaggio nel quale può esprimere tutta la sua verve istrionica.

Non manca nemmeno il commento musicale, fatta in particolare di alcune canzoni recuperate nel repertorio ottocentesco e cantate dal vivo da alcuni personaggi.

Diciamo che se Orgoglio e pregiudizio fosse nato come un'operetta, probabilmente sarebbe lo spettacolo di Cirillo, che calca parecchio sul tasto della satira e degli aspetti comici o comunque divertenti già presenti nel romanzo della Austen. La critica parla di una rilettura del romanzo in chiave vaudeville, che probabilmente ha un senso ed è coerente con alcuni stilemi della Austen, ma dal mio punto di vista svuota un po' il cuore malinconico della scrittrice inglese, che probabilmente è anche l'aspetto che mi appartiene di più.

In ogni caso, la scelta di "leggerezza" e ironia non è sfacciata e, nonostante diversi personaggi risultino a tratti un po' sopra le righe, lo spettacolo riesce a mantenersi abbastanza in equilibrio e a non rinunciare a momenti emotivamente più intensi, soprattutto quando in scena compare Elizabeth. Va detto che purtroppo la scelta di improntare lo spettacolo a un tono tendenzialmente leggero e divertito rende difficili questi cambi di registro, e nonostante gli sforzi degli attori, talvolta il pubblico ride quando invece dovrebbe commuoversi o addolorarsi.

Leggo lodi sperticate dello spettacolo da parte della critica, e certamente io non sono nessuno per avanzare alcuna ipotesi alternativa, però personalmente lo spettacolo non mi ha del tutto conquistata e preferisco un Cirillo in cui vena istrionica e malinconica si fondono in maniera più indistinguibile.

Voto: 3/5

mercoledì 19 gennaio 2022

Luigi Ghirri. Tra albe e tramonti. Immagini per la Puglia. Polignano a mare, Fondazione Museo Pino Pascali, 29 dicembre 2021

Queste mie ultime festività pugliesi sono state parecchio diverse da quelle del passato: da un lato i contagi, dall’altro la necessità di dare una mano in famiglia rendono la socialità e le attività esterne molto complicate, o comunque le riducono al minimo.

Grazie però alla caparbietà della mia amica M., riesco ad andare un pomeriggio alla Fondazione Museo Pino Pascali di Polignano a Mare, un museo di arte contemporanea che è stato realizzando negli spazi dell’ex mattatoio del paese ristrutturati e ampliati.

È un luogo che da tempo ero curiosa di conoscere e non poteva esserci occasione migliore della mostra di Luigi Ghirri, Tra albe e tramonti. Immagini per la Puglia.

Si tratta di una selezione di foto provenienti dall’archivio Ghirri relative a un viaggio che il fotografo fece in Puglia nel 1982, una selezione delle quali venne esposta a suo tempo alla Fiera del Levante.

Devo dire che vedere lo sguardo fotografico di Ghirri applicato a una terra e a dei posti che conosco molto bene mi ha colpito parecchio.

Lo sguardo del grande fotografo ha la caratteristica di essere apparentemente ordinario e in alcuni casi quasi banale, ma si rivela a poco a poco - a chi sa osservare le sue foto con attenzione e curiosità – come uno sguardo poetico, di una poesia quotidiana, quella che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni e spesso non vediamo.

Le fotografie dei luoghi e delle persone come le fa lui sembrano a prima vista quelle dei viaggi della nostra infanzia/adolescenza. E questa impressione è rafforzata dalla visione dei provini a contatto esposti, che offrono uno sguardo più ampio sul corpus fotografico e sul suo modo di scattare. Poi invece, a una seconda riflessione, si comprende che nelle foto di Ghirri c’è non solo tanta tecnica, ma anche tanta pazienza, attenzione, istinto, emozione, che tutto insieme fanno la grandezza del fotografo emiliano.

Diamo poi un'occhiata anche all’altra mostra temporanea in corso, e soprattutto alla collezione permanente esposta al piano inferiore, dove ci sono cose divertenti e interessanti, come la stanza allestita come una festa di compleanno degli anni Ottanta (dal titolo "Festa di compleanno, Elogio al passato"), totalmente realizzata in ceramica da Giorgio Di Palma.

E soprattutto ci godiamo lo sguardo sul mare al tramonto e la luce di questa terra speciale che certamente ha conquistato anche Ghirri.

Voto: 3,5/5

lunedì 17 gennaio 2022

Un eroe

Rahim Soltani (Amir Jadidi) è in prigione perché dopo essere andato in bancarotta non è riuscito a pagare il debito che aveva contratto con l'allora cognato.

Durante i due giorni di permesso che gli vengono accordati, gli si presenta un'occasione unica: la donna con cui ha una storia clandestina trova per strada una borsa contenente 17 monete d'oro. Il primo pensiero di Rahim è di vendere le monete e pagare una parte del debito per convincere il creditore a ritirare la denuncia. Successivamente Rahim decide invece di cercare la donna che ha perso la borsa e le restituisce tutto.

Questo gesto innesca una serie di conseguenze a catena in cui Rahim viene prima trasformato in eroe da una società fortemente incentrata su morale e reputazione e poi ricacciato con ignominia nella prigione da cui proviene come esito di sospetti e strumentalizzazioni da cui l'uomo non riesce a sottrarsi e che finisce per alimentare.

Nel nuovo film di Asghar Farhadi non si salva nessuno. Rahim, con la sua aria da cane bastonato e con la sua ingenuità, è l'ideale rappresentante di quella categoria di vinti che per propria incapacità, per la cattiva fede delle persone intorno e per lo sfortunato concatenarsi degli eventi sono destinati a uscire inevitabilmente sconfitti dal tentativo di sfuggire al proprio destino.

Ma quello di Asghar Farhadi è, secondo me, soprattutto un potente atto d'accusa verso una società profondamente egoista e tutta concentrata sui propri interessi e la propria reputazione, oltre che fondata sul sospetto e sulla manipolazione delle verità, tutte caratteristiche alimentate dai social network e da Internet. Nel dramma di Rahim c'è tanto della società iraniana, così come c'è una forte ispirazione al neorealismo italiano (come affermato dallo stesso regista), però c'è anche una riflessione trasversale e globale sulla contemporaneità e i suoi strumenti, che anziché ridurre le disuguaglianze e le ingiustizie sociali sembrano amplificarle.

Si esce un po' malinconici e un po' turbati dalla visione del film di Farhadi, certamente non indifferenti. Da vedere.

Voto: 4/5




venerdì 14 gennaio 2022

In giro per mostre. Roma, 26 dicembre 2021-6 gennaio 2022 (II parte)

Per la prima parte del post si veda qui.

*********************************

Inferno. Scuderie del Quirinale

La mostra Inferno alle Scuderie del Quirinale l'avevo un po' sottovalutata. In realtà me ne avevano parlato bene in molti ma io non ero particolarmente attirata. Ci vado perché S. vuole vederla e mi aggrego.

In realtà si tratta di una mostra estremamente originale, non incentrata su un artista, o un periodo, o uno stile, bensì su un tema che è appunto quello dell'inferno. Le origini del concetto, la sua concezione, la rappresentazione, la sua struttura, i suoi abitanti, il diavolo, i peccatori, la visione dantesca, e le molteplici letture che le varie arti ne hanno dato, dalla pittura alla scultura, dal cinema al teatro delle marionette, fino ad arrivare all'inferno in terra, la follia, le fabbriche e soprattutto la guerra con i suoi orrori. Questa discesa agli inferi termina come il viaggio di Dante, ossia con l'uscita "a riveder le stelle".

A settecento anni dalla morte di Dante, un viaggio emozionante meravigliosamente curato da Jean Clair e splendidamente ospitato dalle sale delle Scuderie del Quirinale. Consigliata.

Voto: 4/5

*********************************

Jacques Henri Lartigue. L'invenzione della felicità. Fotografie. WeGil

Delle mostre di fotografie attualmente in corso a Roma mi mancava solo questa dedicata a Jacques Henri Lartigue, un fotografo francese che non conoscevo. Per la mia esperienza, la WeGil non brilla per la qualità degli allestimenti, fors'anche per lo spazio a disposizione che non è particolarmente grande né flessibile, però gli si deve riconoscere il merito di portare a Roma mostre di grande interesse.

L'invenzione della felicità, mostra curata da Marion Perceval e Charles-Antoine Revol, rispettivamente direttrice e project manager della Donation Jacques Henri Lartigue, e da Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci, è una retrospettiva sul fotografo francese composta da 120 immagini, di cui una parte significativa inedite.

Si va dai primi scatti del giovanissimo Jacques, fatti intorno ai 10 anni quando il padre gli regalò la prima macchina fotografica, per arrivare al momento d'auge della sua carriera quando il fotografo fu tardivamente scoperto come narratore per immagini della Belle Epoque, fino agli ultimi decenni della sua carriera nei quali nuove strade fotografiche si affiancano allo stile e alle passioni fotografiche iniziali di Lartigue.

Personalmente ho trovato sorprendenti soprattutto le foto fatte nei primi decenni, quelle fatte per diletto e riscoperte solo molto più avanti, che mostrano un fotografo con il gusto dell'osservazione e il desiderio di cercare e fermare nel tempo e nella memoria bellezza e gioia. Caratteristica che poi resta nella sua attività fotografica successiva, persino nelle fotografie fatte su commissione.

Una mostra che sul piano dell'allestimento e dell'apparato paratestuale ho trovato non eccelsa, ma che mi ha fatto scoprire un fotografo molto interessante.

Voto: 3/5

*********************************

Klimt. La Secessione e l'Italia. Museo di Roma, Palazzo Braschi

Il giro delle mostre romane si completa con la visita a quella dedicata a Klimt e al rapporto degli artisti della Secessione viennese con l'Italia.

La mostra, a cura di Franz Smola, curatore del Belvedere, Maria Vittoria Marini Clarelli, Sovrintendente Capitolina ai Beni Culturali, e Sandra Tretter, vicedirettore della Klimt Foundation di Vienna, ospita oltre 200 opere, tra cui numerose di Gustav Klimt, ma anche molte degli altri artisti, pittori, scultori e designer, che parteciparono al movimento secessionista, nonché opere di artisti italiani influenzati da Klimt e dal suo movimento artistico.

Tra le chicche della mostra la possibilità di vedere a colori tre opere di Klimt andate perse e note solo attraverso foto in bianco e nero (quelle da lui realizzate per rappresentare la Filosofia, la Giurisprudenza e la Medicina), il tutto grazie a un lavoro di ricerca realizzato anche con l'aiuto dell'intelligenza artificiale. Inoltre un'intera sala ricostruisce il fregio di 34 metri di lunghezza realizzato da Klimt come omaggio alla Nona sinfonia di Beethoven nell'ambito della XIV mostra dei Secessionisti.

Oltre a numerosissimi disegni preparatori, in mostra è anche possibile ammirare alcune tra le opere più importanti e interessanti di Klimt come Giuditta, Ritratto di signora e La Sposa.

E con questa mostra piena di colori e di informazioni si conclude questo mio tour natalizio nei musei della città. Nonostante tutto, a volte benedico di vivere a Roma, dove davvero c'è sempre qualcosa da fare.

Voto: 3,5/5

mercoledì 12 gennaio 2022

In giro per mostre. Roma, 26 dicembre 2021-6 gennaio 2022 (I parte)

Approfitto della mia inedita presenza a Roma nel periodo natalizio per recuperare un po' di mostre che erano da tempo nei miei programmi, ma non ero ancora riuscita ad andare a vedere.

Qui la seconda parte del racconto.  

*********************************

Prima, donna. Margaret Bourke-White. Museo di Roma in Trastevere

Inizio il mio tour dalla mostra che il Museo di Roma in Trastevere, con la cura di Alessandra Mauro, dedica a Margaret Bourke-White, fotografa americana nata a New York nel 1904 e morta nel 1971 dopo 20 anni di difficile convivenza con il morbo di Parkinson.

Il titolo della mostra mi è sembrato particolarmente significativo per il suo essere polisemico. La Bourke-White ha infatti, come fotografa donna, molti primati, e questi primati sono tutti (o comunque molti) ben illustrati dalle varie sezioni della mostra; però il titolo sembra anche suggerire il fatto che il suo essere donna preceda un po' tutto il resto. 

Ed effettivamente inoltrarsi nella mostra e seguire il suo pensiero e la sua attività sembrano confermare la grandezza umana di questa donna, su cui gettano luce alcuni citazioni tratte dai cartelli esplicativi delle varie sezioni. A me ha colpito questa: «I fotografi vivono tutto molto velocemente; l'esperienza ci insegna ad affinare la nostra abilità, ad afferrare al volo i tratti salienti, i punti forti di una situazione. Quel momento perfetto e denso di significato, così essenziale da catturare, spesso è il più effimero e le possibilità di approfondimento sono rare. Scrivere un libro è diventato il mio modo di digerire le esperienze che vivo. Questa casa, nascosta dal bosco che la circonda, è il posto migliore per scrivere e per rinfrancare lo spirito. La solitudine è un lusso prezioso quando si scrive un libro. [...] Nella mia vita non c'è mai stato molto spazio per il matrimonio. Se avessi avuto dei figli sarebbe stato diverso, avrei sicuramente preso da loro l'energia e l'ispirazione anche per il mio lavoro. Chissà, forse invece di andare in guerra avrei scritto libri per l'infanzia. Ma non credo esista una vita migliore delle altre, esistono solo vite diverse. Sono sempre stata contenta della scelta che ho fatto. Una donna che vive una vita vagabonda deve essere capace di affrontare la solitudine, deve avere una stabilità emotiva, una cosa molto più importante della stabilità economica. Se sai di poter contare su di te, la vita può essere molto ricca, anche se questo richiede una grande disciplina.»

Le undici sezioni della mostra, L’incanto delle acciaierie, Conca di polvere, LIFE, Sguardi sulla Russia, Sul fronte dimenticato: gli anni della guerra, Nei Campi (che racconta l’orrore al momento della liberazione del campo di concentramento di Buchenwald), L'India, Sud Africa, Voci del Sud bianco, In alto e a casa, La mia misteriosa malattia, sono altrettante occasioni per approfondire la conoscenza del suo lavoro e della sua vita.

Una chicca è il video dell'intervista originale che Edward R. Murrow le fece a distanza (lei stava nella sua casa) durante il suo programma See it now, passato alla storia per l'espressione Good night and good luck con cui salutava i telespettatori.

La cosa più sorprendente di questa intervista è che Margaret, che il giornalista chiama affettuosamente Maggie, sembra una qualunque casalinga americana degli anni Cinquanta, con il suo vestitino a fiori e la sua casetta ordinata. Però Maggie parla della sua incredibile vita di fotografa e delle situazioni straordinarie nelle quali si è trovata, tra cui precipitare in mare da un elicottero e andare alla deriva insieme all'equipaggio per poi essere salvati quasi per caso, ovvero partecipare ad azioni di guerra, o intervistare il Mahatma Gandhi la sera prima della sua morte.

E il modo in cui, durante la lunga malattia, si offre alla fotocamera di un suo amico e collega per raccontarsi anche in un momento di debolezza conferma la tenacia incredibile del suo carattere.

Voto: 4/5

*********************************

Calogero Cascio. Picture Stories, 1956-1971. Museo di Roma in Trastevere

Sempre al Museo di Roma in Trastevere, al secondo piano, visito un'altra bella mostra: un'antologica dell'opera fotografica di Calogero Cascio, fotografo nato a Sciacca nel 1927 e morto a Roma (la sua città di elezione) nel 2015.

Cascio si era trasferito a Roma per studiare medicina, ma già negli anni dell'Università si avvicinò al mondo dell'editoria e della fotografia e cominciò a collaborare con riviste quali "Il Mondo" e L'Espresso", fino a decidere di abbandonare completamente la strada della professione medica e abbracciare l'attività di fotografo.

In quest'attività pluridecennale Cascio ha documentato più e più volte l'Italia, e in particolare la sua nativa Sicilia, terra con la quale ha avuto un rapporto di amore-odio (che tra l'altro posso comprendere molto bene): «Sono qui a Palermo, in Sicilia, che non è Europa e non è Africa, è soltanto Sicilia [...] I siciliani, a dire il vero, sono un po' orgogliosi di questa lontananza e io, che sono siciliano, lo so bene. Ma lo so ora che sono qui, ora che sono ritornato in questa mia terra che vorrei solo amare un po' di meno e odiare molto di meno. Perché è strano, ma quando ne sono lontano ho un grande desiderio di rivederla, poi, quando l'ho rivista, vorrei scappare e non posso» (1963).

Ma Cascio ha anche raccontato per numerosi giornali e riviste italiane (e non solo) storie e realtà provenienti da tanti paesi del mondo, con uno sguardo profondamente umanista, attento dunque all'essere umano, sebbene non indifferente alle regole della composizione e alla bellezza formale e sostanziale, come tante sue foto dimostrano.

L'ho vista un po' di corsa, avendo dedicato molto tempo al piano terra, ma lo considero un primo contatto con questo artista.

Voto: 3,5/5

*********************************

Amazônia / Sebastião Salgado. MAXXI

A differenza della Bourke-White e di Cascio, Salgado lo conoscevo molto bene per aver visto il film di Wim Wenders su di lui e anche una precedente mostra romana risalente ormai al 2013. Quindi sapevo cosa aspettarmi.

L'allestimento del MAXXI è molto bello e scenografico: le foto si articolano in varie sezioni, che però si possono dire appartenenti a due grossi insiemi: le foto paesaggistiche che sono stampate in grande formato e sono prevalentemente appese al soffitto e le foto con soggetti umani (ritratti di uomini, donne e bambini dei vari gruppi e tribù che abitano la foresta dell'Amazzoni), queste ultime sistemate fuori e dentro delle strutture circolari ispirate ad alcune abitazioni tipiche del territorio.

Il tutto è immerso nel buio, cosicché le foto - che sono le uniche cose illuminate da appositi faretti - sembrano a prima vita quasi retroilluminate, mentre in sottofondo suonano musiche composte appositamente per la mostra.

L'effetto è piuttosto suggestivo e le foto di Salgado, sempre bellissime - forse quelle con soggetti umani persino più emozionanti di quelle con gli straordinari paesaggi naturali - sono come dei fari nel buio, con il loro bianco e nero molto contrastato ed estremamente luminoso.

Purtroppo c'è troppa gente (eppure ero prenotata per le 14 del 26 dicembre, non oso immaginare più tardi), e dunque non si riesce a godere adeguatamente e con serenità della mostra, e devo anche dire che l'effetto "wow" delle foto di Salgado alla fine tende a scemare, un po' per la ripetitività di alcuni contenuti, un po' perché è talmente tutto incredibile da non sorprenderci più.

Ovviamente sappiamo che l'obiettivo di Salgado - insieme alla moglie Lélia Wanick, con cui ha fondato l'Instituto Terra - è quello di contribuire al salvataggio di un ambiente naturale, quello della foresta amazzonica, fortemente minacciato dalla deforestazione e dal cambiamento climatico, che mettono a rischio non solo la sopravvivenza di quell'ambiente naturale, bensì anche quella dell'intero pianeta la cui salute dipende anche da quell'incredibile polmone che è l'Amazzonia, oltre a rendere sempre più difficile la vita delle popolazioni che qui vivono da millenni, alcune delle quali addirittura mai venute in contatto con altri esseri umani.

Quindi, già solo per questo, la mostra va vista.

Voto: 3,5/5

lunedì 10 gennaio 2022

Porte. Prove aperte di un debutto rimandato / Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Teatro Vascello, 16 dicembre 2021

Porte è il nuovo spettacolo che Antonio Rezza e Flavia Mastrella stanno preparando e che porteranno in scena nei teatri italiani nel corso del 2022. A dicembre al Vascello si sono tenute le prove aperte dello spettacolo.

Quando arriviamo il sipario è aperto, alcuni attori sono già sul palco, e a un certo punto sbuca Antonio Rezza, con la sua “divisa” rossa e nera e le sue scarpette da pugile. Ci racconta che, non avendo più a disposizione il posto dove facevano le prove dei loro spettacoli, il Vascello gli ha dato l’opportunità di mettere in scena le prove aperte e che lo spettacolo è in fieri, e dunque ci chiede di essere magnanimi nel giudizio.

Intanto, dal pubblico sono state cooptate due donne che Rezza farà partecipare alla messa in scena.

Buio in sala ed eccoci catapultati in quel turbine che è il teatro di Rezza e Mastrella.

Protagonista è una porta, inizialmente poggiata per terra sul lato lungo a simboleggiare una bara, nella quale c’è disteso Antonio Rezza. Inizia così uno spettacolo che, dentro e fuori del confine di un rettangolo disegnato per terra, costruisce mondi, interni ed esterni, appunto grazie a una porta che viene chiusa e aperta in continuazione, e dietro o davanti alla quale ci sono i protagonisti del “racconto”, i personaggi surreali tipici della narrazione dei due autori.

Il primo atto ci presenta – se così vogliamo dire - tutti i protagonisti, figure che ruotano intorno ad Antonio Rezza e a una giovane ragazza che viene presentata come la sua fidanzata. Tutti gli altri sono parenti e/o amici dell’uno o dell’altro e il cuore del racconto è la conoscenza reciproca delle due famiglie. Mattatore assoluto è Antonio Rezza che con le sue trovate verbali, i giochi di parole, il movimento continuo e la sua presenza scenica ci trascina in un universo assurdo e normale al contempo, un qualcosa che assomiglia alla nostra quotidianità e nello stesso tempo ne è totalmente lontano, e su cui ridiamo per quello che capiamo e anche per quello che non capiamo.

Questo atto termina con Rezza che si denuda completamente al termine di una gag in cui il suo passaggio attraverso la porta diventa il passaggio al metal detector di un aeroporto che lo costringe a togliersi a poco a poco tutto per capire cos’è che lo fa squillare.

Il secondo atto mescola un po’ le carte in tavola, modifica i ruoli dei personaggi, crea situazioni di socialità più complessa (familiare e non), e il fil rouge sotteso alle varie gag risulta meno chiaro e più sfilacciato. Questa seconda parte al momento attuale mi è sembrata più debole e meno riuscita della prima, sebbene il finale in cui la porta sbattuta viene usata come una specie di fucile o mitragliatrice per liberarsi di tutti mi è sembrato un’invenzione strepitosa ed esilarante. Sono curiosa di vedere se e quali cambiamenti saranno apportati al testo e alla messa in scena prima dell’uscita ufficiale dello spettacolo.

In ogni caso il cuore di questo lavoro già c’è e il tema delle “relazioni familiari” mi è sembrato forte e sviluppato in una maniera follemente interessante da Rezza e Mastrella. Quindi per me sono promossi.

E poi vedere a teatro un pubblico di tutte le età, cosa che ormai riesce a pochissimi autori che non siano comici puri, va a ulteriore merito di queste due figure originali del nostro mondo teatrale.

Voto: 3,5/5

domenica 2 gennaio 2022

Il capo perfetto

Quello che sulla carta appare come il perfetto film di Natale, la commedia brillante che rallegrerà il pomeriggio di un giorno di festa, si rivela invece un film ben più stratificato e complesso, dove la risata non può che essere amara e spesso si tramuta in smorfia.

Julio Blanco (il bravissimo Javier Bardem) è il dirigente di un'azienda di bilance (Basculas Blanco) che ha ereditato dal padre, e che è un modello di organizzazione e funzionamento, tanto da aver ricevuto molti premi in passato ed essere candidata a un altro importante riconoscimento.

In vista della visita della Commissione che decreterà questo premio, Blanco deve esercitare al massimo grado il suo ruolo di capo perfetto, capace di mantenere tutto in equilibrio (esattamente come le bilance che produce), risolvendo anche i problemi personali dei suoi dipendenti.

Blanco infatti ha uno stile di direzione dell'azienda che non è in alcun modo asettico e puramente gerarchico, bensì si basa sulla valorizzazione della componente umana e sulla comunicazione di tipo personale. Da questo punto di vista Blanco è un manager fortemente all'avanguardia, che si è affrancato dalla rigidità dei dettami del management e dalla sua sclerotizzazione, e che invece mette in campo la sua umanità. Il film non a caso inizia con una riunione aziendale in cui il capo coinvolge i suoi dipendenti in una narrazione dell'azienda come grande famiglia.

Peccato che come tutte le famiglie che si rispettino, la Basculas Blanco è una realtà molto meno armoniosa di quello che appaia all'esterno: il capo della produzione è in crisi con la moglie e sempre più disattento sul lavoro, il figlio di un operaio si è cacciato nei guai per una rissa, un dipendente appena licenziato ha fatto un picchetto di fronte all'ingresso dell'azienda e non intende andarsene, la nuova, giovane stagista esercita su Blanco un fascino a cui lui non sa resistere.

Nella settimana che precede la visita della Commissione, gli eventi si fanno giorno dopo giorno sempre più intricati e incalzanti, cosicché il ritmo diventa quasi quello di un giallo di cui aspettiamo lo scioglimento. E lo scioglimento prende la forma di una rivelazione senza appello della profonda ipocrisia che si nasconde dietro quella grande bugia che è la narrazione. E questo vizio, ossia quello di usare strumentalmente le storie per manipolare gli altri e per rafforzare la propria identità, non riguarda soltanto il capo (che si dimostra ovviamente molto meno perfetto e molto più senza scrupoli del previsto), bensì anche tutti coloro che gli ruotano intorno, tutti in qualche maniera e nella posizione che occupano altrettanto egocentrici e prigionieri di narrazioni, che spesso raccontano a sé stessi oltre che agli altri.

Fernando León de Aranoa mi sembra offrire - attraverso un registro volutamente leggero - non tanto e non solo l'ennesima critica a un mondo del lavoro sempre più schiavo del mito dell'eccellenza e capace di lasciare sul campo "morti e feriti" per realizzarla, bensì anche una originale critica a una società tutta basata su una narrazione di facciata in cui tutti siamo manipolati e manipolatori.

E tutto questo mi pare al contempo coraggioso e originale, soprattutto rispetto a una commedia italiana ormai avvoltolata intorno alle dinamiche di coppia e poco altro.

Voto: 3,5/5