
La prima – prenotata già diversi mesi fa – è quella dedicata a Caravaggio, in corso a Palazzo Barberini che attinge in prima battuta alle collezioni permanenti del museo e le arricchisce con prestiti provenienti da molte altre istituzioni museali italiane e straniere.
La mostra, curata da Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon, fa parte delle iniziative inserite nel programma giubilare. In un periodo – che ormai dura da diversi anni – in cui le mostre sono in tono sempre minore, con poche opere davvero rilevanti, a causa dei proibitivi costi di assicurazione per lo spostamento dei lavori di artisti così rilevanti, Caravaggio 2025 è un’eccezione, confermata anche dalla risposta del pubblico, che ha esaurito i biglietti disponibili fino alla sua conclusione molte settimane prima.
Effettivamente, una mostra davvero monografica come questa era un pezzo che non la si vedeva: a Palazzo Barberini nel percorso espositivo di quattro sale, corrispondenti ad altrettante sezioni della mostra, si ha la possibilità di seguire tutta la carriera artistica di Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio, in parallelo con le sue vicende di vita, a partire dalle opere degli inizi, tra cui il Narciso e i Bari, fino ad arrivare all’ultima realizzata poco prima della morte, il Martirio di sant’Orsola, prestato da Intesa Sanpaolo.
Nel mentre opere importanti come i ritratti di Maffeo Barberini, l’Ecce Homo, Santa Caterina, Marta e Maddalena, Giuditta e Oloferne, San Francesco in estasi, e molti altri lavori che permettono di osservare da vicino l’eccezionalità delle doti pittoriche di Caravaggio.
Io sono rimasta particolarmente colpita dalla Cattura di Cristo, l’unico quadro in mostra non fotografabile, che offre a chi guarda una composizione che ho trovato di una modernità davvero sconcertante.
Nonostante i tanti visitatori all’orario in cui ci sono andata io (ossia alle 19,40 di un venerdì sera – ma mi dicono che la situazione non cambia in altri orari e giornate), è possibile godersi il percorso e le opere, magari anche tornando indietro nelle sale lì dove se ne senta il bisogno.
Il pomeriggio successivo (sabato) è stato invece dedicato alle mostre in corso al Palazzo delle Esposizioni, luogo espositivo a mio parere molto sottoutilizzato, e dove infatti mancavo da tempo.

La mostra delle grandi foto di Albert Watson è ospitata al piano terra del museo, nelle sale a sinistra: si tratta di grandi stampe di foto che raccontano lo sguardo del fotografo scozzese sulla città di Roma e le persone che la rappresentano, tra cui molti attori, registi, artisti, uomini politici ecc. Uno sguardo che può apparire a tratti convenzionale e folckloristico, ma che riesce anche a offrire punti di vista originali su una città che è tra le più fotografate al mondo.
Ma il vero obiettivo della nostra gita al Palazzo delle Esposizioni è la mostra dedicata a Mario Giacomelli, il fotografo di Senigallia che molti conoscono per la serie di fotografie dei pretini sulla neve dal titolo Io non ho mani che mi accarezzino il volto, che furono scattate nel cortile del seminario arcivescovile di Senigallia. Anche queste foto sono presenti in questa mostra e lo sono a fianco dei provini su cui Giacomelli aveva scritto i suoi appunti relativi agli interventi da fare in camera oscura, il che dice tantissimo del modo di lavorare del fotografo marchigiano, un modo che confina più con una ricerca artistica che con una vera rappresentazione del reale. Giacomelli cerca forme e grafismi, trasfigurando la realtà, a volte rendendola quasi irriconoscibile, e per questo una parte importante del suo lavoro – oltre allo scatto – è l’attività in camera oscura. Per questo la mostra, che consente di vedere oltre 300 stampe originali del fotografo, prova a raccontarne la poetica non solo attraverso le sue foto, ma anche attraverso la relazione con le opere di artisti contemporanei come Afro (Afro Basaldella), Roger Ballen, Alberto Burri, Enzo Cucchi, Jannis Kounellis. Viene così magnificamente fuori che le foto di Giacomelli vanno molto al di là di quanto rappresentano, e sono dei paesaggi interiori ed emotivi, costruiti a partire da luoghi, persone, ambienti come fossero tele appena abbozzate da cui il fotografo fa emergere l’essenza.
Non esattamente un tipo di fotografia di facile fruizione (non a caso la serie dei pretini è la parte più conosciuta della sua produzione, in quanto forse la più largamente fruibile), ma un viaggio spaesante, a tratti disturbante, nella mente di una persona dalla creatività decisamente strabordante e in parte naif.
La nostra visita al palazzo delle esposizioni si concluda con la visita alla sezione dedicata alle foto vincitrici del World Press Photo, il famosissimo contest di fotogiornalismo che ogni anno premia foto singole, storie e reportage di fotografi professionisti provenienti da ogni parte del mondo, e che di questo mondo raccontano attraverso le immagini realtà, persone e situazioni più o meno note.
Alcune delle foto in mostra hanno avuto già una larga esposizione mediatica, tra cui ad esempio la foto vincitrice della fotografa palestinese, Samar Abu Elouf, scattata per il New York Times, che ritrae un ragazzo rimasto mutilato negli attacchi su Gaza. Si tratta di foto che sono l’esatto contrario di quelle di Giacomelli: tanto quelle provavano a trasfigurare o ad allontanarsi dalla realtà, quanto queste affondano le radici nel mondo reale e nella vita delle persone.
Il Palazzo delle Esposizioni offre dunque al visitatore l’occasione di fare un viaggio attraverso tempi e modi diversi di fare fotografia, consentendogli dunque di apprezzare la complessità e le molteplici sfaccettature di quella che non a caso è ormai considerata a tutti gli effetti l’ottava arte.
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