mercoledì 19 marzo 2025

Setak (+ Marco Scipione). Monk, 22 febbraio 2025

Setak, nome d’arte di Nicola Pomponi, era per me un emerito sconosciuto fino a qualche mese fa, quando nell’opening del concerto di Fink l’ho sentito cantare le sue canzoni e suonarle insieme al suo chitarrista Alessandro Chimenti.

Dopo quel giorno ho comprato un paio di album di Setak e l’ultimo, Assamanù, l’ho decisamente consumato nell’ascolto. Cosicché vedendolo nel cartellone del Monk e questa volta non ad aprire un altro artista ma con un concerto tutto suo, e per di più nel mio ormai orario preferito dei concerti, ossia alle 19, non mi sono fatta sfuggire l’occasione di tornare ad ascoltarlo dal vivo.

Trascino al concerto – non con qualche titubanza perché con la musica è difficilissimo indovinare i gusti degli altri – un’amica e altri suoi amici, che sono già al bar a bere una birra quando io arrivo intorno alle 18,30. Mentre loro mangiano un boccone, io mi fiondo in sala per prendere posizione, come al solito in prima fila, in modo da poter fare le mie amate foto.

Dopo pochissimi secondi e quando in sala c’è ancora pochissima gente, inizia a suonare Marco Scipione, un sassofonista per me ignoto, che all’inizio suona uno strumento che è una via di mezzo tra un sassofono e un basso tuba (ammetto la mia ignoranza!) e con cui ci suona una musica che sembra arrivare direttamente dalla savana e richiamare i versi dei grandi animali selvatici. Passa poi al sassofono vero e proprio con cui esegue – arricchendoli con l’uso di una pedaliera - una serie di brani strumentali che sarebbero perfetti come colonna sonora di un film e che trovo molto suggestivi.

Dopo un brevissimo cambio di palco, ecco arrivare Setak in formazione full band: con lui ci sono alle tastiere il fratello Nazareno Pomponi, al basso Fabrizio Cesare, alla batteria (e non solo) Emanuele Colandrea e alle chitarre il già noto per me Alessandro Chimenti.

Sono davvero curiosa di ascoltare questa volta Setak non in versione semiacustica, ma con questi arrangiamenti importanti e ricchi.

Il concerto si apre con la canzone che dà il titolo all’ultimo album, Assamanù, e poi si sviluppa spaziando attraverso i suoi lavori che – per chi non lo sapesse – a parte pochissime eccezioni sono tutti scritti e cantati in dialetto abruzzese.

Ascoltiamo così canzoni come Di chi ‘ssi lu fije?, Quanda sj 'fforte, Cumbà, Curre curre, Aspitte aspitte. A un certo punto del live, Setak invita sul palco un ospite, l’amico Bob Angelini, che si unisce alla band suonando la steel guitar e aggiungendo ulteriore fascino all’esecuzione delle canzoni. E così andiamo avanti ad ascoltare Figli della storia, Alé Alessa', ma anche Picché, suonata con l’accompagnamento del sassofono di Marco Scipione, e ancora Marije, suonata e cantata da solo sul palco, per finire in full ensemble con una versione molto coinvolgente di Pane e 'ccicorje.

Tra una canzone e l’altra Setak presenta la sua band, scherza con i musicisti ospiti, chiacchiera con il pubblico, che tra l’altro vede una folta presenza di abruzzesi e di persone che conoscono tutte le canzoni di Nicola Pomponi e non si sottraggono ai singalong che il cantante propone.

Né Setak né alcuno dei suoi musicisti si risparmia, in un concerto che diventa un grande abbraccio, un vero happening e in cui si sente forte l’affetto del pubblico verso i musicisti, e viceversa, e questo affetto passa attraverso un collettivo amore per la musica.

Anche gli amici che mi sono trascinata dietro e che sono venuti a sentire Setak a scatola chiusa sono parecchio entusiasti, il che mi conferma l’impressione di un concerto davvero riuscito.

Voto: 4/5

lunedì 17 marzo 2025

Toccando il vuoto / di David Greig. Argot Studio, 21 febbraio 2025

Per la mia prima volta ad Argot Studio, un piccolo teatro nel cuore di Trastevere che ha una programmazione piuttosto interessante, scelgo questo spettacolo suggerito da un’amica.

Toccando il vuoto è tratto dal testo del drammaturgo scozzese David Greig, portato per la prima volta sui palchi italiani con la regia di Silvio Peroni che ha lavorato sulla traduzione di Monica Capuani.

Lo spettacolo racconta la storia vera di due alpinisti, Joe Simpson e Simon Yates (interpretati rispettivamente da Lodo Guenzi e Giovanni Anzaldo) che, durante un’escursione sulle Ande peruviane, in fase di discesa si trovano in una situazione critica: Joe cade in un dirupo e Simon a un certo punto non può che tagliare la corda.

Il testo di Greig è a sua volta l’adattamento teatrale del libro omonimo (Touching the void) scritto da Joe Simpson, da cui è stato tratto un film di Kevin McDonald che in Italia è stato distribuito con il titolo La morte sospesa.

Tutte queste cose in realtà le realizzo dopo la visione dello spettacolo, a cui arrivo completamente impreparata, tanto che per tutta la sua durata resto convinta che lo sfortunato protagonista, Joe, sia morto nell’incidente, che è quasi certamente l’effetto voluto dal testo di Greig e dalla messinscena di Silvio Peroni.

Quindi, tutto sommato, meno male che non sapevo del libro e non ricordavo di aver visto il film (cosa che mi ha ricordato il giorno dopo la mia amica S.) perché questa mia dimenticanza mi ha consentito di vivere lo spettacolo nel modo giusto, inseguendo le tracce narrative per cercare di capire cosa fosse realmente avvenuto e cosa invece sogno e/o allucinazione.

Rispetto a quanto mi aspettavo leggendo la presentazione, lo spettacolo mi è parso molto meno incentrato sul tema etico – che è ovviamente presente, ma secondo me non così centrale – e molto più sull’approfondimento della psicologia degli alpinisti e dell’insieme di relazioni che ruotano intorno a questa storia.

Gli attori sono tutti molto bravi, con una menzione particolare per Eleonora Giovanardi che interpreta la sorella di Joe e per Matteo Gatta che è il giovane viaggiatore un po’ naif a cui Joe e Simon affidano la custodia del campo base durante la loro escursione.

Interessantissima la messa in scena complessiva che, con una scenografia piuttosto minimale (una struttura in ferro che rappresenta la montagna da scalare e poco altro) e un uso appropriato di luci e suoni, riesce a rendere tutta la complessità di una vicenda che si svolge in parte sulla montagna e in parte nella mente del protagonista.

Sebbene a un certo punto non ne potessi più di questa specie di lotta estenuante per la sopravvivenza che vede protagonista Joe, devo dire che lo spettacolo è molto ben fatto e riesce ad essere molto efficace sia sul piano narrativo sia su quello emotivo.

Voto: 3,5/5

venerdì 14 marzo 2025

Don Giovanni / Molière; con Arturo Cirillo. Bologna, Teatro Arena del Sole, 14 febbraio 2025

Approfitto di un weekend bolognese per andare a vedere l’ultimo spettacolo di Arturo Cirillo che nel suo tour – almeno per questa stagione – non tocca i teatri di Roma.

Che Cirillo avesse una passione per Molière lo sapevo da quando, un po’ di anni fa, avevo visto il suo adattamento de La scuola delle mogli.

A questo giro il regista e attore napoletano si cimenta con un’opera classica di Molière, il Don Giovanni, personaggio presente in diverse tradizioni culturali e che ha ispirato prodotti culturali diversi, tra questi particolarmente famosa è l’opera di Mozart, musicata a partire dal libretto di Lorenzo Da Ponte.

Cirillo, dunque, tenta una specie di operazione impossibile, ossia mette in scena un Don Giovanni in cui si fondono i tratti dell’opera di Molière con le caratteristiche del libretto di Da Ponte, senza dimenticare il cantato e la musica di Mozart.

Ne viene fuori uno spettacolo che sulle prime potrebbe lasciare perplesso lo spettatore, soprattutto quello che conosce il Don Giovanni nella sua versione operistica e che dunque si ritroverà ad ascoltare le parti cantate in forma recitata o in una forma intermedia tra il recitato e il cantato su una partitura minimale che arriva direttamente da Mozart.

Io che l’opera di Mozart la conosco solo nell’adattamento dell’Orchestra di Piazza Vittorio e ricordo a malapena le arie più famose non ho particolari aspettative e sostanzialmente mi godo la storia di Don Giovanni, quest’uomo che ama il gioco della seduzione e che sull’altare della seduzione sacrifica qualunque remora religiosa e morale, fino a sfidare la morte.

Il suo alter ego è rappresentato dal servo Sganarello, che - pur obbedendo ai suoi ordini e pur manifestando di tanto in tanto le stesse debolezze - cerca di richiamare continuamente il suo padrone ai dettami sociali e religiosi.

Ne viene fuori una storia che ai miei occhi – come spesso mi accade di fronte alle opere musicali – mi appare un pastiche, in cui la narrazione è totalmente al servizio dell’intrattenimento, ma che – nella rilettura di Cirillo – riesce a mescolare sapientemente tragedia e commedia, dando spazio ad alcune forme ossessive che lo stesso regista riconduce addirittura a certo teatro dell’assurdo.

Personalmente – ma chi sono io per dirlo? – l’operazione appare pienamente riuscita e anche quel fastidio iniziale per una drammaturgia che mescola codici e linguaggi diversi via via si attutisce fino a risultare interessante e divertente.

Bravissimi gli attori, lo stesso Cirillo – che però per me non è una sorpresa – e soprattutto Giacomo Vigentini nei panni di Sganarello che si rivela una vera forza della natura.

Voto: 3,5/5

mercoledì 12 marzo 2025

L’uomo nel bosco = Miséricorde

Alain Guiraudie è un nome che si è affacciato piuttosto tardivamente alla ribalta cinematografica internazionale e lo ha fatto con un film, Lo sconosciuto del lago, che ho inseguito a lungo ma che ancora non sono riuscita a vedere (mentre ho visto un film che ha avuto meno distribuzione ma che ho trovato interessante: L'innamorato, l'arabo e la passeggiatrice).

Per questo ho deciso che non mi sarei lasciata sfuggire L’uomo nel bosco, film presentato a Cannes in una sezione collaterale e che in Francia ha fatto il pieno di candidature ai César francesi.

Ho voluto ricordare nel titolo di questo post che il film, nella sua versione originale, si chiama Miséricorde, che secondo me è un’informazione utile per interpretare la narrazione, volutamente ambigua e misteriosa, che Guiraudie ci propone.

La storia è presto detta: Jérémie (Félix Kysyl) torna da Tolosa nel paesino dell’Ardèche di cui è originario per partecipare al funerale del panettiere locale, con cui ha lavorato e a cui era legato. Rientrato nel contesto dal quale proviene, dopo il funerale, Jérémie decide di fermarsi qualche giorno, ospite della vedova del panettiere (Catherine Frot).

La sua presenza in paese produce una serie di reazioni a catena, mandando in fumo gli equilibri tra le persone e portando allo scoperto il rimosso di ciascuno.

Di mezzo c’è anche un omicidio, ma il film non è un giallo, e in generale non è facile incasellare il film dentro una specifica categoria (come del resto gli altri di Guiraudie), e quando ci convinciamo che si tratti di un noir il film scarta lateralmente facendosi racconto psicologico con venature grottesche e a tratti esilaranti, quasi da commedia dell’arte.

Guiraudie – come lui stesso afferma in un’intervista – lavora per sottrazione: a partire dal suo stesso romanzo a cui il film è ispirato toglie tutti quegli elementi che ci aiuterebbero a interpretare fino in fondo i comportamenti dei personaggi: Jérémie, la vedova, suo figlio Vincent (Jean-Baptiste Durand, regista del bel film Chien de la casse), l’amico Walter (David Ayala).

Perché Jérémie divenga l’oggetto di desiderio di tutti, perché lui stesso attivamente si faccia seduttore, perché la sua presenza produca reazioni così scomposte e lui stesso se ne faccia coinvolgere, in che relazione erano i protagonisti in passato quando Jérémie abitava ancora nel paese non è dato saperlo.

Noi spettatori vediamo personaggi agìti dal desiderio, un desiderio a volte quasi inspiegabile, che sicuramente si contrappone alla monotonia e all’abbandono di un paese dove l’attività più diffusa e comune è passeggiare nel bosco per raccogliere funghi. E il bosco si presenta a seconda dei casi inquietante, fatato o splendente, per effetto della luce, del tempo atmosferico o semplicemente del modo in cui lo guardiamo e interpretiamo.

Esattamente la stessa cosa che accade con i personaggi: le loro azioni sono più inquietanti, bizzarre o stranianti a seconda del modo in cui le guardiamo e del significato che attribuiamo loro.

L’ambiguità è dunque la cifra dominante, ma come dice il fotografo giapponese Daido Moriyama “a normal human being will in one day perceive an infinite number of images, and some of them are focused upon, others barely seen out of the corner of one's eye.” Mi pare che questa citazione ben si attagli anche al cinema di Guiraudie.

Voto: 3,5/5


lunedì 10 marzo 2025

Ciao bambino

Fidandomi del giudizio della mia amica S. vado a vedere l’opera prima del regista napoletano Edgardo Pistone e ho anche la possibilità di guardare il film dopo la presentazione dello stesso regista e della protagonista Anastasia Kaletchuk, che si ferma anche al termine della proiezione per rispondere alle domande del pubblico.

Siamo nel quartiere Traiano di Napoli. Attilio (Marco Adamo) ha diciassette anni e insieme ai suoi amici oscilla tra la spensieratezza e i sogni dell’adolescenza e il confronto con la difficile realtà familiare e sociale dalla quale proviene.

Suo padre Luciano (interpretato dal padre del regista, Luciano Pistone) è appena uscito di prigione, e deve fare i conti con un grosso debito che ha contratto con un “amico”, mentre non riesce a sfuggire alle sue dipendenze dalla droga e dal gioco.

Per aiutare la famiglia Attilio decide di mettersi a lavorare per un boss locale, facendo da controllore a una giovane prostituta ucraina, Anastasia (Anastasia Kaletchuk), poco più grande di lui. Tra i due giovani, prima ostili, a poco a poco cresce la confidenza e la complicità, che a un certo punto si trasforma in amore. Ma Attilio, per poter guardare al futuro, deve prima risolvere la situazione familiare.

Nell’impianto narrativo il film di Edgardo Pistone non può non richiamare alla memoria un altro film di ambientazione napoletana, L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, che pure si focalizzava sull’evoluzione del rapporto tra una ragazza e un ragazzo messo a farle la guardia.

In realtà però il regista, a specifica domanda, risponde che le sue ispirazioni a livello registico sono altre: Antonio Capuano per restare al contesto napoletano e soprattutto il cinema messicano degli ultimi dieci anni, che chiaramente rimanda ad Alfonso Cuarón, di cui il bianco e nero scelto da Pistone richiama il bellissimo Roma.

Pistone tiene a dire con forza che il suo non è un cinema neorealista e che anzi con il suo film vuole sovvertire alcuni cliché sulla periferia degradata e semmai andare alla ricerca delle bellezza che si può trovare ovunque se si guarda nel modo giusto e con gli occhi puliti.

Ovviamente Ciao bambino - come in parte è suggerito anche dal titolo - è anche un coming of age, la storia di un ragazzo che è sul limitare del passaggio all’età adulta, in quella fase della vita in cui – in un mondo normale e sano – dovrebbe essere ancora possibile coltivare i propri sogni, anche in maniera ingenua, e fare i propri errori con conseguenze limitate, perché non si portano ancora carichi importanti di responsabilità.

Non a caso il film si apre con Attilio e i suoi amici al mare, con i loro corpi giovani e levigati baciati dal sole, mentre si tuffano dagli scogli uno dopo l’altro, e scherzano e ridono tra di loro, come gli adolescenti di tutto il mondo. Però questi sono adolescenti come tutti gli altri solo fino a un certo punto, perché il contesto nel quale vivono gli impone di non fare passi falsi, in quanto gli errori si pagano anche se si è ancora bambini.

Non ci si aspetti però un melò negli ambienti della malavita – secondo un filone molto di moda negli ultimi tempi – bensì il racconto della vita di un ragazzo di cui, fatta la tara del contesto, il regista riesce a illuminare gli aspetti più tipici e normali della sua età: quel mix di spacconeria e tenerezza, ingenuità e cupezza, balordaggine e coraggio che solo chi ancora non ha varcato la soglia dell’età adulta può condensare in sé, e a cui fa da straordinaria cartina di tornasole il personaggio di Anastasia la quale – avendo solo qualche anno in più – ha già fatto i conti con la realtà e la limitatezza dei suoi confini.

Voto: 3,5/5


venerdì 7 marzo 2025

The Veils (+ Dario Sansone). Monk, 9 febbraio 2025

Da quando il Monk ha inaugurato questa linea degli early concerts devo dire che prendo i biglietti col cuore molto più leggero, perché so che posso andare ad ascoltare un concerto anche in mezzo alla settimana e questo mi stimola anche ad andare a sentire musicisti e cantanti che non conosco benissimo.

Ed eccomi qua per il concerto dei Veils, che conosco poco per il passato, ma il cui ultimo lavoro – Asphodels – ho consumato a furia di ascolti, trovandolo triste e dolce al contempo, ballate piene di malinconia, il cui pessimismo è attutito da una forma di rassegnazione e/o di saggezza.

Dieci minuti dopo le 19 il live comincia con l’opening di Dario Sansone, napoletano, che non conosco e scopro essere non solo musicista, ma anche attore, regista, illustratore, scrittore, quello che si dice un artista a 360°.

Inizia con un brano dal titolo Sole che viene dal suo nuovo album in uscita e che canta con gli occhi bendati. Poi prosegue con 3-4 altri brani del suo repertorio, uno dei quali è legato alla colonna sonora del film di animazione napoletano La Gatta cenerentola a cui Sansone ha collaborato.

Sansone ci dice di essere riuscito a esserci per questo opening nonostante l’influenza, e devo dire che nonostante le sue condizioni certamente non ottimali, ci permette di apprezzare la sua gran voce e il suo interessante repertorio.

Dopo una breve riorganizzazione del palco, ecco arrivare i neozelandesi The Veils, capeggiati dal loro leader (altissimo!) Finn Andrews. La formazione è fatta di 5 musicisti: oltre a Andrews che alterna tastiere e chitarre (elettrica e acustica) ci sono un bassista, un batterista, un polistrumentista (al synth, al violino e piccole percussioni) e un ultimo musicista alla steel guitar.

L’esibizione inizia con alcuni brani del nuovo album, in sequenza Mortal wound, The dream of life, The ladder, Fortune teller (tutti molto notturni, e suonati da Finn alla tastiera), per poi passare a brani per me meno riconoscibili provenienti dagli album precedenti e dalle sonorità decisamente più rock, per la cui esecuzione Andrews si sposta alla chitarra elettrica. Tra questi brani Not yet, Here come the dead, Birthday present.

Si ritorna dunque a un paio di brani dell’ultimo album (Asphodels, The sum) per poi concludere di nuovo con il repertorio più consolidato, che è quello su cui il pubblico sembra più preparato ed entusiasta, anche se a me è quello che forse colpisce meno.

Il concerto è comunque in ottimo equilibrio tra momenti più dirompenti e altri più notturni, pur partendo dal presupposto che il repertorio dei Veils non è comunque mai spensierato. I musicisti sono completamente concentrati sulla musica, e Andrews, sebbene sempre empatico e attento al pubblico, si limita a ringraziare tanto e a ricordare che manca da Roma da moltissimo tempo ormai.

Dopo l’ultimo brano il pubblico chiede il ritorno sul palco della band, che premia l’affetto del pubblico con ben quattro brani, tra cui Lavinia, Nux vomica e The Tide That Left & Never Came Back. In realtà al primo brano, Lavinia, Andrews torna da solo sul palco e sembra che il bis si limiterà ad esso, ma poi dopo ogni brano il frontman chiede al pubblico se va bene che ne suonino un altro (One more?) e si va avanti così per un altro miniconcerto.

Bell’atmosfera, un gruppo solido e ormai maturo, una bella esecuzione dal vivo. Non una band che ascoltata dal vivo rappresenta un’illuminazione rispetto all’ascolto della loro musica registrata, però certamente un concerto di livello alto e di grande soddisfazione.

Voto: 3,5/5

mercoledì 5 marzo 2025

La morte a Venezia / di Liv Ferracchiati. Teatro India, 8 febbraio 2025

Seguo Liv Ferracchiati ormai da diversi anni, da quando ho scoperto il suo teatro con la Trilogia sull’identità.

Ogni volta che decido di andare a vedere un suo spettacolo, so dunque cosa mi aspetta: una scenografia minimale, pochi personaggi in scena, un flusso di coscienza destrutturato, una parte di nonsense, e tutto questo va accolto esattamente così com’è per poter essere apprezzato.

Con La morte a Venezia Liv Ferracchiati si confronta con il capolavoro di Thomas Mann, ma lo fa alla sua maniera, in assoluta libertà, come se il testo di partenza fosse un pretesto o – forse meglio – uno spunto per trattare tematiche care, tra cui la bellezza, l’ispirazione artistica, l’invecchiamento.

L’aspetto però più interessante di questo nuovo spettacolo è la sua forma. Sul palco ci sono dei teli sospesi, uno dietro l’altro, leggermente sfalsati. Davanti una telecamera che inquadra un cesto pieno di fragole. Dopo la proiezione di una frase di Iosif Brodskij tratta da Fondamenta degli incurabili che ha la città di Venezia e la sua bellezza come protagoniste (e un’altra frase dallo stesso libro chiuderà lo spettacolo), sul telo vediamo proiettato il cesto di fragole e una voce fuori campo (quella di Liv) comincia a parlare, mentre Liv a un certo punto compare sul palco, ma non parla direttamente, mentre sentiamo la sua voce come fossero i suoi pensieri.

Intanto Liv prende il controllo della videocamera e comincia a inquadrare il mondo intorno a sé, che è poi il teatro e il pubblico, e vediamo tutto questo sul telo sospeso. A un certo punto, nella carrellata sul pubblico, una persona diventa oggetto di attenzione specifica, e questa giovane donna (Alice Raffaelli) scende verso il palco e comincia a interagire con Liv, a danzare, a usare lei stessa la telecamera, a parlare.

Liv Ferracchiati ha sempre amato un teatro che si fa contaminazione di linguaggi (video, danza, parola), ma in questo caso mi pare che tale scelta performativa raggiunga il suo apice, con risultati davvero molto interessanti.

Lo sguardo dello spettatore si sposta continuamente tra quello che vede accadere sul palco e quello che vede sullo schermo, che non è mai esattamente la stessa cosa e in alcuni casi è addirittura una completa reinterpretazione della “realtà”. La messa in scena costringe dunque a cambiare continuamente punto di vista, e a interrogarsi su quanto le percezioni alterino i significati nel momento in cui si frappone una macchina fotografica o una videocamera tra noi e la realtà.

Il risultato visivo sia sul piano emotivo che intellettuale è molto interessante. E di per sé basterebbe, anzi forse sarebbe bastato.

Personalmente sono le parole la parte che ho trovato meno riuscita e più forzata di questo spettacolo, e sinceramente se devo pensare a cosa mi rimarrà di esso non saranno sicuramente le parole (se non pochissime suggestioni), bensì l’impressione visiva e la bellezza di alcuni mix tra coreografie e immagine proiettata.

Voto: 3/5

lunedì 3 marzo 2025

Alla riscoperta di un pezzo di Puglia

Il racconto di una vacanzina post-natalizia nella mia terra, che riserva sempre belle sorprese.

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Trani e la sua cattedrale
Il Nord barese e l'alta Murgia


Approfitto delle vacanze natalizie per programmare insieme a S. un piccolo ma intenso giro in Puglia. Si parte e si torna a Conversano, mio paese natale e per me dunque luogo del cuore.

Il primo giorno io e S. andiamo all'aeroporto di Bari a ritirare la macchina che abbiamo prenotato con Drivalia, una Lancia Ypsilon un po' vecchietta ma in ottime condizioni.

Ci fermiamo la prima sera a Conversano a mangiare i panzerotti preparati da mia sorella, poi la mattina seguente partiamo per il nostro giro.

Prima tappa è la città di Trani: qui prima facciamo un giro alla villa comunale e arriviamo al punto panoramico da cui si vede il porto e la cattedrale sul retro.

Trani: un cortile
Poi a piedi facciamo tutta la passeggiata lungo il porto e visto che è ora di pranzo ci fermiamo a mangiare una bella fetta di calzone di cipolle e una cartellata (entrambi buonissimi) al Panificio del Porto che consigliamo vivamente.

Quindi arriviamo alla cattedrale dove l'effetto della pietra bianca che si staglia sull'azzurro del cielo è davvero eccezionale. Ci allunghiamo al castello svevo da dove possiamo godere di un altro punto panoramico sulla cattedrale e quindi ci inoltriamo nelle stradine del centro storiche, che sono quasi vuote perché è ora postprandiale e in Puglia è praticamente sacra. Ci allunghiamo quindi al Code cafè che ho trovato nell'elenco dei posti in Puglia che serve specialty coffee. Prendo un primo caffè e comincio a parlare con Vincenzo, il gestore, un vero appassionato di specialty, nonché amico di Luigi Paternoster di Pierre cafè, uno dei primi in Puglia a occuparsi di torrefazione di caffè monorigine e anche a valorizzare la cultura e caffè. Alla fine me ne andrò via con un sacchetto di caffè in grani e due caffè bevuti che Vincenzo mi regala per farmi assaggiare delle cose.

Castel del Monte
Riprendiamo l'auto e ci dirigiamo verso Castel del Monte, il castello di Federico II che si scorge da lontano su una piccola collina della Murgia circondato da campi di ulivo. Parcheggiamo e attraversando un piccolo boschetto arriviamo all'ingresso e partecipiamo alla bella visita guidata che ci racconta origini e utilizzi del castello, le sue caratteristiche architettoniche, alcune vicende storiche legate alla figura di Federico II e alla sua presenza in Puglia.

Quando torniamo alla macchina e già quasi ora del tramonto che ci godiamo attraversando le strade di campagna dell'alta Murgia.

L'ora blu a Ruvo di Puglia
Ci allunghiamo poi fino a Ruvo dove io ho il desiderio di tornare a vedere la bella cattedrale romanica. Riusciamo anche a entrare e a visitare i sotterranei con gli scavi romani. Poi giretto in centro e quindi dritte verso il nostro alloggio per questo primo giorno: la masseria Tarantini che sta nella campagna dell'alta Murgia non lontano da Castel del Monte.

Siamo le uniche ospiti e il proprietario - nonché gestore della fattoria a cui il b&b è collegato - ci dice che ha acceso il fuoco da un paio di giorni per riscaldare camera e casa. Il sistema di riscaldamento è infatti collegato a una grande stufa a legna. In camera accendiamo anche un termosifone elettrico per migliorare il comfort.

L'Alta Murgia
La sera restiamo a mangiare qui grazie alla disponibilità del gestore di cucinare solo per noi. Mangiamo ottimi formaggi di produzione locale, salumi, pane e poi della pasta all'uovo con crema di zucca e pancetta. Tutto casereccio ma molto buono.

Tornate in stanza usciamo sul terrazzino a guardare le stelle. La masseria è davvero isolata e lontana dai centri abitati quindi si vede un cielo stellato che raramente si ha la possibilità di ammirare. Vediamo anche dei puntini luminosi in fila che si muovono e a un certo punto scompaiono: abbastanza inquietanti ma Internet ci rassicura perché troviamo che si tratta dei satelliti Starlink.

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Gravina di Puglia
La zona delle gravine


Il giorno dopo la nostra destinazione è una masseria nella zona di Grottaglie.

Scegliamo di fare una prima sosta a Gravina di Puglia. Appena arrivate facciamo un passaggio al punto vendita di Pierre cafè, che in quel momento è chiuso, ma io non demordo e contatto il cellulare indicato all'ingresso. La signora si è allontanata un attimo ma è appena rientrata. Quindi posso godere degli aromi di caffè di cui è intriso il laboratorio e compro un chilo di miscela classica in grani e un altro sacchetto di monorigine.

Poi, un po' scioccate dal traffico che infesta le strade di Gravina, parcheggiamo e andiamo a piedi al centro storico. Dopo una breve sosta al centro informazioni, ci dirigiamo al punto di partenza del tour Gravina sotterranea che decidiamo di fare sotto la guida di uno dei volontari dell'associazione alla scoperta di una parte dei tanti ambienti sotterranei presenti sotto la città e usati nel corso del tempo come luoghi di deposito di derrate, di lavoro, di incontro e anche come case e luoghi di ricovero per animali.

Masseria fortificata Jesce nella zona di Altamura
Poi infilandoci nelle stradine arriviamo alla gravina e al ponte-acquedotto che l'attraversa. Cerchiamo i punti panoramici per uno sguardo d'insieme sulla gravina e sul paese, una specie di Matera in tono dimesso come dice S.

Prima di ripartire compriamo mozzarelle e un formaggio e poi ci muoviamo verso Altamura. È ora di pranzo: in centro storico ci fermiamo all'antico forno di Santa Chiara dove mangiamo un paio di pezzi di focaccia a testa e prendiamo del pane per la cena della sera.

Quindi ci perdiamo nelle strade del centro storico, tra chiese, palazzi nobiliari, e soprattutto i tipici claustri, degli spiazzi che si aprono tra le strade e su cui si affacciano diverse case.

Un po' stanche di camminare ci dirigiamo verso la nostra destinazione non senza prima esserci fermate varie volte lungo la strada, prima a vedere una delle masserie fortificate di cui è ricca la zona (nello specifico la Jesce), poi a fare delle foto alla bellissima campagna.

La Masseria Celano
Arriviamo infine alla Masseria Celano che è quasi buio. Ci accoglie Andrea che ci illustra il nostro monolocale realizzato nelle vecchie stalle dello iazzo che ha ereditato dalla nonna e dove si è trasferito dopo aver studiato a Napoli.

Il posto è bellissimo, curato in ogni dettaglio, con arredo e scelte architettoniche molto rispettose e in linea con le tradizioni locali. Dormiamo benissimo e la mattina dopo ci attende una splendida colazione nella saletta apposita, dove abbiamo una colonia di gatti affettuosi che ci attende fuori dalla porta.

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Taranto
Taranto e Grottaglie


La mattina di questo penultimo giorno di vacanza la dedichiamo alla città di Taranto che io non conosco per niente.

Arrivando facciamo la prima sosta alla concattedrale moderna di Gio Ponti che sta in un quartiere a sud della città. Entriamo a visitare l'interno e a fare qualche foto in questa chiesa cosi diversa da tutte quelle che abbiamo visitato fin qui.

Andiamo poi verso il centro. Parcheggiamo in piazza Archita e ci dirigiamo subito al MArTA, il museo archeologico della città che nelle sue oltre 25 sale ospita straordinari reperti che raccontano la storia della Puglia dalla preistoria fino al Medioevo, in cui spiccano in particolare i reperti di età greca e romana. Trascorriamo quasi un'ora e mezza nel museo, poi ci dirigiamo verso il centro storico attraversando il ponte girevole. Alla nostra sinistra il mare grande, e alla nostra destra il mare piccolo su cui incombe all'orizzonte il profilo dell'Ilva.

Nel centro storico di Taranto
Attraversiamo l'isola che racchiude il centro storico e dove si alternano palazzi nobiliari ristrutturati (pochi invero) e molti palazzi e chiese cadenti, o addirittura parzialmente distrutte. La passeggiata lungo il mare piccolo è una catalogo di facciate decadenti e cadenti che richiamano alla mente l'immaginario di Cuba.

A me la passeggiata piace moltissimo e questa decadenza ispira moltissimo a livello fotografico anche se sento la ferita che questa città si porta dentro e non posso non fare riflessioni su quale possa essere il destino di questa città e se prima o poi anche qui arriverà la gentrificazione del centro storico e il suo completo recupero.

Dopo un frugale pranzo e un caffè riprendiamo la macchina e torniamo alla nostra masseria per riposare. Poi verso l'ora del tramonto usciamo alla volta di Grottaglie dove vogliamo innanzitutto fare dei giri al quartiere delle ceramiche per il qualche abbiamo ricevuto consigli dal nostro host la cui casa è punteggiata di tantissimi pezzi bellissimi.

La campagna vicino Grottaglie
Visitiamo i negozi di Enza Fasano, Nicola Fasano, Mimmo Vestita, Antonio Fasano e Marco Rocco. Tutti bellissimi, in particolare questi ultimi tre. Compriamo un po' di pezzi da Antonio Fasano che per noi è il migliore compromesso tra tradizione e innovazione e di cui ci piace l'atmosfera rilassata e non pretenziosa (anche se i pezzi di ceramica di design moderno di Marco Rocco sono davvero belli, sebbene meno tradizionali). Finiamo la giornata con una passeggiata nel centro storico di Grottaglie e una ottima cenetta alla Luna nel pozzo, osteria slow food all'ingresso del centro.

Tornando ammiriamo anche il fenomeno del SAR (l'arco aurorale rosso stabile), un tratto di cielo chiaro e rossastro nel cielo notturno, una piccola aurora boreale ormai visibile anche alle nostre latitudini).

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Martina Franca
La Valle d'Itria e la costa


L'ultimo giorno, dopo aver salutato non senza qualche lacrimuccia la nostra bellissima masseria, ci dirigiamo verso Martina Franca. La giornata è splendente e ci consente di apprezzare al massimo grado un centro storico curatissimo ed elegantissimo, a partire dalla bella piazza centrale e dalla cattedrale. Compriamo una piccola luminaria artigianale durante la passeggiata e ci perdiamo nei vicoli.

Ripartiamo indecise su dove proseguire. Nei dintorni di Locorotondo e Alberobello c'è molto traffico e decidiamo di non fermarci. Ci dirigiamo invece verso la Selva di Fasano attraversando la bellissima valle d'Itria punteggiata di trulli, masserie e ville. Sosta pranzo alla chiesetta di San Michele in Frangesto, nella zona della loggia di Pilato da cui si domina tutto il paesaggio lungo la costa, posto tranquillo e del cuore per me. Poi andiamo verso il minareto alla selva di Fasano ad ammirare questa strana architettura eclettica e le bellissime case che ci sono in questa zona. Quindi scendiamo verso la costa e ci fermiamo a Monopoli.

San Michele in Frangesto
Passeggiata nel centro storico fino al vecchio porto, e breve visita della Rendella, la Biblioteca comunale che sta tra il porto e il centro storico. S. rimane molto colpita dalla bellezza di Monopoli che è per me una cosa bella perché per me è praticamente casa e vederla con occhi nuovi è un regalo. Torniamo dunque verso Conversano passando per il borgo marinaro di San Vito con il monastero dei benedettini e la torre saracena che si colorano della luce del tramonto, poi facciamo la complanare che unisce San Vito a Cozze, e dove per me c'è uno dei pezzi più belli della campagna pugliese, dove i trulli e i colori della terra e delle coltivazioni si sposano magnificamente con i colori del mare e del cielo (in questo caso rosato).

Tra Cozze e Polignano a mare
Tornate a Conversano e dopo esserci un po' riposate, facciamo un bel giro nel centro storico vestito a festa (castello, cattedrale, scalinata del vucciarolo, chiesa di Santa Chiara, piazza del Municipio) e terminiamo la nostra vacanza pugliese con i panzerotti della caffetteria del teatro insieme a tutta la famiglia.

Domani si torna ai luoghi dove viviamo, ma con la luce e il calore della Puglia nel cuore.

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Per una selezione più ampia di foto del viaggio in Puglia si veda qui sul mio profilo Behance.

venerdì 28 febbraio 2025

Spatriati / Mario Desiati

Spatriati / Mario Desiati. Torino: Einaudi, 2021.

Comincio a pensare di non avere un particolare feeling con i vincitori del Premio Strega. A suo tempo avevo comprato e letto con grandi aspettative Il colibrì di Sandro Veronesi e ne ero rimasta profondamente delusa, al punto da decidere di non andare a vedere nemmeno il film.

Con Spatriati partivo da premesse molto più promettenti: il romanzo di uno scrittore pugliese (che viene da Martina Franca, non molto lontano da dove sono nata io) che parla di temi quali il rapporto con le origini, l'identità, la libertà, tutti temi che mi sono cari.

E però alla fine nemmeno la presenza di temi così sensibili per me è riuscita ad appassionarmi al romanzo di Desiati.

Al centro di Spatriati (termine che nel dialetto barese ha un'accezione più ampia e complessa che nell'italiano e che Desiati spiega molto bene) ci sono fondamentalmente due persone, Francesco e Claudia, e in subordine i loro genitori, Elisa e Vincenzo quelli di Francesco, ed Etta ed Enrico quelli di Claudia. L'intera vicenda, che si sviluppa in un arco temporale piuttosto lungo, si svolge sostanzialmente in due luoghi: Martina Franca e Berlino, che sono poi anche i luoghi di Desiati.

I due ragazzi si conoscono a scuola: Francesco sta tendenzialmente in disparte, mentre Claudia è esuberante e anticonformista. I loro destini si incrociano quando si scopre che Enrico ed Elisa, che lavorano insieme in ospedale, sono amanti. Questo lega indissolubilmente anche Francesco e Claudia, e rende il loro rapporto inclassificabile e a suo modo del tutto speciale.

Da qui in poi seguiremo i percorsi divergenti e convergenti dei due: Claudia che non si fa sfuggire l'occasione per andare lontano dal posto dove è nata e, dopo qualche tentativo fallito, trova una sua dimensione a Berlino, dove il suo essere una personalità non convenzionale non rappresenta un'eccezione; Francesco a lungo non si allontana dalla sua terra, per molto tempo non si permette di esprimere pienamente la propria identità, anche perché nasconde persino a sé stesso la propria natura e i propri desideri, ma quando raggiungerà Claudia a Berlino si aprirà a tutto quello che ha tenuto a lungo compresso, sebbene non saprà poi resistere al richiamo delle radici.

Immagino che ci sia parecchio di autobiografico in questo libro di Desiati e non a caso nel libro i dettagli e la verosimiglianza dei luoghi e delle situazioni sono particolarmente curati.

Eppure mentre leggo il libro di Desiati non riesco a non avere l'impressione della finzione, e forse anche, da certi punti di vista, della semplificazione.

E nemmeno posso dire che con lo scrittore pugliese c'è una vera distanza generazionale: lui è del 1977, io del 1973. Non a caso molte delle premesse del libro, del mondo che Desiati racconta li riconosco perfettamente e li conosco molto bene. Però poi il racconto va a cercare un sentire che a me non riesce a togliere la sensazione di un'artificiosità.

Non posso dire di non aver letto gradevolmente il libro - che è scritto molto bene - ma per me non è decollato e temo che mi scivolerà addosso come altre letture di cui serbo ricordi molto frammentari.

Voto: 3/5

mercoledì 26 febbraio 2025

Elena la matta / con Paola Minaccioni. Teatro Sala Umberto, 6 febbraio 2025

Lo spettacolo portato in scena da Paola Minaccioni per la regia di Giancarlo Nicoletti è ispirato al libro di Gaetano Petraglia La matta di piazza Giudia (che è stato riadattato per il teatro da Elisabetta Fiorito), integrando la storia di Elena Di Porto con quella di Settimia Spizzichino, l’unica sopravvissuta al rastrellamento del ghetto, nonché altre testimonianze di quel periodo provenienti dalla comunità ebraica di Roma.

La scenografia di Alessandro Chiti – come sempre molto riconoscibile nel suo impatto visivo - presenta un piano inclinato in legno in cui si aprono due alloggiamenti dove trovano posto i musicisti Valerio Guaraldi, compositore delle musiche originali, e Claudio Giusti, che accompagnano dal vivo con canzoni, musiche e suoni la performance di Paola Minaccioni. Davanti a questo piano inclinato stracci e vestiti ammucchiati.

Paola Minaccioni si muove sia sul piano inclinato intorno ai musicisti sia davanti a esso, utilizzando di volta in volta alcuni degli abiti ammucchiati per raccontare momenti diversi della storia o rappresentare personaggi collaterali.

La protagonista, Elena Di Porto, nasce a Roma nel 1912 da una famiglia ebrea; la sua vita sembra instradata lungo il percorso comune alla maggior parte delle donne di quel periodo. Un marito a cui essere sottomessa, dei figli da tirare su da sola, il clima sempre più soffocante creato dal regime, soprattutto dopo le leggi razziali, la guerra e la persecuzione nei confronti degli ebrei.

Ma Elena non è una donna come le altre: è indomita, coraggiosa, generosa, di mente aperta e non tollera i soprusi. Per questo sarà fortemente osteggiata e il suo ribellarsi sarà stigmatizzato come pazzia, costringendola a più ricoveri in ospedale psichiatrico, a Santa Maria della Pietà; subirà poi il confino in Basilicata e al ritorno a Roma vivrà il rastrellamento del ghetto e la deportazione.

Attraverso la dirompente fisicità di Paola Minaccioni – bravissima e camaleontica – la figura di Elena e quella delle altre donne ch’ella incontra a Santa Maria della Pietà e al confino prendono vita davanti ai nostri occhi in maniera vivida ed emozionante.

Grazie all’uso di un romanesco verace e antico – che porta con sé una percezione di credibilità e immediatezza – lo spettacolo di Nicoletti riesce a trasmettere quel mix unico di ironia, commozione e tragedia che è tipico della romanità, senza scadere mai nella banalità e nella retorica, e sfuggendo – dal mio punto di vista – al rischio di diventare uno spettacolo a tesi.

Un monologo che crea un’identificazione forte del pubblico con le vicende della donna raccontata, muovendo sentimenti senza scadere nel sentimentalismo.

Il lungo appaluso finale del pubblico, che in parte si alza anche in piedi, è la conferma del fatto che lo spettacolo arriva dritto al cuore e alla mente degli spettatori.

Voto: 4/5

lunedì 24 febbraio 2025

The substance

Il film di Coralie Fargeat da quando è uscito mi ha alternativamente attirato e respinto in ugual misura. Arrivati a febbraio avevo quasi messo una pietra sopra alla possibilità di vedere il film al cinema (che per me significa alla fine rinunciare totalmente a vedere il film). E invece – grazie al Cinema delle provincie – riesco non solo a vedere The substance sul grande schermo ma persino in lingua originale sottotitolata.

The substance vede protagonista Elizabeth Sparkle (Demi Moore), una star che ha avuto molto successo in gioventù e continua a condurre un programma di fitness in televisione a 50 anni. L’emittente televisiva attraverso la figura del produttore Harvey, interpretato da un insopportabile Dennis Quaid (primo di una serie di uomini rappresentati come degli imbecilli) decide però che è arrivato il momento di mettere in cantina Elizabeth per lasciare spazio a una ragazza giovane, una starlette emergente.

Elizabeth non riesce ad accettare la fine della sua popolarità, che vive anche come la conferma della fine della sua gioventù, e non è a suo agio con un corpo che inevitabilmente sta invecchiando.

Quando, dopo un incidente in macchina, si trova di fronte alla possibilità di utilizzare un metodo che le permetterà di “dare vita” a un’altra sé più giovane, decide di coglierla e da questa operazione “nasce” Sue (Margaret Qualley), giovane, bella e dal fisico perfetto, che immediatamente viene scritturata dalla medesima emittente che ha licenziato Elizabeth.

L’utilizzo di questa sostanza prevede che le due donne si alternino ogni 7 giorni, attraverso un processo che consente a Elizabeth di continuare ad alimentare la vita di Sue. Ben presto però Sue comincia a contraddire questa regola e a forzare le condizioni producendo una serie di conseguenze inaspettate, tragiche e grottesche al contempo.

Il tema è interessantissimo e assolutamente di attualità, pur essendo al contempo esistenziale: il rapporto di una donna – soprattutto una donna di spettacolo – con il passare degli anni e la prospettiva della perdita della bellezza e della perfezione del proprio corpo, rapporto non banale di per sé stesso, ma esacerbato da una società che ha fatto della bellezza e della performance dei valori assoluti. Lo sguardo degli uomini è presente in maniera significativa nel film, e certamente è alla base del fatto che Elizabeth non accetti di non essere più giovane e bella, ma per Fargeat sono le donne stesse ad alimentare in qualche modo questo circolo vizioso.

Cosa siamo dunque disposte ad accettare per avere una seconda chance di giovinezza, anche quando questa giovinezza ci toglie quello che potremmo ancora avere in età matura?

E dentro questa domanda ce ne sono molte altre, a partire dal rapporto tra le generazioni e tra i generi fino ad arrivare al cambiamento della televisione e dell’aspettativa collettiva che nel tempo ha esacerbato l’attenzione verso il corpo e l’ostentazione della sua perfezione.

A partire da tutte queste premesse di grandissimo interesse la Fargeat costruisce un film esagerato, nel quale tutto è decisamente sopra le righe, dalla narrazione alle immagini, calcando la mano sul raccapriccio e l’orrore dello spettatore fino a uno splatter che evolve nel trash, e infine nel ridicolo.

Nell’ultima mezz’ora del film – dal mio punto di vista quasi totalmente inutile a livello narrativo e di contenuti – non si può fare a meno di ridere, e - se già la nausea ci aveva accompagnato durante tutta la visione - in quest’ultima parte sembra che la regista si accanisca sul povero spettatore per spingerlo al quasi conato di vomito. E lo dico io che ho passato parte del film coprendomi gli occhi. Ma - si sa - io sono particolarmente sensibile a queste cose.

Voto: 3/5


venerdì 21 febbraio 2025

I cani di Riga / Henning Mankell

I cani di Riga / Henning Mankell; trad. di Giorgio Puleo. Milano: Feltrinelli; Venezia: Marsilio, 2021.

Della serie dell'ispettore Wallander avevo letto solo il primo giallo in occasione di una vacanza - nel 2014 - in Danimarca, che prevedeva una piccola puntatina nella Svezia meridionale, e - da quanto leggo nel post scritto a suo tempo - l'avevo trovato gradevole ma senza entusiasmi, tanto che dopo non avevo letto più nulla.

Quest'anno, con l'organizzazione all'ultimo minuto del viaggio in Scania, decido di ridare un'altra chance a Henning Mankell e compro il secondo libro della serie, I cani di Riga.

Questo secondo romanzo è ambientato nei primissimi anni Novanta, all'indomani della caduta del muro di Berlino e durante il processo di sgretolamento dell'impero sovietico, e proprio intorno a questi temi si sviluppa la narrazione.

Tutto comincia con un canotto che va alla deriva verso le coste svedesi con due uomini morti a bordo. Il caso viene affidato al commissario Wallander della stazione di polizia di Ystad, e ben presto si scopre che i due uomini sono lettoni e probabilmente erano coinvolti in un traffico di droga. Per questo motivo viene inviato in Svezia dalla Lettonia il comandante Liepa al fine di acquisire informazioni sull'indagine in corso e trasferirla poi a Riga. Tra Wallander e Liepa si crea una buona sintonia, cosicché quando tornato in patria il maggiore Liepa viene assassinato, Wallander viene chiamato in terra lettone per partecipare alle indagini.

Sarà per lui l'occasione di conoscere un mondo che gli è in buona parte sconosciuto, soprattutto per le dinamiche in corso dopo la dissoluzione dell'impero sovietico, i tentativi di indipendenza effettiva dei paesi baltici e le interferenze russe.

Wallander dovrà presto lasciare la Lettonia, ma ci tornerà successivamente sotto falso nome per giungere al cuore della verità sulla morte del comandante Liepa e per dare manforte alla moglie Baiba.

Come ci spiega lo stesso Mankell nella postfazione al romanzo, la scrittura di questa storia è stata particolarmente complicata, come sempre accade quando si parla di luoghi che si conoscono meno e di cui bisogna verificare i riferimenti; e tanto più in questo caso, visto che la scrittura dello stesso è coincisa con un periodo storicamente molto complesso per il mondo ex-sovietico e dunque lo scrittore ha dovuto necessariamente ricorrere a persone più interne al contesto e con maggiori conoscenze specifiche.

Devo dire che - rispetto al primo romanzo che ricordo poco e che probabilmente risultava meno appassionante - di questo ho apprezzato sia il ritmo incalzante che soprattutto da un certo momento in poi mi ha tenuta incollata alle pagine, sia il substrato storico-politico che, pur nel contesto di un'opera di finzione, è descritto in modo attento e interessante.

Poca Svezia dunque in questo libro - se non in termini comparativi - e molta Lettonia (e paesi baltici in generale), quindi una lettura che non mi ha fornito particolari suggestioni rispetto al mio viaggio in Scania, ma certamente ha rafforzato il mio desiderio di vedere i paesi baltici a distanza di ormai oltre trent'anni dal momento raccontato in questo giallo.

Voto: 3,5/5

mercoledì 19 febbraio 2025

The brutalist

Tenevo talmente tanto a vedere questo film di cui avevo cominciato a sentir parlare fin dalla sua presentazione a Venezia che mi sono presa mezza giornata di ferie per poter andare a godermelo allo spettacolo del pomeriggio, in versione originale sottotitolata, e anche in pellicola 70 mm (su cui è stato riversato il formato VistaVision con cui il regista ha voluto girare il film per coerenza con il periodo storico di ambientazione e per il tipo di riprese). Il film dura circa tre ore e mezzo e si articola in due parti (più un prologo e un epilogo) che prevedono un intervallo di circa 15 minuti voluto dallo stesso regista.

Come già si capisce da questa breve introduzione, il film di Brady Corbet non è un film qualunque, e certamente è molto diverso da quelli a cui siamo ormai abituati.

La storia è quella di László Tóth (Adrien Brody), un architetto ungherese formatosi alla scuola del Bauhaus, che, perseguitato in patria in quanto ebreo, nel 1947 arriva America su una nave piena di migranti. La prima cosa che vedrà sarà la statua della libertà, ma dalla sua prospettiva la vedremo anche noi rovesciata, introiettando dunque quel senso di angoscia e in fondo anche di mistero che attraversa tutto il film.

Seguiremo poi László in tutte le sue peripezie: l’arrivo a Philadelphia dal cugino Attila che ha un negozio di mobili, la progettazione di uno studio/biblioteca per il magnate Harrison Van Buren (Guy Pearce), la caduta in disgrazia e il lavoro da operaio, poi l’insperato riconoscimento proprio dello stesso Van Buren che diventa il suo mecenate e che gli commissiona la realizzazione di un grande edificio pubblico con palestra, biblioteca e una cappella cristiana al centro. Proprio grazie all’avvocato ebreo di Van Buren, László riesce a ricongiungersi in America con la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsófia (Raffey Cassidy). Lo seguiremo poi ancora nell’evolversi del rapporto con Van Buren e la sua famiglia, nelle difficoltà della realizzazione dell’edificio che gli è stato commissionato e su cui mette anche parte dei propri soldi, nella lotta contro le conseguenze dei traumi del passato e di quelli recenti, nella solitudine umana e artistica, nel senso di estraneità al contesto, fino all’epilogo – ambientato durante una biennale di architettura a Venezia negli anni Ottanta, quando la nipote Zsófia rivelerà infine alcune verità che consentiranno di comprendere meglio il percorso di László e quello che abbiamo visto fin qui.

È evidente che Brady Corbet punta al film monumentale, all’epopea di un uomo, che viene presentata allo spettatore come fosse una vicenda reale - una specie di ricostruzione documentaria – e invece, pur con qualche ispirazione nella realtà, è una storia di finzione.

La cosa più sorprendente è che il regista costruisce questo sofisticato oggetto cinematografico con un budget ridicolo rispetto a quello di altri film molto meno ambiziosi, e ci riesce mettendo pienamente a frutto la straordinaria potenza del cinema, ossia quella che stimola l’immaginazione e alimenta la fame che l’essere umano ha di storie. Cosicché in The brutalist tutto si gioca su quello che viene suggerito sullo schermo, e non tanto su quello che viene mostrato, nonché ovviamente sulla capacità degli attori di instillare pensieri e sensazioni. In questo senso, anche la colonna sonora conferma lo stesso approccio: Brady Corbet sceglie Daniel Blumberg, che – come so avendolo visto dal vivo – è un maestro nel creare suggestioni e mondi attraverso sonorizzazioni inattese, spesso a partire da oggetti semplici e di uso quotidiano, cosa che fa anche nel film.

E forse questo suo punto di forza è anche la sua debolezza, perché mette in parte nelle mani dello spettatore la riuscita della narrazione. Non a caso quello che vediamo accadere mantiene un’aura di ambiguità e di mistero che ognuno è chiamato a sciogliere con la propria sensibilità. Ebbene, è proprio da questo punto di vista che il film non mi ha convinta: i numerosi spunti e temi suggeriti dal film per me sono rimasti tutti in superficie, talvolta impliciti o addirittura arcani, e complessivamente ho trovato sia la storia che i personaggi emotivamente poco risuonanti con me, cosicché la rivelazione finale che doveva gettare luce su tutto il film mi è risultata tutto sommato fiacca e poco originale. Anche l’eco di tematiche dell’attualità se anche c’è non mi è parsa particolarmente incisiva.

Insomma, per me questo film rimarrà certamente memorabile a livello di qualità registica, ma non sul piano della raffinatezza narrativa e dell’intensità emotiva (che è poi la stessa sensazione con cui talvolta esco dalla visione dei film di Paul Thomas Anderson).

Voto: 3/5


lunedì 17 febbraio 2025

Euphoria. Art is in the air. Balloon Museum, La Nuvola, 2 febbraio 2025

L’opzione di andare a vedere la mostra Euphoria – Art is in the air organizzata dal Balloon Museum presso La Nuvola non rientrava nei miei programmi. La immaginavo una via di mezzo tra un luogo per bambini e una roba instagrammabile, ma poco significativa.

Poi, dopo aver ascoltato un podcast della rivista Internazionale in cui se ne parlava, mi sono resa conto che poteva valere la pena farci un pensiero, in quanto le installazioni presentate nel percorso sono vere e proprie opere d’arte che utilizzano l’aria come loro elemento caratterizzante.

Ed eccomi qua una domenica mattina, praticamente all’ora di pranzo, insieme a S., all’ingresso della mostra. Nonostante l’orario prandiale, i bambini non mancano, però devo ammettere che l’organizzazione della mostra è ottima e consente sia agli adulti che ai bambini di poterla godere al meglio. Ad ogni installazione – o quasi – c’è una persona della mostra (di solito giovane) che spiega a tutti – soprattutto ai bambini – quali sono le regole di comportamento perché l’interazione avvenga nel migliore dei modi e che vigila perché questo effettivamente accada.

La gente è tanta, ma devo dire che, adottata qualche semplice misura – tipo aspettare che il grosso del gruppo (si entra a fasce orarie) sia passato alla stanza successiva oppure muoversi prima che gli altri lo facciano –, è possibile visitare la mostra piacevolmente.

Nel percorso si alternano opere da ammirare e basta (bellissimi i grandi palloni rossi che oscillando sembrano quasi degli alieni - mi hanno fatto pensare al film Arrival) ad altre con cui è possibile interagire, anzi che utilizzano l’azione dei visitatori per dispiegare le loro potenzialità (penso al grande pallone trasparente sospeso in una stanza che porta sulla superficie dei carboncini, e che muovendosi grazie alle spinte dei visitatori disegna sul soffitto e sulle pareti).

Alcune opere sono piuttosto semplici e per me poco significative (per esempio quelle fatte come veri e propri gonfiabili, sinceramente non troppo diversi da quelli dove i bambini festeggiano i compleanni), altre sono più sorprendenti o divertenti a seconda dei casi (la stanza con i pesci colorati fluttuanti l’ho amata, ma anche la casetta piena zeppa di palloni celesti, e pure la stanza delle bolle di sapone e quella dei palloni bianchi circondata di specchi), alcune sono proprio da effetto wow, per esempio l’enorme installazione di sfere luminose che si muovono e cambiano colore a ritmo di musica al di sopra di un grande divano tondo centrale, mentre tutto intorno è possibile dondolarsi sulle altalene, o ancora l’enorme piscina piena di oltre 1.500.000 di palline colorate, ma anche la macchina che sputa-anelli-di-fumo di fronte a sé.

Ma quelle citate sono solo alcune delle tante installazioni che è possibile vedere o sperimentare, e man mano che il percorso procede ci si lascia andare e contagiare dall’atmosfera giocosa e fanciullesca di questa mostra, che è poi il fine ultimo di tutte queste opere, accomunate appunto dal binomio tra aria e sensazione di gioia e libertà.

Il mio tendenziale snobismo per una volta viene messo a tacere, e mettendo da parte qualche sovrastruttura di troppo mi lascio alla fine andare a un divertimento semplice e immediato, senza per questo essere stupido.

Nonostante il biglietto decisamente caro, direi che ne può valere la pena. E io ho approfittato della mostra anche per fare tante foto originali e strane portandomi dietro la macchina fotografica.

Voto: 3,5/5