venerdì 31 gennaio 2025

Armand

Vi ricordate Il dio del massacro (noto anche come Il dio della carneficina e come Carnage), il testo scritto da Yasmina Reza diversi anni fa e poi più volte rappresentato al teatro e portato al cinema da Roman Polanski? Il testo ruotava intorno all’escalation del diverbio tra due famiglie intorno a un episodio che aveva riguardato i rispettivi figli. Come accade spesso nei lavori della Reza, il crescendo dei toni e delle accuse produceva in quel caso un effetto parossistico, facendo emergere tutto il sommerso delle frustrazioni e delle disfunzionalità individuali e relazionali.

Ebbene, nel caso di Armand, primo lungometraggio del regista norvegese Halfdan Ullmann Tøndel, nipote di Liv Ullmann e Ingmar Bergman, il soggetto di fondo è molto simile: in seguito a un episodio spiacevole avvenuto tra due bambini di sei anni, i genitori vengono convocati a scuola per parlare dell’accaduto e comporre la situazione. Se dunque le premesse appaiono molto simili, gli sviluppi e i toni sono completamente diversi, il che potrebbe essere il risultato della somma della sensibilità individuale del regista e delle differenze culturali e sociali relative al contesto.

In Armand i bambini non compaiono mai, se non attraverso delle foto appese nei corridoi della scuola, e nel fotogramma finale del film, e tutto lo spazio è occupato dagli adulti, per i quali l’episodio – che tra l’altro ha anche un contenuto sessuale – ha un valore più simbolico che reale, in quanto ricondotto alla storia pregressa di ciascuno dei protagonisti, a partire dai genitori – che hanno legami che vanno al di là del fatto che i loro figli sono compagni di scuola – fino ad arrivare al personale scolastico.

Tutto questo però passa non tanto attraverso quello che i protagonisti della vicenda si dicono – anzi le parole sono tendenzialmente poche e in molti casi ambigue – bensì attraverso il non detto, le reazioni fisiche e il clima complessivo, che appare soffocato, trattenuto, claustrofobico, tanto che lo scioglimento del dramma coinciderà con l’uscita di tutti dall’edificio scolastico sotto una pioggia battente.

Halfdan Ullmann Tøndel gira questo film quasi fosse un thriller, a tratti addirittura un film dell’orrore, in cui i corridoi, le scale, le aule della scuola si trasformano in luoghi isolati, in penombra, pieni di mistero, e le persone che si trovano al suo interno appaiono inquiete, fragili, a tratti possedute da un demone interiore che ne determina reazioni talvolta sovradimensionate o produce momenti onirici che esprimono bisogni di fuga o condizioni di disagio. Il commento sonoro contribuisce a questa sensazione di inquietudine e di malessere che rapidamente si trasmette anche allo spettatore, suscitando un desiderio di liberazione non dissimile da quello dei protagonisti.

Non conosceremo davvero i fatti al termine del racconto, ma frammenti di informazioni, talvolta e più spesso opinioni e percezioni individuali; non sapremo del tutto quale sia la verità, chi mente deliberatamente e chi lo fa come reazione a un disagio psicologico. Certamente vedremo un’umanità in difficoltà nel gestire una situazione complessa, facilmente condizionata e condizionabile, spesso in balia delle emozioni individuali.

Un film conturbante, inquieto e inquietante, molto norvegese secondo me, in cui la prova attoriale è essenziale (considerato l’impianto teatrale) e su cui svetta Renate Reinsve, attrice che mi è entrata nel cuore dopo il ruolo da protagonista nel film La persona peggiore del mondo, e che qui conferma le sue qualità in un ruolo difficile, molto ambiguo, sfumato e controverso.

Voto: 3,5/5


mercoledì 29 gennaio 2025

La casa del mago / Emanuele Trevi

La casa del mago / Emanuele Trevi. Milano: Salani, Ponte alle Grazie, 2023.

E niente, confermo - dopo quanto già avevo sperimentato con la lettura di Due vite - che io sono conquistata dal modo di scrivere di Emanuele Trevi. In questo caso, ho letteralmente divorato il libro nel tutto sommato breve spazio del viaggio di ritorno in treno da una vacanza.

La casa del mago è un memoir, un racconto autobiografico e biografico, che è primariamente incentrato sulla figura del padre di Emanuele, lo psicanalista junghiano Mario Trevi, e la scrittura segue alla sua morte e alla decisione di Emanuele di trasferirsi a vivere nella sua casa, dopo fallimentari tentativi di venderla.

La figura di quest'uomo comincia a delinearsi fin dalle primissime pagine, che lo scrittore dedica ai ricordi d'infanzia e alla sintomatica espressione utilizzata da sua madre ogni qualvolta si apriva una qualche discussione sul padre: "Lo sai com'è fatto".

Da qui in poi si squaderna davanti ai nostri occhi la personalità di un uomo che - come dice lo scrittore - viveva parti significative della vita nel retrobottega della sua mente, quindi avulso dalla realtà circostante e in parte incomprensibile.

Per questo Emanuele va alla ricerca non solo dei suoi ricordi, ma anche degli indizi lasciati dal padre nella casa in cui ha vissuto che lo aiutino a gettare luce su un uomo che oscillava tra una continua analisi di sé e dei fatti della sua vita (testimoniata dagli appunti ritrovati dal figlio) e la ricerca di spazi quasi meditativi (per esempio attraverso i numerosi disegni, una specie di mandala, uno dei quali illustra la copertina del libro).

A questa indagine che punta a tratteggiare le caratteristiche di quest'uomo, anche e soprattutto al di là del suo ruolo di padre, si mescola il racconto delle esperienze dello stesso Emanuele nella casa che fu di Mario (il mistero della visitatrice, la donna delle pulizie peruviana, la prostituta amica di quest'ultima e poi amante dello stesso Emanuele), nonché storie parallele e laterali, come quella dello psicanalista Ernst Bernhard, con cui il padre di Trevi era entrato in contatto e che era stato il terapeuta di importanti scrittrici e scrittori italiani negli anni Sessanta, o quella della donna di cui Jung parla nel volume Simboli della trasformazione. Analisi dei prodromi di un caso di schizofrenia, che Trevi trova vicino alla scrivania del padre, pieno di annotazioni.

Tutto questo si inserisce dentro una riflessione sulla vita e sulla morte, sul senso dell'esistenza e sull'eredità che lasciamo, e dentro il punto di vista di Trevi personalmente non faccio fatica ad accomodarmi e a sentirmi a mio agio.

La lettura dei libri di Trevi è per me sempre un viaggio dalle mille suggestioni, che mi apre curiosità e mi stimola riflessioni. E direi che non è poco.

Voto: 3,5/5

lunedì 27 gennaio 2025

Bahamut / Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Teatro Vascello, 12 gennaio 2025

Andare a vedere gli spettacoli della premiata ditta Rezza-Mastrella è ormai diventata quasi una consuetudine e, al netto delle sorprese legate al singolo spettacolo, si sa anche già cosa aspettarsi.

Quest’anno decidiamo di convergere su Bahamut, che vede Antonio Rezza – mattatore assoluto come sempre sul palco – affiancato da due attori che interpretano personaggi secondari e lo aiutano in alcune sue performance fisiche.

Questo perché ci sono due principali costanti negli spettacoli di Rezza: la prima è una forte componente di fisicità che conferisce allo spettacolo un sapore quasi circense (Rezza, nonostante l’età non più giovane, riesce a tenere ancora benissimo il palco da questo punto di vista, grazie al suo fisico asciutto e nervoso), la seconda è l’assenza di una vera e propria narrazione, perché dentro gli spettacoli di Rezza e Mastrella ci sono delle suggestioni, ci sono dei personaggi che ritornano, ci sono dei temi, ma tutte queste cose si tengono insieme in maniere creative e talvolta insensate. A questo flusso di parole che si accompagna ai movimenti di Rezza sul palco, alle sue facce e ai suoi strani travestimenti, bisogna dunque letteralmente arrendersi, lasciarsi andare, senza provare a capire troppo, a cercare spiegazioni, ma facendosi trascinare nell’energia vitale e nella risata, cui è impossibile sottrarsi.

In realtà c’è una terza costante nei suoi spettacoli: il fattore sorpresa. Da Rezza ci si può aspettare quasi di tutto: essere trascinati sul palco (come era capitato a me all’ultimo spettacolo), essere individuati nel pubblico e insultati per qualche motivo a caso (come la signora a cui si rivolge accusandola di stare dormendo), o ritrovarsi al buio ed essere colpiti da pallonata (come accade a un certo punto di questo spettacolo).

Insomma, gli spettacoli di Rezza sono in parte degli happening, che poi è anche la loro forza sennò diventerebbero ripetitivi e noiosi.

Non c’è dubbio che la formula col tempo – proprio perché ha delle costanti – finisca per ripetersi ed essere un po’ prevedibile, e forse è anche per questo che a questo giro sono rimasta meno folgorata.

Però, rispetto a tanti spettacoli paludati di teatro aulico ma privi di emozione non avrei dubbi a scegliere sempre gli spettacoli folli, scombinati ma divertenti di Antonio Rezza e Flavia Mastrella.

Voto: 3/5

venerdì 24 gennaio 2025

Here

L’ultimo film del settantenne Robert Zemeckis è tratto dall’omonimo graphic novel di Richard McGuire, che non conoscevo e che a questo punto mi farebbe piacere recuperare e leggere.

L’idea – mutuata appunto dal fumetto – è di concentrarsi su una quasi totale unità di luogo, ma non di tempo, ossia osservare un luogo attraverso il trascorrere dei secoli.

Nei primi minuti del film attraverso una specie di timelapse si attraversano i millenni che hanno visto questo pezzetto di terra trasformarsi profondamente, da un primo momento di completa inospitalità per qualunque forma di vita alla nascita della vita, ai grandi stravolgimenti successivi, le grandi glaciazioni, i dinosauri, la pioggia di meteoriti, l’azzeramento della vita, e poi la rinascita, fino all’arrivo dell’essere umano e alla colonizzazione del territorio.

In particolare, l’attenzione è concentrata su una casa che viene costruita su questo pezzetto di terra, e ancora più nello specifico su una stanza, un salotto con una grande vetrata da cui si vede la strada e una casa coloniale di fronte, dove ha vissuto il figlio illegittimo di Benjamin Franklyn.

Con una telecamera fissa, intorno e verso la quale i personaggi si muovono assistiamo dunque alle vicende di tutte quelle persone che hanno vissuto in questa casa (e anche chi ha vissuto in questi spazi prima che la casa venisse costruita), con tutte le vicende personali e anche di contesto che ne hanno condizionato l’esistenza.

L’attenzione si focalizza in particolare su una famiglia che ha abitato la casa dal dopoguerra fino agli anni duemila, prima la coppia formata da un reduce di guerra (Paul Bettany) e sua moglie (Kelly Reilly), poi loro insieme ai figli, quindi il figlio più grande, Richard (Tom Hanks, ringiovanito digitalmente), insieme a sua moglie Margareth (Robin Wright, anche lei ringiovanita digitalmente) e la loro figlia, poi solo quest’ultimo nucleo familiare fino alla loro separazione. Ci sarà posto ancora per una famiglia in questa casa (siamo negli anni recentissimi della pandemia), e infine quando la casa si svuota saranno Richard e Margareth ormai vecchi a tornare qui un’ultima volta per ricordare il passato.

L’idea è molto bella e, come sa chi legge questo blog, io sono particolarmente sensibile alla tematica del trascorrere del tempo e a tutte le storie che su questo si focalizzano, mostrando quanto le nostre vite – così importanti e dense di eventi e di emozioni e di significati per noi - siano transeunti nella storia dell’umanità e in generale di fronte al procedere inesorabile del tempo.

Però non posso esprimere un parere davvero positivo su questo film, che non riesce a evitare di trasmettere quel senso di artificiale e finto nel mettere insieme epoche così lontane tra di loro, sensazione accentuata da questa scelta di ringiovanire digitalmente gli attori che – per quanti passi avanti l’AI abbia fatto – ancora è un’operazione che noi esseri umani mal digeriamo. Inoltre, questa idea dell’unità di luogo e del punto di vista fisso se nel tempo di lettura di un graphic novel può essere interessante e stimolante, nelle due ore di film diventa a un certo punto stucchevole e un po’ noiosa.

Inoltre, proprio perché il vero soggetto del film è un luogo e il tempo che passa in esso, inevitabilmente le storie delle persone – anche quella dei protagonisti “principali” – risultano un po’ superficiali e poco approfondite, cosa che si riesce a gestire bene con il linguaggio del fumetto e la sua naturale tendenza alla sintesi, mentre diventa secondo me un difetto nel caso di un film, da cui invece ci aspettiamo una maggiore distensione narrativa.

Insomma, esco dal cinema senza grandi entusiasmi, pur riconoscendo a Zemeckis il coraggio di sperimentare sempre e di attingere anche a linguaggi e strumenti nuovi.

Voto: 3/5


mercoledì 22 gennaio 2025

Amleto al quadrato /di e con Filippo Timi. Teatro Ambra Jovinelli, 8 gennaio 2025

L’Amleto shakespeariano è per Filippo Timi solo il punto di partenza – se non addirittura quasi un pretesto – per parlare del suo mondo e in particolare della fase di vita che sta vivendo, di fatto una crisi di mezza età che si manifesta come desiderio di giocare, ridere, ballare e uscire allo scoperto, in un modo che solo il teatro consente.

Non è un caso che per questo suo ultimo lavoro, Filippo Timi (che è regista e interprete dello spettacolo) si sia circondato di amici e sodali, Lucia Mascino, Elena Lietti, Marina Rocco e Gabriele Brunelli, che condividono con lui questa operazione di riadattamento in chiave pop e kitsch e si mettono completamente al servizio della vena folle che attraversa Amleto al quadrato.

L’impianto del tutto imprevedibile e schizofrenico dello spettacolo è chiaro fin dal principio, quando - dopo la voce fuori campo di Timi che, impostatissima, ci rimanda alle atmosfere shakespeariane a sipario chiuso – vede comparire sul palco davanti al sipario una moderna Marilyn Monroe (Marina Rocco) che recita appieno la sua parte di soubrette bionda, seducente e svampita.

Quando il sipario si apre, dietro una specie di cancellata che crea l’effetto di una gabbia (quella di un circo, o di un carcere?), Amleto e gli altri personaggi si muovono dentro una scenografia si colloca in un immaginario che oscilla tra De Chirico e La Chapelle, dominata da un trono e palloncini sospesi a varie altezze tutto intorno.

Timi è un Amleto annoiato e blasé, che non ha alcuna voglia di recitare il proprio ruolo, e forse in generale di recitare il ruolo che la vita stessa impone a tutti noi. E così sfugge, deborda, saltella, entrando e uscendo continuamente dal personaggio e conducendoci nei territori del suo immaginario visivo, musicale, concettuale, che sono spesso pop e kitsch, mentre chiama anche al dialogo il pubblico, che sta lì nel buio, ma non è mai silenzioso, bensì coinvolto in questa atmosfera goliardica e ridanciana.

Intorno a lui personaggi altrettanto improbabili, da una madre Gertrude sboccata e cafona (una Lucia Mascino sempre più strepitosa) a una Ofelia negletta e testardamente attaccata al suo personaggio, a dei personaggi maschili (Polonio e Laerte) anche loro triturati in questo universo queer che va oltre i confini e le buone maniere.

Se da un lato Timi/Amleto abbatte continuamente la quarta parete che lo separa dal pubblico rivelando la finzione e quasi stigmatizzandola, dall’altro la figura della soubrette interpretata – ancora una volta in maniera splendida da Lucia Mascino – che ha scelto di fare l’attrice e non la scienziata - rivela in maniera nemmeno tanto nascosta l’amore per il teatro e la recitazione che attraversa questo spettacolo, e che Timi svela esplicitamente nei saluti finali al pubblico.

In questo universo rutilante, in cui si passa da Lorella Cuccarini alla musica classica, dalle tartarughe ninja ai drammi familiari, non sono sicura che tutto si tenga: lo spettatore è frastornato dalla carica vitale di Timi e dei suoi attori e si lascia trasportare dalle parole anche quando non ne capisce il senso o il nesso. Però alla fine il teatro è proprio questo: cadere nella tana del bianconiglio dove tutto è rovesciato, ma che regala prospettive nuove su sé stessi e sul mondo.

Dopo un paio di spettacoli di Timi che non mi avevano molto convinto (Un cuore di vetro in inverno e Promenade de santé), ero un po’ prevenuta, ma questa volta l’attore perugino mi ha conquistata, e soprattutto Lucia Mascino ha dimostrato di essere una delle attrici più brave e versatili del teatro italiano sulla scena in questo momento.

Voto: 4/5

lunedì 20 gennaio 2025

Il corpo in cui sono nata / Guadalupe Nettel

Il corpo in cui sono nata / Guadalupe Nettel; trad. dallo spagnolo di Federica Niola. Roma: La Nuova Frontiera, 2022.

Come spesso mi capita, a distanza di tempo non so bene cosa mi ha spinto in un certo momento a comprare un libro. A volte leggo più o meno per caso qualcosa, a volte me ne parla qualcuno, e via via questi titoli si vanno ad accumulare nella mia lista dei desideri e a un certo punto vengono comprati e finiscono sullo scaffale dei libri non - ancora - letti.

Così è stato per questo memoir di Guadalupe Nettel, scrittrice messicana mia coetanea, conosciuta in Italia per questo romanzo e per La figlia unica.

Ne Il corpo in cui sono nata la Nettel racconta la sua infanzia e poi adolescenza, segnata dal fatto di essere nata con un grosso neo bianco sulla cornea, di fronte al quale la famiglia - in attesa di un atteso intervento da fare dopo l'adolescenza - l'ha costretta a portare un cerotto sull'occhio sano o a fare strani esercizi con una scatola per allenare l'occhio difettoso.

Da qui prende avvio una storia personale che sarà caratterizzata da numerose anomalie e molta imprevedibilità. Quello della Nettel è una specifica declinazione del romanzo di formazione, che si sviluppa geograficamente tra il Messico e la Francia, e che passa per esperienze con diversi gradi di complessità: alcune situazioni di bullismo scolastico, l'isolamento sociale dovuto al sentirsi diversi, le amicizie che non erano tali e quelle invece belle e inaspettate, la separazione dei genitori dopo il fallimento del loro modello di coppia aperta, il trasferimento in Francia della madre, la difficile convivenza con la nonna, la scoperta della carcerazione del padre, il periodo francese e la condizione di immigrati in Francia, fino ad arrivare al momento del tanto atteso intervento all'occhio che dovrebbe riportare Guadalupe a una normalità prima tanto attesa, ma poi alla fine non più desiderata, grazie al riconoscimento della propria unicità che è parte primaria della sua forza.

Il tutto scritto in forma di discorso rivolto a un ascoltatore muto, che è la dottoressa Sazvlaski, che presumiamo essere la sua psicanalista, come fosse una specie di ultima seduta al termine della quale Guadalupe può dire di aver fatto i conti con il suo passato, di aver dato un senso ad alcuni passaggi della propria vita, e di essere ormai pronta a guardare avanti.

Che dire? Ho letto il libro con grande piacere, procedendo speditamente nella lettura, e questo me lo fa collocare tra i buoni libri. Non sono sicura però che nel medio-lungo periodo questo libro mi lascerà moltissimo. Di storie personali ne abbiamo ormai lette tantissime, e in questo caso avrei forse gradito un maggiore approfondimento del contesto (un paese, il Messico, la cui vicenda storica recente conosco poco), che probabilmente mi avrebbe aiutato a fissare la vicenda di Guadalupe in un quadro più ampio.

Voto: 3/5

sabato 18 gennaio 2025

Diamanti

Ho smesso di andare a vedere i film di Ferzan Ozpetek dopo aver visto La dea fortuna nel 2020 ed esserne rimasta delusa. Fino a quel momento avevo visto quasi tutti i film del regista turco, ma da qualche tempo cominciavo a percepire un disallineamento, anzi un allontanamento dai temi trattati e dal suo stile. Torno quest’anno al cinema a vedere un suo film, dopo averne sentito parlare molto bene da alcuni amici e aver letto alcune recensioni che ne parlano come di uno dei suoi migliori negli ultimi vent’anni.

I Diamanti di Ozpetek sono le donne, e più precisamente le tante attrici con cui ha lavorato nel corso del tempo e con cui costruisce l’impianto emotivo di questo film. La storia della sartoria Canova qui raccontata è infatti inserita dentro una metanarrazione che vede protagonisti lo stesso regista e il suo cast nel momento in cui il primo presenta il suo progetto cinematografico e, insieme a un folto gruppo di attrici e pochi attori intorno a un tavolo imbandito, lo va definendo con loro.

Ci troviamo così catapultati negli anni Settanta, a Roma, nelle stanze occupate da una famosa sartoria gestita da due sorelle, Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella (Jasmine Trinca), che guidano un gruppo di donne che realizza costumi per il cinema e il teatro. A prendersi cura di tutte loro, come una madre amorevole, è Silvana (Mara Venier), che gestisce gli spazi e la cucina. Mentre la sartoria riceve l’incarico di realizzare gli abiti per l’ultimo film di un famoso regista, la cui costumista è stata in passato anche premiata con l’Oscar (Vanessa Scalera), ciascuna delle donne della sartoria si divide tra la passione per il proprio lavoro e la vita privata, tra mariti violenti, figli depressi, storie segrete, lutti, abbandoni e piccole e grandi gioie.

Ne viene fuori il ritratto di una comunità femminile in cui da un lato si ha l’impressione di un catalogo di situazioni incredibilmente concentrate in un unico luogo, dall’altro si sottolinea con forza il potere della solidarietà femminile, capace di superare anche le insicurezze individuali e di valorizzare la forza vitale di ognuna.

La scelta metacinematografica di Ozpetek è certamente volta a non mascherare la finzione ed è al contempo una dichiarazione d’amore al cinema e all’essenza stessa del femminile, due cose centrali nella storia personale del regista.

Non posso dire che non abbia guardato gradevolmente il film, ma non ho potuto fare a meno di trovarlo poco incisivo: non so se per la presenza di attrici sì brave, ma ormai inevitabilmente collegate al nostro immaginario da fiction televisiva, ovvero per questa tematica femminile e femminista un po’ abusata e depotenziata per eccesso di semplificazione (si guardi anche la mia recensione di C’è ancora domani, che è un altro film che mi ha fatto un pochino lo stesso effetto), o ancora per una sceneggiatura un pochino banale, il film di Ozpetek mi è sembrato un buon prodotto televisivo, che rispetto a quanto io adesso mi aspetto dal cinema resta distante parecchie miglia.

E la bellezza estetica delle immagini – valorizzate dal grande schermo – non ha potuto compensare questa impressione.

Voto: 2,5/5


giovedì 16 gennaio 2025

Gabriele Basilico. Roma. Museo nazionale romano, Palazzo Altemps, 21 dicembre 2024

Approfitto della mostra Gabriele Basilico. Roma organizzata dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, in collaborazione con il Museo Nazionale Romano – Palazzo Altemps, il MUFOCO – Museo di Fotografia Contemporanea e l’Archivio Basilico, e curata da Matteo Balduzzi e Giovanna Calvenzi, per andare a visitare questa dimora aristocratica nel pieno centro di Roma (a due passi da piazza Navona) che ospita il Museo nazionale romano.

Pensavo di trovare la fila all’ingresso in questo sabato natalizio post-prandiale e invece alla mostra c’è pochissima gente: buon per noi, ma non tanto per la mostra. Poi è vero che la mostra ha appena aperto e forse deve ancora beneficiare del passaparola.

Superato l’ingresso sono subito conquistata dalla bellezza di Palazzo Altemps, sia dal punto di vista architettonico sia per l’esposizione delle collezioni all’interno delle sale di cui si compone.

Mi piace molto questo allestimento che vede sale abbastanza vuote con statue collocate in posizioni strategiche che le valorizzano e permettono di apprezzarle in tutta la loro bellezza.

Camminando per il palazzo ci si perde dunque piacevolmente mentre si ammirano le collezioni Altemps, Boncompagni Ludovisi, Mattei, Del Drago, le sculture Jandolo, Veneziani, Brancaccio, la raccolta egizia, i celebri affreschi Pallavicini Rospigliosi, le opere provenienti da rinvenimenti eccezionali e recuperate dal mercato antiquario, nonché la raccolta archeologica di Evan Gorga, eccentrico collezionista d’inizio Novecento.

Un’esperienza davvero unica nel suo genere.

In queste sale è possibile contestualmente ammirare le opere di Hannu Palosuo che fanno parte della mostra temporanea What If e soprattutto le fotografie di Gabriele Basilico dedicate alla città di Roma e frutto di oltre venti incarichi ricevuti tra il 1985 e il 2011. Sono oltre cinquanta le fotografie esposte, molte di grandi dimensioni, altre in formati più piccoli, esposte queste ultime in una teca centrale della sala principale della mostra. Una parete è occupata dai provini a contatto da cui provengono le foto le cui stampe sono esposte nel percorso espositivo.

Conoscevo e apprezzavo già Basilico: forse proprio per questo non sono rimasta stupita dalle foto in mostra. Mi ha invece colpito il corridoio con le grandi fotografie a colori dedicate al corso del fiume Tevere all’interno della città, decisamente diverse dal resto della produzione del fotografo e dunque sorprendenti, oltre che molto belle.

In conclusione, suggerisco la visita alla mostra come esperienza complessiva, per chi non conosce Palazzo Altemps e/o per chi non conosce Gabriele Basilico: in entrambi i casi se ne uscirà arricchiti.

Potrebbe essere un bel modo per trascorrere un pomeriggio festivo.

Voto: 3/5

martedì 14 gennaio 2025

Hors-saison = Le occasioni dell’amore

L'ultima sera prima delle mie ferie natalizie vado un'ultima volta al cinema, approfittando della proiezione del film di Stéphane Brizé al Nuovo Sacher alla presenza del regista e di Alba Rorhwacher, protagonista insieme a Guillaume Canet.

Brizé l'avevo scoperto qualche anno fa con il film Un altro mondo, terzo di una trilogia dedicata al mondo del lavoro e agli effetti perversi del capitalismo e del neoliberismo.

Quel film mi era piaciuto molto ed ero dunque curiosa di vedere questo nuovo lavoro, in cui il regista pare spostarsi su un piano completamente diverso, quello della commedia romantica.

In realtà è soprattutto il titolo italiano, Le occasioni dell'amore, a farcelo pensare, mentre già il titolo originale, Hors saison, mi pare più complesso e meno facilmente interpretabile.

Siamo in Bretagna. Laurent (Guillaume Canet) arriva in un grande albergo a forma di nave per una settimana di talassoterapia fuori stagione, e dunque nel periodo dell'anno in cui in albergo ci sono solo persone anziane e le strade del paese sono quasi deserte, mentre pioggia e vento popolano le giornate. Laurent è un attore piuttosto famoso che a poche settimane dalla prima dello spettacolo in cui farebbe il suo debutto a teatro si è ritirato, per paura di non essere all'altezza e di fare una figuraccia. Questa decisione lo ha mandato in crisi innescando uno stato di malinconia ai limiti della depressione.

Mentre è in questo paese a piangersi addosso gli arriva un messaggio di Alice (Alba Rorhwacher), la ragazza con cui stava 15 anni prima e che aveva lasciato quando la sua carriera stava decollando.

I due si incontrano, misurando il tempo che è passato e le scelte che ognuno di loro ha fatto consapevolmente o inconsapevolmente.

L'incontro con Laurent sarà per Alice l'occasione di fare i conti con la sua vita, di mettere in discussione le proprie scelte ma anche di riabbracciarle in maniera più risolta. Laurent invece avrà l'opportunità grazie ad Alice di sentirsi ascoltato e accolto, di smettere di piangersi addosso e provare a essere sincero con sé stesso e con gli altri.

Come ci dice il regista Brizé, dopo tanti film incentrati sulla disillusione e sulla delusione, qualcosa lo ha spinto a fare un film di ricostruzione, perché Laurent e Alice, in un momento che per entrambi è di crisi esistenziale e personale, in un certo senso si riparano reciprocamente grazie a questi pochi giorni di condivisione profonda.

Il film di Brizé è intriso di una densissima malinconia, accentuata inevitabilmente dalla location in una località balneare filmata nel periodo invernale e dal forte potenziale malinconico, ma al contempo esso è pieno del fascino dei due protagonisti, nonché attraversato dalla speranza e dalla possibilità effettiva che la vita offra nuove occasioni o nuove riletture del presente.

Ironia e malinconia, tristezza e gioia convivono in questo film esattamente come nella vita e ci arrivano pienamente grazie al perfetto equilibrio tra ambientazione, sceneggiatura e bravura degli attori.

Una storia che avrebbe potuto essere banale nella sua semplicità diventa un racconto intimo e ricco di sorprese.

Voto: 3,5/5


domenica 12 gennaio 2025

L’ibisco viola / Chimamanda Ngozi Adichie

L’ibisco viola / Chimamanda Ngozi Adichie; trad. di Maria Giuseppina Cavallo. Torino: Einaudi, 2016.

Sono al quarto libro di Chimamanda Ngozi Adichie e al terzo romanzo. Sto andando un po' a ritroso nel tempo, ma il mio giudizio su di lei non cambia.

Oltre alla pregevolezza della scrittura, per me i suoi romanzi sono l'occasione di scoprire un mondo e una cultura lontani da me, che non conosco e che rischio di giudicare senza avere elementi interpretativi.

Non voglio certo dire che leggere i suoi libri colmi la mia ignoranza (personalmente penso che noi occidentali medi capiamo poco e niente della storia e della situazione degli stati africani), ma certamente mi rende più consapevole della complessità e della molteplicità di sfaccettature che caratterizzano la realtà. Inoltre, quelle della Ngozi Adichie sono storie molto belle e raccontate molto bene, a cui non si può fare a meno di affezionarsi.

Ne L'ibisco viola si racconta una doppia storia di coming of age, quelle della quindicenne Kambili e di suo fratello maggiore Jaja. Tutto si svolge nell'arco di due settimane, tra quella prima della domenica delle Palme e quella dopo.

Kambili e Jaja vivono con il padre Eugene e la madre a Engunu. Il padre è il proprietario dell'unico giornale indipendente del Paese, costantemente sotto attacco da parte del governo in una situazione di instabilità politica massima, nonché un uomo ricco e grande benefattore per l'intera comunità. La sua immagine pubblica è dunque integerrima, se non addirittura idolatrata dai suoi concittadini.

In casa però Eugene impone a moglie e figli uno stile di vita ispirato al cattolicesimo più integralista e conservatore, e quando qualcuno di loro contravviene ai dettami della Chiesa così come interpretati dal padre non esita a sottoporli a violenze fisiche e psicologiche.

Tutto cambia nel momento in cui Kambili e Jaja vanno a Nsukka a trascorrere qualche giorno con zia Ifeoma e i suoi figli. Qui i due ragazzi scoprono la possibilità di una vita completamente diversa, fatta di indipendenza, di libertà, di apertura mentale e di senso di responsabilità individuale, e per Kambili sarà anche il momento della scoperta dell'amore.

Il ritorno a casa costituirà il momento della verità e innescherà le azioni che cambieranno il corso degli eventi.

Un libro che non può lasciare indifferenti, dentro il quale si leggono in filigrana molti temi che caratterizzano la storia più o meno recente della Nigeria, legati in particolare alle conseguenze del colonialismo.

Si conferma per me la bella sensazione che nei libri della Ngozi Adichie si mescolano elementi di specificità culturale e contingenze storico-geografiche, che fa sempre bene provare a capire, e sentimenti universali che attraversano tutte le culture e accomunano tutti gli esseri umani indipendentemente da qualunque altro fattore e che confermano e sviluppano la nostra capacità di empatia.

Fatevi un regalo e leggete i libri di questa scrittrice.

Voto: 3,5/5

venerdì 10 gennaio 2025

Trieste è bella di notte

Approfitto di una serata speciale organizzata presso il Centre Saint Louis di Roma da Medici Senza Frontiere per recuperare questo documentario realizzato da Matteo Calore, Stefano Collizzolli, Andrea Segre.

Il documentario è stato girato al confine tra Italia e Slovenia, sulla cosiddetta rotta balcanica, tra il 2020 e il 2021, quando è stata introdotta e applicata diffusamente in quell’area la procedura delle riammissioni informali. In pratica, gli immigrati arrivati sul territorio italiano che avrebbero dovuto essere identificati e avere la possibilità di fare domanda d’asilo venivano rimandati indietro senza che niente di tutto ciò venisse fatto.

A seguito delle ripetute notizie su questo tipo di procedura, i registi hanno deciso di proporre un approfondimento sulla situazione della rotta balcanica, raccontando con le parole degli stessi migranti – di diverse nazionalità – le loro storie, migranti che affrontano questo viaggio (che può durare anche molti anni) tentando poi quello che tutti chiamano il “game”, ossia il superamento del confine verso uno stato dell'Unione Europea.

La realtà di questi migranti che tentano di raggiungere l’Europa via terra mi era in parte già nota non solo grazie alle fonti di informazioni, ma soprattutto grazie al film Life is (not) a game, in cui la street artist romana Laika si recava personalmente nella zona di quello che era il campo profughi di Lipa, in Bosnia, andato a fuoco a dicembre del 2020 e entrava in relazione con alcune persone coinvolte nel game.

Ascolto dunque nel film di Calore, Collizzoli e Segre parole, storie, considerazioni che evidentemente si ripetono uguali per persone diverse, fatte salve le differenze individuali e a volte il differente esito della loro vicenda.

Recentemente avevo anche visto Green border, il film che Agnieszka Holland ha dedicato alle storie dei migranti che, provenendo sempre dalla rotta balcanica, tentano di entrare in Europa dal confine tra Bielorussia e Polonia.

Le scene, i maltrattamenti, la disumanità, ma anche alcuni piccoli spiragli di speranza, di bellezza e di umanità, si ripetono identici, raccontandoci di un’Europa che si comporta come un fortino sotto assedio, e che sul fronte delle politiche migratorie rifiuta di adottare politiche comuni e di ragionare in maniera più collaborativa e più accogliente.

Tutti noi continuiamo a vivere le nostre vite – più o meno privilegiate – mentre ai nostri confini si consumano quotidianamente tragedie delle quali non vogliamo occuparci e che ci basta siano messe sotto il tappeto della nostra ipocrisia collettiva.

Nella nostra piccineria collettiva so, però, con ragionevole certezza, che la storia a un certo punto uscirà dagli argini che continuiamo a costruirle intorno e su questo, come su altri problemi collettivi, travolgerà tutto e tutti.

Ogni tanto sinceramente me lo auguro.

Voto: 3,5/5


mercoledì 8 gennaio 2025

Franco Fontana. Retrospective. Museo dell’Ara Pacis, 16 dicembre 2024

Un giro in centro in una fredda, ma soleggiata, domenica pomeriggio mi offre l’occasione di andare a visitare – a pochi giorni dall’apertura – la retrospettiva dedicata dal Museo dell’Ara Pacis alla produzione fotografica di Franco Fontana.

Ormai dieci anni fa avevo avuto la possibilità di visitare una mostra di Fontana a Venezia, e qualche tempo dopo avevo anche partecipato a una lezione del grande fotografo modenese a Palazzo Merulana a Roma.

In quel periodo ero talmente affascinata dalla sua fotografia che avevo comprato alcuni suoi libri fotografici, in particolare quelli dei paesaggi (colorati e astratti) che lo hanno reso famoso presso il grande pubblico.

Nel frattempo la mia fotografia si è evoluta e i miei interessi si sono ampliati e in parte spostati, cosicché mi ha fatto particolarmente piacere poter ripercorrere la carriera fotografica di questo maestro e verificare – se ancora ne avessi avuto bisogno – che tutti i fotografi, anche e soprattutto quelli veri, pur continuando a raccontare fondamentalmente sé stessi attraverso la fotografia, evolvono e cambiano, foss’anche solo perché ciascuno di noi cambia nel tempo.

Nella mostra dell’Ara Pacis, che - come tutte le mostre allestite in questo spazio museale - ha l’unico difetto, a causa del tipo di spazi a disposizione, di non rendere del tutto intellegibile il percorso (lasciando dei dubbi al visitatore sulla sequenza della visita), si ha la possibilità di ripercorrere tutta la carriera del fotografo, ammirando non solo le parti più famose della sua produzione (i paesaggi naturali e urbani, i frammenti, gli asfalti, i nudi ecc.), ma anche serie meno conosciute (per esempio quelle di street photography e di fashion photography) e più recenti (per esempio le foto nonché il video realizzato durante un viaggio a Cuba, i reportage sulle grandi strade, la Route 66, l’Appia, il Cammino di Compostela).

In una piccola saletta c’è anche la possibilità di ascoltare e vedere un’intervista al fotografo, che appare ancora lucidissimo nonostante l’età e ci aiuta a comprendere ancora meglio il suo approccio alla fotografia, che ha visto il colore come scelta identitaria, tanto più perché utilizzato in un’epoca in cui la fotografia artistica era interamente in bianco e nero.

Il percorso della mostra è affascinante e suggestivo, e va riconosciuto lo sforzo di garantire la massima accessibilità per persone con disabilità. In particolare, sono disponibili lungo il percorso alcune versioni delle fotografie più famose di Fontana accessibili per persone non vedenti (la Biblioteca astratta a cura di Fabio Fornasari, una specie di traduzione delle foto in forma materica), realizzate in collaborazione con l’Istituto dei ciechi Cavazza di Bologna.

Devo dire però che per me la parte più sorprendente della mostra è risultata quella che espone le stampe originali su pellicola Kodak Ektachrome: foto di formato piccolo e piccolissimo, con i colori un po’ sbiaditi, che quasi non sembrano arrivare dallo stesso fotografo di cui ammiriamo le foto nelle altre sale, ma che hanno un fascino davvero speciale. D’altro canto, sono invece rimasta un po’ perplessa di fronte ad alcune stampe in grande formato che guardate da lontano sono di impatto, ma già a una media distanza risultano poco leggibili.

Comunque una mostra imperdibile per gli appassionati di fotografia.

Voto: 3,5/5

lunedì 6 gennaio 2025

Flow - Un mondo da salvare

Ed eccomi di nuovo al Cinema dei piccoli a recuperare un altro cartone animato di cui ho sentito parlare tanto bene, presentato nella sezione Un certain regard di Cannes e probabile candidato agli Oscar.

Si tratta di Flow, il film diretto dal regista lettone Gints Zilbalodis, che racconta di un mondo (post-apocalittico?) in cui la natura ha preso il sopravvento su tutto e si alternano fasi in cui le acque risalgono fino a coprire quasi interamente le terre emerse e fasi in cui le acque si ritirano riportando alla luce le terre sottostanti (e i residui di una qualche società umana, sebbene di umani non se ne veda neppure l’ombra). Protagonista è un gatto nero che – di fronte al sollevamento delle acque - guidato dalla sua istintiva paura dell’acqua, cerca di rifugiarsi in punti sempre più alti e infine si lancia in una barca a vela un po’ malandata, dove si è rifugiato un capibara. Ben presto la barca – una specie di nuova arca di Noè – diventa un rifugio per altri animali, un lemure, un cane, una specie di cicogna, tutti accomunati dalla necessità di sopravvivere, ma con caratteristiche personali e di specie molto diverse e spesso in conflitto tra di loro.

In una narrazione completamente priva di dialoghi, in cui gli animali si esprimono solo con i loro versi e le loro azioni, seguiremo questa improbabile combriccola in tutte le avventure che dovrà attraversare e superare per potersi salvare. E in queste avventure ognuno di loro sarà chiamato ad affrontare i propri limiti e comprendere che “nessuno si salva da solo” e che solo la tolleranza verso gli altri e la messa a fattor comune delle differenze consentono di affrontare le diverse situazioni che si presentano. Emerge inoltre un’ulteriore suggestione: di fronte a un mondo in cui la natura ha preso il sopravvento, le leggi della natura – talvolta anche spietate - governano tutto e, nel flusso del cambiamento, rimettono continuamente in discussione gli equilibri raggiunti. In questo scenario la lotta per la pura sopravvivenza può essere superata solo grazie all’attenzione verso l’altro e accettando il cambiamento.

La cosa straordinaria del film di Zilbalodis sta nel fatto che, durante la visione del film, non si sente – nemmeno per un minuto – la mancanza dei dialoghi, perché la forza delle immagini, delle azioni e delle espressioni dei protagonisti, nonché il supporto della colonna sonora (realizzata dallo stesso regista insieme al connazionale Rihards Zaļupe), riescono a veicolare non solo gli sviluppi della trama, ma anche sentimenti ed emozioni.

Credo che in un film come questo la parola – tanto più in quanto data agli animali – avrebbe trasformato un racconto poetico e pieno di suggestioni in un prodotto banale e dozzinale. La scelta del regista valorizza invece contesto e protagonisti “costringendo” gli spettatori grandi e piccoli a concentrarsi su dettagli e relazioni e offrendo loro la possibilità di lasciarsi andare all’aspetto emozionale della narrazione.

Da vedere assolutamente per chi ama gli animali – e magari ha anche animali domestici – ma consigliatissimo a chi voglia fare un’esperienza cinematografica animata un po’ diversa dagli ormai un po’ ripetitivi cartoni Disney e Dreamworks.

Voto: 4/5