venerdì 31 gennaio 2025

Armand

Vi ricordate Il dio del massacro (noto anche come Il dio della carneficina e come Carnage), il testo scritto da Yasmina Reza diversi anni fa e poi più volte rappresentato al teatro e portato al cinema da Roman Polanski? Il testo ruotava intorno all’escalation del diverbio tra due famiglie intorno a un episodio che aveva riguardato i rispettivi figli. Come accade spesso nei lavori della Reza, il crescendo dei toni e delle accuse produceva in quel caso un effetto parossistico, facendo emergere tutto il sommerso delle frustrazioni e delle disfunzionalità individuali e relazionali.

Ebbene, nel caso di Armand, primo lungometraggio del regista norvegese Halfdan Ullmann Tøndel, nipote di Liv Ullmann e Ingmar Bergman, il soggetto di fondo è molto simile: in seguito a un episodio spiacevole avvenuto tra due bambini di sei anni, i genitori vengono convocati a scuola per parlare dell’accaduto e comporre la situazione. Se dunque le premesse appaiono molto simili, gli sviluppi e i toni sono completamente diversi, il che potrebbe essere il risultato della somma della sensibilità individuale del regista e delle differenze culturali e sociali relative al contesto.

In Armand i bambini non compaiono mai, se non attraverso delle foto appese nei corridoi della scuola, e nel fotogramma finale del film, e tutto lo spazio è occupato dagli adulti, per i quali l’episodio – che tra l’altro ha anche un contenuto sessuale – ha un valore più simbolico che reale, in quanto ricondotto alla storia pregressa di ciascuno dei protagonisti, a partire dai genitori – che hanno legami che vanno al di là del fatto che i loro figli sono compagni di scuola – fino ad arrivare al personale scolastico.

Tutto questo però passa non tanto attraverso quello che i protagonisti della vicenda si dicono – anzi le parole sono tendenzialmente poche e in molti casi ambigue – bensì attraverso il non detto, le reazioni fisiche e il clima complessivo, che appare soffocato, trattenuto, claustrofobico, tanto che lo scioglimento del dramma coinciderà con l’uscita di tutti dall’edificio scolastico sotto una pioggia battente.

Halfdan Ullmann Tøndel gira questo film quasi fosse un thriller, a tratti addirittura un film dell’orrore, in cui i corridoi, le scale, le aule della scuola si trasformano in luoghi isolati, in penombra, pieni di mistero, e le persone che si trovano al suo interno appaiono inquiete, fragili, a tratti possedute da un demone interiore che ne determina reazioni talvolta sovradimensionate o produce momenti onirici che esprimono bisogni di fuga o condizioni di disagio. Il commento sonoro contribuisce a questa sensazione di inquietudine e di malessere che rapidamente si trasmette anche allo spettatore, suscitando un desiderio di liberazione non dissimile da quello dei protagonisti.

Non conosceremo davvero i fatti al termine del racconto, ma frammenti di informazioni, talvolta e più spesso opinioni e percezioni individuali; non sapremo del tutto quale sia la verità, chi mente deliberatamente e chi lo fa come reazione a un disagio psicologico. Certamente vedremo un’umanità in difficoltà nel gestire una situazione complessa, facilmente condizionata e condizionabile, spesso in balia delle emozioni individuali.

Un film conturbante, inquieto e inquietante, molto norvegese secondo me, in cui la prova attoriale è essenziale (considerato l’impianto teatrale) e su cui svetta Renate Reinsve, attrice che mi è entrata nel cuore dopo il ruolo da protagonista nel film La persona peggiore del mondo, e che qui conferma le sue qualità in un ruolo difficile, molto ambiguo, sfumato e controverso.

Voto: 3,5/5


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