La serata inizia molto male. Arrivo all'auditorium e davanti alle porte di ingresso c'è un servizio di sicurezza che controlla tutte le borse e ha requisito decine di piccoli contenitori di gel disinfettante nonché borracce e bottiglie d'acqua. La cosa non mi sorprende: me l'aveva già anticipato la mia amica F. che era stata a un altro concerto qualche giorno fa e avevo anche letto la delirante mail giunta nel pomeriggio nelle caselle di posta di tutti i partecipanti e che recita quanto segue:
"conformemente al Decreto Maroni 2009/94 verranno effettuati controlli di sicurezza all’ingresso, invitiamo quindi a recarsi presso l’Auditorium Parco della Musica con buon anticipo, per agevolare le operazioni di controllo e accesso [...] è vietato introdurre in sala bottigliette o borracce, gel o liquidi di qualsiasi natura, liquidi o materiali infiammabili, caschi, ombrelli e altri oggetti ingombranti, che devono quindi essere depositati presso il guardaroba prima dell'inizio dell’Evento. È possibile portare in sala borse di dimensione massima pari a cm. 25x35x12. Durante la permanenza all’interno della sala non è consentito consumare cibi e bevande. Sarà possibile consumare cibi e bevande fuori dalla sala e/o nella zona ristoro."
Io ho con me la mia macchina fotografica, una mirrorless a6400, quindi poco più grande di una compatta, che sta perfettamente nella borsetta che ho. Appena arrivo al controllo il tizio della security mi dice che devo lasciare la macchina fotografica in guardaroba. Comincio a chiedere spiegazioni, visto che nella mail che è arrivata non si parla affatto di macchine fotografiche. Ricevo le risposte più varie: "lo ha chiesto la produzione del concerto", "c'è scritto nel regolamento", "se vede la macchinetta Thom Yorke sospende il concerto", fino a "non le devo spiegazioni perché io sono un poliziotto e a me non mi scavalca nessuno". Premessa: all'auditorium hanno una politica molto creativa sulle macchine fotografiche e la possibilità di scattare fotografie. Nella stragrande maggioranza dei casi nei concerti nelle sale ho potuto portare la macchina fotografica ma veniva dato l'annuncio che non si potevano fare fotografie o riprese video, salvo che ovviamente tutti le fanno con i propri smartphone, spesso persino più potenti della mia macchinetta.
In questo caso la macchina non si può introdurre: non capisco se perché è un oggetto contundente (nel qual caso nemmeno gli zoccoli ai piedi si dovrebbero poter portare) o perché non si possono fare fotografie professionali (come se con gli smartphone non si potessero fare fotografie altrettanto professionali; tra l'altro io sono seduta lontanissimo e quindi le mie foto sarebbero comunque state ben poco leggibili). Insomma nonostante l'inca**atura mi dicono che o lascio la macchina al guardaroba (e mi scortano tipo delinquente) o me ne vado a casa, cosa che escludo visto il costo del concerto.
Diciamo che mi riprometto di evitare per il futuro i concerti nella cavea dell'auditorium, che tra l'altro di solito non mi piacciono nemmeno granché, una via di mezzo tra i concertoni e i concertini, che finisce per non essere né carne né pesce. Scriverò anche una mail di protesta all'auditorium cui mi rispondono garbatamente qualche giorno dopo, ma senza sciogliere i nodi.
Dopo questo pi**one - che però non potevo evitare - capite che non arrivo con la predisposizione migliore per il concerto. Tra l'altro mi incavolo ancora di più perché intorno a me tutti mangiano e bevono a dimostrazione del fatto che le regole che l'auditorium valgono solo quando vogliono loro.
Sul palco c'è un sassofonista, Robert Stillman, che poi scopriremo collaborare con la band, e che infatti verrà richiamato sul palco per suonare in due canzoni. Lì per lì mentre lo ascolto mi sembra di essere ritornata al caffè OTO a Londra e alla musica folle che avevamo lì sentito.
Non più tardi delle 21,30 the Smile salgono sul palco, questa band che nasce dalla fusione di una parte dei Radiohead (Thom Yorke e Jonny Greenwood) con il batterista dei Sons of Kemet, Tom Skinner.
Ho comprato già da un po' e ascoltato abbastanza il primo disco di questa nuova formazione, A light for attracting attention, e - come qualcuno ha fatto notare - rispetto alle ultime iniziative musicali di Thom Yorke si torna molto di più dalle parti dei Radiohead, seppure arricchiti e diversificati.
Quando iniziano a suonare e cantare (la prima canzone viene eseguita con Thom Yorke al pianoforte di spalle al pubblico) devo ammettere che non riconosco quasi nulla delle canzoni che pure ho ascoltato. La scaletta la leggerò solo al termine del concerto, scoprendo che hanno appunto cantato tutto l'album e un paio di inediti.
La sensazione che ho io ascoltandoli (e senza pensare al disco) è che si tratti di una specie di catalogo musicale, ossia che la band in un certo senso mostri al pubblico di poter scrivere e suonare qualunque tipo di musica, da quella più intimistica, a quella elettronica, al post-punk, a sonorità che mi sembrano persino sconfinare oltre il mondo occidentale. Sicuramente si tratta di tre grandiosi musicisti: Yorke e Greenwood passano con straordinaria nonchalance da uno strumento all'altro, e Tom Skinner ci mette la ciliegina sulla torta con la sua batteria.
Però, personalmente - non so se per l'umore della serata - non mi prendono. Devo dire che la cavea è una strana location per un concerto: l'acustica non è meravigliosa (al contrario di quella delle sale interne) e l'atmosfera tende a essere un po' ingessata. Quindi - mi chiedo - forse altrove avrei apprezzato di più, mentre qui mi rimane una sensazione di freddezza. Del resto Thom Yorke non è tanto comunicativo (pur dimostrando di conoscere un po' di italiano), al punto che io nemmeno capisco che la loro uscita temporanea dal palco non è una pausa ma è la fine del concerto, cui seguono quattro pezzi di bis.
Che dire? Sicuramente non sono una grande intenditrice di musica (quindi non sparatemi addosso), ma a livello di concerti dal vivo preferisco cose forse meno perfette ma più calde e coinvolgenti.
Voto: preferisco non darlo
venerdì 29 luglio 2022
The Smile. Auditorium Parco della Musica, 18 luglio 2022
mercoledì 27 luglio 2022
Quaderni ucraini e Quaderni russi / Igort
Quaderni ucraini. Le radici del conflitto. Un reportage disegnato / Igort. Nuova edizione. Bologna: Oblomov, 2022.
Quaderni russi. Sulle tracce di Anna Politkovskaja. Un reportage disegnato / Igort. Quartu Sant'Elena: Oblomov, 2021.
Gli eventi contemporanei mi hanno spinto ad accelerare l’acquisto e la lettura di due albi di Igort che erano nel mio carrello già da parecchio tempo, ossia i Quaderni ucraini e i Quaderni russi. Si tratta dei due reportage disegnati che Igort ha realizzato durante e dopo i quasi due anni da lui trascorsi tra Ucraina, Russia e Siberia nei primi anni Duemila.
Lo stile di racconto di Igort lo avevo conosciuto attraverso i reportage disegnati dedicati al Giappone, terra d’elezione del fumettista, che erano usciti nelle tre successive puntate dei Quaderni giapponesi. Igort ama molto procedere in maniera non lineare, inseguendo ispirazioni varie, spostandosi avanti e indietro nel tempo, aprendo di tanto in tanto digressioni di vario genere per affrontare temi collaterali o soddisfare curiosità.
Ebbene, nel caso dei Quaderni ucraini e russi mi pare che l’autore scelga una narrazione molto più asciutta e lineare, intervenendo poco in prima persona e lasciando invece molto spazio alle testimonianze individuali delle persone da lui direttamente incontrate e intervistate e ai documenti ufficiali, questo probabilmente per limitare l’interferenza del suo punto di vista personale rispetto alla complessa storia di questi paesi. Ne viene fuori un lavoro che è difficile confinare in un genere, e d’altra parte è lo stesso Igort a rifuggire qualunque tipo di classificazione.
Nel primo dei due albi, Quaderni ucraini, Igort ci aiuta, attraverso i resoconti dei testimoni e le memorie dei singoli, a ricostruire la difficile storia ucraina, senza pretendere di raccontare delle verità assolute, bensì soffermandosi sulle storie individuali e sulle prospettive che ne emergono.
In particolare da queste testimonianze è chiara la centralità di alcuni eventi che hanno segnato questo paese e il suo popolo: la terribile carestia degli anni Venti-Trenta e il genocidio dei kulaki, i piccoli e piccolissimi proprietari ucraini, in funzione della realizzazione dei kolchoz e dei piani quinquennali voluti dal regime sovietico. Se è vero che il socialismo reale in qualche modo avrebbe garantito alle persone di che mangiare e vivere, l’intervento sovietico ebbe un impatto pesantissimo sugli equilibri economici e sociali di un paese che in precedenza aveva potuto godere di un relativo benessere e di un contesto sociale piuttosto articolato e tutto sommato equilibrato. Il lungo periodo di supremazia sovietica, le ben note vicende di Chernobyl e le conseguenze del crollo dell’impero sovietico sono tutte situazioni con cui l’Ucraina ancora oggi fa i conti e che sono alla base di molte delle situazioni a cui oggi assistiamo.
L’indagine condotta da Igort sull’Ucraina prosegue nei Quaderni russi, seguendo le tracce di Anna Politkovskaja e le testimonianze sull’orribile guerra cecena, di cui la giornalista russa si era occupata da vicino.
Ne viene fuori da un lato il ritratto di una donna dal grandissimo senso etico del proprio lavoro di giornalista, ma forse più in generale dal grande senso di responsabilità individuale anche a costo del rischio e del sacrificio personale, dall’altro l’orrore del conflitto in Cecenia, in particolare i crimini e le atrocità, del tutto ingiustificabili, dei soldati russi.
Non si esce indenni dalla lettura dei Quaderni ucraini e dei Quaderni russi di Igort: se ne esce turbati, certamente con qualche piccolo elemento conoscitivo in più che sicuramente apre a dei necessari percorsi di approfondimento e comprensione, ma anche con la consapevolezza della propria fatale ignoranza di fronte alle storie di popoli che pure ci sono geograficamente piuttosto vicini.
Voto: 4/5
Quaderni russi. Sulle tracce di Anna Politkovskaja. Un reportage disegnato / Igort. Quartu Sant'Elena: Oblomov, 2021.
Gli eventi contemporanei mi hanno spinto ad accelerare l’acquisto e la lettura di due albi di Igort che erano nel mio carrello già da parecchio tempo, ossia i Quaderni ucraini e i Quaderni russi. Si tratta dei due reportage disegnati che Igort ha realizzato durante e dopo i quasi due anni da lui trascorsi tra Ucraina, Russia e Siberia nei primi anni Duemila.
Lo stile di racconto di Igort lo avevo conosciuto attraverso i reportage disegnati dedicati al Giappone, terra d’elezione del fumettista, che erano usciti nelle tre successive puntate dei Quaderni giapponesi. Igort ama molto procedere in maniera non lineare, inseguendo ispirazioni varie, spostandosi avanti e indietro nel tempo, aprendo di tanto in tanto digressioni di vario genere per affrontare temi collaterali o soddisfare curiosità.
Ebbene, nel caso dei Quaderni ucraini e russi mi pare che l’autore scelga una narrazione molto più asciutta e lineare, intervenendo poco in prima persona e lasciando invece molto spazio alle testimonianze individuali delle persone da lui direttamente incontrate e intervistate e ai documenti ufficiali, questo probabilmente per limitare l’interferenza del suo punto di vista personale rispetto alla complessa storia di questi paesi. Ne viene fuori un lavoro che è difficile confinare in un genere, e d’altra parte è lo stesso Igort a rifuggire qualunque tipo di classificazione.
Nel primo dei due albi, Quaderni ucraini, Igort ci aiuta, attraverso i resoconti dei testimoni e le memorie dei singoli, a ricostruire la difficile storia ucraina, senza pretendere di raccontare delle verità assolute, bensì soffermandosi sulle storie individuali e sulle prospettive che ne emergono.
In particolare da queste testimonianze è chiara la centralità di alcuni eventi che hanno segnato questo paese e il suo popolo: la terribile carestia degli anni Venti-Trenta e il genocidio dei kulaki, i piccoli e piccolissimi proprietari ucraini, in funzione della realizzazione dei kolchoz e dei piani quinquennali voluti dal regime sovietico. Se è vero che il socialismo reale in qualche modo avrebbe garantito alle persone di che mangiare e vivere, l’intervento sovietico ebbe un impatto pesantissimo sugli equilibri economici e sociali di un paese che in precedenza aveva potuto godere di un relativo benessere e di un contesto sociale piuttosto articolato e tutto sommato equilibrato. Il lungo periodo di supremazia sovietica, le ben note vicende di Chernobyl e le conseguenze del crollo dell’impero sovietico sono tutte situazioni con cui l’Ucraina ancora oggi fa i conti e che sono alla base di molte delle situazioni a cui oggi assistiamo.
L’indagine condotta da Igort sull’Ucraina prosegue nei Quaderni russi, seguendo le tracce di Anna Politkovskaja e le testimonianze sull’orribile guerra cecena, di cui la giornalista russa si era occupata da vicino.
Ne viene fuori da un lato il ritratto di una donna dal grandissimo senso etico del proprio lavoro di giornalista, ma forse più in generale dal grande senso di responsabilità individuale anche a costo del rischio e del sacrificio personale, dall’altro l’orrore del conflitto in Cecenia, in particolare i crimini e le atrocità, del tutto ingiustificabili, dei soldati russi.
Non si esce indenni dalla lettura dei Quaderni ucraini e dei Quaderni russi di Igort: se ne esce turbati, certamente con qualche piccolo elemento conoscitivo in più che sicuramente apre a dei necessari percorsi di approfondimento e comprensione, ma anche con la consapevolezza della propria fatale ignoranza di fronte alle storie di popoli che pure ci sono geograficamente piuttosto vicini.
Voto: 4/5
lunedì 25 luglio 2022
Crazy. La follia nell'arte contemporanea. Chiostro del Bramante, 9 luglio 2022
In compagnia di nipote e amiche dedichiamo un sabato tardo pomeriggio a vedere la mostra Crazy. La follia nell'arte contemporanea, a cura di Danilo Eccher, in programmazione al Chiostro del Bramante.
Negli ultimi anni il Chiostro del Bramante si sta progressivamente spostando verso mostre poco tradizionali e più contemporanee, e ospita spesso installazioni anche del tipo site-specific (come sono diverse di quelle che compongono Crazy). A suo tempo avevo perso Dream (che mi dicono essere stata molto bella), e quindi accolgo di buon grado l'invito a vedere Crazy.
La mostra inizia ancora prima di entrare, con il cortile del chiostro ricoperto di specchi rotti che riflettono in modi inattesi le colonne e le sculture circostanti, e la prima delle diverse scritte al neon che accompagnano la mostra per tutto il tragitto: "E uscimmo a riveder le stelle". Sempre nel cortile le prime figure in vetroresina con un grande masso al posto della testa che ritroveremo anche all'interno delle sale.
Nel percorso espositivo, che seguiamo con l'audioguida scaricata online, ogni sala e ogni corridoio è una scoperta e presenta una o più installazioni: la stanza con le luminarie accatastate, quella col soffitto sfondato, quella con i mazzi di fiori di cera capovolti, e poi ancora la stanza con le scatolette di sardine e altre conserve di pesca tra le onde, le scale invase dalle farfalle, il corridoio con le pareti ricoperte di criniere di unicorni rainbow, il labirinto ecc. E poi le scritte al neon: dalla classica "M'illumino d'immenso" alle più contemporanee "I can't go on I'll go on", "Be afraid of the enormity of the possible", al "Vogliamo tutto" presente nel bookstore.
Sì, perché la mostra continua anche quando sembra finita, tanto che all'ultima sala non ci capacitiamo del perché ci sono ancora due tracce dell'audioguida, fino a quando un'addetta ci dice che altre installazioni sono dopo il bookshop: una è la sala del bar ricoperta di 'grottesche' colorate e reinterpretate, l'altra è la scala per scendere al piano terra, dove i gradini sono dipinti a strisce colorate salvo che alla fine della rampa sembra che i barattoli si siano rovesciati e i colori mescolati.
I commenti dell'audioguida sono un po' enfatici e a volte mi sembra che non si sottraggano a qualche volo pindarico (che in una mostra che si intitola Crazy ci sta pure). Diciamo che alla fine la mostra è fondamentalmente un grande giocattolone, piuttosto divertente, che si visita gradevolmente e che certamente contribuisce ad apportare elementi conoscitivi sul mondo dell'arte contemporanea e non solo. Una mostra molto pensata in funzione dei social e del merchandising, come probabilmente le mostre saranno sempre di più nel futuro. Speriamo non a detrimento dei contenuti.
Voto: 3,5/5
Negli ultimi anni il Chiostro del Bramante si sta progressivamente spostando verso mostre poco tradizionali e più contemporanee, e ospita spesso installazioni anche del tipo site-specific (come sono diverse di quelle che compongono Crazy). A suo tempo avevo perso Dream (che mi dicono essere stata molto bella), e quindi accolgo di buon grado l'invito a vedere Crazy.
La mostra inizia ancora prima di entrare, con il cortile del chiostro ricoperto di specchi rotti che riflettono in modi inattesi le colonne e le sculture circostanti, e la prima delle diverse scritte al neon che accompagnano la mostra per tutto il tragitto: "E uscimmo a riveder le stelle". Sempre nel cortile le prime figure in vetroresina con un grande masso al posto della testa che ritroveremo anche all'interno delle sale.
Nel percorso espositivo, che seguiamo con l'audioguida scaricata online, ogni sala e ogni corridoio è una scoperta e presenta una o più installazioni: la stanza con le luminarie accatastate, quella col soffitto sfondato, quella con i mazzi di fiori di cera capovolti, e poi ancora la stanza con le scatolette di sardine e altre conserve di pesca tra le onde, le scale invase dalle farfalle, il corridoio con le pareti ricoperte di criniere di unicorni rainbow, il labirinto ecc. E poi le scritte al neon: dalla classica "M'illumino d'immenso" alle più contemporanee "I can't go on I'll go on", "Be afraid of the enormity of the possible", al "Vogliamo tutto" presente nel bookstore.
Sì, perché la mostra continua anche quando sembra finita, tanto che all'ultima sala non ci capacitiamo del perché ci sono ancora due tracce dell'audioguida, fino a quando un'addetta ci dice che altre installazioni sono dopo il bookshop: una è la sala del bar ricoperta di 'grottesche' colorate e reinterpretate, l'altra è la scala per scendere al piano terra, dove i gradini sono dipinti a strisce colorate salvo che alla fine della rampa sembra che i barattoli si siano rovesciati e i colori mescolati.
I commenti dell'audioguida sono un po' enfatici e a volte mi sembra che non si sottraggano a qualche volo pindarico (che in una mostra che si intitola Crazy ci sta pure). Diciamo che alla fine la mostra è fondamentalmente un grande giocattolone, piuttosto divertente, che si visita gradevolmente e che certamente contribuisce ad apportare elementi conoscitivi sul mondo dell'arte contemporanea e non solo. Una mostra molto pensata in funzione dei social e del merchandising, come probabilmente le mostre saranno sempre di più nel futuro. Speriamo non a detrimento dei contenuti.
Voto: 3,5/5
venerdì 22 luglio 2022
Islanda: viaggio alle origini del mondo - Terza parte
Leggi la prima e la seconda puntata del racconto di viaggio e guarda una selezione più ampia di foto sulla mia pagina Behance.
Informazioni pratiche------------
Voli
Abbiamo viaggiato con Icelandair, la compagnia aerea islandese che fa voli diretti tra Milano Malpensa e Reykjavík. All'andata il ritardo in arrivo dell'aereo e il temporale su Malpensa fanno sì che partiamo poco prima dell'una di notte da Malpensa per arrivare a Keflavík, l'aeroporto internazionale d'Islanda alle 3 di notte (il volo dura quattro ore circa e l'Islanda è 2 ore indietro rispetto all'Italia. Al ritorno invece tutto in perfetto orario. Aerei nuovissimi, intrattenimento a bordo, personale gentile, niente da dire. Il prezzo è commisurato, ma dopo che era saltato il viaggio nel 2020 sono stati efficientissimi e corretti con l'emissione dei voucher.
La 'nostra' Jeep Renegade 4x4 |
Alle 3 di notte a Keflavík il sole è già sorto, ma intorno all'aeroporto c'è il deserto e nessun taxi disponibile per portarci nell'albergo a 10 min di strada dove trascorreremo quel poco che ci rimane della notte. Per fortuna dopo un'attesa di una mezz'oretta arriva un taxi da 8 posti che porta noi e una coppia di spagnoli con bambino nello stesso albergo.
Lo spazio esterno della fattoria Vatnsholt |
Auto
Il noleggio dell'auto lo abbiamo fatto con la compagnia locale Geysir, gestita da giovanissimi, che si rivela una scelta azzeccatissima e vincente. Già con tutto il trambusto della pandemia erano stati estremamente disponibili e si confermano tali anche dal vivo: sono giovani, preparati, gentili e molto tranquillizzanti. Ci danno una bellissima Jeep Renegade 4x4 Hybrid praticamente nuova per la quale abbiamo chiesto in dotazione anche il wifi portatile, ipotizzando che non ovunque prenderà Internet (alla fine Internet prende quasi ovunque e S. non ha problemi, ma col mio gestore posso a malapena ricevere telefonate e dunque il wifi portatile mi sarà utilissimo). Il prezzo in questo caso è - direi - commisurato alla durata del viaggio e ai servizi offerti.
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Cibo
Fattoria Vatnsholt |
Djúpivogur |
Un ottimo pranzo con fish & chips e lobster soup lo abbiamo fatto al baracchino Glacier Goodies, nella zona del centro visite del Vatnajökull.
Una sosta postprandiale l'abbiamo fatta nel bel paesino di Djúpivogur per prendere un caffè al bistro con le vetrate che danno sul porto, il Við Voginn, dove lavora uno staff internazionale (francese, italiano ecc). Tutto buono e posto molto simpatico e accogliente.
Akureyri affacciata sul suo fiordo |
Un'altra sosta dolce la facciamo nel bar che sta alla fine della passeggiata Arnarstapi-Hellnar, il Fjöruhúsið café, che all'interno sembra una baita di montagna e ha una bella terrazza sul mare, sempre affollata di gente: noi prendiamo due caffè e una skyr cake (una specie di cheesecake realizzata con il formaggio simil yoghurt tipo dell'Islanda che si chiama appunto skyr).
A Grundarfjörður facciamo cena con i buonissimi hot dog (ne ha tanti tipi diversi) al camioncino di Mæstro (ne mangiamo due a testa), che è parcheggiato al centro del paese.
Grundarfjörður |
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Alloggi
Anche sugli alloggi l'Islanda non è certo un paese alla portata di tutti i portafogli. Come con il cibo noi alterniamo ostelli con bagni in comune (per tutti gli ostelli si veda qui) ad alloggi un po' più privati: nel complesso però le scelte si rivelano tutte piuttosto fortunate.
Siamo in ostello a Vík í Mýrdal (un edificio piccolo, ma carino, in una bellissima posizione; stanza piccolissima, ma ottima colazione), a Höfn (edificio nuovissimo nella zona periferica del paese; stanca carina e bagni confortevoli e adeguati), a Seyðisfjörður, nello specifico all'Hafaldan Old Hospital (vecchio ospedale trasformato in ostello; cucina comune molto bella), e infine a Reykhólar (ostello situato in un contesto davvero molto bello, ma c'è tanta gente e parecchio casino; qui comunque abbiamo la possibilità di fare il bagno nella piscina di acque termali presente in giardino).
La vista dalla stanza comune di Vatnsholt |
Sudur-Bár guesthouse |
A Grundarfjörður siamo al Sudur-Bár, una guesthouse che sta alla fine del fiordo proprio di fronte al sole che tramonta (più o meno). Stanza bella e grande, sala per la colazione magnifica, tutta a vetri, bel giardino, peccato per i gestori un po' freddini.
La vista dall'ostello di Reykhólar |
Acquisti e souvenirs
Il souvenir che non potete non portarvi via dall'Islanda è un lopapeysa, il tipico maglione di lana islandese che non è solo per i turisti, ma che gli islandesi per primi indossano con nonchalance. Non costano poco, ma se vi piace il genere ce ne sono davvero di tanti tipi, modelli, colori, pur essendo riconoscibili come appartenenti al medesimo genere. Noi alla fine ne porteremo in Italia 5-6, alcuni per noi, altri da regalare. Si trovano un po' dappertutto, ma noi consigliamo di visitare una delle tante wool factories dell'Islanda: noi siamo state alla Kidka wool factory vicino Hvammstangi e da Alafoss, all'ingresso di Reykjavík. In entrambi i casi facciamo il pieno anche di cappelli, sciarpe, guantini, e chi più ne ha più ne metta.
Un altro souvenir di cui facciamo incetta è la cioccolata: già nei primissimi giorni ci innamoriamo delle Omnom, cioccolate prodotte da una piccola azienda alle porte di Reykjavík. Ce ne sono di tutti i tipi e gusti e hanno delle confezioni meravigliose! Io le avrei comprate veramente tutte! Si trovano un po' ovunque, anche nei negozietti e nei supermercati. Nei supermercati non ci siamo fatte mancare l'acquisto di liquirizie di ogni genere, in particolare quelle salate che qui vanno per la maggiore.
Infine, compriamo varie confezioni di sale artico islandese, sia quello puro, sia quello aromatizzato, che solo da tempi relativamente recenti ha ricominciato a essere prodotto in Islanda. Anche per il sale compratelo tranquillamente nei supermercati, perché si trovano le stesse marche che trovate nei negozi di souvenir.
Su magliette, magneti, tazze ecc. non vi dico nulla perché li trovate ovunque, ma vi avviso: come un po' ovunque (ma in Islanda di più) negozi di souvenir con oggetti belli non ce ne sono tantissimi, quindi, mi raccomando, se ne identificate uno carino non ve lo lasciate scappare.
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Le impressioni complessive
Una precisazione: penso sia chiaro a tutti che non si va in Islanda per la cultura e l'arte, e nemmeno per le città, ma per i paesaggi e per l'incontro con una natura un po' primordiale che ci aiuta a ricordarci chi siamo, da dove veniamo e anche dove andiamo, perché - come dice Parisi - a essere a rischio non è la terra che ha visto ben di peggio, ma la specie umana quando la terra tornerà a essere invivibile com'è stata in tante fasi della sua lunghissima storia e come un pochino si vede in alcune zone di quest'isola.
Proprio perché l'isola ha una natura così dirompente e anche perché negli anni il livello di turismo è cresciuto esponenzialmente, fino a diventare una delle principali voci di bilancio dell'Islanda, gli islandesi hanno scelto per le loro attrazioni principali una strategia molto americana, ossia quella di addomesticare la visita e i visitatori con ampi parcheggi, sentieri guidati, segnaletica precisa ecc. All'inizio questa cosa lascia un po' interdetti perché ci si immagina l'Islanda selvaggia e un viaggio avventuroso, ma in realtà - a parte che per pochissimi posti - non è così (a meno che non vi avventuriate in trekking estremi o in giri nell'interno che comunque non vi consiglio se non siete molto esperti e attrezzati). Superato questo shock iniziale e soprattutto allontanandosi ogni tanto dalle attrazioni più note per sperimentare percorsi alternativi - senza essere imprudenti - si riesce però certamente a godere di un rapporto meno asettico con la bellezza di questi paesaggi.
Seconda precisazione: noi abbiamo fatto questo giro tra fine maggio e inizio giugno. Nelle zone molto turistiche c'era già un numero di turisti ragguardevole (provenienti da tutto il mondo), sebbene non tali da rendere la visita spiacevole. In altre zone ci siamo trovate invece con poche altre persone o quasi da sole. Vedendo però le dimensioni dei parcheggi ci siamo chieste cosa deve essere qui a luglio e agosto. Immagino che in questi periodi la situazione dei turisti possa diventare a tratti poco sopportabile.
Reykjavík vista dal Perlan |
Infine, compriamo varie confezioni di sale artico islandese, sia quello puro, sia quello aromatizzato, che solo da tempi relativamente recenti ha ricominciato a essere prodotto in Islanda. Anche per il sale compratelo tranquillamente nei supermercati, perché si trovano le stesse marche che trovate nei negozi di souvenir.
Il lago craterico di Kerið |
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Le impressioni complessive
Una precisazione: penso sia chiaro a tutti che non si va in Islanda per la cultura e l'arte, e nemmeno per le città, ma per i paesaggi e per l'incontro con una natura un po' primordiale che ci aiuta a ricordarci chi siamo, da dove veniamo e anche dove andiamo, perché - come dice Parisi - a essere a rischio non è la terra che ha visto ben di peggio, ma la specie umana quando la terra tornerà a essere invivibile com'è stata in tante fasi della sua lunghissima storia e come un pochino si vede in alcune zone di quest'isola.
Fjaðrárgljúfur |
Nella zona di Möðrudalur |
Ciò premesso, l'Islanda è magnifica (certo viverci credo sia ben altra cosa!), un paradiso per i fotografi e non solo, anche se devo ammettere che le foto non rendono abbastanza la vastità dei paesaggi e l'impressione dal vivo: bisognerebbe avere un drone (e infatti molti turisti lo usano, anche se qui in molte zone ne è giustamente vietato l'uso) e inserire nelle immagini le persone per dare l'idea di quanto sono piccole rispetto al paesaggio.
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mercoledì 20 luglio 2022
Islanda: viaggio alle origini del mondo - Seconda parte
Leggi la prima e la terza puntata del racconto di viaggio e guarda la più ampia selezione di foto sulla mia pagina Behance.
**************************Möðrudalur |
5° tappa: Seyðisfjörður - Akureyri
In questa giornata iniziamo con la deviazione sulla sterrata 901, una strada solitaria, bellissima, con paesaggi lunari e marziani davvero mozzafiato. A un certo punto compare anche il profilo del vulcano Askja coperto di neve. Tutto questo per arrivare a Möðrudalur, un piccolissimo villaggio fatto di una fattoria, un ristorante e alcune case del tipo turf houses, che è incredibilmente fotogenico.
Altra tappa importante del giorno sono due cascate, Dettifoss e Selfoss, che si trovano nella stessa zona. Anche in questo caso ci arriviamo attraverso la sterrata anziché per la strada asfaltata: bella, soprattutto le parti che si presentano come deserti di pietre, ma non come la 901. Arrivate a Dettifoss davanti a noi si apre il canyon in cui scorre l'Ölfusá, risalendo il quale vediamo questa cascata imponente che è la più grande d'Europa per portata. Decidiamo di proseguire il sentiero tra le pietre che dopo circa 1,5 km porta alla cascata di Selfoss, molto ampia e con tantissime cascate laterali. Davvero bella nonostante le numerose cascate che abbiamo già visto.
Risalendo ancora verso nord merita una sosta la zona di Hverir, dove facciamo una passeggiata nell'area delle solfatare, davvero suggestive, con i suoi colori saturi (giallo ocra, rosso mattone, grigio cenere ecc). Sembra di essere in un girone infernale. Intorno il paesaggio ricorda la zona del Timanfaya di Lanzarote.
Dopo aver superato la zona delle terme di Hverir e dell'impianto geotermico proseguiamo verso Grjótagjá. Si tratta di grotte con acqua calda, che un tempo venivano usate come terme ma dopo un evento vulcanico sono diventate troppo bollenti e quindi ormai sono più che altro un'attrazione turistica. Niente di imperdibile, ma interessanti.
Si punta infine verso il Mývatn (il lago dei moscerini) attraversando la zona di Dimmuborgir dove c'è l'area con le torri di lava, che vediamo però solo dalla macchina. Ci fermiamo invece nella zona sud del lago dove ci sono gli pseudocrateri, delle collinette a forma di crateri coperti di erba e popolati da pecore e uccelli. Sono il frutto di un altro strano fenomeno vulcanico su cui ci siamo documentate ma che non abbiamo ben capito. Facciamo la passeggiata verso i crateri da cui si gode di un bel panorama sul lago e non ci sono nemmeno troppi moscerini.
Infine la giornata termina a Goðafoss che inizialmente avevamo pensato di saltare. Per fortuna non l'abbiamo fatto. Ci sono pochissime persone. Il tempo è molto nuvoloso ma con squarci di azzurro. Noi ci fermiamo al parcheggio sul lato sinistro della cascata, da dove andiamo a tutti i punti panoramici compreso quello direttamente sul fiume che fa paura ma è anche molto bello. Atmosfera molto sturm und drang.
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Selfoss |
Hverir |
Dopo aver superato la zona delle terme di Hverir e dell'impianto geotermico proseguiamo verso Grjótagjá. Si tratta di grotte con acqua calda, che un tempo venivano usate come terme ma dopo un evento vulcanico sono diventate troppo bollenti e quindi ormai sono più che altro un'attrazione turistica. Niente di imperdibile, ma interessanti.
Gli pseudocrateri del Mývatn |
Goðafoss |
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6° tappa: Akureyri - Reykhólar
Vatnsnes |
Obiettivo di questa tappa è Snaefellsnes. Lungo il tragitto da Reykhólar ci beiamo dei paesaggi e quando imbocchiamo la penisola decidiamo di fare la costa settentrionale per poi scendere su quella meridionale. Prima sosta a Ytri Tunga dove c'è una spiaggia nera sulle cui rocce alberga una grande colonia di foche che questa volta vediamo davvero da vicino.
Passiamo davanti a Bjarnafoss (un'altra cascata!) senza fermarci, breve sosta alla chiesa nera di Budir dove c'è un bel panorama ma ci sono troppi turisti. Quindi proseguiamo verso Arnarstapi. Prima però imbocchiamo lo sterrato 570 verso lo Snæfellsjökull, che ci porta fino all'inizio del ghiacciaio, dove gli islandesi si divertono con sci, motoslitte e snowboard.
Verso Arnarstapi |
Kirkjufell |
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8° tappa: Grundarfjörður - Reykjavík
Harpa, Reykjavík |
Il giorno dopo andiamo al Perlan, un edificio moderno con una grossa cupola centrale, per vedere la città dall'alto, e non rimaniamo deluse. Sulla strada verso l'aeroporto, faremo anche una sosta alle colline rosse di Raudholar e una breve puntatina al bridge between two continents (nella penisola di Reykjanes), che è un ponte che unisce le zolle tettoniche dell'Europa e del Nord America.
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lunedì 18 luglio 2022
Islanda: viaggio alle origini del mondo - Prima parte
La valle dietro Reynisfjara |
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Percorso
Il giro che facciamo è - con qualche variante - quello classico dei viaggi in Islanda, ossia una specie di percorso circolare intorno all'isola seguendo la Ring 1, che alcuni fanno in senso orario partendo da Reykjavík, mentre noi decidiamo di fare in senso antiorario per avere subito l'impatto con la zona più turistica dell'Islanda, il cosiddetto Circolo d'Oro. Già ci eravamo rese conto, studiando il viaggio su carta, che bisognerebbe avere almeno 12 giorni per poter fare tutte le escursioni consigliate (penso alle isole Vestmann, ovvero al giro in barca a nord per vedere le balene) e soprattutto per girare almeno un pochino i fiordi occidentali. Noi in 8 giorni dobbiamo concentrare gli sforzi, senza rinunciare a quello che riteniamo essenziale (e comunque facciamo 2.500 km di macchina).
I cavalli islandesi |
1° tappa: Keflavík- Selfoss (per l'esattezza Árnessýslu)
2° tappa: Selfoss - Vík í Mýrdal
3° tappa: Vík í Mýrdal - Höfn
4° tappa: Höfn - Seyðisfjörður
5° tappa: Seyðisfjörður - Akureyri
6° tappa: Akureyri - Reykhólar
7° tappa: Reykhólar - Grundarfjörður
8° tappa: Grundarfjörður - Reykjavík
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Strokkur prima del getto |
1° tappa: Keflavík- Selfoss (per l'esattezza Árnessýslu)
Questa prima tappa è dedicata al Circolo d'oro, e per noi inizia con uno splendido panorama sul lago Þingvallavatn, da cui si arriva a Þingvellir, la zona del primo parlamento islandese, e Almannagjá, la faglia. In questa zona non perdete la passeggiata nella valle fino alla chiesetta e alla casa estiva del primo ministro islandese, con un piccolo cimitero sul fiume.
Gullfoss |
Non lontano da quest'area facciamo una passeggiata a piedi a vedere delle capanne abbandonate molto fotogeniche. In questa zona non può mancare una puntata a Gullfoss (foss in islandese significa "cascata"), dove arriviamo con un tempo bellissimo e quindi possiamo godere uno straordinario spettacolo di arcobaleni; i punti di osservazione sulla cascata sono diversi, uno anche molto vicino al punto del salto, e noi non ce ne facciamo mancare nessuno. Andiamo anche alla secret lagoon vicino Flúðir, ma arriviamo troppo tardi rispetto agli orari di apertura.
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2° tappa: Selfoss - Vík í Mýrdal
Prima andiamo a vedere il cratere di Kerið, che ieri avevamo saltato, e che è suggestivo perché si può fare la passeggiata in alto ai suoi bordi, oppure scendere sul sentiero che affianca il lago che si è creato nell'invaso. Oggi però è soprattutto la giornata delle cascate (ma in Islanda le cascate sono praticamente ovunque) e della spiaggia nera. Imperdibile Seljalandsfoss, la cascata che si può vedere sia dal davanti che passando sul retro, e a poche decine di metri Gljufrabui, dove si entra in una grotta passando sulle rocce sporgenti dall'acqua e si arriva in una specie di grotta aperta nella parte alta, da dove si getta la cascata. Di grandissimo effetto!
Grande e bella anche Skógafoss, pure qui - grazie al sole - con tanti arcobaleni che si possono fotografare e attraversare. Accanto una lunga scalinata che porta in cima per vedere da dove arriva la cascata e il punto in cui fa il salto.
Sulla strada tra Seljalandsfoss e Skogafoss si incontrano delle turf houses (sono le casette con il tetto ricoperto d'erba e fatte di torba) molto carine (una delle quali visitabile all'interno), intorno alle quali pascolano molte pecorelle e dove un'asiatica ha preso una capocciata per cui ha la fronte coperta di sangue! Nella stessa zona si cominciano a incontrare i cavalli islandesi con la lunga frangia, che diventeranno un elemento costante del paesaggio.
La seconda parte di questo percorso prevede la visita al promontorio di Dyrhólaey, dove facciamo sia il sentiero verso Lagey che quello verso Haey (ci sono qui dei fotografi con grandi teleobiettivi che fotografano le pulcinelle di mare, che noi vediamo a malapena). Vediamo dall'alto la spiaggia nera di Reynisfjara che poi raggiungeremo dopo cena per il "tramonto" (a fine maggio/inizi giugno il sole scende di poco sotto l'orizzonte verso mezzanotte e mezza e risale dopo un paio d'ore: praticamente non è mai buio). Fotografia d'obbligo alle rocce basaltiche e all'immensità un po' paurosa di questa spiaggia, dove in un angolo vediamo anche una piccola pulcinella di mare probabilmente non in buone condizioni. Al ritorno la valle che sta alle spalle della spiaggia è completamente coperta di uno strato di nebbia (o nuvole bassissime) sopra le quali c'è il sole e il tramonto. C'è un'atmosfera magica.
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3° tappa: Vík í Mýrdal - Höfn
Uscendo da Vík í Mýrdal si attraversa il mýrdalssandur, il deserto di sabbia alluvionale - che diventa poi deserto di lava - che prosegue per chilometri e chilometri creando un'atmosfera quasi post-apocalittica. Fantastico! Ci fermiamo a Skaftáreldahraun a vedere un pezzo di deserto roccioso con rocce tondeggianti ricoperte da un particolare tipo di muschio.
In questa zona merita certamente una sosta Fjaðrárgljúfur, un canyon tra alte rocce attraversato da un fiume, dove si può fare il sentiero che conduce fino alla cascata. Poi è ancora deserto di sabbia alluvionale, quasi fino al Vatnajökull, dove facciamo la piccola passeggiata fino alle propaggini del ghiacciaio, ma dove è possibile anche prenotare delle escursioni sul ghiacciaio con la guida.
Alla cascata che si chiama Svartifoss non andiamo perché è tardi, mentre la cosa più incredibile della tappa di oggi è la Jökulsárlón: scendiamo sulla spiaggia dal sentiero prima del ponte. La laguna glaciale è uno spettacolo bellissimo e difficile da descrivere a parole, e persino con le foto. Per capire la sua bellezza bisogna vederla: per noi la cosa più straordinaria vista in questa vacanza. Qui è possibile anche avvistare tantissimi tipi di uccelli (soprattutto sterne artiche, onnipresenti in Islanda) e le foche.
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Imperdibile la zona di Stokksnes e la vista sulla montagna Vestrahorn che si specchia sulla bassissima laguna ai suoi piedi (si può anche fare un giro sulla spiaggia nera e andare ad avvistare le foche). Quando ci andiamo noi su Vestrahorn c'è un enorme nuvolone, che mi fa temere che non potremo apprezzare l'effetto riflesso, che invece si rivela anche con queste condizioni di luce sorprendente e quasi ipnotizzante.
Sulla strada avvistiamo per la prima volta le renne, che poi reincontreremo e rivedremo ancora più da vicino in altri momenti.
Merita una sosta anche il faro di Hvalnes, da dove c'è una splendida vista sulle montagne e sui fiordi orientali. Giunte in prossimità dei fiordi orientali, decidiamo di fare la sterrata 939 che va su per la montagna arrivando prima a una cascata grande (con vista spettacolare) e poi attraversando paesaggi con neve e cascate a non finire.
Seljalandsfoss |
2° tappa: Selfoss - Vík í Mýrdal
Prima andiamo a vedere il cratere di Kerið, che ieri avevamo saltato, e che è suggestivo perché si può fare la passeggiata in alto ai suoi bordi, oppure scendere sul sentiero che affianca il lago che si è creato nell'invaso. Oggi però è soprattutto la giornata delle cascate (ma in Islanda le cascate sono praticamente ovunque) e della spiaggia nera. Imperdibile Seljalandsfoss, la cascata che si può vedere sia dal davanti che passando sul retro, e a poche decine di metri Gljufrabui, dove si entra in una grotta passando sulle rocce sporgenti dall'acqua e si arriva in una specie di grotta aperta nella parte alta, da dove si getta la cascata. Di grandissimo effetto!
Skógafoss |
Sulla strada tra Seljalandsfoss e Skogafoss si incontrano delle turf houses (sono le casette con il tetto ricoperto d'erba e fatte di torba) molto carine (una delle quali visitabile all'interno), intorno alle quali pascolano molte pecorelle e dove un'asiatica ha preso una capocciata per cui ha la fronte coperta di sangue! Nella stessa zona si cominciano a incontrare i cavalli islandesi con la lunga frangia, che diventeranno un elemento costante del paesaggio.
Reynisfjara |
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Il deserto di sabbia e lava a est di Vík í Mýrdal |
Uscendo da Vík í Mýrdal si attraversa il mýrdalssandur, il deserto di sabbia alluvionale - che diventa poi deserto di lava - che prosegue per chilometri e chilometri creando un'atmosfera quasi post-apocalittica. Fantastico! Ci fermiamo a Skaftáreldahraun a vedere un pezzo di deserto roccioso con rocce tondeggianti ricoperte da un particolare tipo di muschio.
In questa zona merita certamente una sosta Fjaðrárgljúfur, un canyon tra alte rocce attraversato da un fiume, dove si può fare il sentiero che conduce fino alla cascata. Poi è ancora deserto di sabbia alluvionale, quasi fino al Vatnajökull, dove facciamo la piccola passeggiata fino alle propaggini del ghiacciaio, ma dove è possibile anche prenotare delle escursioni sul ghiacciaio con la guida.
Jökulsárlón |
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4° tappa: Höfn - Seyðisfjörður
Vestrahorn |
Sulla strada avvistiamo per la prima volta le renne, che poi reincontreremo e rivedremo ancora più da vicino in altri momenti.
Le renne in posa |
Bello anche il giro del Mjóifjörður, una lunghissima sterrata che anche in questo caso sale sulle montagne e riscende verso il fiordo fino al relitto della nave. Paesaggi bellissimi, tante cascate tra cui la Klifbrekkufossar, che è un insieme di salti e sembra "Granburrone". Anche la strada, questa volta asfaltata, verso Seyðisfjörður è molto bella e permette prima di gettare uno sguardo sulla vallata del Lagarfljót e di Egilsstaðir, poi ti attraversare il passo innevato e costeggiare il lago ghiacciato, infine di vedere la Gufufoss, una cascata che niente ha da invidiare a quelle più famose, con la sua struttura ad anfiteatro.
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venerdì 15 luglio 2022
Elvis
Quando Baz Luhrmann esce con un nuovo film io sono lì in sala. Nonostante i suoi eccessi e i suoi passi falsi, trovo che Luhrmann sia uno dei più originali tra i registi in circolazione, di quelli capaci di pensare in grande, ma non per grandeur fine a sé stessa.
Così vado a vedere, in lingua originale, Elvis, il biopic che Luhrmann ha dedicato al re del rock e su cui sta lavorando da ormai diversi anni. Il mio rapporto con Elvis Presley si limita alla conoscenza della parte più nota del suo repertorio, alla visione di qualcuno dei film da lui interpretato e alle memorie di bambina di lui imbolsito negli ultimi anni prima della morte.
Per me dunque la ricostruzione di Luhrmann - pare piuttosto fedele alla verità storica - è fondamentale per costruirmi un'idea più tridimensionale di questa figura che è stata così importante per la storia della musica e del costume.
Il regista sceglie di far raccontare il film al colonnello Tom Parker (un grandissimo e "insopportabile" Tom Hanks, pesantemente truccato), il manager che ha seguito Elvis (magistralmente interpretato da Austin Butler) per tutta la vita e che ne ha condizionato nel bene e nel male la carriera. Parker in realtà era un apolide, non era colonnello e nemmeno portava questo nome: pur essendo sostanzialmente un impostore e una sanguisuga, sicuramente aveva fiuto per gli affari e conoscenza di ciò che piace al pubblico. Nell'incontro con il ragazzo di Memphis ne comprese immediatamente le potenzialità e il talento ed ebbe un ruolo fondamentale nel portarlo al successo, ma anche - nel tempo - nel tarparne le ali e renderlo quasi prigioniero di quella gabbia dorata che era l'hotel The International a Las Vegas.
Nel raccontare questa storia dal suo punto di vista, Tom Parker chiama in causa la corresponsabilità di tutti coloro che erano intorno a Elvis: la madre morbosamente legata a questo figlio, il debole padre, i suoi amici e collaboratori che in buona parte vivevano alle sue spalle, la moglie. Ma soprattutto Parker addita il pubblico che con il suo amore sfrenato e viscerale verso Elvis ne ha a sua volta condizionato l'esistenza.
Ovviamente la scelta del punto di vista di Parker è un espediente che serve a Luhrmann per trascinare lo spettatore in questo racconto e farlo salire in quella rutilante giostra da luna park che è il suo film e che è la vita di Elvis nel momento in cui incontra Parker. Qui Luhrmann non ha bisogno di trasformare in musical un racconto, perché la musica è parte integrante della narrazione, ma non rinuncia alle sue invenzioni visive a partire dai titoli di testa con quel caleidoscopio fatto di oro e brillanti, per poi proporci fumetti e foto di giornali che si animano, schermi bipartiti e tripartiti, materiale d'archivio mescolato al girato e soprattutto un montaggio che fa sembrare di stare su un ottovolante per quanto è veloce e adrenalinico. Tutto ciò è però al servizio della storia e di quella fase della vita di Elvis che vede decollare la sua carriera e che ne impone al pubblico e al mondo lo stile, il look e il modo di stare e di muoversi sul palco, tutte cose che si fanno in qualche modo risalire alle sue origini e al fatto di aver vissuto infanzia e adolescenza in un quartiere di neri, da cui ha assorbito musicalità e modo di vivere la musica. Non a caso il film di Luhrmann dà anche una lettura sociale e politica della vicenda di Elvis, inserendola nel difficile contesto segregazionista dell'America di quegli anni e nella anche sanguinosa strada verso il suo superamento (mai interamente compiuto).
Nella seconda parte del film, diciamo quella in cui comincia il declino o comunque quella in cui il rapporto con Parker si fa più complesso (anche in seguito al matrimonio con Priscilla e alla nascita della figlia), il ritmo volutamente si rallenta e la giostra si smonta a poco a poco, per riaccendersi solo a tratti.
Oltre alla confezione formale - che merita tutto il nostro plauso - ho apprezzato anche la scelta di Luhrmann di evitare santificazioni del protagonista: si capisce l'ammirazione, ma se ne mettono in evidenza anche i limiti e le debolezze. A me è servito a comprendere meglio questo personaggio al di là della sua iconicità, su cui comunque Luhrmann non lesina di certo. E le due ore e quaranta passano in un lampo.
Voto: 3,5/5
Così vado a vedere, in lingua originale, Elvis, il biopic che Luhrmann ha dedicato al re del rock e su cui sta lavorando da ormai diversi anni. Il mio rapporto con Elvis Presley si limita alla conoscenza della parte più nota del suo repertorio, alla visione di qualcuno dei film da lui interpretato e alle memorie di bambina di lui imbolsito negli ultimi anni prima della morte.
Per me dunque la ricostruzione di Luhrmann - pare piuttosto fedele alla verità storica - è fondamentale per costruirmi un'idea più tridimensionale di questa figura che è stata così importante per la storia della musica e del costume.
Il regista sceglie di far raccontare il film al colonnello Tom Parker (un grandissimo e "insopportabile" Tom Hanks, pesantemente truccato), il manager che ha seguito Elvis (magistralmente interpretato da Austin Butler) per tutta la vita e che ne ha condizionato nel bene e nel male la carriera. Parker in realtà era un apolide, non era colonnello e nemmeno portava questo nome: pur essendo sostanzialmente un impostore e una sanguisuga, sicuramente aveva fiuto per gli affari e conoscenza di ciò che piace al pubblico. Nell'incontro con il ragazzo di Memphis ne comprese immediatamente le potenzialità e il talento ed ebbe un ruolo fondamentale nel portarlo al successo, ma anche - nel tempo - nel tarparne le ali e renderlo quasi prigioniero di quella gabbia dorata che era l'hotel The International a Las Vegas.
Nel raccontare questa storia dal suo punto di vista, Tom Parker chiama in causa la corresponsabilità di tutti coloro che erano intorno a Elvis: la madre morbosamente legata a questo figlio, il debole padre, i suoi amici e collaboratori che in buona parte vivevano alle sue spalle, la moglie. Ma soprattutto Parker addita il pubblico che con il suo amore sfrenato e viscerale verso Elvis ne ha a sua volta condizionato l'esistenza.
Ovviamente la scelta del punto di vista di Parker è un espediente che serve a Luhrmann per trascinare lo spettatore in questo racconto e farlo salire in quella rutilante giostra da luna park che è il suo film e che è la vita di Elvis nel momento in cui incontra Parker. Qui Luhrmann non ha bisogno di trasformare in musical un racconto, perché la musica è parte integrante della narrazione, ma non rinuncia alle sue invenzioni visive a partire dai titoli di testa con quel caleidoscopio fatto di oro e brillanti, per poi proporci fumetti e foto di giornali che si animano, schermi bipartiti e tripartiti, materiale d'archivio mescolato al girato e soprattutto un montaggio che fa sembrare di stare su un ottovolante per quanto è veloce e adrenalinico. Tutto ciò è però al servizio della storia e di quella fase della vita di Elvis che vede decollare la sua carriera e che ne impone al pubblico e al mondo lo stile, il look e il modo di stare e di muoversi sul palco, tutte cose che si fanno in qualche modo risalire alle sue origini e al fatto di aver vissuto infanzia e adolescenza in un quartiere di neri, da cui ha assorbito musicalità e modo di vivere la musica. Non a caso il film di Luhrmann dà anche una lettura sociale e politica della vicenda di Elvis, inserendola nel difficile contesto segregazionista dell'America di quegli anni e nella anche sanguinosa strada verso il suo superamento (mai interamente compiuto).
Nella seconda parte del film, diciamo quella in cui comincia il declino o comunque quella in cui il rapporto con Parker si fa più complesso (anche in seguito al matrimonio con Priscilla e alla nascita della figlia), il ritmo volutamente si rallenta e la giostra si smonta a poco a poco, per riaccendersi solo a tratti.
Oltre alla confezione formale - che merita tutto il nostro plauso - ho apprezzato anche la scelta di Luhrmann di evitare santificazioni del protagonista: si capisce l'ammirazione, ma se ne mettono in evidenza anche i limiti e le debolezze. A me è servito a comprendere meglio questo personaggio al di là della sua iconicità, su cui comunque Luhrmann non lesina di certo. E le due ore e quaranta passano in un lampo.
Voto: 3,5/5
mercoledì 13 luglio 2022
Ariaferma
Avevo tanto sentito parlare di questo film e molte persone me ne avevo consigliato la visione. Finalmente grazie alla rassegna estiva "Isola del cinema" riesco a recuperarlo in una calda e umida sera d'estate, che vede anche la partecipazione dei responsabili e dei volontari della Comunità di Sant'Egidio, da sempre impegnata sul fronte carcerario, oltre che in molti altri settori.
Siamo in un carcere fatiscente, isolato tra le montagne. Il carcere sta per chiudere e tutti i detenuti saranno trasferiti in altre strutture. Anche gli agenti della polizia penitenziaria assaporano la loro ultima sera in questo luogo. Il giorno dopo arriva però la brutta notizia: 12 dei detenuti del carcere, tra cui il boss Carmine Lagioia (Silvio Orlando), dovranno rimanere ancora perché il carcere che doveva accoglierli non è ancora pronto a farlo, e dunque un piccolo gruppo di agenti, capeggiati da Gaetano Gargiulo (Toni Servillo) deve restare a presidiarli.
I detenuti vengono spostati nelle celle della "rotonda", lo spazio centrale del carcere, per consentirne una più agile vigilanza, e da qui inizia una convivenza fin troppo stretta e in fondo una doppia reclusione, detenuti e agenti entrambi in attesa di ricevere notizie su quando potranno andar via da questa struttura in abbandono.
Da un'iniziale condizione di distanza e di muso duro tra agenti e detenuti, a poco a poco, anche grazie all'arrivo in carcere del giovane e tormentato Fantaccini, le distanze si accorciano: Gargiulo consente a Lagioia di utilizzare le cucine per preparare pranzi e cene per i detenuti, sorvegliandolo personalmente.
Così, nel buio di un blackout causato da un temporale, la diffidenza reciproca, i pregiudizi bidirezionali, le ostilità sotterranee e palesi cadono per lasciare il posto alla convivialità e allo scambio, di fronte ai quali ci si riconosce come esseri umani prima che come detenuti e guardie.
Sostenuto da immagini di grande impatto visivo e da una colonna sonora non scontata di Pasquale Scialò, il film è un invito a superare le barriere e a vincere le paure per incontrare l'altro, anche quello più distante da noi, perché spesso si finisce per riconoscersi molto più di quanto si immaginerebbe.
Di Leonardo Di Costanzo avevo visto L'intervallo, che sostanzialmente tratta lo stesso tema, solo che in quel caso i ruoli della guardia e della prigioniera erano svolti rispettivamente da un ragazzo e una ragazza, unici protagonisti del film, mentre qui il discorso diventa corale e sale di livello, spostandosi - se vogliamo - dal piano personale a quello sociale. In un certo senso anche L'intrusa, altro bel film di Di Costanzo, ruotava intorno al tema dell'incontro e della capacità non scontata di superare le barriere - psicologiche e sociali - per accogliere l'altro nella sua individualità e non per quello che rappresenta.
Voto: 3,5/5
Siamo in un carcere fatiscente, isolato tra le montagne. Il carcere sta per chiudere e tutti i detenuti saranno trasferiti in altre strutture. Anche gli agenti della polizia penitenziaria assaporano la loro ultima sera in questo luogo. Il giorno dopo arriva però la brutta notizia: 12 dei detenuti del carcere, tra cui il boss Carmine Lagioia (Silvio Orlando), dovranno rimanere ancora perché il carcere che doveva accoglierli non è ancora pronto a farlo, e dunque un piccolo gruppo di agenti, capeggiati da Gaetano Gargiulo (Toni Servillo) deve restare a presidiarli.
I detenuti vengono spostati nelle celle della "rotonda", lo spazio centrale del carcere, per consentirne una più agile vigilanza, e da qui inizia una convivenza fin troppo stretta e in fondo una doppia reclusione, detenuti e agenti entrambi in attesa di ricevere notizie su quando potranno andar via da questa struttura in abbandono.
Da un'iniziale condizione di distanza e di muso duro tra agenti e detenuti, a poco a poco, anche grazie all'arrivo in carcere del giovane e tormentato Fantaccini, le distanze si accorciano: Gargiulo consente a Lagioia di utilizzare le cucine per preparare pranzi e cene per i detenuti, sorvegliandolo personalmente.
Così, nel buio di un blackout causato da un temporale, la diffidenza reciproca, i pregiudizi bidirezionali, le ostilità sotterranee e palesi cadono per lasciare il posto alla convivialità e allo scambio, di fronte ai quali ci si riconosce come esseri umani prima che come detenuti e guardie.
Sostenuto da immagini di grande impatto visivo e da una colonna sonora non scontata di Pasquale Scialò, il film è un invito a superare le barriere e a vincere le paure per incontrare l'altro, anche quello più distante da noi, perché spesso si finisce per riconoscersi molto più di quanto si immaginerebbe.
Di Leonardo Di Costanzo avevo visto L'intervallo, che sostanzialmente tratta lo stesso tema, solo che in quel caso i ruoli della guardia e della prigioniera erano svolti rispettivamente da un ragazzo e una ragazza, unici protagonisti del film, mentre qui il discorso diventa corale e sale di livello, spostandosi - se vogliamo - dal piano personale a quello sociale. In un certo senso anche L'intrusa, altro bel film di Di Costanzo, ruotava intorno al tema dell'incontro e della capacità non scontata di superare le barriere - psicologiche e sociali - per accogliere l'altro nella sua individualità e non per quello che rappresenta.
Voto: 3,5/5
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