martedì 28 febbraio 2023

All the beauty and the bloodshed = Tutta la bellezza e il dolore

Il documentario di Laura Poitras, vincitore del Leone d'oro a Venezia, racconta la vita della fotografa Nan Goldin, toccando i numerosi momenti significativi della sua esistenza dagli anni dell’infanzia nella sua famiglia disfunzionale fino agli anni più recenti caratterizzati dall’attivismo contro la famiglia Sackler, prima responsabile della crisi degli oppioidi negli Stati Uniti.

Ne viene fuori un ritratto complesso e multiforme, come multiformi – oltre che molto forti - sono state le esperienze di vita di Nan Goldin. Il primo evento a segnarla in maniera indelebile fu il suicidio dell’amata sorella maggiore Barbara nel 1965, che si colloca in un contesto familiare difficile dal quale ben presto la stessa Nan si allontana. Determinante è poi l’incontro con David Armstrong, amico di una vita, e poi il trasferimento a New York dove si immerge completamente nella vita artistica dell’East Village, documentandola con il suo lavoro The ballad of sexual dependency, che è certamente il suo più famoso.

Sono anni di eccessi e di esplorazione dei margini, che però sono anche ricchi di ispirazione e caratterizzati dalla costruzione di importanti relazioni, tra cui alcune distruttive, come quella con Brian che arriva a malmenarla fino quasi a ucciderla. Sono gli anni in cui anche la dipendenza dalle droghe si fa più grave, in un contesto nel quale via via molti dei suoi amici muoiono per overdose o AIDS, ma anche gli anni della sua consacrazione artistica.

Negli ultimi anni la Goldin, vittima di una dipendenza da oppiodi a causa dell’OxyContin, un antidolorifico distribuito in America dalla Purdue Pharma della famiglia Sackler che ha determinato una vera e propria epidemia di tossicodipendenza e un numero altissimo di morti per overdose, è stata tra le fondatrici del gruppo P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now), svolgendo azioni dimostrative contro la famiglia Sackler per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla loro responsabilità.

Il film della Poitras riesce a tenere insieme e far emergere la forte correlazione tra le esperienze di vita della Goldin e la sua produzione artistica, alternando il racconto delle prime a spezzoni dei suoi famosi slideshow. Il fil rouge che sembra trasparire da questa vita così articolata è una sorta di desiderio e di tensione costante della Goldin a portare alla luce il sommerso e l’invisibile: questo vale per la storia della sua famiglia e della sorella Barbara (di cui Nan ha cercato le tracce nella documentazione degli istituti psichiatrici dove è stata rinchiusa: il titolo del film “All the beauty and the blodshed” è tratto dalla relazione di un medico che commenta l’esito del test di Rorschach su Barbara), per le molteplici storie delle persone incontrate negli anni newyorkesi, e ancora in questi ultimi anni per l’attivismo politico contro i Sachler. Senza ipocrisie né perbenismi Goldin guarda in faccia la realtà e la porta all’attenzione degli altri per farla “sentire” emotivamente, anche prima e al di là di una comprensione razionale.

Il video finale nel quale Nan riprende la madre e il padre anziani che ballano in casa è commovente perché in un certo senso ricompone un quadro familiare disgregato attraverso una comprensione a posteriori dell’inadeguatezza di questi genitori, vittime loro stessi delle imposizioni sociali. La lettura del biglietto trovato in tasca a Barbara dopo il suicidio – una citazione da Cuore di tenebra di Joseph Conrad – è il colpo di grazia finale in un film ad altissima intensità emotiva: «Droll thing life is—that mysterious arrangement of merciless logic for a futile purpose. The most you can hope from it is some knowledge of yourself - that comes too late - a crop of unextinguishable regrets.»

Voto: 4/5


domenica 26 febbraio 2023

Chi ha paura di Virginia Woolf? / Edward Albee. Teatro Argentina, 12 febbraio 2023

Il regista Antonio Latella porta a teatro il classico di Edward Albee, Chi ha paura di Virginia Woolf?, interpretato da Vinicio Marchioni e Sonia Bergamasco nei ruoli dei coniugi George e Martha, e Paola Giannini e Ludovico Fededegni, nei ruoli dei giovani Honey e Nick.

Tutto si svolge in una notte nella casa di George e Martha, dove i due hanno invitato Nick e Honey a raggiungerli dopo una festa.

Già prima dell'arrivo degli ospiti si capisce che nella coppia ci sono molte tensioni irrisolte e George e Martha cominciano un duello verbale che si trasforma a poco a poco in un vero e proprio gioco al massacro, nel quale Nick e Honey fungono da spettatori ma anche da strumenti delle reciproche strategie. Mentre a più riprese fa la sua comparsa la canzoncina il cui ritornello Who's afraid of the big bad wolf? viene modificato da Martha in Who's afraid of Virginia Woolf?, il tasso alcolico sale vertiginosamente, i toni si fanno sempre più esasperati, così come il cinismo e la violenza psicologica che George e Martha riservano non solo a sé stessi ma anche ai loro ospiti, in un gioco di allontanamenti e avvicinamenti sottolineato anche dalle scenografie, dai costumi e in particolare dall'uso dei colori (verde, rosso e blu che si alternano e si inseguono). L'esito è l'inevitabile sgonfiamento della tensione e il riavvicinamento tra Martha e George, secondo il prevedibile schema di un rapporto di dipendenza malata.

Mentre Giannini e Fededegni scelgono uno stile recitativo da comprimari e sicuramente a tratti più naturalistico, Marchioni e Bergamasco tengono la scena con una recitazione importante, che insegue l'elevato pathos del testo. Alcuni di loro, tra cui all'apertura del sipario Sonia Bergamasco, si esibiscono anche in performance musicali non banali.

Nonostante l'ammirevole tentativo di modernizzazione compiuto da regista e drammaturga, il testo secondo me non riesce a nascondere i suoi anni. E, pur essendo stato probabilmente dirompente nell'epoca in cui fu scritto, oggi - a valle di moltissimi altri testi che l'hanno seguito - fa fatica a scandalizzare nei toni e nei contenuti, che molto risentono della temperie culturale dell'America di quegli anni, caratterizzati da un livello elevato di benessere in una società però molto moralista e perbenista.

Il risultato finisce dunque per essere in parte stucchevole e, alla chiusura del sipario, quello che ci invade è un senso di liberazione, che poi forse era anche l'obiettivo di autore e regista.

Lo spettacolo è candidato a molteplici premi Ubu, ma personalmente non sono riuscita ad entrarci in sintonia.

Voto: 3/5

venerdì 24 febbraio 2023

Everything, everywhere, all at once

Dopo il ritorno in sala di questo film grazie all'elevato numero di candidature agli Oscar, riesco a recuperare il film dei cosiddetti Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert), che pur non essendo propriamente il mio genere mi incuriosisce molto.

Al centro della narrazione Evelyn Wang (Michelle Yeoh), una cinese di circa 50 anni immigrata in America, che gestisce insieme a suo marito Waymond (Jonathan Ke Quan) una lavanderia a gettoni, ha una figlia, Joy (Stephanie Hsu), che ha una relazione con una ragazza, e un padre, Gong Gong (James Hong), appena arrivato dalla Cina.

Evelyn sta attraversando un momento di crisi, ma la sua vita è destinata a prendere una nuova direzione quando un'altra versione di Waymond proveniente da un universo parallelo, Alphaverso, la ingaggia in una missione per salvare il suo mondo dalle mire distruttive di Jobu Tupacki.

Questa missione metterà la donna di fronte alle molteplici versioni di sé degli universi alternativi, ossia gli universi nati dalle varianti innescate da ogni piccola decisione presa nel tempo.

Per Evelyn sarà l'occasione di riflettere su sé stessa e sulle sue scelte, oltreché per riacquistare un senso di sé e degli affetti della propria vita.

Il tutto si traduce in un frullatore che pur avendo in fondo un significato semplice ha una confezione piena di creatività.

Tra citazioni che vanno dal pop al colto, trovate esilaranti che oscillano tra il grottesco e il demenziale, e universi alternativi davvero imprevedibili (vedi quello in cui Evelyn e la figlia sono trasformate in due enormi sassi in un mondo desertico, o quello in cui tutti hanno dei wurstel al posto delle dita) il film dei Daniels è capace di raggiungere qualunque pubblico, pur rimanendo fedele alla sua natura indipendente.

Un giocattolone "artigianale" che intrattiene con intelligenza.

Voto: 3,5/5


mercoledì 22 febbraio 2023

Il compleanno (Birthday party) / Harold Pinter; regia di Peter Stein. Teatro Sala Umberto, 8 febbraio 2023

Peter Stein porta in scena al Teatro Sala Umberto Il compleanno di Pinter affidandosi a un cast solido in cui spicca la presenza di Maddalena Crippa.

Siamo nella casa di Meg e Petey Bowles, una coppia ben oltre la mezza età che affitta alcune stanze. In una di queste da tempo alloggia Stanley (Alessandro Averone), un giovane di cui non sappiamo quasi nulla (millanta un passato da pianista), che trascorre le sue giornate nella nullafacenza, in un gioco di seduzione con la signora Meg e con l'amica di lei, Lulu. Tutto questo prosegue fino a quando giungono in città due stranieri, Goldberg e McCann, che chiedono di alloggiare nella pensione dei Bowles. I due sembrano conoscere Stanley, che sottopongono subito a una specie di assurdo interrogatorio. La situazione degenera durante la festa di compleanno che i due uomini organizzano per il compleanno di Stan, che - anche complice il tasso alcolico - degenera in un crescendo di tensione, nonsense, sadismo, violenza fisica e psicologica.

Il mattino dopo, mentre la vita di Meg e Petey sembra tornare all'ordinaria routine, è accaduto qualcosa che cambia per sempre la situazione, sebbene non molte spiegazioni ci vengano fornite e molto resta non esplicitato.

La messa in scena è perfettamente funzionale al tono della narrazione, con una scenografia fissa sulla sala da pranzo dei Bowles, mentre le altre stanze della casa e il mondo esterno vengono evocati ma non entrano mai in scena, contribuendo al senso di straniamento complessivo. La sequenza del compleanno è particolarmente angosciante nella forma e nella sostanza, soprattutto perché non troviamo nessun appiglio razionale a cui ancorarci.

Un testo oscuro e ambiguo che spiazza e destabilizza, e che ancora riesce ad attrarre e a comunicare qualcosa alla nostra post post modernità.

Voto: 3,5/5

lunedì 20 febbraio 2023

Decision to leave

Un noir classico di ambientazione coreana, che si muove tra Hitchcock e Matsumoto Seichō, ma si arricchisce delle tipicità della cultura e dell'estetica coreana.

Dopo Mademoiselle, film estetizzante e algido che secondo me aveva sostanzialmente esaurito un certo filone della poetica di Park Chan-Wook, con questo nuovo film il regista coreano cambia completamente genere e registro, reinventando sé stesso e trovando nuova ispirazione e linfa vitale.

In Decision to leave protagonista è Hae Joon (Park Hae Il), un commissario di polizia con un grande attaccamento al lavoro e senso del dovere, che vive un infelice matrimonio a distanza. Di fronte alla morte di un uomo precipitato da una roccia durante una escursione, viene interrogata la giovane moglie cinese, Seo Rae (Tang Wei), che fin da subito mostra un atteggiamento ambiguo. Man mano che le indagini vanno avanti il caso viene chiuso come suicidio, ma nel frattempo Hae Joon, che è stato sedotto dalla donna, continua ossessivamente a seguirne le tracce fino a una scoperta destinata a cambiare il corso degli eventi e allo struggente epilogo.

Di fronte a una materia classica incentrata sulla figura di una ambigua ma anche dolce femme fatale, Park Chan-Wook riesce a intessere una storia in cui - com'è tipico del cinema coreano e soprattutto del suo - mescola i generi, cosicché accanto al noir e al melò trovano spazio momenti grotteschi se non addirittura esilaranti. Vederlo in lingua originale è un'esperienza ancora più completa, sia per apprezzare l'uso di due lingue (la cinese e la coreana) che spesso richiedono strumenti di traduzione per la comunicazione tra il commissario e Seo Rae, sia per tenere insieme la mimica coreana (lontana anni luce dalla nostra) con le sonorità della lingua e delle interiezioni da loro utilizzate.

Il tutto si inserisce dentro una confezione impeccabile (fotograficamente a tratti davvero notevole) e in una densità emotiva e di senso che nonostante la distanza culturale cattura dal primo all'ultimo istante, nonostante la lunghezza della visione.

Voto: 4/5


venerdì 17 febbraio 2023

The banshees of Inisherin = Gli spiriti dell’isola

Mi sono andata a rileggere la recensione che a suo tempo avevo scritto del precedente film di Martin McDonagh, Tre manifesti a Ebbing, Missouri, di cui avevo un ricordo impressionistico e la sensazione che non lo avessi apprezzato particolarmente. Oltre a sorprendermi per il voto (gli avevo dato uno dei miei 3,5/5), scopro che quel film aveva molto più in comune con quest'ultimo di quanto non si possa immaginare. Pur essendo lontani geograficamente e cronologicamente (Missouri vs Irlanda, giorni nostri vs 1923), Martin McDonagh torna a esplorare le piccolissime comunità e le loro dinamiche disfunzionali.

Pádraic (un bravissimo Colin Farrell, che non andrebbe visto doppiato per nessun motivo al mondo) abita con la sorella Siobhan (una ispiratissima Kerry Condon) in una piccola fattoria nell'isola di Inisherin (un'isola che non esiste, le cui riprese sono state girate nell'isola di Inishmore e in altri remoti luoghi irlandesi), insieme ai loro animali (un'asinella, delle mucche, i cavalli). Ogni pomeriggio alle 2 Pádraic passa a prendere l'amico Colm (Brendan Gleeson), che abita con il suo cane in un cottage in pietra su una bellissima baia, per andare insieme al pub di Jonjo a bere una pinta di birra e a fare quattro chiacchiere. Questa routine tranquilla in un luogo dalla natura idilliaca viene sconvolta quando un giorno, all'improvviso, Colm dice a Pádraic che non vuole essere più suo amico e trascorrere le sue giornate in chiacchiere sterili, ma che vuole dedicarsi alla musica e alle poesie per il tempo che gli resta da vivere. Questa situazione inattesa stravolge non solo Pádraic, che non si dà pace della decisione dell'amico quasi come un amante scaricato, ma l'intera comunità che inevitabilmente deve fare i conti con questa rottura che catalizza l'attenzione e la partecipazione collettiva.

Così man mano che la narrazione procede tutto subisce una specie di magica trasformazione.

Il fascino selvaggio dell'isola con le sue scogliere, i campi verdissimi circondati dai muretti a secco e punteggiati dalle case bianche, le baie da cui si ammirano tramonti spettacolari sul mare, si fa sempre più cupo e inquietante. L'isola diventa uno spazio soffocante e incombente che si stringe intorno ai personaggi. Colm combatte con il fantasma della morte e con l'ossessione di dare un senso alla sua vita e porta la sua depressione fino all'autolesionismo; Pádraic, uomo dagli orizzonti limitati ma certamente gentile, a poco a poco tira fuori una cattiveria inattesa, in una escalation che trascina con sé tutti a partire dai più deboli, come Dominic (Barry Keoghan), il ragazzo ritardato, figlio del poliziotto, innamorato di Siobhan.

La signora McCormick, la vecchietta vicina di casa di Pádraic e Siobhan, diventa una presenza sempre più oscura rivelando la sua natura quasi stregonesca, vera e propria reincarnazione delle banshees, creature leggendarie della mitologia irlandese che annunciano la morte e che Colm sceglie come soggetto della canzone che sta scrivendo.

Anche il tono complessivo del film cambia coerentemente. Quella che inizia come una commedia un po' grottesca, si trasforma poco a poco in una fiaba sempre più nera dagli esiti tragici. L'impianto da tragedia classica - già riconoscibile in Tre manifesti a Ebbing, Missouri - qui trova una nuova e più pregnante manifestazione.

La solitudine, la paura della morte, un consesso umano claustrofobico, le piccole e grandi meschinità individuali, l'assenza di prospettive e l'inquietudine sono le micce nemmeno troppo nascoste da cui possono scoppiare piccoli e grandi incendi. La guerra non è solo quella con la G maiuscola di cui a Inisherin si sente solo l'eco lontana, ma anche quella che nasce dalla fine di un'amicizia e che finisce per sconvolgere una comunità. Non c'è speranza per chi rimane, ma forse solo per chi se ne allontana, in maniera forse anche egoistica.

Non pensiate però che The banshees of Inisherin sia un film grave, perché McDonagh conferma ancora una volta di governare magistralmente la capacità di mescolare generi e registri, suscitando a seconda dei casi la risata, la commozione, l'orrore, l'angoscia, e a volte frullando insieme tutte queste cose.

Voto: 4/5



mercoledì 15 febbraio 2023

Tra le nebbie friulane (e quelle slovene)

In prossimità del fiume Torre
Quest'anno io e S. decidiamo di trascorrere i giorni a cavallo tra il 2022 e il 2023 in Friuli. Ci ero già stata in vacanza nel 2016, quella volta nella zona del Tagliamento. A questo secondo giro la destinazione è più spostata verso est, nella zona dell'Isonzo e verso il confine con la Slovenia.

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Alloggio

Ci arriviamo in macchina da Bologna e la nostra casa per questi giorni sarà un grande monolocale alla Stasion di pueste, una specie di casale di campagna alla periferia di Nogaredo al Torre. Il fiume Torre - per me sconosciuto - sta proprio dietro il casale, a 5 minuti di strada: ci andiamo per constatare che il letto è privo d'acqua (come ci dicono, l'acqua scorre al di sotto in questo momento dell'anno) e per sorprenderci di quanto sia grande. Di fronte al nostro casale ci sono altre case in pietra ristrutturate e soprattutto Villa Gorgo, una grandiosa villa veneta della metà del Settecento con la bella scuderia affrescata, tappa obbligata per chi al tempo era in viaggio verso l'Austria.

Nogaredo al Torre
Oggi il borgo di Nogaredo è veramente un piccolissimo paesino, gradevole, ma dove a parte villa Gorgo, qualche b&b e una trattoria non c'è praticamente nulla, anche se la location è davvero bella e suggestiva, anche in una situazione di nebbia e di pioggerellina come quella che viviamo in questi giorni.

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I giri

Da Nogaredo nei giorni a seguire esploriamo i dintorni, sebbene non giriamo tantissimo perché l'idea è quella di riposarsi e anche perché il meteo non invoglia quasi per niente.

Aquileia
Una sera andiamo a fare un giro a Palmanova, la città fortificata a forma di stella, con la grande piazza centrale, girando intorno alla quale si ha quasi un senso di spaesamento. Una mattinata la trascorriamo ad Aquileia, città dalle rilevanti vestigia romane, tra cui i resti del foro e del porto fluviale, oltre ai magnifici mosaici a tema marino poi inglobati nella splendida basilica. Il pomeriggio dello stesso giorno andiamo a Grado, dove resto affascinata dalla laguna, un tipo di ambiente che fotograficamente mi piace sempre tanto. Il paese lo guardiamo in modo molto superficiale e periferico, quindi non sono in grado di esprimere alcuna valutazione.

Un'altra giornata è dedicata al sentiero di Rilke, quello che si snoda lungo il costone delle scogliere sul mare tra Sistiana e Duino. Purtroppo becchiamo una giornata particolarmente brutta, e all'andata facciamo più di metà del sentiero con la pioggia. Dopo la pausa a Duino (ci salva l'unico bar aperto del paese), torniamo indietro con un meteo leggermente più favorevole e riusciamo a vedere un piccolissimo sprazzo di tramonto sul castello di Duino.

Sul sentiero di Rilke
Non ci facciamo mancare una puntata slovena. Il 31 dicembre attraversiamo il confine, passando per l'altopiano del Carso che però non abbiamo il tempo di visitare, e andiamo alle gole di Tolmino, il punto di ingresso più basso del Parco Nazionale del Triglav

Forse perché è inverno l'ingresso non è regolamentato e non si paga il biglietto (al parcheggio ci sono pochissime auto): così iniziamo il percorso circolare che prima ci porta giù fino al fiume, poi ci fa risalire per andare al fondo della gola (bellissima e inquietante), poi tornando facciamo un "avanti-e-indietro" sul ponte tibetano, quindi ci immergiamo nel sentiero che ci porta alla roccia a forma di orso e infine risaliamo sulla strada, verso la cosiddetta grotta di Dante (così chiamata perché si dice che l'abbia visitata Dante e che sia stata di ispirazione per l'Inferno) che però è chiusa. 

Gole di Tolmino
Lungo la strada arriviamo al ponte di ferro (detto anche del diavolo, rinforzato e usato dai soldati durante la guerra) e infine eccoci al parcheggio. In questa giornata la nebbia sembra averci offerto una tregua e abbiamo potuto persino godere di un bel sole. Poiché è ancora presto, decidiamo di allungarci fino alla chiesetta di Javorca, costruita dai soldati austro-ungarici come monumento alla riconciliazione e alla pace. La strada che porta alla chiesetta è una stradina in mezzo ai boschi a un'unica corsia e in buona parte sterrata che a tratti fa un po' paura , soprattutto se in macchina si incrocia qualcun altro che viene nel senso opposto. Però attraversa un paesaggio fantastico, che è ancora più spettacolare ora che l'atmosfera si è fatta di nuovo brumosa.

Al termine di questa strada si parcheggia e poi con altri circa 20 minuti a piedi si è alla chiesetta (chiusa ovviamente), da cui si domina il paesaggio circostante, dove il sole al tramonto cerca di aprirsi una piccola feritoia tra le nuvole.

L'ultimo giorno lo dedichiamo a Trieste, in particolare il nostro obiettivo è il castello di Miramare che il primo gennaio risulta aperto e anche gratuito. Non a caso quando arriviamo c'è parecchia gente che evidentemente ha avuto la nostra stessa idea. Dopo un pochino di fila, riusciamo a prendere i biglietti e facciamo la visita all'interno (bella, ma non entusiasmante), poi un piccolo giro nel parco, quindi andiamo a Trieste città. 

Verso il castello di Miramare
Il tempo continua a essere grigissimo. Guardando il mare non si riconosce la linea che lo separa dal cielo e le navi sembrano sospese nel nulla. In città facciamo una passeggiata nella parte bassa e visitiamo qualche mercatino di Natale, poi andiamo verso il caffè San Marco a prendere una cioccolata calda e un dolce. Quando usciamo dal bar siamo troppo stanche per salire nella zona alta medievale e quindi decidiamo di riprendere la macchina e tornare verso casa a riposare.

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Il cibo e il vino

In Friuli - si sa - si mangia e si beve bene, e talvolta benissimo, praticamente ovunque.

Verso la chiesetta di Javorca
Noi abbiamo avuto pochi giorni a disposizione, ma direi che anche da questo punto di vista siamo tornate a casa soddisfatte.

Di seguito i posti sperimentati con successo durante la nostra permanenza friulana.

Innanzitutto la Fricheria/Trattoria Al Cavallino a Strassoldo, dove ci siamo fermate il primo giorno arrivando: tantissimi tipi di frico, certo non leggeri, ma molto buoni.

A Grado, durante la nostra breve sosta, abbiamo mangiato al Bar Cicchetteria Rampa d'oro, che non gli si darebbe un centesimo, invece si rivela un posto buono e dall'atmosfera simpatica.

Una sera invece mangiamo insieme alla nostra amica M. e alla sua famiglia all'osteria Agli antenati a San Lorenzo Isontino, dove tra cjarsons, secondi di carne, dolci e amari usciamo satolle e contente.

Alle gole di Tolmino
Il punto culinariamente più alto della vacanza è la cena all'osteria La Preda della Subida (un borgo che è tutto di una famiglia dove c'è anche un ristorante stellato e altri servizi). La cena è di ottimo livello, soprattutto il tagliere misto (prosciutto D'Osvaldo, speck, soppressa, formaggi e giardiniera) e il primo piatto di ravioli con crema di cime di rapa e nocciole. Un po' meno riuscito il petto d'anatra confit, forse perché le cosce - previste in menu ma non disponibili - erano state sostituite da una carne un po' troppo asciutta come il petto. Ottima la cheesecake finale e anche amari e grappe, per non parlare dei vini. Andando via compriamo un barattolo di giardiniera e uno di asparagi in agrodolce da portarci a casa, acquisti che si vanno ad aggiungere a varie altre cose comprate nei supermercati friuliani e sloveni (ho una vera ossessione per i supermercati in qualunque posto io vada).

Sul sentiero di Rilke
Infine, a proposito di vini, una delle attività turistiche che facciamo in questi giorni è andare in giro per cantine per fare incetta di bottiglie da portare a casa. Visitiamo la cantina dei Produttori di Cormons (ottimo rapporto qualità-prezzo), Gradis'ciutta (bellissima cantina e vini di alto livello), e infine Magnàs a Monticello (un borghetto ad alta intensità culinaria, oltre che molto suggestivo), e attraversiamo a più riprese - senza avere purtroppo il tempo di soffermarci adeguatamente - la zona del Collio, che merita una seconda visita in una stagione più favorevole.

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Salutiamo un Friuli che per questa volta ci ha mostrato un volto prevalentemente grigio, piovoso e avvolto nella nebbia (a parte alcune ore della nostra gita slovena), ma che non per questo ci è risultato meno affascinante e attrattivo. Non sarà di certo la nostra ultima visita in questa regione, dove tante cose ancora aspettano di essere scoperte e apprezzate.

lunedì 13 febbraio 2023

Un bel mattino = Un beau matin

Dopo la parentesi un po' meno intimista - e secondo me meno riuscita - del film Sull'isola di Bergman, Mia Hansen-Løve torna alle atmosfere de L'avenir (Le cose che verranno), e lo fa con un film profondamente autobiografico.

Al centro di questo racconto c'è una donna, Sandra (una credibile Léa Seydoux), che si divide tra il lavoro (fa la traduttrice, anche simultanea), la figlia (di una decina di anni), e il padre Georg (Pascal Greggory), ex professore di filosofia, a cui è stata diagnosticata la Sindrome di Benson, una malattia neurodegenerativa che lo sta rendendo non autonomo e sempre più confuso. Intorno a lei ruotano la sorella, insieme alla quale si occupa del padre, la madre - con cui il padre è separato da tanto tempo -, Leila, la nuova compagna del padre, la bisnonna ancora in discreta salute.

Un giorno al parco, Sandra incontra Clément (Melvil Poupaud), un amico che è stato via a lungo per lavoro, e tra i due scocca la scintilla dell'attrazione e inizia una storia d'amore. Clément però è sposato e ha un figlio, quindi la storia attraversa tutte le fasi tipiche dei rapporti clandestini.

Sandra si trova da un lato a fare i conti con l'impatto psicologico e pratico della malattia del padre, insieme alla necessità di trasferirlo in una struttura di cura e di svuotare la casa dei suoi tantissimi libri, dall'altro a vivere la felicità incontenibile dell'amore ritrovato dopo la morte del marito, ma anche la sofferenza degli inevitabili allontanamenti di Clément, oltre al rapporto con una figlia che sta crescendo e che diventa portatrice di esigenze e domande sempre più complesse.

Come nel precedente L'avenir, Mia Hansen-Løve sceglie uno stile sommesso, quasi sussurrato. C'è tutto in questo film: c'è il dolore, la paura, la speranza, l'empatia, la sofferenza, la gioia, la preoccupazione, l'amore, e tutti questi sentimenti sono intrecciati e talvolta sovrapposti nelle stesse giornate e nella stessa persona.

La regista scava e legge nelle pieghe dell'esistenza senza la presunzione di tirarne fuori delle grandi verità o insegnamenti, ma 'semplicemente' descrivendo le contraddizioni della vita, e interrogandosi - ancora una volta - sul senso della nostra esistenza, o forse sull'assenza di un senso che vada al di là dei cicli infinitamente ripetuti di esistenze individuali e delle emozioni con cui ognuno di noi la riempie.

Il titolo Un beau matin non è soltanto una citazione da Prévert - come qualcuno ha fatto notare - ma anche il titolo di un racconto che il padre della Hansen-Løve ha scritto per parlare della sua malattia, di cui alcuni passi entrano nella sceneggiatura del film.

Non c'è niente di strumentalmente melodrammatico in questo film, e però una intensità e una verità che è difficile trovare in altri film su temi analoghi. Quello di Sandra è un personaggio femminile di una tridimensionalità sorprendente: una donna che affronta con razionalità e senso pratico i problemi che molte di noi si trovano a vivere, ma non si difende dalle emozioni di fronte allo 'svanire' del padre - che lascia dietro di sé solo migliaia di libri - e al comparire imprevisto di un amore.

Con la canzone Love will remain di Bill Fay che parte sull'ultimo fotogramma del film, la Hansen-Løve sembra volerci indicare una possibile risposta, ma forse anche questa è una risposta persino eccessiva per un film che in fondo fa del relativismo e della sobrietà emotiva la sua bandiera.

Voto: 3,5/5


sabato 11 febbraio 2023

Steve Wynn. Unplugged in Monti, Teatro Basilica, 18 gennaio 2023

Sono in crisi di astinenza da musica dal vivo. La ripresa post-pandemia di questo settore - in particolare a Roma - non è stata particolarmente entusiasmante, cosicché mi affido ad Unplugged in Monti per ritrovare questo piacere un po' dimenticato e anche per scoprire nuove location decisamente interessanti.

In questo caso la location ha molto contribuito alla decisione di prendere i biglietti: né io né F. conoscevamo il Teatro Basilica, uno spazio per spettacolo e concerti incastonato nella navata centrale della cripta della Scala Santa di Piazza San Giovanni.

Anche Steve Wynn, appena si affaccia al palco (non posso dire "sale" perché lo spazio è organizzato con i posti a sedere in discesa, una specie di gradinata), dice che è un privilegio poter suonare in un contesto del genere.

Personalmente non sono una fan di Wynn e non lo ero nemmeno dei The Dream Syndicate, il gruppo di cui era leader e con cui ha conquistato il successo, per cui mi accosto a questo concerto con spirito profondamente "laico".

Wynn non è più un giovanotto (è del 1960) e un po' quando lo vedo sul palco mi fa l'effetto Claudio Baglioni. Anche l'età media del pubblico è piuttosto alta, e mi accorgerò man mano che tra gli spettatori ci sono molti fan della prima ora e appassionati vari che conoscono le sue canzoni a memoria.

Wynn comincia a suonarci le sue canzoni accompagnato dalla chitarra, intervallandole con un po' di chiacchiere in cui ci racconta aneddoti, curiosità e altro, spesso anche di carattere personale.

Il suo stile low profile, che inizialmente mi lascia un po' perplessa, col passare del tempo me lo fa apprezzare sempre di più e a poco a poco vengo anche io trascinata nel suo sound che risulta al contempo vintage e senza tempo. Il culmine si raggiunge con l'esecuzione in acustico di There will come a day, durante la quale alcuni del pubblico cantano e qualcuno tira addirittura fuori un'armonica a bocca per accompagnare Steve.

Il primo bis è praticamente d'obbligo, mentre il secondo non è scontato ed è fortemente voluto dal pubblico.

Per essere il concerto di un cantante che non conoscevo per nulla, posso considerare l'esperienza molto gratificante.

Voto: 3/5

venerdì 10 febbraio 2023

Van Gogh. Capolavori dal Kröller-Müller Museum. Palazzo Bonaparte, 22 gennaio 2023

L'epoca delle grandi mostre con i capolavori degli artisti più famosi sembra sia ormai finita a causa dei costi proibitivi delle assicurazioni e di tutta una serie di altre concause. E - man mano che ci penso e vedo le mostre che via via vengono organizzate - penso che non tutto il male viene per nuocere.

Questo perché le minori disponibilità aguzzano l'ingegno e per di più portano nei musei e nelle gallerie opere che difficilmente avremmo potuto vedere in circostanze diverse.

La mostra attualmente in corso a Roma a Palazzo Bonaparte - nel panorama delle mostre di questi anni - in fondo si può considerare un grande evento, però a guardarla più attentamente capiamo che anch'essa non può essere ascritta alla categoria delle grandi mostre, perché in questo percorso dedicato a Van Gogh, pur essendoci tantissime sue opere, non c'è praticamente nessuno dei suoi capolavori più famosi. Ma forse proprio per questo la mostra è di grandissimo interesse.

La selezione che popola le sale di Palazzo Bonaparte proviene dalla collezione del Kröller-Müller Museum, un museo statale dei Paesi Bassi, collocato all'interno del parco nazionale De Hoge Veluwe. Il Kröller-Müller è un museo nato dalla passione e dalla tenacia inscalfibile di Helene Kröller-Müller, una collezionista d'arte, figlia di un industriale, che fu tra le prime a riconoscere la grandezza di Van Gogh acquistandone numerose opere e che alla fine della sua vita decise di lasciare tutta la collezione ai Paesi Bassi.

Personalmente non conoscevo il Museo né la sua "fondatrice", che un video posto all'inizio del percorso della mostra aiuta invece a inquadrare e a conoscere, insieme alla prima sala in cui sono esposte alcune opere - di altri autori - provenienti dallo stesso museo.

La collezione di opere di Van Gogh posseduta dal museo è talmente ampia che portando in mostra una parte della stessa si ha la possibilità di percorrere l'intera carriera e produzione artistica del pittore olandese, dagli anni olandesi caratterizzati da temi più sociali e colori più scuri, fino ad arrivare agli anni francesi, con l'uso della pennellata e dei colori che più attribuiamo a Van Gogh. Quello della mostra è un percorso non solo nell'evoluzione artistica, ma anche nella vita tormentata del pittore, rispetto alla quale la mostra offre alcuni focus su alcuni momenti e relazioni: il legame con il fratello Theo, la relazione finita in tragedia con la prostituta Sien, l'amicizia tormentata con Gauguin, la vicinanza al medico Gachet.

Ogni sala presenta inoltre pannelli "interattivi" per approfondire alcuni aspetti della pittura di Van Gogh, alcuni dei quali interessanti, altri invero un pochino deludenti.

Verso la fine del percorso c'è una sala in cui si è immersi nelle proiezioni della notte stellata, ma non è certo la cosa più bella della mostra e mi è sembrata più una concessione all'ormai necessaria componente pop di qualunque proposta culturale che un vero valore aggiunto.

Il percorso espositivo è comunque nel complesso ben organizzato, suggestivamente immerso in un buio all'interno del quale solo i quadri e i disegni dell'artista sono illuminati, e tutti i suoi elementi sono ben descritti e contestualizzati, anche grazie all'audioguida. Nonostante l'ingresso per fasce orarie e l'acquisto anticipato dei biglietti, c'è un po' di fila da fare e all'interno delle sale c'è parecchia gente, però nel complesso si riesce a godere adeguatamente dell'esperienza e a entrare in contatto con lo spirito più vero di quest'uomo geniale, tormentato e sfortunato.

Voto: 3,5/5

martedì 7 febbraio 2023

Babylon

Mentre voi leggete questa recensione di Eileen Jones, che dice esattamente quello che penso ma con maggiori informazioni e in modo più diretto e tranchant del mio consueto, lasciatemi qui a piangere per le sorti di Damien Chazelle, giovane regista su cui tante speranze avevo riposto.

Avevo apprezzato molto Whiplash nonostante il tema profondamente tossico, avevo amato tanto la magia di La la land e non mi era dispiaciuto First man (anche se devo dire che oggi capisco che non mi si era di certo impresso nella memoria). Così di fronte a queste tre ore di spettacolo cinematografico eccessivo, decadente, fantasmagorico e però senza senso, mi chiedo senza sosta cos'avesse in testa Chazelle e cosa ci volesse comunicare.

Man mano che guardavo il film nella mia mente si formava un'immagine che non mi ha più abbandonato: è come se Chazelle avesse lasciato La la land al sole e agli agenti atmosferici fino a farlo imputridire, e poi ce lo avesse riproposto putrefatto sotto forma di questo nuovo film. Persino la musica di Justin Hurwitz è di fatto una rielaborazione del tema di La La Land, in un autocitazionismo che sinceramente mi ha un po' lasciata perplessa. Forse il successo travolgente di La la land ha condotto Chazelle sulle montagne russe di Hollywood, facendogli sperimentare le sue vette ma anche i suoi abissi e lasciandogli addosso un sentimento ambivalente verso il mondo del cinema.

Non a caso, Babylon da un lato è una dichiarazione d'amore al cinema: Chazelle ce lo mostra attraverso una delle scene finali in cui il protagonista Manny (Diego Calva), dopo molti anni da quando ha abbandonato il mondo del cinema, torna in sala dove danno Singin' in the rain e ritrova nostalgicamente la magia della Hollywood del passato, ma anche quella del cinema del futuro (una sequenza invero molto improbabile e neanche particolarmente emozionante). Dall'altro lato, il film è uno sguardo cinico verso Hollywood, descritto - anche in quelli che vengono rappresentati come i tempi d'oro, fatti di artigianato e ingenuità, ma anche ricchi di energia vitale e di sperimentazione, ossia l'epoca del muto - come una cloaca maxima in cui tutti vengono trascinati e da cui nessuno si salva. Non si salva la star del muto, Jack Conrad (Brad Pitt), il cui successo declina con l'avvento del sonoro, non si salva l'attricetta di provincia ambiziosa e sfrenata con un passato difficile Nellie LaRoy (Margot Robbie), non si salvano tutti coloro che gli ruotano intorno, tranne forse chi - più o meno volontariamente - decide di allontanarsi da questo mondo.

Se così dobbiamo interpretare il film, fa specie che un regista così giovane (Chazelle ha solo 37 anni) abbia già sviluppato un livello di cinismo così elevato, sebbene la cosa non mi sorprenda del tutto se penso alla sua generazione.

Faccio a meno a questo punto di soffermarmi troppo a lungo sulle cose che secondo me non funzionano nel film (anche lì dove fossero delle scelte consapevoli), ma qualche accenno lo voglio fare: un film ambientato prevalentemente tra gli anni Venti e Trenta che praticamente da tutti i punti di vista appare totalmente anacronistico e fortemente moderno (acconciature, comportamenti, modi di parlare, vestiti e chi più ne ha più ne metta), citazionismi - che poi in buona parte certamente non colgo nel dettaglio ma di cui percepisco qua e là i segnali - totalmente fuori luogo se non addirittura appiccicati alla narrazione, assenza quasi totale di empatia emotiva, sgradevolezza variamente declinata in grottesco, demenzialità, eccessi, umorismo nero, sequenze secondo me totalmente nonsense, come quella di cui è protagonista Tobey Maguire ovvero quella della lotta di Nellie con il serpente a sonagli.

Ora però non voglio dire che improvvisamente Chazelle è diventato incapace di fare film. Nel film ci sono anche cose molto belle: penso per esempio alla bella e divertente sequenza in cui si mostrano le difficoltà dei primi tentativi di girare col sonoro, ovvero le scene che hanno protagonista l'interessante figura di Elinor St. John (Jean Smart) o quelle con l'attrice lesbica Fay Zhu (Lin Ju Li).

Può essere dunque che qualcuno interpreti il film in chiave diversa e ne dia una lettura positiva.

Io resto sostanzialmente della mia idea. E - vi dirò - mi inquieta il fatto che negli ultimi anni - ovviamente non a caso, visto che siamo in un momento di transizione con la crescita esponenziale delle piattaforme e la crisi delle sale cinematografiche - tantissimi registi facciano film sul cinema (penso a Branagh, a Spielberg, al prossimo di Mendes) con un approccio nostalgico relativamente ai bei tempi andati e con l'intento di redimere il valore della visione in sala. Ora, parlo io che praticamente i film li vedo solo al cinema, e che ovviamente spero che questo trend si inverta, ma so anche che la storia andrà dove deve andare. Ora, però, quelli succitati sono registi che hanno una certa età ed è normale che vivano così questa fase, ma che questa angoscia/nostalgia  - seppure in modi diversi - attraversi un giovane mi preoccupa, perché mi aspetterei da lui non un'immersione nel passato, ma la costruzione del futuro.

Voto: 1,5/5


lunedì 6 febbraio 2023

Il disegno delle cose invisibili: Leonardo e Michelangelo / Roberto Mercadini. Libreria Harmonia Mundi, 20 gennaio 2023

Dopo aver scoperto qualche mese fa la bravura di Roberto Mercadini seguo regolarmente la sua pagina per avere aggiornamenti sulle tappe del suo tour. Così, appena ho scoperto una nuova puntata romana con il monologo dedicato a Leonardo e Michelangelo ho immediatamente acquistato i biglietti.

La location è un posto oggettivamente un po' particolare, la libreria esoterica Harmonia Mundi, che Mercadini dice essere uno dei posti che ama di più tra quelli in cui si esibisce. Alla fine, dal mio punto di vista è piuttosto indifferente e quello che conta è il suo monologo/lezione, come lo definisce lui stesso.

Mercadini ci parla di Leonardo e Michelangelo, due grandissimi artisti della stessa epoca che si sono incontrati in una sola circostanza senza "prendersi", fors'anche perché molto diversi se non opposti caratterialmente e nel loro approccio all'arte, pur essendo entrambi interessati a utilizzare l'arte per mostrare qualcosa di invisibile agli occhi.

È proprio da questa riflessione che prende avvio la galoppata di un'ora e mezza che Mercadini compie nella vita, nelle opere e nel mondo di Leonardo prima e di Michelangelo poi. Come ho già imparato nel mio primo incontro con lui, il suo modo di raccontare è da un lato documentatissimo e ricchissimo di informazioni e dall'altro virato all'intrattenimento in quel suo stile unico e inimitabile, che ti fa ridere e pensare nello stesso tempo.

Si esce dallo spettacolo sapendone certamente di più, e anche con parecchie curiosità che poi sta a ciascuno eventualmente approfondire.

La presenza nel pubblico di numerosi ragazzi e giovani mi conferma ancora una volta che non sono gli argomenti a non interessarli - come a volte sembrerebbe - ma ciò che fa la differenza è il modo in cui vengono presentati e la capacità - che certo Mercadini ha sviluppato all'ennesima potenza - di catturare l'attenzione e di mantenere il ritmo.

Se si pensa che Mercadini ha una formazione da ingegnere elettronico e ha lavorato per dieci anni come ingegnere informatico in un'azienda prima di dedicarsi al teatro, ci si convince ancora di più di due cose: primo, che la curiosità è un bene prezioso e da coltivare; secondo, che certi talenti possono essere nascosti nelle persone più impensate! ;-)

Voto: 3,5/5

mercoledì 1 febbraio 2023

I miei anni '80 a Taiwan / Sean Chuang

I miei anni '80 a Taiwan / Sean Chuang; trad. dal cinese di Martina Renata Prosperi. Milano: add editore, 2013.

Ma quanto sono belli questi graphic novel pubblicati da add editore che ci portano quasi sempre dentro mondi geograficamente o personalmente lontani e ce li rendono incredibilmente vicini?

Dopo aver letto racconti e storie provenienti dalla Siria, dal Cile, dalla Cina, con il fumetto di Sean Cheung vengo trasportata nella Taiwan degli anni '80, quella della tarda infanzia e adolescenza dell'autore, poco più vecchio di me.

Il racconto non segue strettamente un andamento cronologico, ma procede per temi che l'autore - anche regista - presenta come elementi caratterizzanti di quell'epoca. Si va dalla figura mitica di Bruce Lee ai grandi robot trasformabili, dal baseball alla breakdance, il tutto immerso nella temperie politica della Taiwan di quegli anni, caratterizzati da restrizioni della libertà individuale e tensioni sociali, nonché dallo specifico contesto familiare del protagonista.

La cosa per me incredibile è che, nonostante il contesto sia completamente diverso da quello in cui sono cresciuta io (ed è tra l'altro un contesto del quale, per mia ignoranza, conosco pochissimo), ho sentito familiari tantissimi dei ricordi di Sean Chuang, nonché dei suoi sentimenti di bambino e adolescente. A testimonianza del fatto che c'è qualcosa che unisce gli esseri umani al di là e al di sopra delle culture e che dovrebbe essere un fattore determinante contro le divisioni e le contrapposizioni.

Ovviamente il fumetto di Chuang non si propone intenti alti o particolari: è "semplicemente" un flusso di ricordi, in tono agrodolce, che si legge con tantissimo interesse e con un sorriso - a volte anche sghembo - sul viso.

Bello.

Voto: 4/5