Mentre voi leggete questa recensione di Eileen Jones, che dice esattamente quello che penso ma con maggiori informazioni e in modo più diretto e tranchant del mio consueto, lasciatemi qui a piangere per le sorti di Damien Chazelle, giovane regista su cui tante speranze avevo riposto.
Avevo apprezzato molto Whiplash nonostante il tema profondamente tossico, avevo amato tanto la magia di La la land e non mi era dispiaciuto First man (anche se devo dire che oggi capisco che non mi si era di certo impresso nella memoria). Così di fronte a queste tre ore di spettacolo cinematografico eccessivo, decadente, fantasmagorico e però senza senso, mi chiedo senza sosta cos'avesse in testa Chazelle e cosa ci volesse comunicare.
Man mano che guardavo il film nella mia mente si formava un'immagine che non mi ha più abbandonato: è come se Chazelle avesse lasciato La la land al sole e agli agenti atmosferici fino a farlo imputridire, e poi ce lo avesse riproposto putrefatto sotto forma di questo nuovo film. Persino la musica di Justin Hurwitz è di fatto una rielaborazione del tema di La La Land, in un autocitazionismo che sinceramente mi ha un po' lasciata perplessa. Forse il successo travolgente di La la land ha condotto Chazelle sulle montagne russe di Hollywood, facendogli sperimentare le sue vette ma anche i suoi abissi e lasciandogli addosso un sentimento ambivalente verso il mondo del cinema.
Non a caso, Babylon da un lato è una dichiarazione d'amore al cinema: Chazelle ce lo mostra attraverso una delle scene finali in cui il protagonista Manny (Diego Calva), dopo molti anni da quando ha abbandonato il mondo del cinema, torna in sala dove danno Singin' in the rain e ritrova nostalgicamente la magia della Hollywood del passato, ma anche quella del cinema del futuro (una sequenza invero molto improbabile e neanche particolarmente emozionante). Dall'altro lato, il film è uno sguardo cinico verso Hollywood, descritto - anche in quelli che vengono rappresentati come i tempi d'oro, fatti di artigianato e ingenuità, ma anche ricchi di energia vitale e di sperimentazione, ossia l'epoca del muto - come una cloaca maxima in cui tutti vengono trascinati e da cui nessuno si salva. Non si salva la star del muto, Jack Conrad (Brad Pitt), il cui successo declina con l'avvento del sonoro, non si salva l'attricetta di provincia ambiziosa e sfrenata con un passato difficile Nellie LaRoy (Margot Robbie), non si salvano tutti coloro che gli ruotano intorno, tranne forse chi - più o meno volontariamente - decide di allontanarsi da questo mondo.
Se così dobbiamo interpretare il film, fa specie che un regista così giovane (Chazelle ha solo 37 anni) abbia già sviluppato un livello di cinismo così elevato, sebbene la cosa non mi sorprenda del tutto se penso alla sua generazione.
Faccio a meno a questo punto di soffermarmi troppo a lungo sulle cose che secondo me non funzionano nel film (anche lì dove fossero delle scelte consapevoli), ma qualche accenno lo voglio fare: un film ambientato prevalentemente tra gli anni Venti e Trenta che praticamente da tutti i punti di vista appare totalmente anacronistico e fortemente moderno (acconciature, comportamenti, modi di parlare, vestiti e chi più ne ha più ne metta), citazionismi - che poi in buona parte certamente non colgo nel dettaglio ma di cui percepisco qua e là i segnali - totalmente fuori luogo se non addirittura appiccicati alla narrazione, assenza quasi totale di empatia emotiva, sgradevolezza variamente declinata in grottesco, demenzialità, eccessi, umorismo nero, sequenze secondo me totalmente nonsense, come quella di cui è protagonista Tobey Maguire ovvero quella della lotta di Nellie con il serpente a sonagli.
Ora però non voglio dire che improvvisamente Chazelle è diventato incapace di fare film. Nel film ci sono anche cose molto belle: penso per esempio alla bella e divertente sequenza in cui si mostrano le difficoltà dei primi tentativi di girare col sonoro, ovvero le scene che hanno protagonista l'interessante figura di Elinor St. John (Jean Smart) o quelle con l'attrice lesbica Fay Zhu (Lin Ju Li).
Può essere dunque che qualcuno interpreti il film in chiave diversa e ne dia una lettura positiva.
Io resto sostanzialmente della mia idea. E - vi dirò - mi inquieta il fatto che negli ultimi anni - ovviamente non a caso, visto che siamo in un momento di transizione con la crescita esponenziale delle piattaforme e la crisi delle sale cinematografiche - tantissimi registi facciano film sul cinema (penso a Branagh, a Spielberg, al prossimo di Mendes) con un approccio nostalgico relativamente ai bei tempi andati e con l'intento di redimere il valore della visione in sala. Ora, parlo io che praticamente i film li vedo solo al cinema, e che ovviamente spero che questo trend si inverta, ma so anche che la storia andrà dove deve andare. Ora, però, quelli succitati sono registi che hanno una certa età ed è normale che vivano così questa fase, ma che questa angoscia/nostalgia - seppure in modi diversi - attraversi un giovane mi preoccupa, perché mi aspetterei da lui non un'immersione nel passato, ma la costruzione del futuro.
Voto: 1,5/5
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martedì 7 febbraio 2023
giovedì 2 agosto 2012
The amazing spiderman
In una caldissima sera d'estate non ho saputo resistere alla tentazione di andare a vedere l'ennesima trasposizione cinematografica di Spiderman in una sala cinematografica dove c'è stato bisogno del maglioncino per non morire congelati dall'aria condizionata.
Devo ammettere di non poter vantare una conoscenza filologica del fumetto della Marvel, dunque il mio giudizio non riguarderà minimamente la correttezza della lettura cinematografica rispetto al fumetto nei caratteri dei personaggi e nella storia, ma solo la resa cinematografica.
Le origini del personaggio dovrebbero essere ormai note a tutti: Peter Parker viene affidato da bambino agli zii mentre i genitori sono costretti alla fuga per motivi inizialmente non chiari. Il giovane Peter (Andrew Garfield) trascorre una vita normale, tra il bullismo dei suoi compagni di scuola, l'innamoramento segreto per la compagna di scuola Gwen Stacy (Emma Stone) e l'affetto dei suoi zii. Tutto fino a quando durante una visita al laboratorio della Oscorp viene punto da un ragno e acquista quelle capacità e quei poteri che ne faranno l'uomo ragno.
La morte dello zio e la scoperta dei segreti che avevano portato alla fuga dei genitori lo convincono ad accettare la responsabilità che la nuova condizione gli offre, fino a trovarsi di fronte al lucertolone Lizard, risultato di esperimenti genetici condotti su se stesso dallo scienziato Connors (Rhys Ifans), che aveva lavorato insieme al padre di Peter.
Insomma, tutto torna...
Però, per quanto mi riguarda il confronto con la serie cinematografica precedente, quella per la regia di Sam Raimi, è inevitabile. E il risultato di questo confronto mi vede molto favorevole al nuovo protagonista: Andrew Garfield ha la faccia più scanzonata, simpatica ed espressiva rispetto a Tobey Maguire, che ogni tanto fa proprio pesce lesso.
Invece voto decisamente Kirsten Dunst rispetto a Emma Stone nei panni dell'innamorata di Spiderman, quest'ultima troppo ragazzona americana un po' effetto silicone per poter essere davvero credibile.
Sul piano della resa complessiva ho preferito di gran lunga il primo film della serie di Raimi, capace di costruire delle atmosfere più coinvolgenti e credibili (nonostante si tratti di un fumetto) e di giocare ironicamente con le semplificazioni che un personaggio di questo genere implica.
Certo, sono passati ormai dieci anni dal primo film di Raimi e dunque sul piano tecnologico e della qualità cinematografica il salto si vede (anche se io ho scelto il tradizionale 2D), però questo non è sufficiente al film di Marc Webb per oscurare o far dimenticare la trilogia realizzata da Sam Raimi.
Capisco però che il mio può essere considerato un giudizio un po' da quarantenne nostalgica, sempre più affascinata dal vintage in ogni ambito. Anche al cinema.
Voto: 3/5
Devo ammettere di non poter vantare una conoscenza filologica del fumetto della Marvel, dunque il mio giudizio non riguarderà minimamente la correttezza della lettura cinematografica rispetto al fumetto nei caratteri dei personaggi e nella storia, ma solo la resa cinematografica.
Le origini del personaggio dovrebbero essere ormai note a tutti: Peter Parker viene affidato da bambino agli zii mentre i genitori sono costretti alla fuga per motivi inizialmente non chiari. Il giovane Peter (Andrew Garfield) trascorre una vita normale, tra il bullismo dei suoi compagni di scuola, l'innamoramento segreto per la compagna di scuola Gwen Stacy (Emma Stone) e l'affetto dei suoi zii. Tutto fino a quando durante una visita al laboratorio della Oscorp viene punto da un ragno e acquista quelle capacità e quei poteri che ne faranno l'uomo ragno.
La morte dello zio e la scoperta dei segreti che avevano portato alla fuga dei genitori lo convincono ad accettare la responsabilità che la nuova condizione gli offre, fino a trovarsi di fronte al lucertolone Lizard, risultato di esperimenti genetici condotti su se stesso dallo scienziato Connors (Rhys Ifans), che aveva lavorato insieme al padre di Peter.
Insomma, tutto torna...
Però, per quanto mi riguarda il confronto con la serie cinematografica precedente, quella per la regia di Sam Raimi, è inevitabile. E il risultato di questo confronto mi vede molto favorevole al nuovo protagonista: Andrew Garfield ha la faccia più scanzonata, simpatica ed espressiva rispetto a Tobey Maguire, che ogni tanto fa proprio pesce lesso.
Invece voto decisamente Kirsten Dunst rispetto a Emma Stone nei panni dell'innamorata di Spiderman, quest'ultima troppo ragazzona americana un po' effetto silicone per poter essere davvero credibile.
Sul piano della resa complessiva ho preferito di gran lunga il primo film della serie di Raimi, capace di costruire delle atmosfere più coinvolgenti e credibili (nonostante si tratti di un fumetto) e di giocare ironicamente con le semplificazioni che un personaggio di questo genere implica.
Certo, sono passati ormai dieci anni dal primo film di Raimi e dunque sul piano tecnologico e della qualità cinematografica il salto si vede (anche se io ho scelto il tradizionale 2D), però questo non è sufficiente al film di Marc Webb per oscurare o far dimenticare la trilogia realizzata da Sam Raimi.
Capisco però che il mio può essere considerato un giudizio un po' da quarantenne nostalgica, sempre più affascinata dal vintage in ogni ambito. Anche al cinema.
Voto: 3/5
sabato 26 dicembre 2009
Brothers

Jim Sheridan, il regista di questo remake, non è esattamente l'ultimo arrivato. Ricordiamo in particolare i film Il mio piede sinistro, Nel nome del padre e l'ultimo In America. Anche la scelta degli attori non è stata fatta con leggerezza visto che nei tre ruoli principali, quello di Sam, Tommy e Grace troviamo rispettivamente Tobey Maguire, Jake Gyllenhaal e Natalie Portman (una menzione speciale all'interpretazione ancora una volta - secondo me - eccellente di Gyllenhaal).
La qualità della sceneggiatura del film originale sommata a un regista e un cast di attori di prim'ordine non poteva che produrre un ottimo risultato. La storia dei fratelli Sam e Tommy, il primo marine in missione in Afghanistan, sposato con Grace e padre di due bimbe, il secondo sempre ubriaco e appena uscito di prigione, resta intensa. C'è però qualcosa che non mi convince.
Del film della Bier - di cui non ricordo i dettagli ma la sensazione complessiva (e che mi è venuta voglia di rivedere)- mi avevano colpito la capacità di rappresentare con misura l'intensità del dramma e di aver ricondotto una tragedia dell'umanità, la guerra con i suoi strascichi impietosi sulla psiche umana, ad una tragedia tutta interiore, familiare ed intima. E la forza di quel film consisteva proprio nella scelta di non spettacolarizzare la dinamica di contesto, per concentrarsi sull'essenziale e, al contempo, sulla complessità del quotidiano (seppure in una situazione di eccezionalità). La vicenda acquisiva dunque quel respiro universale, che è esattamente ciò che - a mio parere - conferisce grandezza a una storia. Nei sentimenti contrastanti dei due fratelli, vei loro sensi di colpa e nei loro dissidi interiori, nella difficoltà di muoversi nel labirinto di sentimenti forti, ma divergenti, e di tracciare contorni certi al bene e al male, riuscivamo a trovare una parte della nostra fragile umanità.
E invece in questo caso quanto è genuinamente americana la storia di Sam e Tommy, quanto è preponderante la presenza della guerra in Afghanistan e il ricordo del Vietnam, quanto è insistita la commemorazione dei soldati americani caduti, quanto sono trasferite al di fuori dei personaggi le cause dei drammi che via via emergono fino quasi a sfociare in tragedia!
Così, quella che sentiamo alla fine è certamente commozione scaturita da pietà umana, ma non certo empatia vera, perché è troppo facile in questo film riconoscere la linea di demarcazione tra giusto e sbagliato e - purtroppo - non è questo che sperimentiamo nella vita di tutti i giorni.
Voto: 3/5
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