Ad occhi chiusi / Gianrico Carofiglio. Palermo, sellerio, 2003.
L'ho letteralmente divorato, questo secondo romanzo (dopo Testimone inconsapevole) della saga dell'avvocato Guido Guerrieri. Sarà che ultimamente non ho proprio moltissime occasioni di uscire la sera e mi sto godendo un po' di sana solitudine, sarà che sono stata presa da una pigrizia che non conoscevo da tempo, sarà invece che più semplicemente trovo emozionante la lettura di questi romanzi. Ma il risultato è che ho letto Ad occhi chiusi in meno di una settimana.
Avevo letto da qualche parte che si tratta - per molti lettori - del meno bello dei tre che hanno come protagonista Guerrieri e, dunque, probabilmente non mi aspettavo molto. E si sa, le aspettative sono una brutta cosa, mentre partire from scratch é certamente una condizione vantaggiosa.
Insomma, il fatto è che posso anche essere d'accordo sul fatto che, in questo caso, la vicenda giudiziaria è meno appassionante e - a tratti anche un po' meno credibile - ma devo dire invece che il modo in cui si aggiungono dettagli al personaggio di Guido e si traccia il suo percorso professionale e umano continua ad essere assolutamente sorprendente e a tratti commovente.
Ho trovato innanzitutto fulminante l'inizio. La vita di questa strana coppia, Guido e Margherita, il cui legame appare subito fortissimo, ma che ha deciso di mantenere degli spazi di autonomia e di sorpresa reciproca.
«Ognuno aveva mantenuto la sua casa, con i libri, i manifesti, i dischi e tutto il resto; il casino, in particolare, per il mio piccolo appartamento. [...] Spesso restavo a dormire da lei. Ma non sempre. A volte avevo voglia di guardare la televisione fino a tardi - sempre più di rado - a volte volevo leggere fino a tardi. A volte era lei che voleva dormire da sola, senza nessuno intorno. A volte uno dei due usciva con i suoi amici. A volte lei partiva per lavoro ed io restavo a casa mia. Nella sua non entravo mai, quando lei era fuori. Mi mancava già dopo qualche ora che era andata via.» (p. 14-15)
«Aspettavo che Margherita rientrasse e che mi chiamasse, per andare su da lei a cena. Mi piaceva il fatto che, pur vivendo più o meno insieme, andare da lei la sera era come uscire per un invito. Anche se si trattava di fare solo due piani a piedi. Rendeva le cose meno ovvie. Non scontate.» (p. 179)
Praticamente, quello che vado teorizzando da tempo per la sanità e la durata di una coppia... Certo, a riuscirci! ;-))
E poi come non restare a bocca aperta di fronte alla scena di gelosia di Margherita quando escono per andare a una festa a casa di amici? A dir poco esilarante, ma tenerissima allo stesso tempo. E lo scambio dei regali di Natale, con Margherita che - come dice Guido - «conosce le cose toccandole, e non solo guardandole.» (p. 152).
Così, non posso fare a meno di fare il tifo per Guido e Margherita e sperare che il loro amore resista agli eventi e continui ad alimentare di bellezza, di ironia e di tenerezza questi romanzi. Perché ha in sé proprio qualcosa di bello e di vero.
Il capitolo 11, quello in cui Guido si racconta nei due giorni in cui Margherita è partita, è di una vividezza emotiva incredibile. E mi è risultata in qualche modo familiare, perché l'ho associata mentalmente a qualcuno che conosco e che sto imparando ad amare.
«Stavo per mettermi in tuta, ma pensai che quella sera era troppo tardi anche per allenarmi a casa. Poi ero quasi soddisfatto del mio lavoro - il che mi capitava di rado - e allora non avevo neanche il senso di colpa, che di solito mi spingeva a fare a pugni con il sacco.
Così decisi di prepararmi la cena. Da quando stavo con Margherita, e spesso abitavo a casa sua, il mio frigo e la mia dispensa erano sempre ben forniti. Prima no, ma da quel momento in poi, sempre.
Mi rendo conto che può sembrare un'assurdità, ma è così. Forse era il mio modo di rassicurarmi, sul fatto che la mia indipendenza era comunque salvaguardata. Forse semplicemente, stare con Margherita mi aveva reso più attento ai dettagli; cioè alle cose più importanti. [...]
Mangiai che era quasi mezzanotte, bevendomi mezza bottiglia di un bianco siciliano a 14 gradi che avevo provato qualche mese prima in una enoteca e del quale, il giorno dopo, avevo comprato due cassette. [...]
Passai senza accorgermene dalle risate al sonno. Un sonno buono, fluido, sereno, pieno di sogni da ragazzo.
Ininterrotto, fino alla mattina dopo.» (p. 61-63)
E ancora, quanto è buffo Guido quando fa affermazioni di questo tipo:
«Se ho voglia di vedermi un'alba - talvolta capita - preferisco piuttosto restare sveglio tutta la notte e poi andare a dormire la mattina. Procedura di una qualche difficoltà, nei giorni lavorativi. Svegliarmi presto - dovermi svegliare presto - mi rende piuttosto nervoso.» (p. 83)
«Conosco l'ansia. A volte riesco anche a capire i suoi trucchi, e a batterla.
Più spesso vince lei e mi fa fare cose stupide, anche se so benissimo che sono cose stupide.» (p. 84)
«Ci sono sere in cui sai già che si prepara una notte di insonnia. Non è che ci sia un segno speciale, eclatante ed inequivocabile. Semplicemente lo sai. Quella sera lo sapevo.» (p. 109)
«A volte penso di essere socialmente inadeguato. [...] Quelli che quando incontrano per strada qualcuno cui non sanno come rivolgersi dicono: salve.» (p. 134)
Insomma, uno strano tipo questo avvocato Guerrieri, a volte astruso, lunatico, incomprensibile; uno che si porta dietro i danni dell'esistenza, ma quei danni che lo (e ci) rendono più vero/i. Uno cui ci si affeziona e si finisce per amare.
E poi ancora Bari, il quartiere Japigia, la muraglia, la città vecchia, corso Vittorio...
Sì, sì, sì, tutto questo mi appartiene proprio.
Voto: 4/5
P.S. Poi, certo, - mi direte - ci sarebbe da parlare della storia dei maltrattamenti su Martina, del personaggio di suor Claudia e così via. Ma per me è già abbastanza così. E non sento la necessità di andare oltre.
mercoledì 26 maggio 2010
domenica 23 maggio 2010
Robin Hood
Non è che mi sono convertita alle grandi produzioni hollywodiane a tutti i costi. So che alcuni di voi aspettano recensioni a film minori ma che sarebbero certamente nel mio stile, come ad esempio I gatti persiani, ma vi assicuro che non è facilissimo qui a Bruxelles riallinearsi al mercato italiano. I film che in questo momento sono nelle sale contemporaneamente in tutta Europa sono appunto quelli come Robin Hood, mentre – posto che gli unici due film italiani qui in circolazione in questo periodo sono La prima linea e Alza la testa – anche su tutto il resto si fa fatica a capire cosa arriverà magari più avanti nelle sale italiane e cosa è destinato a rimanere qui nel mercato belga e dintorni. E così, film come I gatti persiani magari sono già passati, oppure arriveranno, oppure qui non li vedranno mai. Quindi, per il momento, siate clementi e – come si dice – accontentatevi di quello che passa questo convento.
E così, ieri sera mi accingo ad andare a vedere - come sempre sotto casa - Robin Hood. Pensavate di sapere già tutto della sua storia e di aver già visto tutto il possibile? Ebbene, Ridley Scott ci dimostra che non è così con questo inedito Robin Hood (Russell Crowe) delle origini, di ritorno dalle Crociate al seguito di Riccardo Cuor di Leone e alla ricerca della sua storia personale che lo conduce nella contea di Nottingham, sotto le mentite spoglie di sir Robert Loxley, caduto in una imboscata.
Ridley Scott ci racconta così dell’incontro con Marian (Cate Blanchett) e di come, dopo aver riunito i baroni di Inghilterra contro il comune nemico francese, il nostro Robin viene disconosciuto e spinto nell’illegalità dall’inetto e invidioso re Giovanni (Oscar Isaac, da poco visto anche in Agora).
Insomma, a tutti gli effetti si tratta di una sorta di prequel rispetto a tutti i Robin Hood che abbiamo già visto. E Ridley Scott ce lo propone con grande dispiegamento di mezzi, ricordandoci, ma anche superando sul loro stesso terreno, altri classici non solo relativi allo stesso personaggio (si pensi ad esempio al Robin Hood con Kevin Costner), ma anche relativi ad altri con similari caratteristiche (ad esempio, Il primo cavaliere con Richard Gere o Braveheart con Mel Gibson).
Insomma, pare proprio che un certo tipo di registi e un certo tipo di attori non possano fare a meno di confrontarsi con questi eroi a cavallo, che sanno tirare di spada e sono infallibili arcieri, forse perché in qualche modo questo rappresenta la più alta realizzazione del loro sogno di bambini. Ma va detto che anche alcune tra le più belle e brave attrici in circolazione sembra non possano fare a meno di vestire i panni delle loro donne, quasi sempre dotate di personalità significative e ruoli non certo secondari. Il carattere, nonché la bellezza, non fanno certo difetto, ad esempio, a questa splendida Marian (Cate Blanchett), che gestisce la proprietà mentre il marito è in guerra e non disdegna di scendere anche lei sul campo di battaglia.
Non v’è dubbio che, rispetto ai suoi predecessori, questo Robin Hood appare giustamente più sporco e maleodorante, più massiccio nella sua fisicità (grazie anche al fisico di Russell Crowe) ed è più allineato al paesaggio circostante (natura e insediamenti abitativi), che almeno apparentemente ci risulta più realistico e meglio ricostruito.
Bello anche ritrovare i personaggi di contorno, da fra Tuck (Mark Addy) a Little John (Kevin Durand), che aggiungono una buona dose di allegria all’insieme.
Che dire? Mi è piaciuto. Gran spettacolo per gli occhi. Grandiose – a volte forse persino eccessive – le scene di battaglia. Giusta dose di ironia e sentimento. E alla fine ti ritrovi inevitabilmente a fare il tifo per questa masnada di soldatoni un po’ selvaggi e ad entusiasmarti per la bellezza del gesto con cui scagliano le frecce.
E però – non so bene perché – non riesco davvero a sentirmi trascinata, come pure mi ricordo mi era capitato in passato con film dello stesso genere. Non so, sarà l’età; forse all’alba dei 37 ho inevitabilmente perso quella naiveté giovanile (o forse un po’ infantile) che in passato mi faceva davvero entrare nel vivo di queste storione di avventura e amore. Insomma, sarà che si diventa cinici e disillusi, e anche un po’ insensibili, forse un po’ troppo cerebrali, ma non si riesce davvero più ad apprezzare fino in fondo questi giocattoloni a misura di adulti, confezionati appositamente per noi.
O forse, in questa fase della mia vita, non ho bisogno di fughe dalla realtà, né di input esterni a ravvivare il mio mondo interiore e i miei entusiasmi. Eh, sì, perché il mio universo emotivo è stato completamente catalizzato e ha trovato massima espressione in una sfera parallela, ma ben più reale, che evidentemente da un lato allarga i pori della sensibilità per catturare il mondo esterno, ma dall’altro rilascia di ritorno solo il riflesso di quello che al suo interno brilla di luce propria.
O forse ancora, sto vaneggiando… e i film in lingua originale con i sottotitoli in francese e fiammingo non solo mi fanno venire il mal di testa, ma alterano il mio equilibrio mentale. Abbiate pazienza!
E certo il primo sole estivo su questa spiaggia ad Ostenda dove sto scrivendo il mio post non credo che aiuti.
Voto: 3,5/5
E così, ieri sera mi accingo ad andare a vedere - come sempre sotto casa - Robin Hood. Pensavate di sapere già tutto della sua storia e di aver già visto tutto il possibile? Ebbene, Ridley Scott ci dimostra che non è così con questo inedito Robin Hood (Russell Crowe) delle origini, di ritorno dalle Crociate al seguito di Riccardo Cuor di Leone e alla ricerca della sua storia personale che lo conduce nella contea di Nottingham, sotto le mentite spoglie di sir Robert Loxley, caduto in una imboscata.
Ridley Scott ci racconta così dell’incontro con Marian (Cate Blanchett) e di come, dopo aver riunito i baroni di Inghilterra contro il comune nemico francese, il nostro Robin viene disconosciuto e spinto nell’illegalità dall’inetto e invidioso re Giovanni (Oscar Isaac, da poco visto anche in Agora).
Insomma, a tutti gli effetti si tratta di una sorta di prequel rispetto a tutti i Robin Hood che abbiamo già visto. E Ridley Scott ce lo propone con grande dispiegamento di mezzi, ricordandoci, ma anche superando sul loro stesso terreno, altri classici non solo relativi allo stesso personaggio (si pensi ad esempio al Robin Hood con Kevin Costner), ma anche relativi ad altri con similari caratteristiche (ad esempio, Il primo cavaliere con Richard Gere o Braveheart con Mel Gibson).
Insomma, pare proprio che un certo tipo di registi e un certo tipo di attori non possano fare a meno di confrontarsi con questi eroi a cavallo, che sanno tirare di spada e sono infallibili arcieri, forse perché in qualche modo questo rappresenta la più alta realizzazione del loro sogno di bambini. Ma va detto che anche alcune tra le più belle e brave attrici in circolazione sembra non possano fare a meno di vestire i panni delle loro donne, quasi sempre dotate di personalità significative e ruoli non certo secondari. Il carattere, nonché la bellezza, non fanno certo difetto, ad esempio, a questa splendida Marian (Cate Blanchett), che gestisce la proprietà mentre il marito è in guerra e non disdegna di scendere anche lei sul campo di battaglia.
Non v’è dubbio che, rispetto ai suoi predecessori, questo Robin Hood appare giustamente più sporco e maleodorante, più massiccio nella sua fisicità (grazie anche al fisico di Russell Crowe) ed è più allineato al paesaggio circostante (natura e insediamenti abitativi), che almeno apparentemente ci risulta più realistico e meglio ricostruito.
Bello anche ritrovare i personaggi di contorno, da fra Tuck (Mark Addy) a Little John (Kevin Durand), che aggiungono una buona dose di allegria all’insieme.
Che dire? Mi è piaciuto. Gran spettacolo per gli occhi. Grandiose – a volte forse persino eccessive – le scene di battaglia. Giusta dose di ironia e sentimento. E alla fine ti ritrovi inevitabilmente a fare il tifo per questa masnada di soldatoni un po’ selvaggi e ad entusiasmarti per la bellezza del gesto con cui scagliano le frecce.
E però – non so bene perché – non riesco davvero a sentirmi trascinata, come pure mi ricordo mi era capitato in passato con film dello stesso genere. Non so, sarà l’età; forse all’alba dei 37 ho inevitabilmente perso quella naiveté giovanile (o forse un po’ infantile) che in passato mi faceva davvero entrare nel vivo di queste storione di avventura e amore. Insomma, sarà che si diventa cinici e disillusi, e anche un po’ insensibili, forse un po’ troppo cerebrali, ma non si riesce davvero più ad apprezzare fino in fondo questi giocattoloni a misura di adulti, confezionati appositamente per noi.
O forse, in questa fase della mia vita, non ho bisogno di fughe dalla realtà, né di input esterni a ravvivare il mio mondo interiore e i miei entusiasmi. Eh, sì, perché il mio universo emotivo è stato completamente catalizzato e ha trovato massima espressione in una sfera parallela, ma ben più reale, che evidentemente da un lato allarga i pori della sensibilità per catturare il mondo esterno, ma dall’altro rilascia di ritorno solo il riflesso di quello che al suo interno brilla di luce propria.
O forse ancora, sto vaneggiando… e i film in lingua originale con i sottotitoli in francese e fiammingo non solo mi fanno venire il mal di testa, ma alterano il mio equilibrio mentale. Abbiate pazienza!
E certo il primo sole estivo su questa spiaggia ad Ostenda dove sto scrivendo il mio post non credo che aiuti.
Voto: 3,5/5
lunedì 17 maggio 2010
Testimone inconsapevole / Gianrico Carofiglio
Testimone inconsapevole / Gianrico Carofiglio. Palermo, Sellerio, 2002.
E bravo Gianrico. Sì, lo voglio chiamare così, per nome. Perché il modo in cui parla della mia terra e dei miei luoghi (che sono anche i suoi) mi dà un senso di comune appartenenza e mi fa sentire un’inusitata vicinanza. Ora poi che scopro che è nato, come me, il 30 maggio lasciatemi giocare e fantasticare su questa inaspettata coincidenza.
La pugliesità – e forse più precisamente la baresità - è qualcosa che ho riscoperto nel tempo, dopo averla a lungo rinnegata. Mi dicono che questa riscoperta delle origini, che sembra caratterizzare il mio più recente percorso e che per me è realmente nuova in quanto esce purificata dal tempo e dall'esperienza della lontananza, sia un segno di maturità e crescita.
Forse, dunque, nonostante i ripetuti inviti che che mi sono stati rivolti nel tempo da parte di più persone, non ci sarebbe stato momento migliore di questo per iniziare a leggere Carofiglio (la cui lettura voglio, a questo punto, certamente proseguire).
Cosa mi è piaciuto di questo libro? Certamente – e più di tutto – il modo in cui è costruito e raccontato il protagonista, l’avvocato Guido Guerrieri. Il suo percorso di riscatto, come uomo e come avvocato. La sua fragilità e le sue debolezze, i suoi dubbi e le sue incertezze, la sua umanità sofferta e spocchiosa al tempo stesso, ma sempre assolutamente piena e vera.
La difesa del senegalese Abdou dall’accusa di omicidio del piccolo Francesco non è il solito caso giudiziario, è in realtà un processo interiore di riscoperta di quanto di bello c’è in se stessi, negli altri e nella vita. Gli abissi da cui Guido risale lo riportano al mondo, più vero e più maturo; e ad ogni sigaretta accesa lo si ama di più.
L'iniziale squallore di questo avvocatucolo che ha perso qualunque idealità, finendo per perdere anche se stesso, conferisce agli esiti del percorso una forza emotiva e comunicativa di tutto rilievo.
Guido non è un personaggio complesso, di quelli giocati su piani psicologicamente arditi e affascinanti, ma che non ci appartengono, bensì, in fondo, uno qualunque. Però - o forse proprio per questo - alla fine una lacrima ce la strappa.
Per una incorreggibile romantica come me, la storia e lo stesso Guerrieri acquistano poi una marcia in più nel momento in cui entra in scena Margherita. Che personaggio delicato e indimenticabile questa Margherita, che pur restando sempre in secondo piano e muovendosi sempre quasi in sordina, imprime al racconto una forte dose di sensibilità e lo segna in maniera del tutto particolare!
In secondo luogo, mi è piaciuta la scrittura di questo romanzo. All’inizio l’ho scambiata per una scrittura di basso profilo. E invece è cosa ben diversa. È come il suo protagonista: semplice, ma non banale. Capace di disseminare qua e là piccole perle destinate a rimanere impresse nella memoria a lungo.
Giusto per fare qualche esempio tra quelle che mi sono piaciute di più:
«Ci si affeziona anche al dolore, persino alla disperazione. Quando abbiamo sofferto moltissimo per una persona, il fatto che il dolore stia passando ci sgomenta. Perché crediamo significhi, una volta di più, che tutto, veramente tutto finisce.» (p. 179)
«Eppure, forse per la prima volta nella mia vita, non mi sentivo a disagio nel silenzio. Non sentivo l’ansia di riempirlo, in qualche modo, con la mia voce o qualche altro rumore. Avevo l’impressione di intuirne la trama delicata, mobile. La musica, pensai in quel momento.» (p. 184)
«Sentivo il tempo rallentato, la tensione nell’aria e sulla mia pelle. Sentivo gli occhi di Margherita su di me, sapevo che non c’era bisogno di chiederle se ero stato bravo. Ero stato bravo.» (p. 213)
«Ci passano vicini interi mondi e non ce ne accorgiamo. Ero turbato.» (p. 233)
«Senza una ragione che fossi in grado di identificare, mi venne in mente un proverbio turco, antico, che diceva più o meno così: Prima di amare, impara a camminare sulla neve senza lasciare impronte.» (p. 256)
«Appassionarsi e nutrire aspettative sono due cose pericolose.» (p. 302)
«Io aspettavo di finire di mangiare, perché bisogna avere pazienza e fare ogni cosa al momento giusto. Mi sembrava di avere capito questa cosa, insieme ad alcune altre.» (p. 311)
«Pensai ai conti che si chiudono e alle cose che cominciano. Pensai che avevo paura ma che, per la prima volta, non volevo sfuggirla o nasconderla, quella paura. E mi sembrava una cosa tremenda, e bellissima.» (p. 315)
Ancora una volta, rileggendo in fila queste frasi, mi rendo conto di essere irrimediabilmente e inconsciamente attratta dal rapporto che i personaggi hanno con il tempo; cerco, forse, attraverso di loro, di fare pace anch'io con il vuoto, con il silenzio, con l'impotenza, con la necessità di aspettare. E così mi sembra così appropriato a me quel proverbio cinese che Guido cita durante l’arringa finale: «Due terzi di quello che vediamo, è dietro i nostri occhi.» (p. 287).
Non so, sarà che negli ultimi tempi ciò che guardo intorno a me si dilata e si contrae continuamente, assume colori completamente diversi in sintonia con i moti del mio animo, risplende e poi improvvisamente scompare alla vista... ma ho sempre più la sensazione che questi cinesi abbiano proprio ragione.
Voto: 4/5
P.S. Siamo al secondo post scritto durante un viaggio in aereo. Aereo che non mi ispira affatto la lettura di studio, ma che evidentemente concilia – almeno in parte – questa vena creativa da blogger. E visto che l’aereo diventerà piuttosto presente nella mia vita per i prossimi sei mesi, ho idea che il blog ne potrà davvero trarre qualche beneficio! ;-)
E bravo Gianrico. Sì, lo voglio chiamare così, per nome. Perché il modo in cui parla della mia terra e dei miei luoghi (che sono anche i suoi) mi dà un senso di comune appartenenza e mi fa sentire un’inusitata vicinanza. Ora poi che scopro che è nato, come me, il 30 maggio lasciatemi giocare e fantasticare su questa inaspettata coincidenza.
La pugliesità – e forse più precisamente la baresità - è qualcosa che ho riscoperto nel tempo, dopo averla a lungo rinnegata. Mi dicono che questa riscoperta delle origini, che sembra caratterizzare il mio più recente percorso e che per me è realmente nuova in quanto esce purificata dal tempo e dall'esperienza della lontananza, sia un segno di maturità e crescita.
Forse, dunque, nonostante i ripetuti inviti che che mi sono stati rivolti nel tempo da parte di più persone, non ci sarebbe stato momento migliore di questo per iniziare a leggere Carofiglio (la cui lettura voglio, a questo punto, certamente proseguire).
Cosa mi è piaciuto di questo libro? Certamente – e più di tutto – il modo in cui è costruito e raccontato il protagonista, l’avvocato Guido Guerrieri. Il suo percorso di riscatto, come uomo e come avvocato. La sua fragilità e le sue debolezze, i suoi dubbi e le sue incertezze, la sua umanità sofferta e spocchiosa al tempo stesso, ma sempre assolutamente piena e vera.
La difesa del senegalese Abdou dall’accusa di omicidio del piccolo Francesco non è il solito caso giudiziario, è in realtà un processo interiore di riscoperta di quanto di bello c’è in se stessi, negli altri e nella vita. Gli abissi da cui Guido risale lo riportano al mondo, più vero e più maturo; e ad ogni sigaretta accesa lo si ama di più.
L'iniziale squallore di questo avvocatucolo che ha perso qualunque idealità, finendo per perdere anche se stesso, conferisce agli esiti del percorso una forza emotiva e comunicativa di tutto rilievo.
Guido non è un personaggio complesso, di quelli giocati su piani psicologicamente arditi e affascinanti, ma che non ci appartengono, bensì, in fondo, uno qualunque. Però - o forse proprio per questo - alla fine una lacrima ce la strappa.
Per una incorreggibile romantica come me, la storia e lo stesso Guerrieri acquistano poi una marcia in più nel momento in cui entra in scena Margherita. Che personaggio delicato e indimenticabile questa Margherita, che pur restando sempre in secondo piano e muovendosi sempre quasi in sordina, imprime al racconto una forte dose di sensibilità e lo segna in maniera del tutto particolare!
In secondo luogo, mi è piaciuta la scrittura di questo romanzo. All’inizio l’ho scambiata per una scrittura di basso profilo. E invece è cosa ben diversa. È come il suo protagonista: semplice, ma non banale. Capace di disseminare qua e là piccole perle destinate a rimanere impresse nella memoria a lungo.
Giusto per fare qualche esempio tra quelle che mi sono piaciute di più:
«Ci si affeziona anche al dolore, persino alla disperazione. Quando abbiamo sofferto moltissimo per una persona, il fatto che il dolore stia passando ci sgomenta. Perché crediamo significhi, una volta di più, che tutto, veramente tutto finisce.» (p. 179)
«Eppure, forse per la prima volta nella mia vita, non mi sentivo a disagio nel silenzio. Non sentivo l’ansia di riempirlo, in qualche modo, con la mia voce o qualche altro rumore. Avevo l’impressione di intuirne la trama delicata, mobile. La musica, pensai in quel momento.» (p. 184)
«Sentivo il tempo rallentato, la tensione nell’aria e sulla mia pelle. Sentivo gli occhi di Margherita su di me, sapevo che non c’era bisogno di chiederle se ero stato bravo. Ero stato bravo.» (p. 213)
«Ci passano vicini interi mondi e non ce ne accorgiamo. Ero turbato.» (p. 233)
«Senza una ragione che fossi in grado di identificare, mi venne in mente un proverbio turco, antico, che diceva più o meno così: Prima di amare, impara a camminare sulla neve senza lasciare impronte.» (p. 256)
«Appassionarsi e nutrire aspettative sono due cose pericolose.» (p. 302)
«Io aspettavo di finire di mangiare, perché bisogna avere pazienza e fare ogni cosa al momento giusto. Mi sembrava di avere capito questa cosa, insieme ad alcune altre.» (p. 311)
«Pensai ai conti che si chiudono e alle cose che cominciano. Pensai che avevo paura ma che, per la prima volta, non volevo sfuggirla o nasconderla, quella paura. E mi sembrava una cosa tremenda, e bellissima.» (p. 315)
Ancora una volta, rileggendo in fila queste frasi, mi rendo conto di essere irrimediabilmente e inconsciamente attratta dal rapporto che i personaggi hanno con il tempo; cerco, forse, attraverso di loro, di fare pace anch'io con il vuoto, con il silenzio, con l'impotenza, con la necessità di aspettare. E così mi sembra così appropriato a me quel proverbio cinese che Guido cita durante l’arringa finale: «Due terzi di quello che vediamo, è dietro i nostri occhi.» (p. 287).
Non so, sarà che negli ultimi tempi ciò che guardo intorno a me si dilata e si contrae continuamente, assume colori completamente diversi in sintonia con i moti del mio animo, risplende e poi improvvisamente scompare alla vista... ma ho sempre più la sensazione che questi cinesi abbiano proprio ragione.
Voto: 4/5
P.S. Siamo al secondo post scritto durante un viaggio in aereo. Aereo che non mi ispira affatto la lettura di studio, ma che evidentemente concilia – almeno in parte – questa vena creativa da blogger. E visto che l’aereo diventerà piuttosto presente nella mia vita per i prossimi sei mesi, ho idea che il blog ne potrà davvero trarre qualche beneficio! ;-)
venerdì 14 maggio 2010
Agora
Promessa mantenuta. Basta – almeno per il momento - con i film lituani, ucraini, albanesi e bielorussi. Ed eccomi a vedere Agora, produzione sostanzialmente hollywodiana con lo zampino spagnolo del regista Alejandro Amenàbar, quello che forse ricorderete per Mare dentro, con Javier Bardem.
Il mio arrivo al cinema è subito funestato dalla presenza di un piccolo gruppo di italiani dietro di me, che non fanno altro che chiacchierare, gli unici in tutta la sala. Per fortuna si zittiscono quando il film inizia. Ma è sempre uno di loro che incornicia il The end con un sonoro sbadiglio.
A parte questa parentesi, sulle prime mi fa un po’ impressione vedere queste ambientazioni nell'antica Alessandria d’Egitto e protagonisti vestiti col classico peplum e sentire invece parlare, con diversi accenti, in inglese (lingua originale del film). Ma del resto non sarebbe stato molto meglio sentirli parlare in italiano. Faccio anche un po’ fatica a prendere le misure di un film in una lingua che conosco ma non domino perfettamente, con i sottotitoli in francese (che capisco, ma parlo poco) e fiammingo (lingua a me del tutto sconosciuta). E così nel mio cervello le tre lingue si mescolano e si confondono con l’italiano dandomi un certo qual senso di stordimento. Ma dopo un po’ tutto scorre liscio e non ho alcun problema a cogliere significati, anche di dettaglio.
E dunque, cosa ne penso del film? Ancora esattamente non saprei dirlo. Certamente apprezzo lo sforzo di alcune ricostruzioni, per quanto sia inevitabile la sensazione di irrimediabilmente finto che esse promanano; trovo però che la rappresentazione della Biblioteca di Alessandria segua piuttosto scrupolosamente quanto c’è scritto nei manuali di storia del libro, in particolare per quanto riguarda la sala del Serapeum. Tutti quei rotoli con le loro etichette penzolanti collocati nelle nicchie della sala circolare, in cui sono ospitati anche statue e busti, a me bibliotecaria inevitabilmente fanno un certo effetto.
Il personaggio di Ipazia è certamente affascinante (e non solo perché interpretato da una magnifica Rachel Weisz). Una donna filosofa e matematica, che grazie all’apertura mentale del padre, può dedicarsi non solo ai suoi studi, ma anche all’insegnamento. Una donna in qualche misura ossessionata dal sapere, orgogliosa del dubbio, all’inseguimento di una spiegazione scientifica al movimento dei pianeti e alla configurazione del sistema planetario in cui si colloca la terra.
Una donna, dunque, destinata a diventare scomoda e a soccombere in un contesto socioculturale che l’espansione del Cristianesimo sta profondamente trasformando, inaugurando feroci guerre di religione che porteranno alla cecità della ragione e alla fine della tolleranza, in nome del possesso di una verità religiosa che non può essere messa in discussione e che diventa prima di tutto strumento di potere.
Non v’è dubbio sul fatto che il film dia l’impressione di voler essere un pamphlet ideologico, contro tutte le forme di pensiero unico che ottundono la ragione e determinano un pericoloso irrigidimento socioculturale. Non v’è dubbio sul fatto che i Cristiani e il Cristianesimo non ne escano proprio benissimo, ma chi ha scritto che si tratta di un film contro i Cristiani secondo me sbaglia.
Non mi pare che ne escano bene gli Egiziani seguaci dei culti tradizionali che con la loro reazione scomposta e violenta all’avanzare dei Cristiani danno sostanzialmente il via alle sanguinose lotte religiose. Non ne escono bene i Romani, governatori della regione, che per convenienza politica e miopia culturale favoriscono l’innescarsi del conflitto. Non ne escono bene gli Ebrei, vittime e persecutori allo stesso tempo.
Quindi, se di manifesto ideologico si tratta, piuttosto è un omaggio alla centralità della ragione, della conoscenza, del dubbio sistematico, che è l’unica scelta che in qualche modo ci salva dagli irrigidimenti ideologici di qualunque tipo.
E il fatto che se ne faccia portavoce una donna mi pare particolarmente significativo e – in qualche misura – ispirato.
Diciamo che non mi ha convinto del tutto la sottotrama, ossia il rapporto tra Ipazia e i due uomini che in modi diversi la amano, lo schiavo Davus (Max Minghella) (poi convertitosi al Cristianesimo) e l’allievo Oreste (Oscar Isaac) (poi prefetto della città). Capisco la necessità, in questo tipo di film, di dover introdurre un piano di lettura più personale e umano, ma mi pare che questo piano ne esca troppo banalizzato e sostanzialmente poco problematico.
Ho trovato invece forse più vero e, dunque, più interessante il rapporto tra Ipazia e il suo schiavo anziano, Aspasius (Homaioun Ershadi), che partecipa non passivamente alle intuizioni e al sacro furore per la scienza della sua padrona e la assiste nei suoi “esperimenti” e nei tentativi di dimostrare le sue idee.
Mi ha poi impressionato la totale assenza di donne nel film, ad eccezione di Ipazia. Probabilmente si tratta di una scelta assolutamente consapevole volta a far emergere l’eccezionalità di questa figura, ma anche in questo caso forse è un po’ eccessiva la nettezza di questo confronto: uomini spinti dall’ambizione, da un’istintività animalesca, dalla violenza o dalla debolezza, e una donna che rappresenta in qualche modo tutto ciò che questi non hanno. Sto ovviamente semplificando, ma devo dire che le sfumature non sono certo il punto di forza del film!
Ultima notazione: per quanto un po’ troppo insistita, ho trovato molto bella la scelta del regista di allontanare - di tanto in tanto - l’inquadratura dal luogo dove gli eventi avvengono (la piazza, la biblioteca), per osservare dall’alto la grandiosa città di Alessandria, ma - allontanandosi ancora di più - la costa egiziana su cui Alessandria è situata, e poi quella costa nel contesto del continente africano, e poi il globo, e poi l’universo tutto, immerso nel suo silenzio punteggiato di stelle luminose. Certo è un omaggio agli studi di Ipazia, che appunto quell’universo vuole esplorare, ma è anche un suggerimento di relatività. Quanto siamo piccoli e insignificanti! Quanto le nostre stupide lotte perdono di senso se guardate negli equilibri del tutto! Quanto tutto si ridimensiona nel confronto con un universo infinito di cui ancora ci sfugge il senso, se ne esiste uno!
Insomma, direi, sì, andatelo a vedere... Come sempre, con l'animo sgombro e la mente aperta, pronti alla critica, ma senza pregiudizi. Proprio come avrebbe voluto Ipazia!
Voto: 3/5
Il mio arrivo al cinema è subito funestato dalla presenza di un piccolo gruppo di italiani dietro di me, che non fanno altro che chiacchierare, gli unici in tutta la sala. Per fortuna si zittiscono quando il film inizia. Ma è sempre uno di loro che incornicia il The end con un sonoro sbadiglio.
A parte questa parentesi, sulle prime mi fa un po’ impressione vedere queste ambientazioni nell'antica Alessandria d’Egitto e protagonisti vestiti col classico peplum e sentire invece parlare, con diversi accenti, in inglese (lingua originale del film). Ma del resto non sarebbe stato molto meglio sentirli parlare in italiano. Faccio anche un po’ fatica a prendere le misure di un film in una lingua che conosco ma non domino perfettamente, con i sottotitoli in francese (che capisco, ma parlo poco) e fiammingo (lingua a me del tutto sconosciuta). E così nel mio cervello le tre lingue si mescolano e si confondono con l’italiano dandomi un certo qual senso di stordimento. Ma dopo un po’ tutto scorre liscio e non ho alcun problema a cogliere significati, anche di dettaglio.
E dunque, cosa ne penso del film? Ancora esattamente non saprei dirlo. Certamente apprezzo lo sforzo di alcune ricostruzioni, per quanto sia inevitabile la sensazione di irrimediabilmente finto che esse promanano; trovo però che la rappresentazione della Biblioteca di Alessandria segua piuttosto scrupolosamente quanto c’è scritto nei manuali di storia del libro, in particolare per quanto riguarda la sala del Serapeum. Tutti quei rotoli con le loro etichette penzolanti collocati nelle nicchie della sala circolare, in cui sono ospitati anche statue e busti, a me bibliotecaria inevitabilmente fanno un certo effetto.
Il personaggio di Ipazia è certamente affascinante (e non solo perché interpretato da una magnifica Rachel Weisz). Una donna filosofa e matematica, che grazie all’apertura mentale del padre, può dedicarsi non solo ai suoi studi, ma anche all’insegnamento. Una donna in qualche misura ossessionata dal sapere, orgogliosa del dubbio, all’inseguimento di una spiegazione scientifica al movimento dei pianeti e alla configurazione del sistema planetario in cui si colloca la terra.
Una donna, dunque, destinata a diventare scomoda e a soccombere in un contesto socioculturale che l’espansione del Cristianesimo sta profondamente trasformando, inaugurando feroci guerre di religione che porteranno alla cecità della ragione e alla fine della tolleranza, in nome del possesso di una verità religiosa che non può essere messa in discussione e che diventa prima di tutto strumento di potere.
Non v’è dubbio sul fatto che il film dia l’impressione di voler essere un pamphlet ideologico, contro tutte le forme di pensiero unico che ottundono la ragione e determinano un pericoloso irrigidimento socioculturale. Non v’è dubbio sul fatto che i Cristiani e il Cristianesimo non ne escano proprio benissimo, ma chi ha scritto che si tratta di un film contro i Cristiani secondo me sbaglia.
Non mi pare che ne escano bene gli Egiziani seguaci dei culti tradizionali che con la loro reazione scomposta e violenta all’avanzare dei Cristiani danno sostanzialmente il via alle sanguinose lotte religiose. Non ne escono bene i Romani, governatori della regione, che per convenienza politica e miopia culturale favoriscono l’innescarsi del conflitto. Non ne escono bene gli Ebrei, vittime e persecutori allo stesso tempo.
Quindi, se di manifesto ideologico si tratta, piuttosto è un omaggio alla centralità della ragione, della conoscenza, del dubbio sistematico, che è l’unica scelta che in qualche modo ci salva dagli irrigidimenti ideologici di qualunque tipo.
E il fatto che se ne faccia portavoce una donna mi pare particolarmente significativo e – in qualche misura – ispirato.
Diciamo che non mi ha convinto del tutto la sottotrama, ossia il rapporto tra Ipazia e i due uomini che in modi diversi la amano, lo schiavo Davus (Max Minghella) (poi convertitosi al Cristianesimo) e l’allievo Oreste (Oscar Isaac) (poi prefetto della città). Capisco la necessità, in questo tipo di film, di dover introdurre un piano di lettura più personale e umano, ma mi pare che questo piano ne esca troppo banalizzato e sostanzialmente poco problematico.
Ho trovato invece forse più vero e, dunque, più interessante il rapporto tra Ipazia e il suo schiavo anziano, Aspasius (Homaioun Ershadi), che partecipa non passivamente alle intuizioni e al sacro furore per la scienza della sua padrona e la assiste nei suoi “esperimenti” e nei tentativi di dimostrare le sue idee.
Mi ha poi impressionato la totale assenza di donne nel film, ad eccezione di Ipazia. Probabilmente si tratta di una scelta assolutamente consapevole volta a far emergere l’eccezionalità di questa figura, ma anche in questo caso forse è un po’ eccessiva la nettezza di questo confronto: uomini spinti dall’ambizione, da un’istintività animalesca, dalla violenza o dalla debolezza, e una donna che rappresenta in qualche modo tutto ciò che questi non hanno. Sto ovviamente semplificando, ma devo dire che le sfumature non sono certo il punto di forza del film!
Ultima notazione: per quanto un po’ troppo insistita, ho trovato molto bella la scelta del regista di allontanare - di tanto in tanto - l’inquadratura dal luogo dove gli eventi avvengono (la piazza, la biblioteca), per osservare dall’alto la grandiosa città di Alessandria, ma - allontanandosi ancora di più - la costa egiziana su cui Alessandria è situata, e poi quella costa nel contesto del continente africano, e poi il globo, e poi l’universo tutto, immerso nel suo silenzio punteggiato di stelle luminose. Certo è un omaggio agli studi di Ipazia, che appunto quell’universo vuole esplorare, ma è anche un suggerimento di relatività. Quanto siamo piccoli e insignificanti! Quanto le nostre stupide lotte perdono di senso se guardate negli equilibri del tutto! Quanto tutto si ridimensiona nel confronto con un universo infinito di cui ancora ci sfugge il senso, se ne esiste uno!
Insomma, direi, sì, andatelo a vedere... Come sempre, con l'animo sgombro e la mente aperta, pronti alla critica, ma senza pregiudizi. Proprio come avrebbe voluto Ipazia!
Voto: 3/5
lunedì 10 maggio 2010
Artimos Sviesos = Low lights
Lo so che, più o meno gentilmente, vi state chiedendo che caspita di film è questo e come mai, dopo tutti questi giorni di silenzio, anziché ricomparire pescando nella vasta messe dei film usciti nelle ultime settimane in Italia, vi propongo un film che non vedrete mai.
Ebbene, il silenzio degli ultimi giorni è dovuto al mio trasferimento a Bruxelles. Sì, avete capito bene. Proprio Bruxelles, quella città che tutti dicono grigia e fredda, dove ci sono le istituzioni europee e dove il primo giorno che sono andata al lavoro in bicicletta non l´ho trovata all'uscita. Eppure, dopo una settimana qui e dopo aver superato l'impatto iniziale, non certo facile, posso osare dire che questa è una città interessante. Che va scoperta, lentamente, e che potrebbe essere gradevole per i prossimi sei mesi, sia per me soggettivamente che per tutte le occasioni di condivisione che spero di avere con le persone cui voglio bene.
E così, una delle prime cose che sperimento è il cinema (ho scelto una casa il cui cinema più vicino, una multisala, sta a non più di 50 m). Ieri, 9 maggio, giornata in cui si ricorda il 60° anniversario della Dichiarazione Schumann (uno dei momenti fondanti più importanti per quella che sarebbe diventata la futura Unione Europea) c'è la settima edizione di EuroCine27, una giornata dedicata al cinema dei 27 paesi dell'Unione.
Su suggerimento di un'amica, andiamo a vedere questo film lituano, sottotitolato in inglese. È il bello e il brutto di stare in un paese come questo.
Ed eccoci qui a vedere Artimos Sviesos, ossia Low lights, dello sconosciuto - per noi! - regista lituano Ignas Miskinis (e il cognome mi pare tutto un programma!).
Praticamente il film si svolge tutto in una notte e ruota intorno a tre persone, due amici, Tadas (Dainius Gavenonis) e Linas (Jonas Antanelis), e una donna misteriosa (Julia Maria Kohler), la cui identità verrà svelata solo alla fine.
Che dire? Superato lo shock iniziale di attori che non gesticolano affatto e non muovono quasi per niente i muscoli della faccia (e non perché non siano bravi, ma perché questo è il modo di essere e di relazionarsi del popolo cui appartengono) e di una notturna periferia fatta di tangenziali e di stazioni di servizio che appare molto est-europea ma che potrebbe essere anche italiana, il film mi è piaciuto. Nel suo essere gelido, riesce ad essere incredibilmente drammatico e anche grottesco per certi versi. E nonostante le barriere culturali che a volte rendono difficile la comprensione profonda, alla fine ho avuto la sensazione che certi stati d'animo e certi momenti della vita siano universali perché appartengono al genere umano in quanto tale.
Il tentativo dei tre protagonisti di sfuggire al grigiore e all'abitudine delle loro vite andando alla ricerca di esperienze nuove e provando il brivido del pericolo e dello sconosciuto è qualcosa che - in forme diverse - appartiene a tutti, soprattutto in certi momenti della vita. E la domanda che angoscia i protagonisti (Sono davvero felice?) non è forse quella a cui tutti noi - a intervalli regolari - non possiamo sottrarci?
Film buio, privo di lustrini, con facce molto vere, non certo adatto a una serata finalizzata a ritrovare il buonumore. Ma alla fine lo apprezzo.
E quando salgo per la prima sera nel mio piccolo appartamento e guardo le luci della città accendersi davanto ai miei occhi penso che - non c'è dubbio - ogni esperienza vale la pena di essere vissuta. E il senso della vita forse è questo: compiere un viaggio che avviene prima di tutto dentro di noi.
Voto: 3,5/5
P.S. Ok, ok... non vi proporrò tutte le volte film moldavi e ucraini... Cercherò di andare a vedere anche cose che siano comuni al mercato italiano e proverò a recuperare anche qualche film italiano nelle mie puntate in patria, ma - dovete ammetterlo - non ci sarebbe potuto essere film più adatto a questo mio esordio cinematografico bruxellese!
Ebbene, il silenzio degli ultimi giorni è dovuto al mio trasferimento a Bruxelles. Sì, avete capito bene. Proprio Bruxelles, quella città che tutti dicono grigia e fredda, dove ci sono le istituzioni europee e dove il primo giorno che sono andata al lavoro in bicicletta non l´ho trovata all'uscita. Eppure, dopo una settimana qui e dopo aver superato l'impatto iniziale, non certo facile, posso osare dire che questa è una città interessante. Che va scoperta, lentamente, e che potrebbe essere gradevole per i prossimi sei mesi, sia per me soggettivamente che per tutte le occasioni di condivisione che spero di avere con le persone cui voglio bene.
E così, una delle prime cose che sperimento è il cinema (ho scelto una casa il cui cinema più vicino, una multisala, sta a non più di 50 m). Ieri, 9 maggio, giornata in cui si ricorda il 60° anniversario della Dichiarazione Schumann (uno dei momenti fondanti più importanti per quella che sarebbe diventata la futura Unione Europea) c'è la settima edizione di EuroCine27, una giornata dedicata al cinema dei 27 paesi dell'Unione.
Su suggerimento di un'amica, andiamo a vedere questo film lituano, sottotitolato in inglese. È il bello e il brutto di stare in un paese come questo.
Ed eccoci qui a vedere Artimos Sviesos, ossia Low lights, dello sconosciuto - per noi! - regista lituano Ignas Miskinis (e il cognome mi pare tutto un programma!).
Praticamente il film si svolge tutto in una notte e ruota intorno a tre persone, due amici, Tadas (Dainius Gavenonis) e Linas (Jonas Antanelis), e una donna misteriosa (Julia Maria Kohler), la cui identità verrà svelata solo alla fine.
Che dire? Superato lo shock iniziale di attori che non gesticolano affatto e non muovono quasi per niente i muscoli della faccia (e non perché non siano bravi, ma perché questo è il modo di essere e di relazionarsi del popolo cui appartengono) e di una notturna periferia fatta di tangenziali e di stazioni di servizio che appare molto est-europea ma che potrebbe essere anche italiana, il film mi è piaciuto. Nel suo essere gelido, riesce ad essere incredibilmente drammatico e anche grottesco per certi versi. E nonostante le barriere culturali che a volte rendono difficile la comprensione profonda, alla fine ho avuto la sensazione che certi stati d'animo e certi momenti della vita siano universali perché appartengono al genere umano in quanto tale.
Il tentativo dei tre protagonisti di sfuggire al grigiore e all'abitudine delle loro vite andando alla ricerca di esperienze nuove e provando il brivido del pericolo e dello sconosciuto è qualcosa che - in forme diverse - appartiene a tutti, soprattutto in certi momenti della vita. E la domanda che angoscia i protagonisti (Sono davvero felice?) non è forse quella a cui tutti noi - a intervalli regolari - non possiamo sottrarci?
Film buio, privo di lustrini, con facce molto vere, non certo adatto a una serata finalizzata a ritrovare il buonumore. Ma alla fine lo apprezzo.
E quando salgo per la prima sera nel mio piccolo appartamento e guardo le luci della città accendersi davanto ai miei occhi penso che - non c'è dubbio - ogni esperienza vale la pena di essere vissuta. E il senso della vita forse è questo: compiere un viaggio che avviene prima di tutto dentro di noi.
Voto: 3,5/5
P.S. Ok, ok... non vi proporrò tutte le volte film moldavi e ucraini... Cercherò di andare a vedere anche cose che siano comuni al mercato italiano e proverò a recuperare anche qualche film italiano nelle mie puntate in patria, ma - dovete ammetterlo - non ci sarebbe potuto essere film più adatto a questo mio esordio cinematografico bruxellese!
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