venerdì 29 aprile 2022

Fiordilatte / Miguel Vila

Fiordilatte / Miguel Vila. Bologna: Canicola, 2021.

La casa editrice Canicola di Bologna è forse una delle più originali e capaci di osare tra quelle attualmente presenti nel panorama italiano in riferimento al mondo dei graphic novel.

Le sue scelte, sia rispetto alla produzione del panorama italiano che di quello internazionale, sono spesso coraggiose e non hanno paura di portare all'attenzione del pubblico temi scomodi o che potrebbero urtare il falso moralismo di qualcuno.

È questo il caso di Fiordilatte, l'ultimo lavoro di Miguel Vila di cui da tempo avevo letto benissimo. Trovandomi nella "mia libreria del cuore" di Conversano, Skribi, l'ho visto su uno scaffale e il mio occhio è andato alla quarta di copertina dove campeggia l'"endorsement" incondizionato di Manuele Fior.

È stata questa la spinta definitiva ad acquistarlo e a leggerlo.

In Fiordilatte, ambientato nella profonda provincia veneta, come già il precedente Padovaland, protagonisti sono Marco e Ludovica, le cui storie individuali sono fatalmente destinate a incontrarsi.

Marco è un ragazzo condiscendente e gentile, di bassa estrazione sociale che vive da solo con il padre; è fidanzato con Stella, una ragazza esuberante e di buona famiglia, con cui c'è un legame forte ma con problematiche sul piano sessuale, che Marco cerca di risolvere guardando video porno.

Ludovica è una donna maggiorata e piuttosto greve che vive sola con un figlio piccolo e lavora in una gelateria: per poter lavorare chiede a Stella di fare da baby sitter al bambino. Diversi flashback ci aprono delle finestre sul suo passato: una relazione apparentemente tossica, una gravidanza, il rifiuto della famiglia.

Quando Marco e Ludovica si incontrano sembrerebbe trattarsi di mondi lontani e senza elementi di contatto: in realtà, tra i due inizia una relazione sessuale basata sulla complementarietà dei bisogni. Marco finalmente può esprimere e soddisfare i suoi desideri più nascosti, e Ludovica interrompe il suo digiuno sessuale e la sua solitudine.

Questo incontro innescherà una serie di conseguenze: la relazione di Marco e Stella entrerà in crisi e Marco ritroverà fiducia in sé stesso fino quasi a una forma di aggressività, mentre Ludovica tornerà alla ricerca dell'uomo con cui ha una relazione intermittente e socialmente deprecabile fin da quando era molto giovane.

Fiordilatte è la storia di due vuoti affettivi, di due dipendenze, di relazioni insoddisfacenti e/o tossiche, ma anche dell'importanza di liberare i propri desideri sessuali che sono legittimi fintanto che producono rapporti consensuali e basati sulla libertà di scelta.

In un certo senso Fiordilatte mi ha fatto tornare in mente il film Secretary, anche quello basato su una relazione sessuale in cui si incontravano i desideri opposti e complementari di due persone all'interno di una dinamica sadomaso. Possiamo interrogarci - e Miguel Vila non si sottrae a questo compito - sulle tare affettive e le problematiche psicologiche da cui originano alcuni bisogni sessuali un po' estremi o di nicchia. E non v'è dubbio che esse sono spesso il frutto di dinamiche familiari disfunzionali o malate che producono sofferenze e che dunque andrebbero anche affrontate con un supporto psicologico. Però è anche vero che sappiamo - fin dai tempi degli studi di Kinsey - che i comportamenti sessuali degli esseri umani (e non solo) sono enormemente vari, molto di più di quello che pensiamo, e i desideri possono essere incomprensibili se guardati dall'esterno, ma non per questo devono essere considerati illegittimi, se dietro non ci sono costrizioni o violenze esterne, ma solo l'esito della propria storia individuale.

Un graphic novel maturo nella costruzione narrativa, nel disegno e nei temi trattati, e soprattutto da affrontare con la mente aperta e sgombra di pregiudizi.

Consigliato.

Voto: 3,5/5

mercoledì 27 aprile 2022

Catarina e a beleza de matar fascistas / di Tiago Rodrigues. Teatro Argentina, 12 aprile 2022

L'esperienza del teatro in lingua originale (con sovratitoli) è qualcosa che capita molto più raramente rispetto alla visione di un film in versione originale. A me è capitata l'occasione poche volte, l'ultima delle quali è stata questo bellissimo spettacolo del drammaturgo (ma anche regista e attore) portoghese Tiago Rodrigues. Si tratta di uno spettacolo che appare provocatorio fin dal titolo, Catarina e a beleza de matar fascistas, e che non a caso ha suscitato parecchie polemiche nonché tentativi di sospenderne la programmazione (senza tra l'altro nemmeno sapere di cosa parla).

Quando si arriva a teatro gli attori sono già sul palco, all'interno di una scenografia che ci conduce immediatamente in un'ambientazione rurale. Siamo infatti nella casa di campagna di una famiglia portoghese formata da tre fratelli: una donna con le due figlie, una delle quali è Catarina, un uomo con il figlio adolescente (anche narratore e commentatore della storia) e un altro uomo più giovane. Tutti sono vestiti con abiti tradizionali, valorizzati da momenti di canto collettivo e danze tipiche.

Da un lato del palco c'è un lungo tavolo con una tovaglia su cui è ricamata la scritta Não passarão, a un'estremità del quale è seduto un uomo vestito invece con completo e camicia. Si tratta del politico fascista che questa famiglia ha rapito e che è destinato a essere ammazzato dalla giovane Catarina, proseguendo la tradizione per cui da oltre 70 anni questo rito si compie ogni anno, anche per onorare la volontà dell'ava Catarina Eufemia, uccisa negli anni Cinquanta durante la dittatura fascista in Portogallo.

Questa riunione familiare si svolge in un'atmosfera di festa e convivialità, in cui non mancano l'ironia, i momenti di leggerezza e quelli di incontro e profondità. Fino a quando, posta di fronte al suo compito, Catarina non esprime la sua impossibilità di uccidere.

Da qui in poi la tensione sale: si susseguono confronti collettivi o di coppia, riflessioni individuali, che culminano nel lungo dialogo madre-figlia che mette sul tavolo le opposte ragioni che sono dietro la scelta di proseguire questa tradizione ovvero di interromperla. Alla fine di questo confronto, Catarina sembra essersi convinta, ma - ancora una volta - al dunque il dubbio in lei è troppo forte e sceglie di non uccidere.

Questa scelta fa implodere gli equilibri familiari portando a un drammatico epilogo.

Lo spettacolo termina con il politico scampato all'uccisione grazie ai dubbi di Catarina che si presenta sul palco per tenere il suo discorso della vittoria dopo aver vinto le elezioni. Il discorso è un concentrato di populismo, conservatorismo, fascismo, omofobia il cui andamento incalzante ed espansivo si fa sempre più fastidioso e difficile da tollerare fino a suscitare prima il rumoreggiare del pubblico, poi la vera e propria protesta.

Pare che Tiago Rodrigues abbia ascoltato oltre 150 discorsi tenuti da politici di destra populisti in tutto il mondo, riversando in quest'unico discorso la summa di tutti quelli ascoltati, e che la reazione del pubblico sia uno degli effetti sorpresa dello spettacolo, perché non è mai scontata. Personalmente ne sono rimasta talmente sorpresa che pensavo fosse preparata e che ci fossero degli infiltrati nel pubblico. Io - pur con un fastidio crescente - subivo in silenzio, e forse già questo dice qualcosa del fatto che ognuno di noi è diverso e reagisce diversamente all' "aggressione" anche se solo verbale.

Lo spettacolo di Rodrigues affronta un tema spinosissimo di fronte al quale solleva domande e interrogativi, che non hanno risposte banali né scontate. Quali possono essere le estreme conseguenze della tolleranza verso gli intolleranti? È ammissibile ricorrere a strade non democratiche per difendere la democrazia? E se no, come si frena il dilagare del populismo di estrema destra e il rischio non solo teorico di una deriva dittatoriale che si fa strada facendo leva sulla pancia delle persone?

Personalmente penso che il populismo e il fascismo non siano totalmente estirpabili. È indubbio che una condizione generalizzata di maggiore benessere, minori disuguaglianze, un livello più alto di istruzione, una fruizione culturale più diffusa sono tutti importanti deterrenti all'emergere dei rigurgiti fascisti; però ritengo anche che il fascismo, il populismo, il conservatorismo siano in parte congenite nell'umanità, e periodicamente, approfittando di condizioni di contesto favorevole, prendono piede e si espandono, ma non si può pensare realmente di debellarle o di estirparle dal genere umano. Il punto non è eliminare i politici fascisti, ma quello ch'essi rappresentano e che trova riscontro in una parte della società civile.

Diciamo che un sistema democratico in salute e nel quale funzioni il sistema dei pesi e dei contrappesi dovrebbe aiutare a evitare derive dittatoriali, ma la manomissione di questi equilibri che è stata portata avanti sistematicamente negli ultimi decenni - e purtroppo non solo ad opera dei politici di destra - apre sempre più crepe e squarci che non ci garantiscono a pieno.

Se poi - come sembra ventilare il dramma di Rodrigues - chi sta dalla parte "giusta" non è in grado di gestire il dubbio interno e di comporre la diversità dei punti di vista, l'incertezza sul futuro diventa ancora più preoccupante.

In conclusione Catarina è espressione di un teatro civile di cui abbiamo decisamente bisogno per porci domande scomode e non accontentarci di risposte semplici.

Voto: 4/5


giovedì 21 aprile 2022

Nella quiete del tempo / Olga Tokarczuk

Nella quiete del tempo / Olga Tokarczuk; trad. di Raffaella Belletti. Milano: Bompiani, 2020.

Avevo conosciuto Olga Tokarczuk con Guida il tuo carro sulle ossa dei morti e me ne ero innamorata. E così ho deciso di approfondire la conoscenza leggendo qualcos'altro.

La mia attenzione è stata catturata da Nella quiete del tempo perché - si sa - sono abbastanza ossessionata dal tema del tempo e da che cosa questo significhi per l'essere umano.

Non pensavo sinceramente di trovarmi di fronte a un libro così originale.

Siamo a Prawiek, un paesino polacco immaginario attraversato da due fiumi, il Bianca e il Nera. Questo luogo costituisce l'elemento di connessione tra i numerosi personaggi che popolano il romanzo della Tokarczuk, alcuni dei quali vivono in questo paese, mentre altri lo attraversano o ci stazionano per un tempo più o meno lungo, a cavallo tra le due guerre. Protagonisti dei capitoli che costituiscono il racconto sono però, oltre agli esseri umani, anche oggetti, animali e Dio stesso, tutti - compreso quest'ultimo - soggetti alla tirannia del tempo, seppure in modi diversi.

La caratteristica più peculiare del romanzo è l'approccio fiabesco, che conferisce alla narrazione un'atmosfera sospesa e fantastica, che a tratti mi ha fatto pensare all'universo fantastico de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile.

Come in questo caso, infatti, i personaggi della Tokarczuk sono spesso estremi o sopra le righe, alle prese ciascuno con i propri demoni che spesso - e quasi inevitabilmente - sono la causa delle loro parabole individuali. Tra questi, Spighetta e la sua marginalità, il castellano Popielski e il gioco degli Otto Mondi, Genowefa e il mulino, Michal e la guerra, Misia e il suo macinino, Florentinka e la luna, e moltissimi altri.

Realismo e fantasia si intrecciano continuamente per offrire al lettore l'occasione di riflettere sul ciclo della vita umana e sulla sua sostanzialmente insensatezza.

Nella quiete del tempo è certamente un romanzo molto meno nelle mie corde rispetto a Guida il tuo carro sulle ossa dei morti; eppure tra i due riconosco diversi elementi di continuità: il rapporto tra l'uomo e la natura, una religiosità quasi pagana, la mescolanza di un tono ironico e uno drammatico, l'assenza di manicheismi (non ci sono buoni né cattivi assoluti), nonché l'assenza di giudizio, sostituito semmai da una compassione e una empatia che si esprimono nei confronti di tutti gli elementi dell'universo viventi e non.

Al termine della lettura, confermo il mio apprezzamento per la scrittura della Tokarczuk, ma sono meno conquistata. Toccherà leggere un terzo romanzo (ne è appena uscito un altro per Bompiani, Casa di giorno, casa di notte), per capire se è vero amore (con tutti gli alti e bassi che lo caratterizzano), o solo un'infatuazione bella finché è durata.

Voto: 3/5

martedì 19 aprile 2022

SANI! Teatro tra parentesi / di e con Marco Paolini. Teatro Quirino, 5 aprile 2022

Paolini torna a teatro con uno spettacolo che è dichiaratamente l’erede della serie televisiva La fabbrica del mondo (che io confesso di non aver mai visto ma che si può recuperare su RaiPlay), caratterizzata dal mix di narrazione teatrale e divulgazione scientifica.

Sullo sfondo di una scenografia fatta di un enorme castello di carte, a simboleggiare la fragilità degli equilibri su cui si fonda la vita umana, Marco Paolini mette insieme il racconto autobiografico con l’informazione e la riflessione relative principalmente al tema del cambiamento climatico e dell’impatto che l’antropocene sta avendo sugli equilibri della terra e nello specifico sulle prospettive di sopravvivenza del genere umano.

Del resto, Paolini non è nuovo a questo tipo di temi che già in parte erano presenti nello spettacolo che si chiamava appunto #Antropocene (sebbene lì con una più marcata attenzione all’aspetto della tecnologia e dell’interconnessione), che io avevo visto all’Auditorium.

Nell’ambito di questa narrazione non mancano riferimenti ad altri temi caldi per la nostra società, come ad esempio quello dei migranti e dei salvataggi in mare, ma nel complesso lo spettacolo di Paolini appare più “leggero”, divertito e divertente rispetto ad altri suoi del passato, a conferma che in questo momento storico (tra una pandemia e una guerra alle porte dell’Europa) il mondo del teatro, anche quello da sempre impegnato com’è il teatro di Paolini, riconosce l’esigenza della leggerezza come valore di condivisione e creazione della comunità.

La presenza sul palco del musicista Lorenzo Monguzzi, compositore - insieme a Saba Anglana (entrambi già coinvolti nello spettacolo Nel tempo degli dei- delle musiche originali e commentatore in musica dei vari passaggi dello spettacolo, talvolta accompagnato nel canto dallo stesso Paolini, dà ritmo allo spettacolo, mantenendosi in linea con il suo tono oscillante tra il leggero e l’impegnato.

Le storie narrate da Paolini sono varie e di varia provenienza. Personalmente ho particolarmente apprezzato quella – nella prima parte dello spettacolo – che racconta il primo e unico incontro dell’autore con Carmelo Bene nel 1983, per uno spettacolo organizzato nel profondo veneto da un gruppo di giovani intellettuali e attivisti tra cui lo stesso Paolini. Il racconto è in sé esilarante, e anche l’imitazione della personalità narcisista e tronfia del grande uomo di teatro.

Bello anche il racconto “Cattedrale”, che incornicia lo spettacolo ed è dedicato alla storia della costruzione della Sagrada Familia e al genio immaginifico di Guadì che ideò quest’opera sapendo che non sarebbe in ogni caso stata completata prima della sua morte.

Non mancano i riferimenti anche alla storia più recente, e in particolare al periodo del lockdown con tutti i suoi significati e le sue conseguenze. E in un certo senso a questo si ricollega anche il titolo dello spettacolo SANI! che, come ci spiega Paolini, è in realtà una forma di saluto che veniva (e in parte viene) utilizzata nelle valli delle Prealpi e Alpi venete, e che ora suona come un augurio particolarmente adatto al momento storico che stiamo vivendo.

Uno spettacolo – come sempre sono quelli di Paolini – gradevole e stimolante, sebbene abbia avuto qualche momento di calo di attenzione nella parte centrale.

Voto: 3,5/5

venerdì 15 aprile 2022

Full time – Al cento per cento

Julie (Laure Calamy) è madre di due bambini, vive con loro in una casetta di un paese di campagna della cintura parigina e lavora a Parigi come prima governante in un albergo di lusso, lavoro sicuramente inferiore alle sue qualifiche, ma necessario per permetterle di sopravvivere.

Il film di Eric Gravel racconta qualche giorno della vita di Julie, entrando immediatamente in medias res, dal momento in cui la sua sveglia suona e Julie deve prepararsi e preparare i bambini per portarli dalla signora che glieli tiene durante il giorno, mentre lei va a lavorare a Parigi.

Sono giorni di scioperi e manifestazioni, in cui la vita da pendolare è un incubo, e le giornate già estremamente complicate di Julie sembrano andare incontro a una escalation di difficoltà nel momento in cui le cose al lavoro sembrano mettersi male, il suo ex marito non risponde al telefono, i soldi sul conto finiscono, la babysitter dei bambini dichiara la propria indisponibilità ad andare avanti e il colloquio per un nuovo lavoro non sembra portare gli esiti sperati.

Full time è un film adrenalinico, una specie di film d’azione virato verso il thriller, in cui però la protagonista non deve sfuggire a inseguitori e dimostrare la propria maestria nell’uso delle armi e la propria agilità nello sfuggire alle situazioni di pericolo, bensì una donna come mille altre che tutti i giorni deve fare i conti con le difficoltà “normali” di una madre single lavoratrice e le aspettative proprie e altrui nello svolgimento di questi ruoli.

Il film di Gravel non risparmia allo spettatore un centesimo dell’ansia di Julie, facendo sentire sulla propria pelle gli effetti del “tritacarne” quotidiano del quale lei – ma in fondo tutti noi – siamo prigionieri. Paradossalmente il momento più disperante del film è anche l’unico nel quale per un attimo si può tirare il fiato.

Ancora una volta il cinema francese dimostra di essere uno dei pochi – se non l’unico – capace (non a livello di singoli registi, ma come approccio complessivo) di parlare delle dinamiche sociali del nostro presente e degli effetti devastanti del nostro modello socioeconomico sulle vite individuali. I registi francesi, raccontando storie - se vogliamo ordinarie - di singole persone, riescono a parlare un linguaggio universalmente comprensibile e, attraverso l’immedesimazione empatica, ci costringono a riflettere su tutto quello che quotidianamente diamo per scontato e a ricondurre le storture delle nostre vite individuali a meccanismi sociali più ampi.

Non è un merito da poco e rivela una società che, pur caratterizzata dalle medesime dinamiche proprie di tutto il mondo occidentale e non solo, riesce evidentemente ancora a coltivare al suo interno occasioni di una riflessione collettiva e stimoli a portare all’attenzione e mettere in discussione i nostri stili di vita e i nostri modelli sociali ed economici.

Full time è dunque un film decisamente apprezzabile sul piano della fattura e dell’orizzonte di senso. Da vedere.

Voto: 3,5/5

mercoledì 13 aprile 2022

A questo poi ci pensiamo / Mattia Torre

A questo poi ci pensiamo / Mattia Torre. Milano: Mondadori, 2021.

Diciamocelo.

Siamo orfani di Mattia Torre, un autore che ci ha regalato uno sguardo ironico e al contempo profondo sul mondo nel quale viviamo, osservando le piccole cose della quotidianità con il suo acume e la sua intelligenza e trasformandole in scrittura coinvolgente.

Quindi, personalmente ringrazio la moglie dell’autore, Francesca Rocca detta Frou, per avere deciso – anche con l’aiuto di alcuni amici di Mattia – di farci questo splendido dono dei testi e degli scritti inediti del marito, in alcuni casi semplici bozze, in altri casi testi compiuti.

Dentro c’è tutto lo spirito di Mattia Torre, la sua capacità di farci ridere di cose che hanno un fondo tragico, di farci riflettere con il sorriso, di mostrarci i suoi e i nostri vizi con garbo e senza mai essere giudicante.

Perché probabilmente una delle qualità più importanti di Mattia Torre era l’umiltà, pur avendo un dono speciale di cui abbiamo potuto godere per un tempo dannatamente troppo limitato.

Alcuni racconti, a mio gusto e a mio modo di vedere, sono particolarmente espressivi della personalità e dello stile di Mattia Torre. Tra questi ho apprezzato quello sui nonni (e sulla difficoltà di fare da baby sitter a nipoti sempre più sgamati e viziati), quello sul traffico di Roma, in particolare del lungotevere (che si vede dalla luna! ;-) ) e il racconto del treno fermo ore sotto la neve nella campagna tra Lombardia ed Emilia.

Che bello ridere ancora leggendo Mattia Torre. E che tristezza sapere che possiamo alimentarne solo il ricordo, senza poter godere ancora dei suoi sprazzi di genialità.

Ma lui ci avrebbe detto: “A questo ci pensiamo dopo”.

Voto: 3,5/5

lunedì 11 aprile 2022

Les passagers de la nuit

Nell’ambito del tradizionale festival del cinema francese Rendez Vous, ospitato anche quest’anno dal cinema Nuovo Sacher, riesco a vedere solo questo film di Mikhaël Hers con protagonista Charlotte Gainsbourg, che tra l’altro è perfetta nel ruolo disegnato dal regista.

Siamo negli anni Ottanta: il film inizia con le immagini dei festeggiamenti per strada a Parigi per la vittoria alle presidenziali di François Mitterand, per poi dispiegarsi durante l’intero decennio.

Elisabeth (Charlotte Gainsbourg) vive in un appartamento nel 15° arrondissement di Parigi insieme ai suoi due figli già piuttosto grandi: sua figlia è in età universitaria ed è un’attivista politica di sinistra, mentre Matthias ha 14 anni e tutte le insicurezze tipiche dell’età. Elisabeth è stata da poco lasciata da suo marito ed è alla ricerca di un lavoro per potersi mantenere e garantire una vita dignitosa ai suoi figli. Purtroppo non ha quasi mai lavorato perché ha dedicato gran parte della sua vita adulta al ruolo di madre. Troverà lavoro come centralinista di un programma radiofonico notturno (che si chiama appunto Les passagers de la nuit) e assistente di Vanda, la conduttrice del programma (Emmanuelle Béart).

Cosa accade in questo film? Sostanzialmente niente di grandioso o eclatante, “semplicemente” la vita di Elisabeth e dei suoi figli, l’incontro con Talulah, una ragazza squat che la donna accoglie amorevolmente in casa, il lavoro part-time in biblioteca, l’incontro con Hugo, la crescita di Matthias che passa anche attraverso il rapporto con Talulah, i problemi di tutti i giorni, le gioie e i dolori dell’esistenza.

In questo sta una parte importante e grande della bellezza del film di Hers, capace di raccontare con una grazia e un calore straordinari la vita ordinaria di Elisabeth e della sua famiglia. Dal modo di narrare di Hers traspare un amore profondo verso la vita vissuta nella sua quotidianità e nella sua ordinarietà, quella fatta dei piccoli gesti, dei momenti difficili e degli attimi di pienezza, cui come spettatori partecipiamo con un trasporto che non è per niente scontato e frequente, sentendoci anche noi “passeggeri di una notte” che può essere buia ma anche accogliente, fredda ma anche calda, e di cui va vissuto ogni istante.

Hers però riesce anche in un’altra importante impresa: raccontare gli anni Ottanta non attraverso le minute ricostruzioni storiche e i dettagli (per quanto non manchino alcuni elementi simbolo di quegli anni), bensì attraverso le sensazioni visive e uditive, e in generale attraverso elementi percettivi, prima ancora che materiali. Alla riuscita di questa impresa contribuisce anche la perizia tecnica e l’intelligenza realizzativa nel mescolare quasi senza soluzione di continuità immagini di repertorio di quegli anni (che come ci dirà lui stesso dopo il film sono tratti soprattutto da archivi personali e privati) e il girato per il quale il regista ha scelto la pellicola in 35 e 16 mm, adattandosi via via sul piano dei formati a quanto recuperato in questi archivi. Il risultato è quanto di più lontano ci possa essere dall’artificioso e dal forzato, e comunica invece una naturalezza e un calore davvero non scontati. In questo tentativo riuscito si inserisce anche senza sofismi l’amore per il cinema come luogo – prima ancora che come proiettato – capace di dare senso e centratura alle esistenze individuali.

Un film che nel suo essere così poco pretenzioso sul piano teorico (lo conferma lo stesso regista) riesce davvero a riempire gli occhi e a scaldare il cuore, miracolo che l’interpretazione piena della Gainsbourg certamente contribuisce a realizzare a pieno.

Consigliato.

Voto: 3,5/5





venerdì 8 aprile 2022

Ristrutturazione / di e con Sergio Rubini. Teatro Ambra Jovinelli, 30 marzo 2022

Arrivo al teatro senza sapere bene cosa aspettarmi da questo ultimo spettacolo di Sergio Rubini, il suo primo dopo il lungo blackout teatrale dovuto alla pandemia. Il titolo parla chiaro: il tema è quello delle case e dei lavori che le riguardano, cosa che mi è molto familiare e su cui sono molto sensibile in questo periodo tanto che F. mi dice che in fondo potrebbe trattarsi dell’occasione per esorcizzare il mio ultimo anno tra cantiere e operai.

Quando Rubini sale sul palco si capisce subito quale sarà il tono di questo spettacolo: niente di particolarmente strutturato, con un approccio sostanzialmente leggero, perché – come ci dice lo stesso autore – dopo questo periodo particolarmente impegnativo si sente il bisogno di leggerezza. A sottolineare questo approccio la presenza sul palco del gruppo Musica da ripostiglio, già visti e apprezzati qualche anno fa nello spettacolo di Favino Servo per due. Si tratta di quattro musicisti (un batterista, un contrabbassista, un chitarrista e voce, e un altro chitarrista che suona anche ukulele e armonica da bocca) che oltre a suonare cose molto diverse tra di loro, sono in grado con i loro strumenti di fare da commento musicale al parlato e di fare loro stessi spettacolo grazie all’interazione tra di loro e alle loro buffe gag.

Rubini dal canto suo ha scelto una strada forse per lui alquanto inusuale, una specie di stand up comedy, in cui la narrazione di piccole storie ed episodi della vita reale rappresenta il canovaccio da utilizzare per far ridere il pubblico. Il fil rouge è – come si diceva prima – quello delle case: Rubini parte infatti dalla sua prima casa romana, acquistata dai suoi genitori quando era giovane e si era trasferito a Roma per studiare all’Accademia, fino ad arrivare alla sua casa più recente, vissuta intensamente (come noi tutti) durante il periodo del lockdown, passando per il "ripostiglio con terrazza" e altre amenità.

Lo spettacolo inizia abbastanza in sordina: Rubini sembra particolarmente emozionato (e forse è normale vista la lunga assenza dalle scene e anche la sostanziale novità per lui di questo tipo di spettacolo), però a poco a poco il suo narrare un po’ nevrotico conquista il pubblico che sempre di più si immedesima nelle sue disavventure con le case che ha abitato e ride in maniera quasi liberatoria di esse. Non è dunque solo per me un modo di esorcizzare; la sensazione è che si tratti di un rito di esorcismo collettivo, aiutato anche dalla bravura e dall’approccio divertito e divertente dei Musica da ripostiglio.

Insomma, nonostante lo spettacolo non sia breve e io sia come al solito particolarmente stanca, l’attenzione non cala nemmeno per un minuto e si esce dal teatro con l’animo più leggero e contenti di aver vinto la pigrizia per trascorrere anche questa serata a teatro.

Lunga vita al teatro e a tutte le forme collettive di svago e divertimento, perché come esseri umani ne abbiamo davvero bisogno.

Voto: 3,5/5

mercoledì 6 aprile 2022

Parigi, 13Arr. = Les Olympiades

Innanzitutto trovo buffo il fatto che il film di Jacques Audiard, uscito in patria con il titolo Les Olympiades (nome di un distretto di Parigi), esca in Italia con un titolo in parte in francese, in parte in italiano, che riconduce il nome proprio del distretto a quello più generico del quartiere, Parigi, 13Arr. Vero è che non è scontato conoscere la toponomastica parigina, ma forse non è scontato nemmeno sapere che i quartieri di Parigi si chiamano arrondissements.

Un'altra buffa cosa è che, pur essendo andata a vedere il film in lingua originale, i cambi di scena in cui compaiono sullo schermo frasi come "Un buon mese dopo" o similari presentavano le scritte in italiano, creando un effetto decisamente straniante, in linea del resto con quello provocato dalle immagini di questo quartiere fatto di altissimi palazzoni e fitte geometrie, molto lontane dall'idea che abbiamo di Parigi. 

Les Olympiades è un distretto che è stato costruito ispirandosi alle teorie architettoniche razionaliste di Le Corbusier e il cui sviluppo ha confermato l'impossibilità di pianificare a tavolino l'uso di uno spazio urbano. In questo caso il quartiere è divenuto un coacervo di etnie di varia provenienza, con una forte presenza cinese in termini di popolazione e di esercizi commerciali, al punto che uno dei personaggi secondari dice che guardando dalla finestra sembra quasi di stare a Shanghai.

Razionalismo e groviglio sono le due facce della medaglia delle vite dei protagonisti di questa storia, per la quale Audiard si è ispirato ai fumetti di un autore cult, Adrian Tomine (americano di origine giapponese), in particolare alla sua pluripremiata raccolta di storie brevi Killing and dying che io ho letto qualche anno fa senza entusiasmi. Non ricordo molto di quel graphic novel, tuttavia il curioso mix di desiderio di controllo e totale confusione nella gestione dei sentimenti che si avverte nel film mi ha fatto pensare parecchio alla sensazione avuta nel leggere le storie di Tomine.

D'altra parte, in Les Olympiades si vede forte anche la mano più empatica di Céline Sciamma, che insieme a Léa Mysius, firma la sceneggiatura non originale del film.

Ne viene fuori un ritratto generazionale quasi senza sbavature, credibile, ben costruito, vero, capace di essere compreso anche al di fuori della generazione rappresentata, cosa non scontata nei prodotti (letterari e cinematografici) che ritraggono i trentenni e i quasi trentenni di oggi e che spesso soffrono di una tendenziale autoreferenzialità.

Protagonisti sono quattro circa trentenni: Camille (Makita Samba), un ragazzo di colore che insegna al liceo e conduce una vita sessuale piuttosto intensa, ma senza legami sentimentali, Émilie (Lucie Zhang), una ragazza di origine cinese che abita nella casa della nonna, non lontana dalla struttura dove quest'ultima - malata di Alzheimer - è ricoverata, Nora (Noémie Merlant) che si è trasferita a Parigi da Bordeaux per studiare o forse per fuggire da qualcosa, Amber (Jehnny Beth), una giovane che si guadagna da vivere mediante sessioni video pornografiche.

Le vite di queste quattro persone non ci vengono raccontate nei dettagli: piccoli indizi, mezze parole, alcuni sguardi ci fanno capire che ognuno di loro deve fare i conti con alcune pesantezze, del passato o del presente, e che tutti sono alla ricerca di una forma di spensieratezza/felicità. Tutti appartengono a una generazione la cui libertà ha confini piuttosto ampi, dal punto di vista sessuale e non solo (in questo film anche le barriere etniche e culturali tra i personaggi sembrano contare poco o niente), ma che fa molta fatica a conciliare questa libertà con la possibilità di dare una nuova forma ai sentimenti e che si scontra con pesanti sensi di colpa e nodi non ancora risolti. In un certo senso - come ho avuto modo di dire commentando alcuni romanzi generazionali particolarmente rappresentativi di questa generazione - questi giovani sono talmente in difficoltà nel mettere insieme un passato ancora incombente con un presente che ha almeno apparentemente mille opportunità da finire per sabotare la loro stessa possibilità di essere felici.

Sfrontati ma insicuri, duri ma anche fragilissimi, con un mondo interiore complesso ma talvolta insensibili, sognatori ma fin troppo coi piedi per terra, i protagonisti del film sarebbero da prendere a schiaffi in alcuni momenti, eppure non si può non amarli e non sperare per loro in un futuro migliore, che con il suo lieto fine Audiard (appartenente a tutt'altra generazione) decide di regalargli, forse più a mo' di speranza che confortato dall'esperienza.

Il più bel ritratto - in un raffinato bianco e nero - della generazione dei trentenni che io abbia visto/letto e l'unico finora a non essermi risultato in parte respingente.

Voto: 4/5


lunedì 4 aprile 2022

Il male non esiste

Il male non esiste
è un film in quattro episodi (ciascuno con un proprio titolo) ambientati nell'Iran dei giorni nostri.

Nel primo episodio condividiamo 24 ore della vita di Heshmat (Ehsan Mirhosseini), da quando esce dal lavoro a quando vi rientra per il turno notturno, seguendolo in tutte le attività che si svolgono al di fuori di esso: la spesa con la moglie, il ruolo di padre, l'accudimento della madre anziana, la cena con la famiglia, il rapporto con la moglie. Nel secondo episodio, c'è un giovane militare di leva, Pouya (Kaveh Ahangar), che è purtroppo stato assegnato alla sezione della caserma che si occupa delle esecuzioni delle pene capitali e cerca il modo di sottrarsi a questo compito. Nel terzo episodio, Javad (Mohammad Valizadegan) - in licenza dal servizio militare - va a trovare la sua fidanzata nel giorno del suo compleanno per farle la sua dichiarazione d'amore, ma scoprirà qualcosa che cambierà il corso degli eventi. Infine, nel quarto episodio Bahram (Mohammad Seddighi Mehr) e sua moglie accolgono la nipote che è venuta a trovarli per la prima volta in Iran dal paese (europeo?) nel quale vive. Ma molte verità verranno alla luce.

Mohammad Rasoulof dimostra grande coraggio nell'affrontare un tema politicamente molto scomodo nel suo paese, ovvero quello delle esecuzioni capitali (che in Iran avvengono per impiccagione) o - per essere più precisi - quello delle implicazioni etiche e psicologiche per coloro i quali sono chiamati a eseguire materialmente queste condanne.

Da un punto di vista formale, il film dimostra la capacità del regista di padroneggiare registri e stili diversi: i quattro episodi - pur essendo accomunati dalla tematica affrontata - si presentano piuttosto diversi sul piano narrativo: si va dal racconto quotidiano con colpo di scena finale del primo, al quasi film d'azione del secondo, alla storia d'amore del terzo, infine alla storia familiare del quarto. Anche le ambientazioni sono parecchio diverse (le strade cittadine, gli angusti corridoi delle prigioni, i boschi, il deserto e le montagne), nonché le età e le provenienze dei protagonisti. Come a dire che questo della pena di morte è un tema che tocca trasversalmente tutti, in alcuni casi come parte di una quotidianità, in altri casi come evento traumatico e imprevisto.

È evidente che il film di Rasoulof si rivolge a un pubblico internazionale, dal momento che mette in bocca ai personaggi una serie di informazioni che per gli iraniani sono probabilmente scontate, mentre è essenziale che gli spettatori al di fuori dell'Iran le conoscano per poter correttamente interpretare gli eventi e farsi un'idea dei condizionamenti morali, materiali e psicologici che uno stato illiberale può esercitare sugli individui. Al contempo Rasoulof, soprattutto nei momenti topici di ciascun episodio, riesce a essere altamente evocativo e a suggerire piuttosto che spiegare necessariamente tutto, lasciando allo spettatore il compito di riempire i vuoti o di dare un senso - anche personale - agli eventi.

La bellezza de Il male non esiste è la scelta del regista di evitare semplificazioni e giudizi sugli individui, ferma restando la condanna di uno stato che mette le persone nelle condizioni di diventare eroi e di rinunciare alla propria vita per poter scegliere di rimanere fedeli alle proprie convinzioni, ovvero di eseguire gli ordini per poter andare avanti. In qualità di spettatori non è difficile immedesimarsi nei sentimenti contraddittori che animano i protagonisti, né è difficile comprendere visioni e letture opposte delle stesse situazioni. E più volte ci si ferma a pensare e a chiedersi cosa avremmo fatto in quelle stesse situazioni.

Voto: 4/5


venerdì 1 aprile 2022

Joan as Police Woman. Auditorium Parco della Musica, 19 marzo 2022

Finalmente! Sono due anni che inseguo questo concerto: doveva tenersi nel maggio del 2020, poi nel maggio del 2021, e ora - arrivati a marzo 2021 - possiamo incontrare di nuovo la cara Joan, che ormai ho visto talmente tante volte in concerto che la sento quasi come una di famiglia.

In questo tour Joan è accompagnata da tre musicisti che sono ormai suoi storici collaboratori: il batterista Parker Kindred, il bassista Benjamin Lazar Davis (con cui ha anche realizzato un album a quattro mani, Let it be you¸e che sfoggia look sempre molto estrosi) e il tastierista Eric Lane. In questi anni di buio della musica dal vivo sono uscite diverse cose di Joan, che dal palco lei man mano cita: si tratta del secondo volume del disco di cover (che si chiama appunto Cover two), della Joanthology (una specie di best of) e dell'ultimo lavoro (di cui tra l'altro mi era sfuggita l'uscita), The solution is restless, realizzato insieme a Tony Allen e Dave Okumu

Probabilmente l'idea iniziale era proprio quella di portare in giro dal vivo quest'ultimo lavoro in trio, ma la morte di Tony Allen nel 2021 ha cambiato prospettive e programmi, e ha spinto la musicista newyorkese a ripensare il tour.

La scelta è stata quella di tornare un po' alle origini, affidandosi a musicisti con i quali collabora da anni per portare al pubblico non solo i suoi successi del passato ma anche molti dei brani di questo ultimo lavoro. Il concerto inizia infatti con alcuni brani tratti da The solution is restless, su cui si percepisce ancora un po' di rigidità da parte di Joan e dei musicisti, e forse un po' di freddezza da parte del pubblico che probabilmente è un po' spiazzato da sonorità un po' diverse da quelle a cui Joan ci ha abituati.

Quando poi si passa ad alcuni brani più classici del suo repertorio, dagli album To survive e Real life, il quartetto ritrova verve e affiatamento e anche Joan si scioglie, cominciando quel dialogo col pubblico che è una delle caratteristiche più tipiche dei suoi concerti.

Viene fuori subito che la cantante è al contempo molto felice e molto emozionata per questo ritorno al contatto col pubblico, in particolare quello di una città e di un Paese che non ha mai nascosto di amare particolarmente.

E così da qui in poi il concerto cresce nel livello di coinvolgimento emotivo e nella qualità ed entusiasmo con cui i brani che seguono vengono interpretati e portati al pubblico. Oltre a brani dell'ultimo lavoro, tra cui ad esempio Dinner date, si alternano alcuni dei brani con cui Joan è diventata famosa, ad esempio The magic, e successi più recenti come Tell me o Let it be you.

Quando dunque Joan e il suo trio di musicisti lasciano il palco, il pubblico è ormai conquistato e non tarda a far sentire la propria richiesta di un bis, che Joan concede, prima "in solo" con una bellissima versione al pianoforte di Real life e poi con il gruppo in una reinterpretazione di Why can't we live together di Timmy Thomas (canzone-inno contro la guerra in Vietnam il cui interprete è morto il 15 marzo di quest'anno).

Al termine di quest'ultima esecuzione il pubblico non solo applaude convinto, ma si alza tutto in piedi per questa artista capace di conquistare tutti i sensi con la sua musica sempre diversa e al contempo sempre inconfondibile.

Forse il nostro applauso è anche una forma di liberazione dal lungo periodo di astinenza dalla musica dal vivo, di cui solo di fronte a un concerto vero e bello come questo realizziamo pienamente quanto ci sia mancata.

Voto: 4/5