Il mio anno di riposo e oblio / Ottessa Moshfegh; trad. di Gioia Guerzoni. Milano: Feltrinelli, 2019.
Visto il periodo di tempo sospeso che abbiamo vissuto, sono stata irrimediabilmente attirata dal titolo di questo romanzo della giovane scrittrice statunitense Ottessa Moshfegh (di cui tra l'altro avevo letto qua e là commenti positivi di alcune amiche).
Siamo a New York e la storia si svolge nell'arco di circa un anno, a cavallo tra il 2000 e il 2001. La protagonista - di cui non sapremo mai il nome - ha 27 anni, è orfana di entrambi i genitori (suo padre è morto di cancro e sua madre si è suicidata con un mix letale di farmaci), ha ereditato soldi a sufficienza per poter vivere di rendita e infatti si è licenziata dalla Galleria d'arte dove lavorava. Ha un ex fidanzato, Trevor, da cui non riesce a prendere le distanze nonostante lui la usi senza alcun rispetto per i suoi sentimenti, e un'unica amica, Reva, una ragazza di estrazione sociale certamente inferiore, fragile e insicura, rispetto alla quale la protagonista ha sentimenti ambivalenti.
La ragazza ci racconta della sua decisione di andare in una specie di "letargo farmacologico" per circa un anno, allo scopo di fare piazza pulita del suo passato e di tutti i pensieri che l'hanno attraversata fino a quel momento e rinascere come persona nuova.
Per realizzare il suo obiettivo, la nostra protagonista si serve della complicità inconsapevole della dottoressa Tuttle, una psichiatra trovata sulle Pagine Gialle, che è l'unica che risponde a una sua chiamata alle 23 e che - con il suo approccio antiscientifico e alternativo - le prescrive una quantità esorbitante di psicofarmaci, oltre a riempirla dei campioni di farmaci che ha nel suo studio.
Inizia così una fase in cui la ragazza alterna lunghe dormite a poche altri attività: brevi chiacchiere con la sua amica Reva che la va a trovare regolarmente per sfogarsi con lei della malattia della madre e della relazione fallimentare con il suo capo sposato, Ken; la visione di film più o meno dozzinali degli anni Ottanta e Novanta, soprattutto quelli con Whoopi Goldberg che è la sua attrice preferita; le visite al negozio gestito da egiziani dove compra caffè e altro o al Rite Aid per acquistare i medicinali.
A un certo punto la nostra protagonista scopre un farmaco, l'Infermiterol, che le provoca tre giorni di blackout totale; in pratica perde coscienza di quello che fa e la ritrova dopo tre giorni senza ricordarsi di nulla. Decide a quel punto di procurarsi - sempre grazie alla dottoressa Tuttle - un quantitativo sufficiente di compresse per trascorrere gli ultimi quattro mesi di riposo e oblio, rimanendo sveglia e cosciente solo per un numero limitato di giorni. Il tutto grazie anche alla complicità di un artista che l'aiuta in questa impresa ottenendone in cambio la possibilità di trasformare questo periodo in un'opera/performance da mettere in mostra.
In questo tentativo di annientamento della coscienza, attraverso i pensieri spesso caustici e respingenti della narratrice, via via scopriamo alcuni nodi irrisolti della sua vita, legati in particolare ai suoi genitori, due persone completamente diverse tra di loro e senza alcun tipo di connessione, l'uno - il padre - completamente votato alla sua missione di insegnante ma assente rispetto alla famiglia, l'altra - la madre - una donna dipendente dall'alcol e anaffettiva, incapace di prendersi cura della figlia e dei suoi bisogni. Si spiega così anche la dipendenza affettiva da Trevor e l'assenza di empatia verso Reva.
Il malessere esistenziale della protagonista e il suo tentativo di annegare la sua infelicità in un cocktail di psicofarmaci che le impediscano di pensare sono in realtà il sintomo dell'incapacità o impossibilità di attraversare ed elaborare il lutto e la perdita.
Il libro viene presentato come un racconto tragicomico e caratterizzato da uno stile ironico e divertente; a me sinceramente non ha mai fatto né ridere né sorridere. Mi ha solo trasmesso una profonda angoscia di vivere e una forte irritazione verso una protagonista che non si può fare a meno di interpretare come ragazza ricca e viziata, sebbene - man mano che le pagine scorrono - questi sentimenti tendano a trasformarsi in compassione per il congelamento emotivo che vive e che è palese nel momento in cui si capisce che la sua parte migliore emerge nelle fasi di assenza di coscienza, ossia sotto l'effetto dell'Infermiterol.
Non so se sono io che ormai mi sono fissata, ma per me queste scrittrici tra i trenta e i quarantanni hanno in comune uno sguardo sul mondo che si sostanzia in pratica in una forma di immaturità/tardoadolescenzialità accompagnata da un malessere in parte immotivato ovvero sovradimensionato, uno sguardo che mi è profondamente estraneo e mi risulta respingente.
Qui la Moshfegh parla di una quasi trentenne dei primissimi anni Duemila, in sostanza una mia coetanea (perché oggi avrebbe esattamente la mia età). Ma secondo me sta semplicemente proiettando nel passato il punto di vista di una quasi trentenne degli anni Duemilaventi perché è con i trentenni di oggi che la protagonista ha molte più cose in comune.
Voto: 2,5/5
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