In una programmazione cinematografica pre-natalizia di provincia meridionale davvero poco entusiasmante, io e mio nipote F. decidiamo di andare a vedere l’ultimo film di Ferzan Ozpetek. A dire la verità, dopo aver apprezzato e in alcuni casi amato i primi film del regista turco, già da diversi anni ho abbandonato la sua filmografia e ogni qualvolta decido di fare un nuovo tentativo me ne pento più o meno amaramente.
In questo caso, mentre alla prima visione del trailer avevo commentato “Oddio, no, l’ennesimo film di Ozpetek”, dopo aver letto la storia ho pensato che poteva valer la pena riprovarci. E così eccomi al cinema.
Il titolo di questo nuovo film, La dea fortuna, fa riferimento alla divinità a cui è dedicato lo splendido tempio della fortuna di Palestrina, dove lavora una delle protagoniste del film, Annamaria (Jasmine Trinca). La giovane donna si presenta all’improvviso a casa del suo ex Alessandro (un affascinantissimo Edoardo Leo), che ormai condivide da oltre 15 anni casa e vita con Arturo (un bravissimo Stefano Accorsi). Annamaria sta per ricoverarsi in ospedale per degli accertamenti e chiede ai due amici di tenerle per qualche giorno i due figli, Martina (Sara Ciocca) e Alessandro, detto Sandro (Edoardo Brandi).
L’arrivo dei due ragazzini e gli eventi che ne seguono saranno per Alessandro e Arturo, che vivono un momento di profonda stanchezza e crisi nella coppia, l’occasione per rimettersi in discussione, per far emergere i nodi della loro relazione e per comprendere se esiste un futuro per loro.
Il film parte bene, sebbene in una maniera tipicamente ozpetekiana, con una festa di matrimonio sulla terrazza dei due protagonisti, affollata della variegata umanità che è caratteristica dei film del regista. Lo sviluppo narrativo che ne segue non scorre però sempre fluido e credibile, e a momenti emotivamente intensi si alternano altri passaggi caratterizzati da lentezza e meccanicità. Non aiuta il fatto che, a parte i personaggi principali di Alessandro e Arturo, tutti gli altri restano poco approfonditi e trattati in maniera superficiale, e alcuni di questi – non so bene se a livello di sceneggiatura o di recitazione, o di entrambe le cose – risultano poco credibili: penso ad esempio ai due bambini e alla nonna (interpretata da Barbara Alberti).
E così anche se il racconto è ispirato a una storia vera – come viene dichiarato fin dal principio – è impossibile non percepire un che di costruito che suona inevitabilmente falso. In alcuni momenti mi è tornato in mente il film di Valeria Golino, Euforia, e non ho potuto fare a meno di notare il diverso impatto emotivo: entrambi sono film che parlano di vita e di morte, di felicità e di dramma, di sentimenti e di legami forti, ma mentre la Golino riesce a tenerci dentro la storia, in Ozpetek a più riprese abbiamo l’impressione di guardarla dall’esterno.
Non è solo che Ozpetek tende ormai a ripetere sé stesso in maniera quasi autoreferenziale; mi sembra che abbia perso un po’ di smalto e di freschezza nel raccontare le storie, e che venga fuori nei suoi film qualche forma di stanchezza e qualche idiosincrasia propria dell’età che avanza. È proprio vero – e questo vale per moltissimi – che le cose migliori, a livello artistico, lavorativo e creativo, spesso si fanno entro i 40 anni, ed è un peccato che nella nostra società accada sempre più spesso che le persone a quell’età stiano ancora cercando una loro collocazione nel mondo e lottando per sopravvivere, anziché essere in grado di dare il meglio di sé. Ma questa è una digressione e forse poco ha a che fare con Ozpetek.
Resta il fatto che né a me né a mio nipote il film è piaciuto, ma è chiaro che il giudizio non è mai generalizzabile e infatti mentre uscivamo dal cinema c’era accanto a noi una signora che commentava entusiasta dicendo che le era piaciuto moltissimo.
Voto: 2,5/5
venerdì 3 gennaio 2020
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