lunedì 27 gennaio 2020

Jojo Rabbit

Jojo (l'adorabile, oltre che strepitoso, Roman Griffin Davis) è un ragazzino di dieci anni che si appresta a partecipare, insieme al suo amico Yorki (Archie Yates), a un weekend di addestramento per giovani nazisti (la Hitler Jugend). Vestito di tutto punto dell'apposita uniforme, Jojo si prepara ad affrontare questa esperienza chiedendo consiglio al suo amico immaginario, niente di meno che Adolf Hitler in persona (interpretato con grande arguzia dal regista e sceneggiatore Taika Waititi), un Adolf Hitler che oscilla tra il naif e il dispotico, tra l'amorevole e l'opportunista, e che non a caso è il parto della mente di un ragazzino.

La prima mezz'ora del film, che è poi quella ambientata nel campo di addestramento e che ne spiega il titolo (e che a me ha richiamato alla mente lo stralunato campo scout di Moonrise kingdom), è semplicemente perfetta: esilarante e chiassosa, sarcastica e tenera, degna delle migliori parodie sul nazismo che siano state prodotte dal cinema, da The Producers di Mel Brooks a Vogliamo vivere! di Lubitsch.

Dopo questa prima mezz'ora, il film di Waititi - senza per questo abbandonare il registro ironico - vira verso una storia di coming of age in fondo più tradizionale e più al servizio dei buoni sentimenti, sebbene il politicamente scorretto e lo humour nero si affaccino sistematicamente e talvolta imprevedibilmente all'orizzonte del film per tutta la sua durata.

Accade che Jojo, dopo un infortunio dovuto all'esplosione ravvicinata di una granata durante l'addestramento, è costretto a passare più tempo in casa, e qui a poco a poco scopre verità che non sospettava, in particolare la presenza in casa di una ragazza ebrea, Elsa (Thomasin McKenzie), nonché un orientamento familiare tutt'altro che favorevole al regime: sua madre (Scarlett Johansson) è un'attivista anti-hitleriana e suo padre si trova in Italia al fronte, ma ha disertato per unirsi alla Resistenza.

Di fronte a tutto ciò, Jojo si trova a fare i conti da un lato con le convinzioni e le idee che gli sono state inculcate dalla propaganda nazista, dall'altro con l'amore incondizionato per sua madre e l'amicizia che a poco a poco lo lega alla giovane Elsa.

In questa seconda parte, il film vira verso un registro a tratti più melodrammatico in cui però la leggerezza viene ricercata sempre e comunque (depotenziando persino la drammaticità di alcuni momenti chiave) e si posiziona maggiormente dalle parti di pellicole come La vita è bella. Ne viene fuori una favola nera, in cui si percepisce l'autocontenimento esercitato da Taika Waititi rispetto al proprio istinto "fracassone" (come dice il mio amico F.) che mantiene il film in bilico tra satira, commedia e melodramma, ma che forse gli toglie un po' della forza dissacrante da cui origina e che avrebbe potuto sprigionare. Insomma, la mia sensazione è che si avverta la preoccupazione di fondo di Waititi di raggiungere pubblici diversi e di parlare anche linguaggi diversi per non rischiare l'autoghettizzazione nella nicchia. E questo è forse ciò che ha fatto dire a qualcuno che il regista non ha spinto fino in fondo il piede sull'acceleratore e che si è lasciato prendere la mano da un eccesso di buonismo.

Ciò detto, gli attori sono uno più bravo dell'altro (menzione speciale al sempre grandioso Sam Rockwell nella parte di un capitano delle SS stralunato e un po' blasé, ma dall'animo buono), i costumi e le scenografie sono strepitose, si ride a più riprese in modo amaro e liberatorio al contempo, e alla fine si ha solo voglia di uscire all'aperto e di cominciare a ballare.

Voto: 3,5/5


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