In una serata di fine luglio in cui mi sento emotivamente stremata non so se faccio bene a scegliere di andare a vedere questo film di Alonso Ruizpalacios, La Cocina nel suo titolo originale (in Italia divenuto Aragoste a Manhattan), da cui certamente non si esce con l’animo leggero.
Il film di Ruizpalacios è tratto dalla pièce teatrale del 1957 di Arnold Wesker, e tradisce questa origine nella sostanziale unità di tempo e di luogo (la cucina di un ristorante – The Grill - nel centro di New York) e anche nella sceneggiatura, che in alcuni passaggi appare molto più teatrale che cinematografica.
La cucina nella quale è ambientata questa storia è popolata da moltissime persone, i cuochi, i loro aiutanti, e le cameriere, tutti gestiti da un capo-cuoco, a sua volta sotto il controllo di manager che prendono ordini dal proprietario. Gli elementi scatenanti della narrazione sono l’arrivo di due nuove unità di personale, tra cui una cuoca messicana che conosce dall’infanzia uno dei cuochi già operativi e con la testa “più calda”, Pedro (Raúl Briones), e l’apparente sparizione dalla cassa di 800 dollari di incasso, per i quali il proprietario dà incarico al manager di individuare il colpevole tra i dipendenti.
Questi elementi narrativi servono però solo a portare alla luce le dinamiche di un microcosmo in cui si riproduce e si amplifica la lotta di classe che caratterizza la nostra società, nella quale il capitalista – che, non credo a caso, qui si chiama Rashid – sfrutta tutti in funzione del proprio arricchimento personale, non disdegnando forme più o meno becere di populismo, i manager suoi sottoposti si limitano a eseguire gli ordini senza porsi alcun interrogativo etico – e spesso sono immigrati di seconda generazione -, e i lavoratori provengono o da quartieri e classi sociali povere ed emarginate o sono immigrati senza documenti. Tutta la dinamica interna è costruita per scaricare proprio sui lavoratori tutte le tensioni e i conflitti, la cui origine e causa sta certamente altrove, creando anche al loro interno forme di classismo e innescando una guerra tra poveri che danneggia solo loro e non tocca minimamente chi sta sopra di loro.
In questo contesto l’attenzione si concentra in particolare su Pedro, immigrato messicano senza documenti, che ha una storia con Julia (Rooney Mara), una giovane americana con un passato difficile (come scopriremo più avanti). Julia è incinta e dovrà decidere – anche attraverso il confronto con Pedro – cosa fare, nella consapevolezza che gente come loro non ha mai davvero scelta.
Dentro un’azione a tratti convulsa e forsennata, raccontata in uno splendido bianco e nero, si aprono di tanto in tanto squarci di poesia e malinconia, che talvolta si tingono di colore, esasperando, se vogliamo, il senso di alienazione che pervade i protagonisti sullo schermo e anche gli spettatori.
Che il sogno americano sia morto da tempo lo sappiamo ormai per certo. Ma che questo sogno si sia trasformato nell’incubo di questa cucina nel pieno centro della città più iconica degli Stati Uniti forse tendiamo a non volerlo vedere o a far finta di non vederlo, fino a quando le tensioni di quella cucina non invadono anche le sale (e dunque il mondo) dove persone rilassate e felici vivono ignorando volutamente il prezzo della loro serenità oppure, lì dove ne sono consapevoli, con un senso di impotenza.
Insomma, una bella botta.
Voto: 3,5/5
martedì 12 agosto 2025
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