lunedì 2 novembre 2020

Festa del cinema di Roma, 15-25 ottobre 2020 - Terza e ultima parte

(Per la prima parte delle recensioni si veda qui e per la seconda qui)

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Des nos frères blessés

Il film di Hélier Cisterne - come ci racconta lui stesso nella breve intervista che precede la proiezione - è tratto dal romanzo omonimo di Joseph Andras, che a sua volta è basato un saggio che ricostruisce la vicenda di Fernand Iveton.

Iveton (nel film interpretato da Vincent Lacoste) era nato ad Algeri da madre spagnola e padre francese. Seguendo le orme del padre, era entrato giovanissimo nel partito comunista e, solidale con la causa dell'indipendenza algerina e indignato per il trattamento che quotidianamente ricevevano gli arabi in Algeria, si era unito al Fronte di Liberazione Nazionale fino ad accettare di mettere una bomba nella propria stessa fabbrica, bomba però posizionata in un luogo e programmata in modo da non ferire né uccidere nessuno.

La bomba venne però disinnescata prima che esplodesse e lui arrestato e condannato a morte, sentenza eseguita dopo un breve processo in cui le attenuanti del gesto non furono nemmeno prese in considerazione.

Il libro di Andras e di conseguenza il film di Cisterne si concentrano, oltre che sulla vicenda politica di Iveton, anche sulla sua dimensione privata, in particolare sulla sua storia d'amore con la moglie Hélene, incontrata in Francia e poi trasferitasi con lui ad Algeri.

Iveton viene presentato come un uomo mite e idealista, innamorato del paese nel quale vive e dei semplici piaceri della vita. Hélene è invece una donna semplice, ma fiera e combattiva che sostiene Fernand fino alla fine.

Il film di Cisterne rende piuttosto bene il clima che viveva l'Algeria in quegli anni e l'atteggiamento delle istituzioni francesi e anche del popolo francese nei confronti del desiderio di autodeterminazione del popolo algerino, che fu osteggiato con tutti i metodi leciti e anche illeciti.

Des nos frères blessés, così come il romanzo da cui è tratto, è un atto pubblico di ammenda che la coscienza nazionale francese doveva fare nei confronti di Iveton e in generale di un periodo oscuro e in buona parte rimosso della storia nazionale.

Cinematograficamente il film è ben fatto, ma devo dire che nonostante i forti elementi di drammaticità e la componente sentimentale che lo caratterizzano su di me non è riuscito a innescare un processo empatico forte. E dunque la visione è rimasta per me un po' piatta.

Voto:3/5



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Under the open sky

Il signor Mishima ha scontato 13 anni di carcere per l'omicidio di un uomo durante un regolamento di conti tra bande affiliate alla yakuza, la mafia giapponese.

All'uscita dal carcere, Mishima è ben intenzionato a rigare dritto e a non tornare in galera, trovando un lavoro e un alloggio. Però i pregiudizi del mondo esterno e le regole che governano la società civile rendono il compito di Mishima particolarmente arduo, anche perché nel frattempo la stessa yakuza ha perso parte della sua aura e del potere che aveva in passato e il suo codice interno di condotta è ormai superato da una spinta sempre più individualista nella società.

In questo percorso Mishima incrocerà alcune persone tra cui un giovane scrittore e regista che intende girare un film su di lui, una coppia che si rende disponibile per il reinserimento degli ex detenuti e il responsabile di un supermercato tutto sommato di buon cuore.

Di fronte a un uomo di buoni principi ma abituato a risolvere tutto con la violenza e incapace di gestire la sua rabbia soprattutto di fronte alle ingiustizie queste persone a poco a poco ne apprezzeranno gli sforzi di reinserimento, diventando i suoi migliori amici.

Mishima dovrà imparare a pensare solo a sé stesso per ritrovare un posto nel mondo, ma questo modo di essere sarà per lui una costrizione quasi peggiore del carcere.

Under the open sky è una riflessione abbastanza spietata su una società giapponese in cui sull'individuo gravano responsabilità enormi e in cui le politiche sociali si basano su un conformismo senza correttivi e profondamente viziato da varie forme di ipocrisia.

Voto: 3/5



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Kajillionnaire - La truffa è di famiglia!

Sabato mattina andiamo all'auditorium per la cerimonia di premiazione di "Alice nella città", la rassegna parallela che si svolge ogni anno in concomitanza con la festa del cinema di Roma.

Tra premi e menzioni speciali connessi alla rassegna se ne va quasi un'ora prima di sapere che il vincitore assoluto di Alice nella città è il film di Miranda July Kajillionaire, cui si affiancano Ibrahim, vincitore del premio Camera d'Oro (la recensione a seguire) e Il mio corpo, vincitore del premio Raffaella Fioretti.

Miranda July è la regista di Me and you and everyone we know, film che era diventato un vero e proprio caso quando uscì circa 15 anni fa, in quanto massima rappresentazione di quello che si definisce cinema indie.

Con Kajillionaire la July mantiene lo stesso stile narrativo ma si avvale di un cast hollywoodiano, con Richard Jenkins e Debra Winger a interpretare i genitori borderline e anaffettivi di Evan Rachel Wood.

I due sono due truffatori incalliti, che abitano insieme alla loro figlia in un ex ufficio dove in alcuni momenti della giornata una parete viene invasa dalla schiuma rosa della vicina fabbrica.

Le loro truffe, a cui hanno educato anche la figlia, sono di basso profilo e permettono loro a malapena di sopravvivere, al punto che sono in difficoltà con il pagamento dell'affitto dell'ufficio dove vivono. La loro figlia si chiama Old Dolio come un barbone che aveva vinto alla lotteria e che loro speravano invano, dando il suo nome alla figlia, lasciasse a lei una parte della vincita.

Questo nucleo familiare vive in maniera totalmente autoreferenziale dentro un sistema di regole e di convincimenti totalmente irrazionali, ma di cui loro sono assolutamente convinti. Fino a quando, durante un assurdo viaggio di andata e ritorno a New York finalizzato a mettere in atto una delle loro truffe, conoscono una ragazza di origine portoricana, Melanie, che resta affascinata da questa famiglia totalmente fuori dagli schemi e si propone di aiutarli nelle loro truffe.

L'arrivo di Melanie farà saltare gli equilibri della famiglia e soprattutto romperà l'universo di convinzioni e l'accettazione partecipe di Old Dolio rispetto ai suoi genitori, facendole scoprire la possibilità di un'affettività ch'ella riteneva impensabile o non necessaria.

In un certo senso il tema di Kajillionaire è molto simile a quello di Kynodontas di Lanthimos, ossia i meccanismi perversi e tossici che possono costruirsi e alimentarsi all'interno dei nuclei familiari, ma questo tema viene qui virato non in chiave drammatica, bensì in chiave grottesca e di commedia.

Nel film di Miranda July se la famiglia protagonista è anomala e disfunzionale in maniera esplicita ed evidente, le altre famiglie sebbene in modo meno palese non sono da meno, ognuna con le proprie idiosincrasie e i suoi orrori.

Come in Kynodontas è un soggetto esterno, per quanto a sua volta disfunzionale, a innescare il processo di rottura dei morbosi legami familiari e a sancire l'affrancamento della figlia, la scoperta della propria identità e la scelta della propria strada.

Non esattamente il genere di film che preferisco in assoluto, ma un film godibile e per niente superficiale nonostante l'apparenza.

Voto: 3/5



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Supernova

Tusker (Stanley Tucci) e Sam (Colin Firth) sono una coppia di vecchia data. Sam è un pianista e Tusker uno scrittore. Purtroppo quest'ultimo ha una demenza precoce e così, con la scusa di un concerto in cui Sam dovrà esibirsi, i due partono con il loro vecchio camper per un viaggio on the road che si trasforma presto in un amarcord. La prima sosta è al lago dove si sono incontrati, la seconda a casa di amici dove è stata organizzata per loro una festa a sorpresa, la terza in un bellissimo casale nella campagna inglese, dove però arriva per i due il momento di affrontare una scelta difficile.

Supernova affronta un tema non nuovo (mi ha fatto pensare a In viaggio contromano di Zadoorian) senza cedere al lacrimevole, anche grazie alle schermaglie tenere e divertenti tra i due protagonisti. Non viene però taciuto l'impatto che una situazione del genere ha sulla vita di una coppia: Tusker non accetta l'idea di non poter controllare la sua vita futura e di perdere la consapevolezza di sé, Sam è spaventato dalla responsabilità di occuparsi del suo compagno e anche sovrastato dal dolore di perdere colui che si capisce essere stato il suo punto di riferimento per tanto tempo.

Il film di Harry Mcqueen è delicato nell'inserirsi nelle dinamiche interne di questa coppia, ma personalmente l'ho trovato emotivamente poco coinvolgente. Vero è che quella di Tusker e Sam è una coppia di lunga data e tra loro c'è più tenerezza che passione, ma personalmente ho avuto la sensazione che la chimica e l'interazione tra Stanley Tucci e Colin Firth non abbiano funzionato perfettamente. Firth è molto bravo nel rappresentare un uomo fragile e indifeso di fronte alla malattia del compagno, Tucci resta un po' distaccato, fors'anche per scelta, al punto che il rapporto tra i due sembra più quello tra due camarades che quello tra due amanti.

La scelta del regista è sicuramente quella di affrontare temi importanti e forti, come la malattia, l'amore tra due uomini, il fine vita spegnendo i toni e sottraendo il melodramma, per far emergere in purezza la dignità e l'umanità dei due protagonisti.

Forse però proprio questa scelta, pure apprezzabile, ha fatto sì che il film mi arrivasse solo in parte e non si imprimesse profondamente nei miei occhi e nel mio cuore.

Voto: 3/5



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Ibrahim

Ibrahim (Abdel Bendaher) è un adolescente di origine araba che vive a Parigi insieme al padre, Ahmed (Samir Guesmi, anche regista del film) che lavora come cameriere in una brasserie del centro.

Il rapporto tra Ibrahim e Ahmed non è facile, anche perché entrambi sono avari di parole, e la percezione dei sentimenti reciproci sono interamente affidati all'intuito e all'intelligenza individuale.

Ibrahim però deve fare i conti con la confusione tipica dell'adolescenza, l'insicurezza individuale e sociale e la fatica di costruire la propria identità nel mondo. Ahmed d'altro canto porta le ferite di un passato doloroso e degli errori che ha fatto e che a tutti i costi vuole evitare che suo figlio ripeta, senza però rendersi conto che senza dialogo fraintendimenti e deviazioni sono inevitabili.

Entrambi appartengono a un'umanità che, pur inserita nella società francese, vive ai suoi margini e si sente spinta verso un'ulteriore marginalizzazione da un sistema che certo non li aiuta a integrarsi pienamente.

È così che Ibrahim, un ragazzo di sani principi e di buoni sentimenti, finisce per trovarsi all'interno di un circolo vizioso che rischia di portarlo in una direzione pericolosa. I silenzi del padre e i suoi rimproveri pieni di affetto sono male interpretati da Ibrahim, creando una distanza tra i due. Sarà l'incontro con una ragazza senza pregiudizi e dalla forte personalità a restituire a Ibrahim la fiducia in sé stesso e a spingerlo al chiarimento con suo padre. Dedicato al vero Ahmed, padre del regista che lo interpreta nel film quasi come a chiudere il cerchio e a fare pace con il proprio passato e le proprie origini.

Voto: 3,5/5

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