Il mio sacro fuoco per il cinema – che in questo periodo è particolarmente ravvivato dal fatto di averne dovuto fare a meno per parecchi mesi – mi spinge in sala a vedere questo film di Lanthimos senza prendere nessuna informazione preventiva.
Solo il giorno stesso della visione mi accorgo che si tratta di un film che ha più di dieci anni, l’opera seconda di Lanthimos, con cui il regista greco conquistò il premio Un certain regard del Festival di Cannes imponendosi all’attenzione della scena cinematografica. Solo dopo sarebbero arrivati i successi di The lobster e de La favorita, ma credo che in assenza della visione di questi primi film non si capisce adeguatamente la poetica di questo autore e del suo fedele sceneggiatore Efthymis Filippou (che lavora anche con Babis Makridis). Comincio infatti a pensare di andare a vedere anche Alps, che in questa operazione di recupero che alcuni distributori stanno facendo è anch’esso in sala in questo periodo.
Dogtooth – come abbiamo poi imparato meglio con The lobster – è un racconto dalle marcate caratteristiche grottesche e surreali, i cui sviluppi prendono una piega disturbante e violenta in termini psicologici, ma non solo.
Siamo in una campagna presumibilmente poco fuori una città greca (Atene?) negli anni Settanta: in una grande villa con giardino vive una famiglia composta di padre, madre e tre figli praticamente adulti, un ragazzo e due ragazze. L’unico componente della famiglia autorizzato a uscire dai confini della villa è il padre che fa il manager in una fabbrica; tutti gli altri componenti della famiglia vivono totalmente in questo mondo chiuso e autoreferenziale, in cui la madre appare parzialmente consapevole della scelta ma totalmente sottomessa al marito e i figli sono stati cresciuti nella totale ignoranza e paura del mondo esterno. A loro è stato raccontato che avventurarsi fuori dai confini del giardino prima che gli cada il canino (dente permanente per eccellenza) sarebbe fortemente rischioso, e nel frattempo in casa vengono istruiti e intrattenuti dai genitori con lezioni e giochi che contribuiscono alla loro visione distorta della realtà: a loro viene fatto pensare che gli aerei che volano sopra le loro teste sono giocattoli che ogni tanto cadono in giardino, che i gatti sono creature selvagge e pericolose, e molti oggetti comuni sono identificati con parole di significato non corrispondente (per esempio gli zombie sono dei fiori gialli che crescono in giardino).
L’unico elemento esterno con cui i figli vengono in contatto è Christina, la giovane guardia della sicurezza della fabbrica dove lavora il padre, che quest’ultimo paga per soddisfare le necessità sessuali del figlio e che dunque di tanto in tanto accompagna con gli occhi bendati a casa. E sarà proprio Christina a far saltare gli equilibri di questo mondo autoreferenziale innescando una catena di reazioni dagli esiti non scontati.
Perché tutto questo? Lanthimos e Filippou non ce lo spiegano mai veramente. Si accenna di sfuggita a un certo punto a un quarto figlio che si sarebbe avventurato fuori dai confini della villa, ma non sappiamo se le scelte familiari siano collegate a questo.
È evidente che l’intento del regista e dello sceneggiatore è quello di rappresentare una situazione limite per portare all’evidenza le storture che un mondo chiuso, autoreferenziale e fondato sulla paura e sull’ignoranza può portare con sé e gli effetti devastanti sul piano psicologico che determina sulle persone.
La famiglia è certamente il primo luogo nel quale si possono innescare queste dinamiche, ma in Dogtooth il bersaglio ultimo non è tanto la famiglia, quanto la comunità statuale lì dove essa assuma caratteri dittatoriali, manipolando gli individui e condizionando profondamente la loro capacità di autodeterminazione e di libero arbitrio.
In questo caso il finale è aperto e potrà essere interpretato differentemente da ottimisti e pessimisti, ma non è questa la cosa più importante. È quanto accade prima che merita la riflessione più attenta e Lanthimos ce la sbatte in faccia facendoci ridere nervosamente (vedi il ballo dionisiaco della figlia maggiore in cui riconosceremo la coreografia di Flashdance) ovvero disgustandoci di fronte all’assurdità degli esiti di questa scelta.
Seppur lontamente il film mi ha fatto pensare a Wolfpack, un documentario che raccontava la vicenda dei fratelli Angulo, anch’essi tenuti rinchiusi in casa dal padre con il cinema come unico intrattenimento e unico strumento di conoscenza del mondo esterno. Curiosamente, anche in Dogtooth proprio il cinema – nella forma di due videocassette introdotte in casa da Christina (Rocky e Lo squalo) – avrà un ruolo determinante nella ribellione della figlia maggiore.
Voto: 3,5/5
martedì 15 settembre 2020
Dogtooth = Kynodontas
Etichette:
Alps,
cinema,
Dogtooth,
Efthymis Filippou,
Kynodontas,
Yorgos Lanthimos
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Per me, nonostante ami tutti i film successivi, rimane ancora oggi il più interessante e affascinante dei film di Lanthimos.
RispondiEliminaAccade spesso che i primi lavori dei grandi autori siano i migliori e i più originali!
EliminaE' un film di undici anni fa, ovvero gli anni della grande crisi economica greca, quando la troika europea in pratica commissariò il paese ellenico costringendo la popolazione a sacrifici enormi. E certo non è una coincidenza che i primi film di Lanthimos parlino di incubi ("Alps", il successivo, è ancora più esplicito e disturbante di questo). Sono gli incubi di un paese in ginocchio, che vedeva spettri ovunque e guardava in cagnesco qualsiasi cosa che arrivava da oltreconfine, da "fuori". Un po' come la crisi degli anni '20, post-guerra, affondò la Germania e nacque l'espressionismo tedesco (Murnau, Lang, ecc.). Credo sia impossibile giudicare questo film (che mi è piaciuto molto) senza inquadrarlo nel contesto storico in cui è stato realizzato.
RispondiEliminaKris, hai perfettamente ragione. Grazie di queste puntualizzazioni utilissime a inquadrare meglio il film!
Elimina