Come ci comunica già il titolo del film, siamo a Ebbing in Missouri, un paesino piccolissimo nel cuore degli Stati Uniti, immerso in una natura maestosa fatta di montagne, foreste e corsi d’acqua, ma umanamente e socialmente desolato. Siamo infatti nella più profonda provincia americana, dove la gente sa tutto di tutti (Floridi direbbe che non esiste “frizione informazionale”) e i rapporti umani sono condizionati da frustrazioni individuali, pregiudizi, grettezza mentale e l’abitudine inveterata a rispondere alla violenza con la violenza. In questo paesino, in cui la vita trascorre incolore tra famiglia, lavoro e i pub dove si beve birra e si gioca a biliardo, è avvenuto un orribile delitto: una ragazzina è stata stuprata e uccisa.
Sua madre, Mildred (Frances McDormand), non si dà pace e convive con un senso di colpa inestinguibile. Il silenzio delle indagini la convince ad affittare lo spazio pubblicitario sui tre vetusti cartelloni che campeggiano sulla strada dove è avvenuto l’omicidio per denunciare l’inattività della polizia locale, capeggiata dallo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson), un uomo buono e stimato che sa che gli resta poco da vivere.
Da questa premessa si innesca una catena di eventi che - come in un domino - muove le fila delle vicende della cittadina e dei destini individuali, rivelando strati di umanità nascosti tra le pieghe di una società a suo modo tribale.
La cosa veramente interessante di questo film sta nel suo impianto. Come è stato già detto da molti, il regista Martin McDonagh non punta propriamente a una rappresentazione realistica, bensì costruisce la vicenda come una specie di tragedia classica, in cui i personaggi sono per certi versi stereotipati e/o estremizzati, mentre per altri sono profondamente umani e riconoscibili.
La moltiplicazione e la mescolanza dei registri sono lo strumento primario che il regista (che è anche lo sceneggiatore del film) utilizza per ottenere il risultato di un film spiazzante che risucchia emotivamente lo spettatore, ma al contempo lo allontana per effetto della risata amara che gli induce ovvero della presenza di personaggi al limite del grottesco. Alla tragedia dunque si mescola la commedia nera, che a più riprese fa capolino o addirittura prende la scena grazie a inserti ironici che allentano la tensione ma al contempo destabilizzano.
Il risultato è un film che si muove tra generi cinematografici diversi e che spazia attraverso stili comunicativi che vanno dalla tragedia greca a Shakespeare (non a caso citato), da Oscar Wilde (citato anche lui in un momento cruciale del film) ai fratelli Coen, fino a Tarantino e chissà a quanti altri.
Un film che tratta temi forti - il dolore, la colpa, la violenza, la solitudine, la riconciliazione - in modo decisamente non convenzionale e che impedisce allo spettatore di prendere le parti, perché anche i personaggi apparentemente più gretti e laidi sono capaci di gesti ricchi di umanità e anche le reazioni più abiette talvolta ci vedono partecipi in un tifo quasi istintivo.
È un genere di film con cui personalmente faccio fatica a risuonare emotivamente; lì per lì uscendo dal cinema ero infatti abbastanza perplessa. È poi solo grazie a un salto diciamo così “razionale” che riesco a fare mio lo spirito del film ed entrarci in sintonia. Ma questo credo sia un problema tutto mio.
Voto: 3,5/5
lunedì 22 gennaio 2018
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io non sono poi molto attratta da questo genere di film ammetto... però ha buone potenzialità se si parla dell'attrice protagonista, di un talento unico
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