Al centro di questo racconto c'è una donna, Sandra (una credibile Léa Seydoux), che si divide tra il lavoro (fa la traduttrice, anche simultanea), la figlia (di una decina di anni), e il padre Georg (Pascal Greggory), ex professore di filosofia, a cui è stata diagnosticata la Sindrome di Benson, una malattia neurodegenerativa che lo sta rendendo non autonomo e sempre più confuso. Intorno a lei ruotano la sorella, insieme alla quale si occupa del padre, la madre - con cui il padre è separato da tanto tempo -, Leila, la nuova compagna del padre, la bisnonna ancora in discreta salute.
Un giorno al parco, Sandra incontra Clément (Melvil Poupaud), un amico che è stato via a lungo per lavoro, e tra i due scocca la scintilla dell'attrazione e inizia una storia d'amore. Clément però è sposato e ha un figlio, quindi la storia attraversa tutte le fasi tipiche dei rapporti clandestini.
Sandra si trova da un lato a fare i conti con l'impatto psicologico e pratico della malattia del padre, insieme alla necessità di trasferirlo in una struttura di cura e di svuotare la casa dei suoi tantissimi libri, dall'altro a vivere la felicità incontenibile dell'amore ritrovato dopo la morte del marito, ma anche la sofferenza degli inevitabili allontanamenti di Clément, oltre al rapporto con una figlia che sta crescendo e che diventa portatrice di esigenze e domande sempre più complesse.
Come nel precedente L'avenir, Mia Hansen-Løve sceglie uno stile sommesso, quasi sussurrato. C'è tutto in questo film: c'è il dolore, la paura, la speranza, l'empatia, la sofferenza, la gioia, la preoccupazione, l'amore, e tutti questi sentimenti sono intrecciati e talvolta sovrapposti nelle stesse giornate e nella stessa persona.
La regista scava e legge nelle pieghe dell'esistenza senza la presunzione di tirarne fuori delle grandi verità o insegnamenti, ma 'semplicemente' descrivendo le contraddizioni della vita, e interrogandosi - ancora una volta - sul senso della nostra esistenza, o forse sull'assenza di un senso che vada al di là dei cicli infinitamente ripetuti di esistenze individuali e delle emozioni con cui ognuno di noi la riempie.
Il titolo Un beau matin non è soltanto una citazione da Prévert - come qualcuno ha fatto notare - ma anche il titolo di un racconto che il padre della Hansen-Løve ha scritto per parlare della sua malattia, di cui alcuni passi entrano nella sceneggiatura del film.
Non c'è niente di strumentalmente melodrammatico in questo film, e però una intensità e una verità che è difficile trovare in altri film su temi analoghi. Quello di Sandra è un personaggio femminile di una tridimensionalità sorprendente: una donna che affronta con razionalità e senso pratico i problemi che molte di noi si trovano a vivere, ma non si difende dalle emozioni di fronte allo 'svanire' del padre - che lascia dietro di sé solo migliaia di libri - e al comparire imprevisto di un amore.
Con la canzone Love will remain di Bill Fay che parte sull'ultimo fotogramma del film, la Hansen-Løve sembra volerci indicare una possibile risposta, ma forse anche questa è una risposta persino eccessiva per un film che in fondo fa del relativismo e della sobrietà emotiva la sua bandiera.
Voto: 3,5/5
Nessun commento:
Posta un commento
Lascia qui un tuo commento... Se non hai un account Google o non sei iscritto al blog, lascialo come Anonimo (e se vuoi metti il tuo nome)!