Con questo film Stéphane Brizé porta a compimento la sua trilogia dedicata ai meccanismi perversi del turbocapitalismo finanziario. Purtroppo non ho visto i primi due, La legge del mercato e In guerra (che conto di recuperare prossimamente), ma la visione di Un autre monde è stata sufficiente a farmi apprezzare stile e poetica del regista francese.
Protagonista del film è Philippe Lemesle (un poderoso Vincent Lindon), dirigente di una delle filiali francesi di una multinazionale americana che produce elettrodomestici. Mentre l'azienda gli chiede di prevedere l'ennesimo piano di tagli al personale e ai costi, Philippe deve fare i conti con il divorzio dalla moglie (Sandrine Kiberlain) e il tracollo nervoso di suo figlio, che frequenta l'ultimo anno di una business school.
L'insieme di queste vicende costringe il protagonista a interrogarsi sul proprio lavoro e su quanto in là è disposto a spingersi.
La forza del film di Brizé consiste nella scelta del punto di vista. In questo caso infatti il protagonista non è un precario o un operaio o altre figure assimilabili, cioè coloro che normalmente sono considerati gli anelli più deboli della catena e che non a caso sono normalmente prescelti nei drammi sociali di registi quali Ken Loach, bensì un quadro, un dirigente ben pagato e apparentemente in una situazione di forza.
Scopo del regista è portare all'evidenza il fatto che in un sistema turbocapitalistico nessuno - a qualunque livello del sistema si collochi - è realmente libero e tutti sono intrappolati e resi fragili da un meccanismo di ricatti, in cui l'unico vero "padrone" sono i mercati finanziari e le esigenze degli azionisti. È chiaro altresì che, all'interno di questo meccanismo che ingabbia tutti, non tutti sono uguali, perché c'è chi asseconda il sistema senza porsi domande preservando solo sé stesso, e chi non può fare a meno di interrogarsi e di fare i conti con la propria coscienza. Philippe è uno di questi: di fronte al fallimento della sua vita personale, non può non chiedersi che ruolo ha il lavoro, così come non può far finta di non rendersi conto della disumanità e della insensatezza di alcune scelte aziendali. Proverà a suo modo a individuare una strada che sia gradita ai vertici aziendali e che preservi il lavoro dei lavoratori della filiale, ma finirà per scontrarsi contro un Leviatano che fa molta più paura di quello hobbesiano.
Sono anni ormai che sono convinta che qualunque discorso su un futuro più equo, ecologico e sostenibile non abbia senso senza considerare il ruolo pervasivo che i mercati finanziari hanno nell'economia contemporanea. Un'economia fondata non sul lavoro, ma sulla scommessa, crea storture infinite e inquina i nostri modi di vivere e di convivere. Ci si potrebbe augurare che questa bomba a orologeria esploda e collassi su sé stessa come un buco nero, ma in realtà già sappiamo per esperienza che i mercati finanziari hanno la straordinaria capacità di scaricare i costi dei fallimenti su alcune parti della società e di rinascere dalle proprie ceneri ancora più aggressivi e deregolamentati. Riguardo al perché non si muova un dito per mettere delle regole a questo sistema credo che ognuno possa provare a dare una risposta. Brizé non si spinge così in là e si "limita" a denunciare lo stato delle cose, che ovviamente non è affatto scontato né secondario, visto che questo dibattito è colpevolmente - e forse anche comprensibilmente se si pensa alle risposte di cui sopra - assente dal nostro vivere sociale.
Da questo punto di vista continuo a essere piacevolmente sorpresa dal fatto che i registi francesi sono forse ormai tra i pochi capaci di guardare al di là del proprio ombelico e di affrontare temi di respiro molto più ampio, dalla politica all'economia, dall'ambiente alle dinamiche sociali, e di farlo in maniera lucida e diretta.
Un film da vedere.
Voto: 4/5
Concordo in pieno con la tua recensione, specialmente sull'ultimo capoverso: purtroppo ormai se vogliamo vedere un film sul mondo del lavoro dobbiamo andare in Francia (a parte ovviamente l'eterno Ken Loach). Ho visto questo film alla Mostra di Venezia, dove sullo stesso tema c'era, guardacaso, un'altra pellicola francese (A plain temps). Italia non pervenuta. E pensare che uscendo dalla sala molti critici di casa nostra mugugnavano "è sempre il solito film sullo sfruttamento del lavoro, niente di nuovo...". Mah, secondo me è vero il contrario: di questi film non se fanno troppi, ma sempre troppo pochi.
RispondiEliminaCiao Kris! Che dire? Sono totalmente d'accordo con te. Siamo ormai talmente assuefatti a questo modello economico e sociale che non vogliamo neppure più sentire parlare delle sue storture...
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