mercoledì 5 novembre 2025

Festa del cinema di Roma, 15-26 ottobre 2025 (Seconda parte)

Leggi anche la prima parte delle recensioni della Festa del cinema.

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Anatomia de un istante = Anatomia di un istante

La combinazione di una sceneggiatura che viene direttamente dal bellissimo libro di Javier Cercas (letto e amato a suo tempo) e della regia di Alberto Rodríguez (già apprezzato nei suoi lavori precedenti) mi convince immediatamente ad affrontare le tre ore di proiezione della miniserie Anatomia de un istante, che – in maniera molto rispettosa della struttura del libro – racconta la storia del tentativo di golpe spagnolo del febbraio 1981 attraverso il punto di vista di alcuni dei suoi principali protagonisti, in particolare Adolfo Suárez, presidente del consiglio dimissionario, colui che aveva traghettato la Spagna dalla dittatura alla democrazia dopo la morte di Franco, il generale Manuel Gutièrrez Mellado, vicepresidente del Consiglio e figura chiave per i rapporti del governo democratico con la parte militare del paese, e Santiago Carrillo, capo del partito comunista spagnolo vissuto a lungo in esilio e tornato in patria dopo la legalizzazione del partito.

La regia di Rodríguez è pulita e lineare, senza essere noiosa e didascalica: c’è un che di classico nella narrazione per immagini realizzata dal regista, ma con diversi twist di montaggio che le conferiscono un’allure molto contemporanea. Rodríguez e il suo sceneggiatore riescono a rendere comprensibile una storia piuttosto complessa e narrata in parte in maniera ricorsiva, in parte in modo lineare, in parte andando avanti e indietro nel tempo. Non so se perché già ne conoscevo i contenuti, personalmente non ho fatto fatica a seguirne tutti i passaggi.

La serie si sforza anche di mantenere la tridimensionalità dei suoi protagonisti e di non ridurli a macchiette, in positivo o in negativo, facendo emergere invece le contraddizioni dei processi e delle persone, e i percorsi non scontati e ben poco ideologici dei cambiamenti.

Da questo punto di vista, devo dire che la serie mi ha trasmesso di meno del libro, molto efficace – parlando di questa storia specifica – anche nel parlare della politica, un concetto che nel tempo abbiamo completamente perso di vista a vantaggio delle battaglie da social.

Comunque un gran prodotto che merita di essere visto da molta gente.

3,5/5



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Palestine 36

Avendo visto da poco il film della regista palestinese-americana Cherien Dabis Tutto quello che resta di te, che racconta tre generazioni di una famiglia palestinese dal 1948, ho scelto di vedere Palestine 36 in quanto racconta quello che accadde a questa terra (e al popolo che la abitava) a partire dal 1936 e lo fa in particolare attraverso la figura di Yusuf, un giovane che si divide tra la vita in città, a servizio degli inglesi sotto il cui protettorato si trovava la Palestina, e quella nel suo villaggio. Yusuf, e insieme a lui gli altri personaggi che animano questo racconto, diventano i testimoni della crescente immigrazione di ebrei sulla loro terra e delle politiche e decisioni via via sempre più favorevoli a questi ultimi da parte dei britannici, a svantaggio dei palestinesi.

Da qui l’inizio della rivolta armata di palestinesi che prima erano operai e abitanti pacifici di questi territori ma che finirono per imbracciare le armi a difesa della loro vita e delle loro case.

Come già avevo osservato al termine del film Tutto quello che resta di te, è giusto che – dopo tanta narrazione di matrice ebraica sulle vicende del loro popolo e sul rapporto con la Palestina – anche i palestinesi comincino a raccontare la propria versione dei fatti, a mettere in sequenza gli eventi e a proporre la propria narrazione.

Quindi ben vengano finalmente questi film che ci permettono di essere meno ignoranti e di avere più elementi di conoscenza, ma anche di sviluppare delle curiosità in più.

Però, dal mio punto di vista si tratta di prodotti non eccelsi dal punto di vista della qualità cinematografica, film ben fatti sicuramente, e anche ben recitati grazie alla presenza di attori navigati (il solito Saleh Bakri in questo caso), che però risultano dal mio punto di vista un po’ standardizzati. D'altra parte è comunque da qui che i registi palestinesi inevitabilmente debbono partire.

Voto: 2,5/5



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Rental family - Nelle vite degli altri


Il film Rental family mi ha riportato immediatamente alla mente il documentario Family Romance, Llc. di Werner Herzog che avevo visto al Detour (sigh!!) e che per la prima volta mi aveva fatto conoscere questo business tutto giapponese di società che mettono a disposizione attori per impersonare una figura o un ruolo richiesto dal cliente. Tra l’altro, come in quel film, anche in questo una delle storie centrali è quella di un finto padre che viene fatto conoscere a una ragazzina che vive con la sola madre.

In questo caso si aggiunge l’aspetto della relazione tra culture diverse visto che al centro della narrazione di Rental family c’è un americano (Brendan Fraser), un attore che vive in Giappone da quando ha girato alcune pubblicità per il mercato giapponese. Visto che il lavoro scarseggia, Philip decide di accettare l’offerta di una di queste società che noleggiano persone per interpretare dei ruoli nelle vite degli altri.

A quel punto Philip si trova a fare i conti con i sentimenti delle persone nelle cui vite viene catapultato e con la propria coscienza occidentale che fa fatica ad accettare questo approccio. La regista Hikari, giapponese di nascita e formazione ma trapiantata ormai negli Stati Uniti da molti anni, sembra voler guardare alla sua cultura di origine con gli occhi nuovi di chi è andato via, e in qualche modo punta a produrre una sintesi nuova tra le sue radici e i nuovi apporti culturali.

Niente di particolarmente originale, ma una di quelle commedie di buoni sentimenti fatte con quel tocco leggero e profondo che solo i giapponesi riescono ad avere.

Voto: 3/5



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Good boy

Che Jan Komasa sia uno dei nuovi, emergenti talenti della cinematografia mondiale lo si era capito già con Corpus Christi. Grazie anche al successo di quel film, Komasa può tornare al cinema con un'opera ancora più ambiziosa, che può contare su una produzione importante e un cast di alto livello.

Dopo una notte di eccessi, traboccante di alcol, droghe e sesso, Tommy (Anson Boon), un ragazzo diciannovenne, si ritrova rinchiuso e legato a una catena nella cantina di una famiglia all'apparenza perbene (padre, madre e un figlio di 12-13 anni).

Ben presto si rende conto che l'obiettivo della famiglia che lo ha sequestrato è quello di rieducarlo e di trasformarlo in un good boy, con le buone e con le cattive.

La figura inquietante e manipolatrice di questa famiglia è la madre (la bravissima Andrea Riseborough), cui il marito (Stephen Graham)
e il figlio sono in qualche modo sottomessi. Nel passato di questa famiglia sembra esserci stato un altro figlio la cui storia rimane volutamente ambigua, né ci vengono date ulteriori informazioni man mano che il coinvolgimento di Tommy nella routine familiare cresce e dopo che in questa dinamica entra anche la ragazza straniera, ex prostituta, che fa le pulizie nella casa.

Il film di Komasa sta sospeso tra diversi generi così come molti sono i temi che si fanno largo nella sua narrazione. Un po' Lanthimos un po' Fratelli d'innocenzo (in particolare mi ha ricordato il film America Latina) Komasa attira lo spettatore in una vera e propria trappola morale, lo chiama a scegliere da che parte stare e, nei meandri di un inquietante tono grottesco e di un'inattesa tenerezza, lo spiazza e lo disorienta, lasciandolo senza risposte preconfezionate.

Un'altra grande prova di un regista che è ormai una realtà consolidata.

Voto: 4/5




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