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A sad and beautiful world
Il regista libanese Cyril Aris, classe 1987, ci propone una storia d’amore dall’impianto piuttosto classico: Nino (Hassan Akil) e Yasmina (Mounia Akl) nascono lo stesso giorno a pochi minuti di distanza l'uno dall'altro, in una Beirut che è attraversata dalla guerra civile e che già vive sotto i bombardamenti. Il loro è un destino segnato: frequentano la scuola insieme, diventano amici e “fidanzati”, si fanno delle promesse, ma a seguito della separazione dei suoi genitori, Yasmina è costretta a seguire la madre e ad allontanarsi dal padre e da Nino. Si rincontrano da adulti a causa di un incidente. Nel frattempo Nino ha aperto un ristorante in cui rivisita la cucina libanese in un’ottica internazionale, Yasmina è una donna in carriera. Torneranno insieme, faranno una figlia, ma la loro vita oscillerà sempre tra momenti di felicità e leggerezza – anche grazie al carattere giocoso di Nino – e momenti di difficoltà e paura per il futuro.
Il film di Aris si presenta formalmente ineccepibile (molto bella la fotografia e i due attori bravi e magnetici), ma piuttosto convenzionale nello sviluppo narrativo e anche sostanzialmente prevedibile. È evidente però che Nino e Yasmina sono per il regista soltanto l’occasione di parlare del Libano e nello specifico di Beirut, che è il vero oggetto d’amore di questa storia.
Avevo da poco letto il graphic novel Un’educazione orientale, anch’esso incentrato sulla città di Beirut, e in A sad and beautiful world ho ritrovato lo stesso afflato, un rapporto viscerale con la città, che spesso è anche la causa dei conflitti familiari – come nel caso di Nino e Yasmina - tra chi manifesta un attaccamento che va al di là dei conflitti, della situazione economica, delle distruzioni, e chi invece non ce la fa più e vorrebbe andare via, pur con la morte nel cuore.
Non un film memorabile, ma che in qualche modo ci aiuta a entrare nel vissuto e nei sentimenti contraddittori dei libanesi che anelano semplicemente a una vita normale.
Voto: 3/5
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Memory
Presentato a Venezia nell’ambito delle Giornate degli autori, il film Memory della regista ucraina Vladena Sandu attinge alla propria autobiografia e ai propri ricordi per raccontare la storia di una bambina la cui esistenza è divisa tra la terra di nascita, la Crimea, allora facente parte dell’URSS, e quella dove ha vissuto parte della propria infanzia e adolescenza, ossia la Cecenia.
La scelta della regista è quella di mescolare un approccio propriamente documentaristico, che utilizza materiale fotografico e audiovisivo proveniente dal suo archivio personale e da quello della sua famiglia, con un girato di finzione che ha come protagonista un’attrice bambina. La narrazione è realizzata, oltre che dalle immagini che scorrono sullo schermo, dal voice over della stessa regista che racconta e, in un certo senso, spiega le immagini che vediamo passare sullo schermo.
Ne viene fuori un interessante pastiche di generi, che a tratti sconfina in vera e propria installazione multimediale, in alcuni casi sorprendente, in altri casi spiazzante. Attraverso questa scelta piuttosto originale, attraversiamo la storia di territori che, dopo essere stati per lunghissimo tempo parte dell’URSS, a seguito dello sfaldamento di quest’ultima dichiararono la propria indipendenza, nel caso specifico l’Ucraina e la Cecenia. Se quest’ultima, dopo la guerra di indipendenza (1994-1996), fu subito oggetto di riconquista russa attraverso una lunga e sanguinosa guerra durata dal 1999 al 2009, la vicenda ucraina è sotto gli occhi di tutti, ma la Crimea nello specifico è un territorio conteso che nel 2014 la Russia ha riannesso.
Il racconto di Vladena Sandu registra la grande storia, ma non è quella l’oggetto della narrazione, bensì il punto di vista di una bambina che cerca di interpretare una realtà che non comprende, che si trova trascinata in dispute e conflitti, che a poco a poco scopre verità, e soprattutto riconosce una spirale di violenza, una ricorsività della sopraffazione che non colpisce solo i popoli, ma mette gli individui gli uni contro gli altri e lascia i segni sulle vite individuali.
Una visione quella di Memory faticosa, soprattutto a causa del voice over piuttosto monotonale, che a tratti culla come una ninna nanna, ma che apre squarci di verità e “bellezza” su mondi di cui ci arriva l’eco ma che facciamo fatica a comprendere fino in fondo.
Voto: 3/5
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Toni, mio padre
La mia due giorni al Cinema Farnese per le Giornate degli autori si conclude con il documentario Toni, mio padre che Anna Negri ha realizzato negli anni prima della morte di suo padre, Toni Negri (scomparso nel 2023) e presentato a Venezia quest’anno.
Il documentario racconta la storia di Toni Negri, giovane e brillante professore di filosofia all’Università di Padova, che fu tra i teorici della sinistra extraparlamentare italiana tra gli anni Sessanta e Settanta e nel 1979 venne arrestato come teorico delle Brigate rosse, accusa dalla quale venne infine prosciolto, ma che lo costrinse a una lunga carcerazione e successivamente all’esilio in Francia.
Ma nel film della figlia Anna, in sala per il Q&A, pur essendo presente la vicenda umana e politica del padre, inscindibile del resto dalla sua persona, c’è soprattutto la dialettica tra un padre e una figlia, tra una generazione e un’altra, tra un approccio alla vita e un altro, dialettica che spesso si trasforma in conflitto, in tentativo – non sempre riuscito – di comprendersi, in riconoscimento degli errori e delle contraddizioni umane e politiche.
Il documentario di Anna Negri, la cui ossatura di fondo è fatta delle interviste e dei dialoghi della regista con suo padre negli ultimi anni della sua vita a Venezia, si arricchisce di altro girato realizzato dalla stessa Anna ragazzina e poi giovane donna, nonché di foto, documenti, che vengono sia dagli archivi personali della famiglia che dagli archivi collettivi.
La bellezza di questo racconto sta nella sua capacità di non nascondere fragilità e contraddizioni, cosicché la figura di Toni Negri, pur emergendo in tutta la sua statura intellettuale e nella forza delle sue convinzioni, non diventa in nessun modo un santino, bensì l’elemento destabilizzante della vita di Anna, e non solo.
L’acqua, che fa da fil rouge di tutta la narrazione – non solo quella veneziana, ma anche quella protagonista di altre sequenze filmate di diversa provenienza –, è il liquido amniotico nel quale una figlia cerca indefessamente di trovare uno spazio nell’universo non di una madre (pur presentissima nel film, Paola), ma di un padre, il cui universo è dichiaratamente comunitario, per quanto non immune da forme di individualismo.
Non so se Anna sia riuscita con questo film a fare pace con questa figura così ingombrante; quel che è certo che questa ricerca così personale si è fatta opera cinematografica di grandissimo livello.
Voto: 4/5
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Human resource
La mia kermesse veneziana a Roma prosegue con il film del regista thailandese dal cognome impronunciabile, Nawapol Thamrongrattanarit, che racconta la storia di Fren (Prapamonton Eiamchan), una giovane donna che scopre di essere incinta di un mese. Questa notizia, che – scopriremo più avanti – non dovrebbe essere particolarmente sconvolgente perché lei e suo marito stanno cercando di avere un figlio da due anni – produce in Fren un profondo subbuglio interiore. Complice lo scombussolamento ormonale che la gravidanza porta con sé, Fren comincia a diventare particolarmente sensibile sia alle notizie negative che i media riversano ogni giorno su di lei, dalla situazione dell’economia thailandese al cambiamento climatico, dai rischi dell’inquinamento sulla salute umana a un mondo del lavoro sempre più individualista e competitivo, sia a quello che accade nella sua vita di tutti i giorni.
In un silenzio quasi inquietante, Fren osserva il mondo intorno a sé con occhi diversi: la sua azienda, nella quale fa parte del team delle risorse umane che sta cercando una nuova unità di personale che sia disposta ad accettare una prospettiva lavorativa molto stressante e di grande impatto sulla vita personale; il proprio compagno che mentre giudica i comportamenti altrui non si fa scrupoli a fare affari con personaggi poco trasparenti, in quanto ossessionato dal mantenimento di uno stile di vita elevato; in generale il mondo intorno che sembra non curarsi della china lungo la quale sta scendendo e che nel farlo non si fa problemi a lasciare qualcuno sul campo.
Il film di Thamrongrattanarit mi ha inevitabilmente fatto pensare ai film di Bong Joon-ho, nel rappresentare una società fatta di profonde disuguaglianze e di altissima competitività, dove la lotta per l’affermazione di sé e la ricerca della propria ricchezza personale è sempre più violenta e senza scrupoli. Nella poetica del regista thailandese, però, a differenza che in quella del sudcoreano, tutto avviene nella testa della protagonista, in un crescendo di tensione che fa temere il peggio man mano che la narrazione va avanti, ma che non giunge mai a un punto di rottura, non deflagra, rimane soffocato dentro il personaggio di Fren, come nelle sequenze altamente evocative in cui lei è chiusa nella sua auto mentre attraversa l’autolavaggio, circondata da schiuma, acqua e rumore, ma protetta dall’abitacolo.
Bellissimo lavoro, di grande impatto emotivo.
Voto: 3,5/5

Il regista libanese Cyril Aris, classe 1987, ci propone una storia d’amore dall’impianto piuttosto classico: Nino (Hassan Akil) e Yasmina (Mounia Akl) nascono lo stesso giorno a pochi minuti di distanza l'uno dall'altro, in una Beirut che è attraversata dalla guerra civile e che già vive sotto i bombardamenti. Il loro è un destino segnato: frequentano la scuola insieme, diventano amici e “fidanzati”, si fanno delle promesse, ma a seguito della separazione dei suoi genitori, Yasmina è costretta a seguire la madre e ad allontanarsi dal padre e da Nino. Si rincontrano da adulti a causa di un incidente. Nel frattempo Nino ha aperto un ristorante in cui rivisita la cucina libanese in un’ottica internazionale, Yasmina è una donna in carriera. Torneranno insieme, faranno una figlia, ma la loro vita oscillerà sempre tra momenti di felicità e leggerezza – anche grazie al carattere giocoso di Nino – e momenti di difficoltà e paura per il futuro.
Il film di Aris si presenta formalmente ineccepibile (molto bella la fotografia e i due attori bravi e magnetici), ma piuttosto convenzionale nello sviluppo narrativo e anche sostanzialmente prevedibile. È evidente però che Nino e Yasmina sono per il regista soltanto l’occasione di parlare del Libano e nello specifico di Beirut, che è il vero oggetto d’amore di questa storia.
Avevo da poco letto il graphic novel Un’educazione orientale, anch’esso incentrato sulla città di Beirut, e in A sad and beautiful world ho ritrovato lo stesso afflato, un rapporto viscerale con la città, che spesso è anche la causa dei conflitti familiari – come nel caso di Nino e Yasmina - tra chi manifesta un attaccamento che va al di là dei conflitti, della situazione economica, delle distruzioni, e chi invece non ce la fa più e vorrebbe andare via, pur con la morte nel cuore.
Non un film memorabile, ma che in qualche modo ci aiuta a entrare nel vissuto e nei sentimenti contraddittori dei libanesi che anelano semplicemente a una vita normale.
Voto: 3/5
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Presentato a Venezia nell’ambito delle Giornate degli autori, il film Memory della regista ucraina Vladena Sandu attinge alla propria autobiografia e ai propri ricordi per raccontare la storia di una bambina la cui esistenza è divisa tra la terra di nascita, la Crimea, allora facente parte dell’URSS, e quella dove ha vissuto parte della propria infanzia e adolescenza, ossia la Cecenia.
La scelta della regista è quella di mescolare un approccio propriamente documentaristico, che utilizza materiale fotografico e audiovisivo proveniente dal suo archivio personale e da quello della sua famiglia, con un girato di finzione che ha come protagonista un’attrice bambina. La narrazione è realizzata, oltre che dalle immagini che scorrono sullo schermo, dal voice over della stessa regista che racconta e, in un certo senso, spiega le immagini che vediamo passare sullo schermo.
Ne viene fuori un interessante pastiche di generi, che a tratti sconfina in vera e propria installazione multimediale, in alcuni casi sorprendente, in altri casi spiazzante. Attraverso questa scelta piuttosto originale, attraversiamo la storia di territori che, dopo essere stati per lunghissimo tempo parte dell’URSS, a seguito dello sfaldamento di quest’ultima dichiararono la propria indipendenza, nel caso specifico l’Ucraina e la Cecenia. Se quest’ultima, dopo la guerra di indipendenza (1994-1996), fu subito oggetto di riconquista russa attraverso una lunga e sanguinosa guerra durata dal 1999 al 2009, la vicenda ucraina è sotto gli occhi di tutti, ma la Crimea nello specifico è un territorio conteso che nel 2014 la Russia ha riannesso.
Il racconto di Vladena Sandu registra la grande storia, ma non è quella l’oggetto della narrazione, bensì il punto di vista di una bambina che cerca di interpretare una realtà che non comprende, che si trova trascinata in dispute e conflitti, che a poco a poco scopre verità, e soprattutto riconosce una spirale di violenza, una ricorsività della sopraffazione che non colpisce solo i popoli, ma mette gli individui gli uni contro gli altri e lascia i segni sulle vite individuali.
Una visione quella di Memory faticosa, soprattutto a causa del voice over piuttosto monotonale, che a tratti culla come una ninna nanna, ma che apre squarci di verità e “bellezza” su mondi di cui ci arriva l’eco ma che facciamo fatica a comprendere fino in fondo.
Voto: 3/5
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La mia due giorni al Cinema Farnese per le Giornate degli autori si conclude con il documentario Toni, mio padre che Anna Negri ha realizzato negli anni prima della morte di suo padre, Toni Negri (scomparso nel 2023) e presentato a Venezia quest’anno.
Il documentario racconta la storia di Toni Negri, giovane e brillante professore di filosofia all’Università di Padova, che fu tra i teorici della sinistra extraparlamentare italiana tra gli anni Sessanta e Settanta e nel 1979 venne arrestato come teorico delle Brigate rosse, accusa dalla quale venne infine prosciolto, ma che lo costrinse a una lunga carcerazione e successivamente all’esilio in Francia.
Ma nel film della figlia Anna, in sala per il Q&A, pur essendo presente la vicenda umana e politica del padre, inscindibile del resto dalla sua persona, c’è soprattutto la dialettica tra un padre e una figlia, tra una generazione e un’altra, tra un approccio alla vita e un altro, dialettica che spesso si trasforma in conflitto, in tentativo – non sempre riuscito – di comprendersi, in riconoscimento degli errori e delle contraddizioni umane e politiche.
Il documentario di Anna Negri, la cui ossatura di fondo è fatta delle interviste e dei dialoghi della regista con suo padre negli ultimi anni della sua vita a Venezia, si arricchisce di altro girato realizzato dalla stessa Anna ragazzina e poi giovane donna, nonché di foto, documenti, che vengono sia dagli archivi personali della famiglia che dagli archivi collettivi.
La bellezza di questo racconto sta nella sua capacità di non nascondere fragilità e contraddizioni, cosicché la figura di Toni Negri, pur emergendo in tutta la sua statura intellettuale e nella forza delle sue convinzioni, non diventa in nessun modo un santino, bensì l’elemento destabilizzante della vita di Anna, e non solo.
L’acqua, che fa da fil rouge di tutta la narrazione – non solo quella veneziana, ma anche quella protagonista di altre sequenze filmate di diversa provenienza –, è il liquido amniotico nel quale una figlia cerca indefessamente di trovare uno spazio nell’universo non di una madre (pur presentissima nel film, Paola), ma di un padre, il cui universo è dichiaratamente comunitario, per quanto non immune da forme di individualismo.
Non so se Anna sia riuscita con questo film a fare pace con questa figura così ingombrante; quel che è certo che questa ricerca così personale si è fatta opera cinematografica di grandissimo livello.
Voto: 4/5
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La mia kermesse veneziana a Roma prosegue con il film del regista thailandese dal cognome impronunciabile, Nawapol Thamrongrattanarit, che racconta la storia di Fren (Prapamonton Eiamchan), una giovane donna che scopre di essere incinta di un mese. Questa notizia, che – scopriremo più avanti – non dovrebbe essere particolarmente sconvolgente perché lei e suo marito stanno cercando di avere un figlio da due anni – produce in Fren un profondo subbuglio interiore. Complice lo scombussolamento ormonale che la gravidanza porta con sé, Fren comincia a diventare particolarmente sensibile sia alle notizie negative che i media riversano ogni giorno su di lei, dalla situazione dell’economia thailandese al cambiamento climatico, dai rischi dell’inquinamento sulla salute umana a un mondo del lavoro sempre più individualista e competitivo, sia a quello che accade nella sua vita di tutti i giorni.
In un silenzio quasi inquietante, Fren osserva il mondo intorno a sé con occhi diversi: la sua azienda, nella quale fa parte del team delle risorse umane che sta cercando una nuova unità di personale che sia disposta ad accettare una prospettiva lavorativa molto stressante e di grande impatto sulla vita personale; il proprio compagno che mentre giudica i comportamenti altrui non si fa scrupoli a fare affari con personaggi poco trasparenti, in quanto ossessionato dal mantenimento di uno stile di vita elevato; in generale il mondo intorno che sembra non curarsi della china lungo la quale sta scendendo e che nel farlo non si fa problemi a lasciare qualcuno sul campo.
Il film di Thamrongrattanarit mi ha inevitabilmente fatto pensare ai film di Bong Joon-ho, nel rappresentare una società fatta di profonde disuguaglianze e di altissima competitività, dove la lotta per l’affermazione di sé e la ricerca della propria ricchezza personale è sempre più violenta e senza scrupoli. Nella poetica del regista thailandese, però, a differenza che in quella del sudcoreano, tutto avviene nella testa della protagonista, in un crescendo di tensione che fa temere il peggio man mano che la narrazione va avanti, ma che non giunge mai a un punto di rottura, non deflagra, rimane soffocato dentro il personaggio di Fren, come nelle sequenze altamente evocative in cui lei è chiusa nella sua auto mentre attraversa l’autolavaggio, circondata da schiuma, acqua e rumore, ma protetta dall’abitacolo.
Bellissimo lavoro, di grande impatto emotivo.
Voto: 3,5/5
Di questi ho visto solo il film thailandese: mi è piaciuto molto. E' vero, non deflagra, ma credo che il tono del film sia volutamente non enfatizzato, e rispecchia comunque la sensibilità e il carattere di quella parte del mondo. Il raffronto con Bong lo si può fare sulle tematiche toccate (molto simili, in effetti) ma stilisticamente direi che siamo agli antipodi...
RispondiEliminaIl fatto che non deflagri non lo considero un difetto, è parte della sua forza. Il confronto con Bong è appunto sui temi, certo gli stili sono diversi!
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