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Il film con cui si apre la mia maratona è un film italiano, diretto da Francesco Sossai, che è stato presentato con un ottimo riscontro nell’ambito della sezione Un certain regard di Cannes. La proiezione romana è molto affollata, anche perché a presentare il film, oltre al critico Alberto Crespi, ci sono il regista e due dei protagonisti, Sergio Romano (che nel film è carlobianchi, detto proprio così, tutto attaccato, o anche Charlie White come affettuosamente lo chiama l’amico di una vita Doriano) e Filippo Scotti (già visto in È stata la mano di Dio, che qui interpreta il timido e studioso Giulio).
Le città di pianura si sviluppa nell’arco di circa un giorno e mezzo ed è fondamentalmente un on the road della provincia veneta nella quale i due amici carlobianchi e Doriano (Pierpaolo Capovilla) vagano alla ricerca di un ultimo bicchiere di alcol da scolarsi, comprato o scroccato. Li seguiamo dunque in questo loro vagare, a un certo punto apparentemente finalizzato ad andare a prendere in aeroporto il loro amico Genio (Andrea Pennacchi) che torna dal Sudamerica dove ha vissuto molti anni (scopriremo poi perché). Durante questo giorno e mezzo molte sono le avventure e le disavventure che li attendono, gli incontri più o meno assurdi, e tra questi incontri c’è quello con Giulio, studente napoletano che studia architettura a Venezia, timido e imbranato, che i due volponi decidono di trascinare con loro, anche suo malgrado.
Il film è una commedia dall’impianto se vogliamo piuttosto classico, ma che si inserisce più propriamente in tutto un filone di elaborazione culturale di provenienza veneta, che ha precisi tratti estetici e antropologici.
Non a caso il film di Sossai mi ha riportato quasi immediatamente all’estetica e ai contenuti dei fumetti di Miguel Vila, autore che con i suoi graphic novel ha raccontato benissimo la provincia veneta, con i suoi tipi umani e i suoi paesaggi urbani e rurali. Per lo stesso motivo non mi ha sorpreso trovare come autore di parte della colonna sonora (e anche in un piccolo cameo) Krano (Marco Spigariol) che quasi per caso avevo conosciuto nell’opening di un concerto di Micah P. Hinson e che ha un progetto musicale a matrice profondamente veneta anche nella lingua.
Ne viene fuori una specie di elegia veneta dal sapore fortemente agrodolce, intrisa in egual misura di malinconia e leggerezza. Esperimento davvero interessante.
Voto: 3,5/5
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Ho scoperto solo al termine della visione del film che il regista di questo film, Oliver Laxe, è anche il regista di O que arde, che avevo visto qualche anno fa nell’ambito di un festival del cinema spagnolo. Quel film mi era risultato difficile da digerire nelle sue caratteristiche narrative, e probabilmente se avessi saputo questa cosa avrei deciso di non andare a vedere Sirat. E avrei fatto molto male.
Sirat è un film decisamente originale. Siamo in Marocco, nel deserto, ed è in corso un grande rave: enormi altoparlanti che trasmettono musica techno e centinaia di persone che si lasciano trasportare dal ritmo della musica. Un padre, Luis (Sergi Lopez), insieme al figlio Esteban è alla ricerca della figlia scomparsa cinque mesi prima. Ma mentre è in corso il rave, arriva l’esercito che annuncia l’inizio di una guerra e costringe tutti a seguirli verso non si sa dove. Due camioncini con a bordo cinque persone riescono a scappare via e Luis e il figlio li seguono. Inizia così un on the road che metterà questo gruppo di persone decisamente originali e curiosamente assortite di fronte a una serie di eventi più o meno tragici e incredibili che li costringeranno a fare i conti con i propri limiti e le proprie paure.
Quello di Laxe è un mondo preapocalittico, in parte atemporale, che sul piano visivo attinge tanto all’estetica di Mad Max, ma anche all’immaginario steampunk, per raccontare un viaggio esistenziale, che nella sua essenza è il viaggio di ogni essere umano di fronte al lutto e alla morte. Per farlo Laxe mescola diversi ingredienti: un insieme di personaggi con caratteristiche freak (ci sono un uomo senza una gamba, uno senza un braccio) di cui però – salvo qualche piccolo dettaglio – non sappiamo praticamente nulla della storia passata, così come niente sappiamo davvero di Luis ed Esteban; un paesaggio con una forza visiva straordinaria, che ispira grandezza, bellezza ma anche terrore della piccolezza umana di fronte alla natura; e infine una musica che unisce e alterna techno ed elettronica, quasi alla ricerca del suono primigenio del mondo, dell’essenza della vita e della morte, la stessa che i protagonisti sperimenteranno. Del resto Sirat nella cultura islamica è il ponte che unisce la vita alla morte, come la scritta in sovrimpressione all’inizio del film ci ricorda.
Un film strano, grandioso e weird al contempo, difficile da classificare, che merita però di essere visto. E non a caso ha vinto il premio della giuria a Cannes.
Voto: 3,5/5
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Cécile (Juliette Armanet) vive a Parigi e fa la chef. Dopo aver vinto un programma tipo Masterchef, insieme al suo compagno sta per aprire un ristorante che punta a un posto tra i ristoranti stellati. Quando scopre che suo padre è finito in ospedale ma, contro il parere dei medici, è uscito per riaprire la piccola trattoria per camionisti che gestisce insieme alla moglie, decide di ritornare a casa, tra l’altro avendo appena scoperto di essere incinta e sapendo di non voler tenere il bambino. Il ritorno a casa la metterà di fronte ai suoi conti in sospeso, alle cose che sono sempre uguali e che dunque aprono la porta dei ricordi di adolescenza e a quelle che sono ormai cambiate irrimediabilmente, nonché al rapporto con i suoi genitori che pure è rimasto in qualche modo bloccato nelle dinamiche del passato.
La nostalgia delle radici e di quello che avrebbe potuto essere – anche a fronte dei grandi cambiamenti che sembrano attendere Cécile – manda quasi in frantumi la vita da adulta che si è costruita, ma senza questa crisi profonda la donna non potrebbe tornare a quello che è diventata con maggiore consapevolezza, dopo aver in qualche modo fatto pace con il suo passato.
Il film di Amélie Bonnin è una tipica commedia francese, dalla trama e dagli sviluppi piuttosto prevedibili, che però è impreziosita dal fatto di essere in parte una commedia musicale in cui si attinge a un repertorio musicale francese per esprimere con ironia e leggerezza i sentimenti dei protagonisti nei momenti clou del film.
Nessuna grande pretesa per un film gradevole.
Voto: 3/5
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Enzo è il film che Laurent Cantet aveva scritto prima della sua prematura scomparsa e che lo stesso regista francese ha affidato per la regia a Robin Campillo (quello di 120 battiti al minuto). Nonostante questo passaggio di testimone, personalmente ho vissuto Enzo interamente come un film di Cantet, non soltanto nei temi, ma anche nella modalità narrativa e nei ritmi. Che poi sono proprio le caratteristiche che a volte mi hanno fatto apprezzare i suoi film e altre volte me li hanno resi indigeribili.
Come è chiaro dal titolo, il protagonista di questo film è Enzo (Eloy Pohu), un ragazzo di 16 anni, secondo figlio di una famiglia molto benestante, che ha una villa con piscina, e il cui fratello maggiore si sta preparando per entrare all’università a Parigi. Enzo però è diverso, o quanto meno si sente diverso.
Ha deciso di non continuare a studiare e lavora come muratore in un cantiere; ha una ragazza, ma in realtà è attratto da Vlad, un operaio ucraino che lavora con lui. Nella sua casa e nella sua famiglia Enzo si sente un pesce fuor d’acqua e questa condizione evidentemente non è solo il portato dei suoi 16 anni e della tendenza oppositiva che caratterizza gli adolescenti. In lui c’è anche il rifiuto di un modo borghese di intendere la vita e soprattutto dell’indifferenza che lo stile di vita borghese comporta rispetto al resto del mondo, quello con cui i suoi genitori e suo fratello non vengono e non verranno mai in contatto.
Il malessere di Enzo aumenta giorno dopo giorno, portandolo allo scontro in particolare con il padre (Pierfrancesco Favino) e ad azioni più o meno estreme. Ma come in ogni coming of age che si rispetti, anche in questo film di Cantet il passaggio alla vita adulta comporterà per Enzo la scelta di un compromesso, sebbene – com’è tipico del linguaggio ellittico del regista francese - non sapremo mai come il protagonista riuscirà a bilanciare i suoi desideri e attitudini con il mondo dal quale proviene.
Voto: 3/5
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Concludo la mia maratona Da Cannes a Roma con l’ultimo film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, Jeunes méres, che racconta la storia di quattro giovanissime donne, Jessica, Perla, Julie e Arianne, accomunate dal fatto di essere ospitate da una “maison maternelle”, quella che in Italia sarebbe una casa-famiglia per ragazze madri.
Ognuna si porta dietro la sua particolare vicenda: Jessica, che sta per partorire una bambina, è ossessionata dall’idea di incontrare sua madre e di chiederle perché l’ha data in affidamento quando è nata; Perla ha chiesto dei soldi in prestito a sua sorella per poter costruire una famiglia insieme a suo figlio Noé e al padre del bimbo, appena uscito di prigione; Julie ha un passato di dipendenza alle spalle e ora che ha un figlio sta cercando di uscirne e di sposarsi con il suo compagno, anche lui ex tossico; Arianne non ha abortito su pressione della madre, ma vorrebbe dare in affidamento la piccola per continuare a studiare e costruirsi un futuro.
I Dardenne hanno scritto la sceneggiatura di questo film dopo aver fatto una vera e propria indagine e una serie di interviste in una vera “maison maternelle” e, fedeli al loro approccio quasi documentaristico, si sono ispirati proprio alle storie che hanno ascoltato per scrivere questo film (che ha vinto il Premio per la miglior sceneggiatura a Cannes).
In questo racconto corale, in cui il punto di vista cambia continuamente spostandosi tra una storia e l’altra e tra una ragazza e l’altra, i Dardenne mantengono fede al loro approccio pulito ed essenziale, che vuole mostrare e comprendere, senza giudicare e senza premere sul pedale del melodramma. Qua e là però introducono elementi che staccano rispetto all’impianto “neorealistico”, come la recitazione di una poesia o una piccola esecuzione musicale.
E come ho pensato e detto subito dopo la fine del film, mi è parso che rispetto al passato questo lavoro – nonostante la tragicità dei temi trattati – sia uno dei film più pieni di speranza dei Dardenne!
Voto: 3,5/5
In pochi giorni ho visto due film dei fratelli Dardenne e hai proprio ragione, ormai ne ho già visti diversi e sono davvero sberle sonore. Ho visto per la prima volta Rosetta e cercando in rete mi è dispiaciuto leggere che la protagonista è morta a marzo di quest'anno, mi ha toccato...
RispondiEliminaTengo presente la tua lista, di Sirat parlano tutti molto bene. Ciao!
Sai che pur avendo visto molti film dei Dardenne Rosetta invece non l'ho visto? Lo devo recuperare... Dell'attrice avevo letto. Che tristezza!
EliminaInsieme a Rosetta, qualche giorno dopo ho visto 'La promesse', assolutamente consigliati entrambi se anche quest'ultimo non lo hai visto.
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